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Seconda settimana di tirocinio mirato civile
per i MOT del D.M. 18 gennaio 2016
PRESUPPOSTI ED EFFETTI DELL’AZIONE DI RIDUZIONE
Caratteri generali dell’azione di riduzione e differenze tra la riduzione
delle donazioni e la loro collazione
L’azione di riduzione è volta a far dichiarare l'inefficacia, in tutto o in parte,
delle disposizioni testamentarie e degli atti di liberalità posti in essere in vita dal de
cuius che, eccedendo la quota disponibile (art. 556 c.c.), abbiano leso la quota
riservata dalla legge ad alcune categorie di successibili come legittimari. L’azione di
riduzione ha, come causa petendi, la qualità di erede necessario e l'avvenuta lesione
della quota di legittima, per effetto delle disposizioni testamentarie ovvero degli atti
di liberalità posti in essere in vita dal de cuius, e come petitum la diminuzione
quantitativa od anche la totale eliminazione delle attribuzioni patrimoniali compiute
in favore degli eredi o di terzi nella misura necessaria per reintegrare la quota di
riserva e ciò con effetto retroattivo al momento dell'apertura della successione (Cass.
civ. sez. I, 11.06.2003 n. 9424).
Essa è, pertanto, una azione di accertamento costitutivo, perché diretta ad
accertare l'esistenza della lesione di legittima e la sussistenza delle altre condizioni
dell'azione, e da tale accertamento consegue automaticamente la modificazione
giuridica del contenuto del diritto del legittimario, ossia l'integrazione della quota a
lui riservata (Cass. civ. sez. II, 26.11.1987, n. 8780).
L'azione di riduzione viene configurata come individuale, giacché ogni
legittimario può agire per la sola sua quota di legittima (Cass. civ. sez. II, 12.5.1999,
n. 4698; Cass. civ., 28.11.1978, n. 5611) divisibile, in quanto ciascun legittimario può
agire anche contro uno solo dei beneficiari sempre limitatamente alla quota di cui si
ritiene da questo leso (Cass. civ. 17.05.1980 n. 3243) e personale, in quanto diretta a
procurare al legittimario l'utile corrispondente alla quota di legittima, e non un'azione
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reale, come risulta confermato dal fatto che si propone non contro chi al momento è
titolare del bene, che fu legato o donato, ma esclusivamente contro gli eredi, i legatari
o i donatari. (Cass. civ. sez. II, 22.3.2001, n. 4130). Ne consegue che nel relativo
giudizio, non debbono essere convenuti, come litisconsorti necessari, tutti i
legittimari, essendo necessaria la sola presenza in causa della persona che ha
beneficiato della disposizione testamentaria che si assume lesiva (Cass. civ. sez. II,
13.12.2005 n. 27414). Sussiste, invece, litisconsorzio necessario tra tutti i successori
universali del legittimario quando l’azione venga proposta, ai sensi dell’art. 557 c.c.
dai suoi eredi, poiché in tal caso il rapporto dedotto in giudizio è concettualmente
unico ed inscindibile (Cass. civ. 19.12.1975 n. 4193).
Giova precisare che l’azione di riduzione dei beni lasciati dal defunto con
disposizioni lesive dei diritti dei legittimari, prevista dagli artt. 553 e segg. c.c., va
distinta nettamente dalla collazione di beni donati in vita dal defunto.
Come è noto, ai sensi dell’art. 737 c.c. “i figli legittimi e naturali e i loro
discendenti legittimi e naturali ed il coniuge che concorrono alla successione devono
conferire ai coeredi tutto ciò che hanno ricevuto dal defunto per donazione
direttamente o indirettamente, salvo che il defunto non li abbia da ciò dispensati”. La
collazione ereditaria costituisce, pertanto, uno strumento giuridico volto alla
formazione della massa ereditaria da dividere al fine di assicurare, nei reciproci
rapporti tra i condividenti equilibrio e parità di trattamento, in guisa da non alterare il
rapporto di valore tra le rispettive quote, da determinarsi in relazione alla misura del
diritto di ciascun condividente, sulla base della sommatoria del relictum e del
donatum al momento dell'apertura della successione. L'obbligo della collazione dei
beni ricevuti per donazione diretta o indiretta sorge automaticamente a seguito
dell'apertura della successione, salva l'espressa dispensa da parte del de cuius e
sempre nei limiti della sua validità, con la conseguenza che i beni donati devono
essere conferiti anche in mancanza di una specifica domanda in tal senso da parte dei
condividenti, essendo sufficiente la domanda di divisione e la menzione in essa di
determinati beni, indicati come oggetto di pregressa donazione diretta o indiretta e
quali facenti parte dell'asse ereditario da ricostruire, a sollecitare che il preliminare
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accertamento da parte del giudice della consistenza dell'asse abbia luogo con
riferimento anche ai detti beni (Cass. civ., sez. II, 18.07.2005, n. 15131; Cass. civ.,
sez. II, 19.11.2004, n. 21895). La collazione proposta nel giudizio di divisione
ereditaria ha, pertanto, per oggetto la ricomposizione, in modo reale, dell’asse
ereditario e la legge prevede due modi di conferimento del bene in collazione: in
natura e per imputazione. La collazione in natura consiste nella restituzione del diritto
all’asse ereditario, mentre quella per imputazione consta di due operazioni, vale a
dire l’addebito del valore dei beni donati a carico della quota dell’erede donatario,
con eventuale corresponsione in denaro agli altri coeredi dell’eccedenza, ed il
contemporaneo prelevamento di una corrispondente quantità di beni da parte degli
eredi non donatari (Cass. civ. 28.06.1976 n. 2453).
Benché l’obbligo di collazione e l’azione di riduzione possano concorrere
entrambi al risultato di aumentare la massa ereditaria, rendendo inefficaci taluni atti
di liberalità compiuti in vita dal defunto, è stato ripetutamente sottolineato in
giurisprudenza (Cass. civ. sez. II 29.07.1994 n. 7142; Cass. civ. sez. II 16.11.2000 n.
14864) che la domanda di collazione proposta nel giudizio di divisione ereditaria non
implica domanda di riduzione delle relative attribuzioni patrimoniali, diversi essendo
sia il petitum, che nella prima ha per oggetto la ricomposizione, in modo reale,
dell’asse ereditario e nella seconda ha per oggetto la riduzione delle attribuzioni
patrimoniali degli altri eredi, sia la causa petendi, che nella domanda di collazione ha
fondamento nel diritto dei coeredi discendenti di conseguire nella divisione porzioni
eguali e nella domanda di riduzione ha fondamento nel diritto alla quota di legittima.
Da ciò discende anche che la collazione e la domanda di riduzione possono
concorrere tra loro, trattandosi di procedimenti completamente autonomi, aventi
natura e funzioni diverse. Con riferimento alla azione di riduzione contro il coerede
donatario va, nondimeno, osservato che, ove gli eredi rientrino tutti tra i soggetti
tenuti alla collazione, il solo meccanismo della collazione potrebbe essere sufficiente
per far conseguire ad ogni coerede la porzione spettantegli sull’eredità senza
necessità di ricorso alla specifica tutela apprestata dalla legge per la quota di legittima
(Cassazione civile, sez. II, 6 marzo 1980 n. 1521). L’azione di riduzione è, invece,
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necessaria quando manchi l’asse ereditario perché completamente esaurito mediante
donazioni o legati, atteso che in questo caso, mancando una comunione ereditaria,
non è possibile procedere alla divisione e non può, conseguentemente, operare
neppure la collazione (Cass. civ. 5.03.1970 n. 543; Cass. civ. 9.07.1975 n. 2704;
Cass. civ. 17.11.1979 n. 5982), ovvero nel caso in cui il coerede donatario sia stato
dispensato dalla collazione.
Inoltre la giurisprudenza di legittimità ha sottolineato che, in considerazione
dell'autonomia e della diversità dell'azione di divisione ereditaria rispetto a quella di
riduzione, il giudicato sullo scioglimento della comunione ereditaria in seguito
all'apertura della successione legittima non comporta un giudicato implicito sulla
insussistenza della lesione della quota di legittima, sicché ciascun coerede
condividente, pur dopo la sentenza di divisione divenuta definitiva, può esperire
l'azione di riduzione della donazione compiuta in vita dal de cuius in favore di altro
coerede dispensato dalla collazione, chiedendo la reintegrazione della quota di riserva
e le conseguenti restituzioni (Cass. civ. 03.09.2013 n. 20143).
Un problema molto dibattuto è quello della situazione giuridica in cui viene a
trovarsi il legittimario, che sia stato totalmente pretermesso, tanto nei confronti del de
cuius quanto degli altri successori. Secondo una tesi risalente, il legittimario,
ancorché pretermesso, conseguirebbe comunque la qualità di erede al momento
dell’apertura della successione, a prescindere dalla proposizione dell’azione di
riduzione delle disposizioni lesive, in quanto la quota a lui spettante si devolverebbe
in modo automatico e l’azione di riduzione sarebbe necessaria solo per fargli
conseguire la quota di legittima. Altri hanno, invece, osservato che quando il
legittimario sia stato pretermesso, non gli può essere attribuita la qualifica di erede,
specie nell’ipotesi in cui non vi sia relictum. La dottrina più recente ha, pertanto, in
modo prevalente, sostenuto che in legittimario pretermesso diverrebbe erede, con la
conseguente responsabilità per i debiti ereditari, solo dopo avere esercitato
vittoriosamente l’azione di riduzione, in quanto le disposizioni lesive conservano
efficacia finché non vengano ridotte. Tale tesi è stata sostanzialmente accolta anche
dalla giurisprudenza di legittimità che ha sottolineato la diversità che intercorre tra la
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domanda di reintegrazione della legittima e quella di divisione della comunione
ereditaria, posto che il legittimario pretermesso non partecipa a detta comunione in
difetto di vocazione all'eredità, potendo acquistare i suoi diritti solo dopo
l'esperimento della azione di riduzione (Cass. civ. 04.04.1992 n. 4140). Sulla base di
analoghe considerazioni la Suprema Corte ha altresì affermato che l’obbligo
dell’erede di imputare alla sua quota le somme di cui era debitore verso il defunto,
previsto dall’art. 724 comma 2 c.c. opera anche nei confronti del legittimario
pretermesso, che sia ammesso alla divisione ereditaria per effetto del vittorioso
esperimento dell’azione di riduzione (Cass. civ. 14.03.1977 n. 1018). Allo stesso
modo, si è affermato che “il legittimario pretermesso acquista la qualità di chiamato
all'eredità solo dal momento della sentenza che accoglie la sua domanda di riduzione,
rimuovendo l'efficacia preclusiva delle disposizioni testamentarie lesive della
legittima, in sé non nulle né annullabili; consegue che, anteriormente all'accoglimento
della domanda di riduzione, l'erede pretermesso non è legittimato a succedere al
defunto nel rapporto processuale da questo instaurato, non essendo qualificabile come
successore a titolo universale, ai sensi dell'art. 110 cod. proc. civ..” (Cass. civ.
20.11.2008 n. 27556). Infine, si è chiarito che, proprio per il fatto che l'erede
legittimario che sia stato pretermesso acquista la qualità di erede soltanto dopo il
positivo esercizio dell'azione di riduzione, “prima di questo momento, egli non può
chiedere la divisione ereditaria né la collazione dei beni, poiché entrambi questi diritti
presuppongono l'assunzione della qualità di erede e l'attribuzione congiunta di un
asse ereditario” (Cass. civ. 13.01.2010 n. 368).
Riduzione delle porzioni degli eredi legittimi in concorso con legittimari
La legge stabilisce l'ordine di riduzione delle disposizioni lesive della legittima,
stabilendo all’art. 553 c.c. che, anzitutto, si procede alla riduzione delle quote legali
ab intestato. Naturalmente la lesione in questo caso deriva da precedenti donazioni
effettuate dal de cuius, per effetto delle norme di legge che regolano la successione
ab intestato, nel concorso tra legittimari e altri successibili. Ciò può accadere poiché
la quota riservata ai legittimari, pur essendo minore di quella attribuita agli stessi
come eredi legittimi, si calcola non sul solo relictum, ma sull'intera massa composta
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da relictum e da donatum. Tale riduzione si realizza ope legis senza l’intervento del
Giudice, in quanto è lo stesso legislatore che stabilisce una compressione delle quote
di legittima per evitare il verificarsi della lesione mentre sarà necessario esperire
l’azione di riduzione ove tale meccanismo di automatica riduzione non fosse
sufficiente ad eliminare la lesione.
I soggetto che possono chiedere la riduzione
Ai sensi dell’art. 557 comma 1 c.c. “la riduzione delle donazioni e delle
disposizioni lesive della porzione di legittima non può essere domandata che dai
legittimari e dai loro eredi o aventi causa”. La legittimazione attiva dei legittimari
non pone alcun tipo di problema dovendosi solo sottolineare che il legittimario può
agire in riduzione sia nel caso che sia stato pretermesso che nel caso che sia stato leso
solo in parte. Pochi problemi pone anche la legittimazione attiva degli eredi del
legittimario, che subentrano in tutti i rapporti patrimoniali spettanti al defunto e
pertanto acquistano anche il diritto alla reintegrazione della legittima. Quanto, infine,
agli aventi causa del legittimario, si ritiene che questa disposizione dia conferma alla
tesi che il diritto alla legittima possa essere trasmesso ad altri, tanto a titolo gratuito
quanto a titolo oneroso. Questa è, d’altronde, l’opinione prevalente, essendo pacifico
che l’azione di riduzione è rinunciabile e, come tale disponibile, anche se,
naturalmente, non prima dell’apertura della successione, come espressamente
previsto nel comma 2 dell’art. 557 c.c., disposizione che ripete una regola che già
discende dal generale divieto di patti successori.
In conseguenza della asserita patrimonialità del diritto, si ritiene che l’azione
possa essere esercitata in via surrogatoria anche dai creditori del legittimario che
rimanga inerte (Cass. civ. 30.10.1959 n. 3208; Cass. civ. 20.09.1963 n. 2592). Una
conferma di ciò viene individuata nel disposto del 3° comma dell’art. 557 c.c. che
prevede la possibilità per i creditori del defunto di chiedere e di profittare della
riduzione in via surrogatoria e ciò sarebbe incoerente con una eventuale esclusione
dell’azione surrogatoria da parte dei creditori del legittimario. Va osservato che i
creditori del defunto possono chiedere la riduzione solo se il legittimario non abbia
accettato con beneficio di inventario, poiché solo in tal caso i creditori del de cuius
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diverranno creditori dell’erede e potranno, pertanto, giovarsi della eventuale
riduzione.
Il terzo comma dell’art. 557 c.c. stabilisce, infine, che “i donatari e i legatari
non possono chiedere la riduzione, né approfittarne”, ma è pacifico che i donatari ed i
legatari che siano anche legittimari possono esperire l'azione (Cass. civ., 26.07.1985
n. 4358). Si è, poi, osservato che tale esclusione non può riferirsi ai legatari di cosa di
genere poiché tali soggetti diventano creditori dell’erede e rientrano, pertanto, nella
categoria di legittimati contemplata nel primo comma dell’art. 557 c.c., quali aventi
causa dell’erede.
La riduzione delle disposizioni testamentarie
L’azione di riduzione può avere, in primo luogo, ad oggetto, ai sensi dell’art.
554 c.c., le disposizioni testamentarie a titolo universale o particolare che ledano i
diritti del legittimario. Nel primo caso la lesione può restare integrata dalla
preterizione di un legittimario o dall’attribuzione espressa ad un legittimario di una
quota di eredità formalmente inferiore rispetto alla quota di riserva ovvero dalla
diretta attribuzione ad un legittimario di beni facenti parte dell’asse ereditario di
valore inferiore rispetto a quello della quota di riserva, quando nell’asse non
sussistano beni sufficienti a reintegrare la quota riservata al legittimario, ai sensi del
combinato disposto degli art. 734 comma 2 c.c. e 553 c.c... Come è noto, infatti, ai
sensi dell’art. 588 c.c., “le disposizioni testamentarie, qualunque sia l’espressione o la
denominazione usata dal testatore, sono a titolo universale ed attribuiscono la qualità
di erede se comprendono l’universalità o una quota di beni del testatore. Le altre
disposizioni sono a titolo particolare e attribuiscono la qualità di legatario.
L’indicazione di beni determinati o di un complesso di beni non esclude che la
disposizione sia a titolo universale, quando risulta che il testatore ha inteso assegnare
quei beni come quota del patrimonio”.
Ciò significa che per il legislatore anche l’attribuzione di beni determinati può
essere a titolo universale se risulta la volontà del testatore di attribuire i beni come
quota del patrimonio (cosiddetta institutio ex re certa), dovendosi in tal caso ritenere
che la quota sia stata determinata non direttamente, bensì attraverso la relazione del
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valore dei beni rispetto al patrimonio ereditario. Inoltre è facoltà del testatore dividere
tutto o parte del suo patrimonio tra gli eredi, al fine di prevenire occasioni di liti tra
loro (cosiddetta divisio inter liberos). Stabilisce, infatti, l’art. 734 c.c. che “il testatore
può dividere i suoi beni tra gli eredi comprendendo nella divisione anche la parte non
disponibile. Se nella divisione fatta dal testatore non sono compresi tutti i beni
lasciati al tempo della morte, i beni in essa non compresi sono attribuiti
conformemente alla legge se non risulta una diversa volontà del testatore”. Anche
quando l’attribuzione di un singolo bene sia in funzione divisoria deve, allora,
escludersi che il testatore abbia voluto effettuare una disposizione a titolo particolare,
mentre costituisce questione interpretativa stabilire in tal caso se il testatore abbia
inteso chiamare i coeredi in quote uguali o diverse. Il testatore, nell’esercizio della
facoltà di dividere il patrimonio tra gli eredi può, infatti, assegnare beni determinati a
soddisfacimento di quote già fissate o anche ripartire il patrimonio tra gli eredi senza
riferimento ad un rigoroso quoziente matematico, dando all’attribuzione di beni il
significato di assegnazione di quote. In ogni caso, la giurisprudenza ha evidenziato
che non può acquistare rilievo, nella interpretazione della volontà del testatore, il
valore delle porzioni in concreto formate ed assegnate a ciascuno dei coeredi, ben
potendo il diverso valore di talune di dette porzioni rispetto alle altre dipendere non
dalla volontà del testatore di chiamare il destinatario di tale porzione in quota di
entità diversa da quella degli altri coeredi, ma dal personale criterio di valutazione
adottato dal testatore stesso (Cass. civ. sez. II 18.11.1981 n. 6110).
Va osservato che, quando un legittimario venga pretermesso in sede di
divisione effettuata dal testatore, il rimedio esperibile è sempre l’azione di riduzione,
benché l’art. 735 comma 1 c.c. stabilisca che “la divisione nella quale il testatore non
abbia compreso qualcuno dei legittimari o degli eredi istituiti è nulla”. Si è infatti,
osservato che il legittimario, il quale sia stato pretermesso nella disposizione
testamentaria, non è erede se non in quanto abbia sperimentato vittoriosamente
l'azione di riduzione. Conseguentemente, se la divisione testamentaria si esaurisca in
un riparto meramente esecutivo di una precedente disposizione istitutiva di più eredi
con determinazione delle rispettive quote (astratte) ed a tale disposizione istitutiva
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risalga la preterizione del legittimario, questi ha l'onere di sperimentare l'azione di
riduzione e, soltanto se per questa via abbia conseguito la quota di riserva e la qualità
di erede, può far valere la nullità della divisione giudiziale in conformità del suo
diritto, azione dal cui accoglimento discende il ripristino della comunione ereditaria
(Cass. civ., 06.10.1972 n. 2870).
Nel caso di disposizioni testamentarie si pone il problema se sia possibile la
tacitazione della legittima con beni non testamentari, fattispecie che solitamente viene
ricondotta alla disciplina di cui all’art. 735 comma 1 c.c... Spesso si verifica, infatti,
che il de cuius, pur volendo soddisfare i diritti spettanti a ciascun legittimario, intenda
fare in modo che il soddisfacimento di tali diritti avvenga senza pregiudicare
l’assegnazione di determinati beni ad un singolo erede. Tale esigenza viene oggi in
parte soddisfatta dall’istituto del “patto di famiglia” introdotto dalla legge 14.02.2006
n. 55 e disciplinato dagli artt. 768 bis e segg. c.c. (la partecipazione al contratto dei
legittimari e la liquidazione dei loro diritti o la relativa rinuncia comportano
l'esclusione dei beni oggetto del patto di famiglia dall'ambito dell'azione di riduzione
- art. 768 quater c.c.) ma ben potrebbe verificarsi il caso che il patto di famiglia non
venga stipulato o che la menzionata esigenza si ponga con riferimento ad un oggetto
diverso dall’azienda. Ciò non pone problemi ove nell’asse ereditario siano presenti
altri beni in misura tale da potere soddisfare i diritti dei legittimari, poiché in tal caso
la disciplina dell’istituto della divisione fatta dal testatore, contenuta nell’art. 734 c.c.,
rende evidente che il legislatore ha accolto il principio della intangibilità quantitativa
e non qualitativa della legittima, secondo cui il testatore è libero di comporre la
legittima come meglio crede con l’unico limite del rispetto della corrispondenza dei
beni assegnati al valore spettante al legittimario e della proporzione tra il valore della
porzione e il valore della quota. L’art. 735 secondo comma c.c. prevede, infatti, il
caso del legittimario cui siano stati attribuiti beni di valore inferiore a quello della sua
quota di riserva, nel qual caso il rimedio contemplato è l'azione di riduzione per
lesione, rimedio che si ritiene possa essere esercitato, pur in mancanza di una
espressa disposizione, anche qualora il testatore abbia con la divisione attribuito ad
un legittimario una quota inferiore a quella che gli spetta (Cass., 5.12.1974, n. 4005).
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Con riferimento, poi, al limite della proporzione tra il valore della porzione e il valore
della quota va osservato che l’art. 763 comma 2 c.c., in tema di rescissione per
lesione della divisione, stabilisce espressamente che “la rescissione è ammessa anche
nel caso di divisione fatta dal testatore [c.c. 734], quando il valore dei beni assegnati
ad alcuno dei coeredi è inferiore di oltre un quarto all'entità della quota ad esso
spettante”. Il legislatore non prevede, invece, alcuno strumento correttivo nel caso in
cui la legittima sia composta solo con beni di un determinato tipo, sicché si ritiene
che il testatore mantenga sul punto la più ampia libertà, non potendo operare in sede
di divisione testamentaria l’obbligo stabilito dall’art. 727 c.c. di formazione di
porzioni qualitativamente omogenee. Tuttavia si è più volte affermato in
giurisprudenza (mentre sul punto sussistono contrasti in dottrina) che il testatore non
possa, comunque, attribuire beni non di sua proprietà ovvero soddisfare i diritti del
legittimario con ragioni creditorie verso qualcuno dei coeredi, poiché il principio di
intangibilità della legittima comporta che i diritti del legittimario debbano essere
soddisfatti con beni o denaro provenienti dall'asse ereditario. Si è, infatti, osservato
che il credito così riconosciuto al legittimario rinvia gli effetti attributivi e dispositivi
tipici della divisione ad un atto successivo ed eventuale con il quale gli eredi
obbligati alla corresponsione del conguaglio procedono al relativo adempimento; la
divisione, pertanto, è priva di effetti reali prima che gli eredi diano esecuzione alla
disposizione testamentaria, che si risolve in sostanza in un mero criterio divisionale,
con conseguente violazione della natura reale del diritto del legittimario alla quota
ereditaria (Cass. 6 aprile 1963 n. 886; Cass. civ., 20.10.1974 n. 2560; Cass. 23 marzo
1992 n. 3599; Cass. 12 settembre 2002 n. 13310; Cass. civ. sez. II, 12.03.2003 n.
3694). La contraria argomentazione, per la quale nella divisione testamentaria il
testatore avrebbe gli stessi poteri dei coeredi nella divisione da essi posta in essere,
trascura, d’altronde, la peculiarità della divisione testamentaria rispetto a quella
negoziale; è infatti chiaro che la facoltà dei condividenti di ripartire i beni oggetto
dell'asse ereditario secondo le modalità ritenute più opportune (e dunque anche
l'eventualità di stabilire che un coerede soddisfi il proprio diritto, invece che
attraverso l'acquisizione di un bene ricompreso nell'asse ereditario, con la percezione
dell'equivalente in termini monetari della propria quota e quindi con la previsione di
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un correlativo obbligo a carico degli altri coeredi) trova la propria legittimità nel
consenso di tutti i partecipanti alla divisione, mentre evidentemente un simile accordo
è escluso in radice nella divisione testamentaria.
Naturalmente nulla vieta che il testatore possa utilizzare l’istituto del legato
obbligatorio in sostituzione di legittima. Infatti, il legato ben può avere ad oggetto, ai
sensi dell’art. 653 c.c., una “cosa determinata solo nel genere, anche se nessuna del
genere ve n'era nel patrimonio del testatore al tempo del testamento e nessuna se ne
trova al tempo della morte” ed è addirittura possibile, ai sensi dell’art. 651 c.c., anche
il legato di un bene determinato dell’onerato o di un terzo, purché in quest’ultimo
caso risulti che il testatore sapeva che la cosa legata apparteneva all'onerato o al terzo,
ma è evidente che tale soluzione sovente si rivela inefficace, poiché, ai sensi dell’art.
551 c.c., il legittimario a cui favore sia disposto un simile legato può rinunciare al
legato e chiedere la legittima, frustrando le finalità anzidette.
Quando l'attribuzione al legittimario sia relativa a beni non di proprietà del
testatore, il legittimario potrà, pertanto, esperire congiuntamente sia l’azione diretta
alla declaratoria di nullità della divisione fatta dal testatore, sia l’azione di riduzione,
quando assuma che l'attribuzione sia quantitativamente inferiore alla quota di riserva
(Cass. civ. sez. II, 23.03.1992 n. 3599).
Un ulteriore e diverso problema è quello della ammissibilità, in caso di
divisione del testatore, di conguagli in denaro personale del coerede al fine di
compensare le disuguaglianze delle quote di fatto, composte ciascuna da una
porzione di beni esistenti nell’asse ereditario, rispetto alle quote di diritto. Al riguardo
sia in dottrina che in giurisprudenza si tende ad ammettere i conguagli in denaro e si è
affermato che essi hanno la natura di legati obbligatori divisionis causa che
l'assegnatario (legatario) acquista immediatamente, senza bisogno di accettazione e
salva la facoltà di rinuncia ai sensi dell’art. 649 c.c.( Cass. 24.10.1981 n. 5568;
23.6.1972 n. 2107; Cass. civ., sez. II, 22.11.1996, n. 10306).
Un altro strumento talvolta utilizzato per cercare di superare il divieto per il de
cuius di attribuzione di beni non facenti parte dell’asse ereditario è quello del legato
di contratto di vendita o di permuta in funzione divisionale: in tale ipotesi al
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legittimario viene attribuita la sua quota di beni facenti parte dell’asse ereditario, ma
la quota di legittima viene gravata da un legato di contratto. L’ammissibilità di una
simile disposizione deve fare i conti, in primo luogo, con il divieto di pesi e
condizioni sulla legittima, posto dall’art. 549 c.c.. Si ritiene che l'ambito di
applicazione di tale norma sia molto ampio, comprensivo non solo dell'onere e della
condizione, ma anche del termine, del legato posto a carico del legittimario, della
costituzione di un diritto reale di godimento sulla quota. Si è posto il problema se il
rapporto tra il divieto di pesi e condizioni sulla quota spettante ai legittimari posto
dall’art. 549 c.c. ed il principio della intangibilità quantitativa della legittima
desumibile anche dagli artt. 733 e 734 c.c. si ponga come “regola – eccezione”, nel
senso che il divieto di pesi a carico della legittima sia destinato a determinare
l’inammissibilità di ogni disposizione che alteri la posizione giuridica dei legittimari
rispetto alla quota loro spettante, sicché la facoltà per il testatore di assegnare in sede
di divisione un bene piuttosto che un altro costituisca una eccezione a tale principio
derivante dalla espressa previsione legislativa di cui all’art. 734 c.c.. Appare
preferibile, però, la tesi secondo la quale il principio della intangibilità quantitativa
della legittima costituisce esso stesso un principio generale, con la conseguenza che il
divieto di pesi e condizioni sulla quota spettante ai legittimari dovrebbe essere
correttamente riferito ai soli pesi e condizioni che abbiano l’effetto di diminuire o
ledere quantitativamente la legittima. In quest’ottica appare significativa, nello scarno
panorama giurisprudenziale, una pronuncia delle Suprema Corte che ha affermato che
l'onere imposto dal testatore all'erede di alienare gli elementi attivi del compendio
ereditario al fine di soddisfare i legati, sì da risultarne lesione della quota di riserva,
non sia di per sé né inefficace né illecito, sì da rendere nulli i legati, in quanto
determinante la volontà del testatore, giacché si tratterebbe solamente di una
disposizione testamentaria lesiva della quota di riserva, soggetta all'azione di
riduzione, che forma oggetto di una mera facoltà del legittimario da esercitarsi alle
condizioni stabilite dalla legge (Cass. civ. sez. II, 06.03.1992 n. 2708).
Accogliendo questa tesi il legato di contratto di vendita o di permuta in
funzione divisionale non contrasterebbe con il divieto di cui all’art. 549 c.c. nella
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misura in cui il corrispettivo della vendita o della permuta risulti adeguato al valore
della quota di riserva che non venga, così, lesa quantitativamente. Peraltro taluno ha
osservato che il legato di vendita o di permuta con funzione divisionale può
ricondursi nell’ambito delle regola date dal testatore per la divisione ai sensi dell’art.
733 c.c., la cui ammissibilità non può essere messa in dubbio, in quanto l’art. 549 c.c.
fa in ogni caso salve le norme in tema di divisione, tra le quali va compresa anche
quella contenuta nell’art. 733 c.c.. Ciò significa che il divieto per il testatore di
soddisfare la legittima con beni non ereditari e senza il consenso del legittimario si
esplica pienamente con riferimento alle disposizioni testamentarie ad effetto reale,
quali quelle contemplate nell’art. 734 c.c., mentre diverrebbe non operante,
accogliendo la tesi sopra esposta, con riferimento alle disposizioni testamentarie
divisionali ad effetto obbligatorio, ai sensi dell’art. 733 c.c..
Altra questione dibattuta è se si possa effettuare attraverso un negozio gratuito
inter vivos un’attribuzione patrimoniale a tacitazione delle aspettative successorie del
legittimario. In particolare si pone un problema di compatibilità di un simile negozio
con il divieto di patti successori. Come è noto, tale divieto si articola in tre regole: 1)
il divieto di patti successori istitutivi previsti nella prima parte dell’art. 458 c.c. che
sono quelli in cui “taluno dispone della propria successione”; 2) il divieto di patti
successori dispositivi, previsti nella seconda parte dell’art. 458 c.c., che sono quelli in
cui “taluno dispone dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora
aperta”; 3) il divieto di patti successori rinunciativi, previsti nell’ultima parte dell’art.
458 c.c., che sono quelli in cui taluno rinunzia ai diritti che gli possono spettare su
una successione non ancora aperta, divieto che trova conferma nell’art. 557 c.c. in
base al quale i legittimari non possono rinunciare al diritto di agire in riduzione,
finché vive il donante né con dichiarazione espressa né prestando il loro assenso alla
donazione che integri una disposizione lesiva della porzione di legittima.
E’ evidente che se in un atto di donazione in suo favore il legittimario accetti
l’atto di liberalità a tacitazione delle sue aspettative successorie, una simile clausola si
scontrerebbe con il divieto di patti successori rinunciativi. Non si può, però,
escludere la possibilità che il de cuius, dopo avere effettuato una donazione ad un
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legittimario, sufficiente a soddisfare i diritti a quest’ultimo spettanti sulla quota di
riserva, lo escluda nel testamento dalla propria successione, attribuendo l’eredità ad
altri (si ritiene, invece, nullo il testamento contenente esclusivamente una
disposizione negativa – Cass. civ. sez. III 20.06.1967 n. 1458) ed espressamente
motivando tale esclusione con la considerazione che le aspettative del legittimario
erano state soddisfatte con la precedente donazione. Infatti, tale fattispecie appare ben
diversa da quella in cui il de cuius abbia nel testamento escluso espressamente il
legittimario dalla quota di riserva, ipotesi nella quale si ritiene pacificamente che il
testamento sia nullo per contrarietà a norma imperativa, e sembra avvicinabile al
legato in sostituzione di legittima, ove il destinatario ha la possibilità di scegliere se
assecondare la volontà del testatore o rivendicare i suoi diritti di legittimario, previa
rinuncia al legato.
La riduzione delle donazioni
La lesione dei diritti del legittimario, oltre che attraverso disposizioni
testamentarie, potrebbe realizzarsi attraverso donazioni. La riduzione delle donazioni
è prevista dall’art. 555 c.c., che va coordinato col disposto dell’art. 809 c.c., per cui
le liberalità, anche se risultano da atti diversi dal contratto di donazione, sono
soggette alle stesse norme sulla riduzione delle donazioni per integrare la quota
dovuta ai legittimari, mentre l’azione di riduzione va esclusa solamente con
riferimento “alle liberalità previste dal secondo comma dell'articolo 770 e a quelle
che a norma dell'articolo 742 non sono soggette a collazione”. Dal che si trae che
sono soggetti a riduzione tutti i beni di cui sia stato disposto a titolo gratuito,
direttamente o indirettamente (art. 737 c.c.), ancorché in modo simulato.
Si deve evidenziare che la domanda di simulazione, diretta ad accertare ed
eliminare la fallace apparenza creata dal negozio simulato, è soggetta ad un peculiare
regime probatorio, a seconda che la simulazione sia fatta valere dai creditori o dai
terzi nei confronti dei contraenti, ovvero da una delle parti contro l’altra. Infatti, a
norma dell’art. 1417 c.c., nel primo caso, la prova della simulazione può essere
fornita senza limiti, anche per testimoni e, correlativamente (vedi art. 2729 comma 2
c.c.), mediante presunzioni, mentre, nel secondo caso, tutte le volte in cui siano le
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stesse parti contraenti a voler far valere la simulazione, opera il normale regime
probatorio che impone agli artt. 2722 e 2729 c.c. delle limitazioni alla prova
testimoniale ed a quella per presunzioni, fatte salve le ipotesi di cui all’art. 2724 c.c. e
l’ipotesi in cui si faccia valere l’illiceità del contratto dissimulato (Cass. civ.
23.01.1997 n. 697; Cass. civ. 26.01.1995 n. 954). Mentre nell’ipotesi della
simulazione assoluta la parte che agisce è ammessa a provarla anche attraverso
testimoni in tutte le ipotesi previste dall’art. 2724 c.c. senza subire la limitazione di
cui all’art. 2725 c.c., in quanto occorre dimostrare non l’esistenza di un contratto,
bensì la sua inesistenza, nel caso di simulazione relativa occorre tenere presente che,
ai sensi dell’art. 1414 c.c., “se le parti hanno voluto concludere un contratto diverso
da quello apparente, ha effetto tra esse il contratto dissimulato, purché ne sussistano i
requisiti di sostanza e di forma”. Ciò significa che nel caso in cui il contratto
dissimulato richieda la forma scritta ad substantiam o altri requisiti formali, come nel
caso della donazione, sia il contratto simulato che l’accordo simulatorio devono
rispettare i detti requisiti di forma e la dimostrazione della volontà delle parti di
concludere un contratto diverso da quello apparente incontra non solo le limitazioni
legali all'ammissibilità della prova testimoniale e di quella per presunzioni, con il
rigore dell’art. 2725 c.c., ma anche l’ulteriore limitazione derivante dal dovere
provare la sussistenza tanto dei requisiti di sostanza che di forma del contratto diverso
da quello apparentemente voluto (Cass. civ., sez. II, 19.02.2008, n.4071).
Tale distinzione rileva anche ai fini della prescrizione dell’azione di
simulazione. E’ stato osservato, infatti, che il dies a quo del termine di prescrizione
dell'azione di simulazione varia in rapporto all'oggetto della domanda: se questa è
proposta dall'erede quale legittimario, facendo valere il proprio diritto alla riduzione
della donazione (che si asserisce dissimulata) lesiva della quota di riserva, il termine
di prescrizione decorre dal momento dell'apertura della successione; mentre se
l'azione sia esperita al solo scopo di acquisire il bene oggetto di donazione alla massa
ereditaria per determinare le quote dei condividenti e senza addurre alcuna lesione di
legittima, il termine di prescrizione decorre dal compimento dell'atto che si assume
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simulato, subentrando in tal caso l'erede, anche ai fini delle limitazioni probatorie ex
art. 1417 c.c., nella medesima posizione del de cuius (Cass. civ. 29.02.2016 n. 3932).
Quanto alla esatta delimitazione del concetto di “terzo” agli effetti della prova
della simulazione, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che è tale colui che,
senza intervenire nel contratto, ha interesse a sostenere o ad impugnare la validità del
negozio, per le conseguenze che possono derivare ad un suo diritto. Si è, pertanto,
ritenuto che possa ritenersi “terzo” non solo il successore a titolo particolare di uno
dei contraenti dell’atto simulato, sia per atto tra vivi che mortis causa (Cass. civ.
7.07.1964 n. 1800; Cass. civ. 20.10.1981 n. 547), ma anche chi proponga azione volta
alla dichiarazione di simulazione contestualmente ad una domanda di riduzione della
donazione dissimulata, per lesione del suo diritto personale alla integrità della quota
di riserva (Cass. civ., sez. II, 18.04.2003, n. 6315; Cass. civ., sez. II, 30.07.2002, n.
11286). Viceversa, non può considerarsi “terzo” l’erede che proponga l'azione di
simulazione per l'accertamento di dedotte dissimulate donazioni se agisca non quale
legittimario, ma al limitato fine della collazione delle donazioni per ricostituire il
patrimonio ereditario e ristabilire l'uguaglianza tra coeredi, ai fini dello scioglimento
della comunione (Cass. civ., sez. II, 21/04/1998, n. 4024).
La donazione indiretta consiste nell'elargizione di una liberalità attuata, anziché
attraverso il tipico negozio della donazione diretta, mediante un negozio oneroso che
produce, in concomitanza con l'effetto diretto che gli è proprio, l'effetto indiretto
dell'arricchimento senza corrispettivo, animo donandi, del destinatario della liberalità
(cfr. Cass. 7 dicembre 1989 n. 5410; Cass. 5 dicembre 1970 n. 2565) e la
giurisprudenza di legittimità, dopo alcune incertezze, ha chiarito, nella composizione
a Sezioni Unite, che si è al cospetto di una donazione indiretta di un immobile
piuttosto che di una donazione di una somma di denaro tutte le volte in cui una
persona provveda con denaro proprio al pagamento del prezzo di un immobile che
risulta acquistato da altri, venendo così attuato un complesso procedimento di
arricchimento del destinatario del trasferimento, nel cui patrimonio entra a far parte
l'immobile (Cass. civ. sez. un. 5.08.1992 n. 9282; Cass. 23.12.1992 n. 13630; Cass. 6
maggio 1991 n. 4986; Cass. 31 gennaio 1989 n. 596; Cass. 14.05.1997 n. 4231; Cass.
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14.12.2000 n. 15778; Cass. 26/8/2002, n. 12486; Cass. 6/4/2001, n. 5122; Cass.
16.03.2006 n. 5333). Si è viceversa, al cospetto di una donazione diretta avente ad
oggetto il denaro quando il disponente dona al beneficiario una somma di denaro che
successivamente questi utilizza per l’acquisto di un immobile (Cass. civ. 15.11.1997
n. 11327). A tal proposito va osservato che la collazione e la riunione fittizia del
denaro va effettuata, ai sensi dell’art. 751 c.c., “secondo il valore legale della specie
donata […] all'epoca dell'aperta successione” e la Corte Costituzionale (Corte Cost.,
17.10.1985, n. 230; Corte Cost., 25.6.1981, n. 107) ha sempre ritenuto infondata la
questione di legittimità costituzionale dell'art. 751 c.c. in ordine al diverso
trattamento, limitatamente al criterio nominalistico, tra i coeredi donatari di beni
immobili, mobili o danaro soggetti a collazione.
Si è al cospetto di una donazione indiretta anche nel caso di assicurazione sulla
vita a favore di un terzo, quando la designazione sia effettuata inter vivos (in caso di
designazione per testamento, prevista dall’art. 1923 c.c., si è, invece, al cospetto di un
legato) e quando la stessa abbia causa gratuita e non onerosa, ancorché la prestazione
sia riscossa dal terzo dopo la morte dello stipulante. Invero, nel caso di designazione
effettuata nello stesso contrato di assicurazione o in altro atto inter vivos, il terzo
acquista il beneficio al momento della stessa designazione, la quale presenta,
pertanto, tuti i caratteri dell’attribuzione indiretta tra vivi, anche se per ipotesi sia
destinata a produrre effetti dopo la morte, in quanto il contratto di assicurazione
costituisce solo un mezzo per realizzare un arricchimento della sfera patrimoniale
altrui. D’altronde, ai sensi dell’art. 1923 c.c. cpv. il beneficio in questione è soggetto
a riduzione, applicandosi ai premi pagati le disposizioni in tema di riduzione delle
donazioni (Cass. civ. 6531/2006).
Si è posto il problema se la concessione in uso gratuito di un immobile da parte
del de cuius possa configurarsi come una donazione indiretta. Non vi è dubbio che, di
regola, le rinunzie abdicative ad un diritto di credito possano realizzare un intento
liberale, mentre più complessa è la questione se il comodato, quale contratto con il
quale viene concesso il godimento in uso gratuito di un bene, possa in determinate
circostanze qualificarsi donazione, seppure indiretta. In proposito si è osservato che le
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fattispecie di comodato non possono essere configurate contemporaneamente come
donazioni e come comodati, avendo il legislatore fatto del comodato un contratto
tipico. Muovendo da tali considerazioni la Suprema Corte ha affermato che in tema di
divisione ereditaria, non è qualificabile come donazione soggetta a collazione il
godimento, a titolo gratuito di un immobile concesso durante la propria vita dal de
cuius a uno degli eredi, atteso che l'arricchimento procurato dalla donazione non può
essere identificato con il vantaggio che il comodatario trae dall'uso personale e
gratuito della cosa comodata, in quanto detta utilità non costituisce il risultato finale
dell'atto posto in essere dalle parti, come avviene nella donazione, bensì il contenuto
tipico del comodato stesso. A tal fine non solo si deve escludere che venga integrata
la causa della donazione (in luogo di quella del comodato) nell'ipotesi in cui il
comodato sia pattuito per un periodo alquanto lungo o in relazione a beni di notevole
valore, ma rileva la insussistenza dell'animus donandi, desumibile dalla temporaneità
del godimento concesso al comodatario (Cass. civ. sez. II 23.11.2006 n. 24866).
Nondimeno, ciò non impedirebbe, secondo alcuni autori, che in certe circostanze il
comodato possa qualificarsi come donazione indiretta, quando l’atto gratuito esorbita,
per l’entità dell’oggetto, la durata del rapporto e la qualità dei soggetti, dai limiti della
cortesia, dell’amicizia o della convenienza sociale.
Una ulteriore ed assorbente ragione a sostegno della tesi secondo la quale il
valore del comodato di cui abbia beneficiato uno dei coeredi non possa essere
soggetto a collazione viene, infine, rinvenuta nella disciplina contenuta nell’art. 745
c.c.. Infatti, il godimento del bene è un modo di appropriarsene i frutti e, secondo un
diffuso orientamento, fatto proprio anche dalla giurisprudenza di legittimità, le
rendite ed i frutti della cosa fruttifera (perceptio fructuum) fino all’apertura della
successione non sono soggette a collazione (Cass. civ. sez. III 06.06.1969 n. 1987).
Tale conclusione discende dal rilievo che ai sensi dell'art. 745 c.c., i frutti delle cose e
gli interessi sulle somme soggette a collazione non sono dovuti che dal giorno in cui
si è aperta la successione. La suddetta disciplina muove, verosimilmente, dalla
considerazione che difficilmente un soggetto accetterebbe, senza dispensa, la
donazione, se fosse destinato a dover un giorno restituire, oltre che il bene, anche il
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valore dei frutti. Sennonché, pur riferendosi la norma in modo espresso ai frutti
prodotti dal bene donato dal de cuius, si è osservato che essa deve trovare
applicazione anche alla diversa ipotesi in cui la donazione abbia ad oggetto
direttamente i frutti e le rendite a prescindere dalla donazione della cosa fruttifera,
sulla base del decisivo rilievo che sarebbe assurdo fare operare la collazione dei frutti
di un bene che non è stato neppure donato, quando la collazione è, invece, esclusa nel
caso in cui la cosa fruttifera sia stata donata. A tale orientamento se ne contrappone
un altro minoritario, secondo il quale la norma contenuta nell’art. 745 c.c., dettata
dall’intento di non rendere gravosa la condizione del donatario della cosa soggetta a
collazione, riflette i frutti compresi nell’omnis causa rei, quale accessorio della cosa
donata, e non i frutti che, direttamente e in via principale, formano oggetto della
donazione sicché l’esclusione dalla collazione della donazione di una rendita
finirebbe per confondere tra frutti ed usufrutto, che è un diritto autonomo che non si
esaurisce con la somma dei frutti maturati. Quest’ultima tesi non appare, però,
convincente, poiché, a prescindere dalle difficoltà derivanti dalla necessità di dare un
contenuto al conferimento del diritto di usufrutto, così opinando si dovrebbe
concludere che la collazione ha un oggetto più ampio nella ipotesi in cui vi sia una
iniziale donazione dei frutti seguita dalla donazione della cosa fruttifera rispetto alla
ipotesi sostanzialmente affine in cui il de cuius doni sin dall’inizio la cosa fruttifera,
poiché nel primo caso alla collazione della cosa donata avuto riguardo al valore di
questa al momento dell’apertura della successione si dovrebbe sommare il valore
della donazione dei frutti, mentre nel secondo caso verrebbe conferita soltanto la cosa
donata avuto riguardo al valore di questa al momento dell’apertura della successione,
senza tenere conto del valore dei frutti percepiti dal donatario. Inoltre, ove si sostenga
che oggetto della collazione non siano i frutti percepiti, bensì il diritto di usufrutto,
occorrerebbe fare i conti con la disciplina contenuta nell’art. 747 c.c., a norma del
quale, ai fini del conferimento per imputazione, occorre avere riguardo al valore del
bene “al tempo dell’aperta successione”, poiché ciò significa che, cessando
l’usufrutto al momento della morte del donante, il valore da conferire sarebbe pari a
zero. Appare, pertanto, condivisibile la tesi espressa nella menzionata pronuncia della
Suprema Corte n. 1987/1969, secondo la quale il donatario nulla “deve porre in
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collazione fino all’apertura della successione in quanto il principio fondamentale che
si trae da tutte le norme sulla collazione ed anche dall’art. 745 cc. è che quanto ha
formato oggetto di godimento prima della morte del donante non deve essere
conferito mentre deve essere conferito esclusivamente il valore capitale che rimanga
nella mani del donatario al momento dell’apertura della successione con gli accessori
da questo momento”.
Ai sensi dell’art. 742 c.c., non sono soggette a collazione e, conseguentemente,
non sono neppure soggette a riduzione, né le spese ordinarie fatte per le nozze né, in
base al rinvio contenuto nella suddetta disposizione al 2° comma dell’art. 770 c.c., le
liberalità effettuate in conformità agli usi, vale a dire quelle attribuzioni a titolo
gratuito poste in essere, per spirito di liberalità, al fine di conformarsi ad un uso
sociale o familiare. Le donazioni d’uso sono, pertanto, soggette a collazione ed a
riduzione solamente se eccedano notevolmente la misura ordinaria, tenuto conto delle
condizioni economiche del defunto, dei rapporti tra le parti, delle loro condizioni
sociali (Cass. civ. sez. I, 10.12.1988 n. 6720). La giurisprudenza di legittimità ha,
peraltro, chiarito che le liberalità d’uso non debbono essere necessariamente di
modico valore, in quanto il legislatore non ha posto tale limite che compare nell’art.
783 c.c. in materia di donazioni manuali e così è stato affermato che possono
costituire liberalità d’uso anche anelli di fidanzamento del valore di oltre £
100.000.000 (Cass. civ. 10.12.1988 n. 6720).
Viceversa, sono soggette a riduzione le donazioni remuneratorie, poiché l’art.
770 c.c. stabilisce al primo comma che “è donazione anche la liberalità fatta per
riconoscenza o in considerazione dei meriti del donatario o per speciale
rimunerazione”. D’altronde la donazione remuneratoria costituisce una vera e propria
donazione, in quanto si tratta di un’attribuzione gratuita, caratterizzata dalla
spontaneità e dalla consapevolezza di non esservi in alcun modo costretti, (Cass.
12769/99; Cass. 1989/95; Cass. 1077/92; Cass. 7170/83).
Analogamente, sono soggette a riduzione le donazioni effettuate propter
nuptias a ciascuno dei figli, che sono pure soggette a collazione come espressamente
stabilito nell’art. 741 c.c. (Cass. civ., 08.06.1968 n. 1760), tenendo presente che la
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donazione obnuziale si caratterizza per lo scopo del contraente, quello di favorire un
matrimonio determinato e futuro, e per il fatto che il matrimonio costituisce requisito
di efficacia della donazione stessa.
Quanto alla donazione modale (ma analoghe considerazioni valgono anche per
il legato modale ai sensi dell’art. 671 c.c.), si ritiene comunemente che, in assenza di
una diversa disposizione, legittimato passivo dell’azione di riduzione possa essere
solo l’onorato o il donatario ma non anche il beneficiario del modus. Le altre
soluzioni prospettate in dottrina con elaborate argomentazioni non appaiono
convincenti, anche se si deve prendere atto che il soggetto gravato dal modus
potrebbe trovarsi privo di adeguata tutela nell’ipotesi in cui veda ridursi il proprio
beneficio a seguito dell’accoglimento della domanda di un legittimario. In tal caso,
infatti, il donatario potrà solamente invocare la disciplina dell’art. 793 c.c., che
stabilisce che il donatario è tenuto ad adempiere l’onere entro i limiti del valore della
cosa legata o donata. Solo nella ipotesi in cui il modus sia a favore dello stesso
disponente potrebbe ipotizzarsi una diversa soluzione, poiché in tale ipotesi il
depauperamento del patrimonio del disponente è configurabile solo con riferimento al
valore netto della donazione, detratto i valore del modus, sicché appare giustificato
limitare l’esperibilità dell’azione di riduzione a tale valore netto.
Riguardo, infine, al rapporto tra l’azione di riduzione delle donazioni e
l’acquisto per usucapione del bene donato da parte del donatario, la giurisprudenza di
legittimità ha chiarito che l’usucapione non mette al riparo gli acquirenti dalle pretese
dei legittimari, sia perché il termine di usucapione non corre contro i legittimari se
non dal giorno di apertura della successione, poiché è solo da tale data che, ai sensi
dell’art. 2935 c.c., i legittimari possono fare valere i loro diritti, sia perché l’azione di
riduzione ha natura personale e non reale, non è diretta a rivendicare la proprietà del
bene che si pretende usucapito ma a far valere sul valore del bene le ragioni
successorie, circostanza che di per sé esclude la configurabilità di una controversia in
ordine alla titolarità dei beni (Cass. civ. sez. II 27.10.1995 n. 11203).
Termini e condizioni per l’esercizio dell’azione di riduzione
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L’esercizio dell’azione di riduzione è soggetto all’ordinario termine
prescrizionale di dieci anni ai sensi dell’art. 2946 c.c.. Quanto alla individuazione del
termine di decorrenza della prescrizione dell'azione di riduzione, la giurisprudenza di
legittimità ha evidenziato che, in relazione alla previsione contenuta nell'art. 2935
c.c., secondo cui la prescrizione comincia a decorrere dal momento in cui il diritto
può essere fatto valere, la prescrizione dell’azione di riduzione inizia a decorrere dal
momento in cui si realizza la lesione di legittima, senza che rilevi la conoscenza che
ne abbiano i legittimari, in applicazione del principio costantemente affermato dalla
Suprema Corte secondo il quale, ai fini della decorrenza della prescrizione, non
rilevano gli impedimenti di mero fatto all'esercizio del diritto. Ciò significa che
quando la lesione della legittima sia ricollegabile a disposizioni testamentarie, il
termine di prescrizione decorre dall’accettazione dell’eredità da parte del chiamato in
base a disposizioni testamentarie lesive della legittima, accettazione che rende attuale
quella lesione di legittima che per effetto delle disposizioni testamentarie era solo
potenziale (Cass. civ. sez. un. 25.10.2004, n. 20644), mentre quando la lesione derivi
da donazioni tale termine decorre dalla data di apertura della successione, non
essendo sufficiente il relictum a garantire al legittimario il soddisfacimento della
quota di riserva (Cass. civ. sez. II, 30.07.2004 n. 14562).
Il legislatore stabilisce determinate condizioni per l’esercizio dell’azione di
riduzione da parte del legittimario chiamato all’eredità.
In particolare l’art. 552 c.c. stabilisce che “il legittimario che rinunzia
all'eredità, quando non si ha rappresentazione, può sulla disponibile ritenere le
donazioni o conseguire i legati a lui fatti” ma non può ritenere e conseguire alcunché
a titolo di legittima.
L’art. 564 c.c. prevede, poi, che “il legittimario che non ha accettato l'eredità
col beneficio d'inventario non può chiedere la riduzione delle donazioni e dei legati,
salvo che le donazioni e i legati siano stati fatti a persone chiamate come coeredi,
ancorché abbiano rinunziato all'eredità.”. Quest’ultima disposizione, che opera tutte
le volte in cui il legittimario leso voglia agire in riduzione nei confronti di legatari e
donatari non coeredi, pone una vera e propria condizione di proponibilità della
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domanda e, di conseguenza, come sottolineato dalla giurisprudenza di legittimità,
l’accettazione con beneficio di inventario non può sopravvenire nel corso del giudizio
(Cass. civ. 24.02.1949 n.- 340), mentre la sua mancanza è rilevabile d’ufficio (Cass.
civ., 06.06.1968 n. 1701). Non è del tutto chiara la ragione di tale disciplina, ma la
tesi preferibile è quella secondo la quale la norma risponde all’esigenza di porre il
convenuto in grado di conoscere l’entità dell’asse ereditario. Questa condizione non
è, peraltro, richiesta quando il legittimario che agisca in riduzione sia stato totalmente
pretermesso dal testatore anche nel caso in cui abbia ricevuto beni dal de cuius a
titolo di donazione ovvero si sia impossessato, dopo la sua morte, di beni ereditari,
atteso che egli acquista la qualità di erede soltanto a seguito del favorevole esercizio
dell'azione proposta (Cass. civ. sez. II, 15.06.2006 n. 13804). Va osservato che
l'ultima frase del 1° comma dell’art. 564 c.c. dispone che l'erede non perde il diritto di
chiedere la riduzione se, avendo accettato con beneficio di inventario, decade
successivamente dal beneficio, ma ciò non significa che non sia richiesta dalla legge
anche l'effettiva esecuzione dell'inventario, giacché, in mancanza di questa, il
soggetto è considerato "erede puro e semplice" (Cass. civ. sez. II, 09.08.2005 n.
16739).
La giurisprudenza ritiene, poi, che l'accettazione beneficiata costituisca
condizione anche per la proposizione dell'azione di simulazione, quando questa sia
preordinata esclusivamente all'esercizio dell'azione di riduzione. Si è così affermato
che l'esperimento dell'azione di simulazione da parte degli eredi, relativamente ad un
negozio apparentemente oneroso compiuto dal de cuius, preordinato al successivo
eventuale esercizio dell'azione di riduzione e diretto contro persone estranee
all'eredità, non è condizionato all'accettazione con beneficio d'inventario nei soli casi
in cui venga in questione la simulazione assoluta del negozio giuridico o in cui, pur
prospettandosi la simulazione come relativa, il negozio dissimulato sia nullo per vizio
di forma o per incapacità di uno dei soggetti o per altra causa, non potendo in tali casi
negarsi l'interesse del legittimario a fare accertare, indipendentemente dall'azione di
riduzione, l'intervenuta simulazione e cioè l'inesistenza dell'apparente negozio
giuridico posto in essere dal de cuius; viceversa, allorquando sia stato impugnato un
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negozio oneroso, siccome dissimulante una donazione, essendo il negozio
dissimulato rivestito della forma prescritta, l'azione di simulazione è in funzione
unicamente dell'azione di riduzione e perciò in tanto può essere proponibile, in
quanto sussista il presupposto cui è condizionata la proposizione della seconda, e cioè
l'accettazione con beneficio d'inventario (Cass. civ. sez. II, 27.06.2003 n. 10262).
Quando il testatore abbia disposto in favore del legittimario un legato in
sostituzione di legittima, l’art. 551 c.c. stabilisce che il legittimario, per poter
ottenere, agendo in riduzione, la reintegrazione della quota riservata, debba
previamente rinunciare al legato tacitativo. E stato, invero, evidenziato che la
rinuncia al legato in sostituzione di legittimità non costituisce una vera e propria
condizione dell’azione ma è, piuttosto, un elemento costitutivo del diritto
all'integrazione della quota di riserva e, conseguentemente, la sua mancanza è
rilevabile di ufficio dal giudice (Cass. civ. sez. II, 18.04.2000 n. 4971). La rinuncia al
legato non necessita di particolari forme, e può anche risultare da atti univoci,
compiuti dal legatario, che implichino necessariamente la volontà di rinunciare al
legato (Cass. civ. sez. II, 15.05.1997 n. 4287). A tal fine, non è, però, sufficiente la
proposizione dell'azione di riduzione o l'accettazione dell'eredità con beneficio di
inventario (Cass. civ. sez. II, 15.03.2006 n. 5779; Cass. civ. sez. II, 11.11.2008 n.
26955). Quando il legato ha ad oggetto beni immobili, la rinuncia deve essere,
invece, effettuata con la forma scritta (Cass. civ. sez. II 22.07.2004 n. 13785). Va
sottolineato che ai sensi del comma 2 dell’art. 551 c.c., il legittimario che preferisce
conseguire il legato, non solo perde il diritto di chiedere un supplemento, nel caso che
il valore del legato sia inferiore a quello della legittima, ma non acquista neppure la
qualità di erede. Per tale motivo, il legatario tacitato non può essere equiparato al
chiamato che rinunci all’eredità e non è applicabile analogicamente la disciplina di
cui all’art. 521 c.c. ai fini dell’accrescimento. Ciò è reso ancora più evidente dalla
espressa previsione contenuta nel comma 3 dell’art. 551 c.c., secondo cui il legato in
sostituzione di legittima viene soddisfatto sulla quota indisponibile, poiché ciò sta a
significare che il legislatore ha inteso mantenere invariate le quote degli altri
legittimari in caso di conseguimento del legato da parte dell’onorato, mentre il diritto
25
alla la quota di riserva spettante al legittimario legatario in sostituzione viene
soddisfatto per mezzo del bene legato (Cass. civ. 5.09.1952 n. 2840).
Va, infine, osservato che per esperire l’azione di riduzione occorre che non
sussistano le condizioni per l’operatività della speciale cautela sociniania, prevista
nell'art. 550 c.c.. La cautela sociniana costituisce uno strumento di garanzia del diritto
alla legittima in piena proprietà, destinato a sostituire lo strumento della riduzione
(art. 553 c.c. e art. 554 c.c.) la quale, impostata sul concetto di lesione quantitativa,
non assicura al legittimario il diritto ad ottenere una porzione dell’asse in piena
proprietà.
La norma, nell'ipotesi che il testatore abbia disposto di un usufrutto o di una
rendita vitalizia il cui reddito eccede quello della porzione disponibile (comma 1) o
della nuda proprietà di una parte eccedente la disponibile (comma 2), attribuisce
quindi al legittimario, al quale, rispettivamente, sia stata assegnata la nuda proprietà
ovvero l'usufrutto della disponibile (o di parte di essa), il potere di incidere
unilateralmente sulla successione, senza ricorrere all'azione di riduzione, tipico
strumento di tutela della legittima: in sostanza il riservatario, senza verificare
oggettivamente se vi sia stata o meno una lesione della quota di legittima, esercita un
diritto potestativo sulla base di una valutazione soggettiva e può così pretendere la
legittima in piena proprietà, "abbandonando" il resto, cioè la nuda proprietà o
l'usufrutto della disponibile, ovvero conseguire la disposizione che lo riguarda, con
ciò stesso ritenendo che il valore della legittima intaccata, unito a quello della nuda
proprietà della disponibile, o dell'usufrutto sulla disponibile, eguagli o superi il valore
della legittima (Cass., 29 dicembre 1970, n. 2782).
La scelta non si sostanzia in una rinunzia all'eredità, ma in una opzione di cui
la legge non determina la forma; non sono quindi necessarie le solennità richieste
dall'art. 519 c.c., potendo le scelte stesse provarsi con testimoni o per presunzioni,
anche se trattasi di usufrutto o nuda proprietà riflettenti beni immobili, e potendo essa
effettuarsi sia espressamente che tacitamente (Cass., 7 ottobre 1960, n. 2599).
La giurisprudenza ha, quindi, sottolineato che la diversità di presupposti,
struttura e finalità delle norme di cui agli art. 550 c.c. e art. 554 c.c., comporta
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l'incompatibilità delle scelte effettuate ai sensi e per gli effetti della prima di tali
disposizioni con il ricorso all'azione di riduzione ex art. 554 c.c. (Cass. civ. sez. II,
18.01.1995 n. 511).
La rinuncia all’azione di riduzione
Il diritto, patrimoniale (e perciò disponibile) e potestativo, del legittimario di
agire per la riduzione delle disposizioni lesive della sua quota di riserva, dopo
l'apertura della successione, è rinunciabile, anche tacitamente, ma sempre che detta
rinuncia sia inequivocabile (Cass. 2773/97). A questo scopo, la rinuncia tacita deve
concretizzarsi in un comportamento inequivoco e concludente del soggetto
interessato, che sia incompatibile con la volontà di far valere il diritto alla
reintegrazione (Cass. 4230/87). E’ stato, poi, precisato che l'esecuzione volontaria
delle disposizioni testamentarie lesive della legittima non preclude al legittimario
l'azione di riduzione poiché non implica di per sé rinuncia all’azione (Cass. civ. sez.
II, 04.08.1995 n. 8611). Con riferimento alla rinuncia alla legittima da parte del
riservatario, si è posto il problema se nel calcolo della quota spettante ai legittimari, si
debba far riferimento alla situazione teorica esistente al momento della morte del de
cuius, ovvero alla situazione concreta degli eredi legittimi che effettivamente
concorrono alla ripartizione dell'asse. Recentemente le Sezioni Unite sono
intervenute sul punto affermando che in tema di successione necessaria,
l'individuazione della quota di riserva spettante alle singole categorie di legittimari ed
ai singoli legittimari appartenenti alla medesima categoria va effettuata sulla base
della situazione esistente al momento dell'apertura della successione e non di quella
che si viene a determinare per effetto del mancato esperimento, per rinunzia o per
prescrizione, dell'azione di riduzione da parte di qualcuno dei legittimari (Cass. civ.
Sez. Unite, 09.06.2006 n. 13429). Tale conclusione muove dalla considerazione che
mancano i presupposti per l’applicazione analogica delle norme in tema di
successione legittima ove il c.d. effetto retroattivo della rinuncia di uno dei chiamati,
stabilito dall’art. 521 c.c., determina l’accrescimento in favore degli accettanti. In
particolare, non è possibile applicare il principio ubi eadem ratio ibi eadem legis
dispositio poiché l’accrescimento nella successione legittima trova una spiegazione
27
logica nel fatto che, diversamente, non si saprebbe quale dovrebbe essere la sorte
della quota del rinunciante, mentre nella successione necessaria non esistono
incertezze in ordine alla sorte della quota astrattamente spettante al legittimario che
non eserciti l'azione di riduzione, in quanto i donatari o gli eredi o i legatari
conservano una porzione dei beni del de cuius maggiore di quella di cui quest'ultimo
avrebbe potuto disporre; inoltre la ratio ispiratrice della successione necessaria non è
solo quella di garantire a determinati parenti una porzione del patrimonio del de
cuius, ma anche quella di consentire a quest'ultimo di sapere entro quali limiti, in
considerazione della composizione della propria famiglia, può disporre del suo
patrimonio in favore di terzi, esigenza di certezza che non verrebbe soddisfatta ove
tale quota dovesse essere determinata, successivamente all'apertura della successione,
in funzione del numero di legittimari che dovessero esperire l'azione di riduzione.
La riunione fittizia e l’imputazione ex se
In sede di riduzione occorre effettuare due operazioni preliminari alla
reintegrazione della quota riservata ai legittimarti: la riunione fittizia e l’imputazione
ex se.
L’art. 556 c.c. stabilisce, infatti, che, al fine di accertare se un legittimario sia
stato leso nei suoi diritti, occorre determinare, mediante una operazione algebrica, il
valore della massa ereditaria, quello della quota disponibile e quello della quota di
legittima, che della massa ereditaria costituiscono una frazione. Si deve, pertanto,
procedere alla formazione della massa dei beni relitti ed alla determinazione del loro
valore al momento dell’apertura della successione, alla detrazione dal relictum dei
debiti contratti dal defunto, nonché quelli sorti a causa della morte, quali le spese
funerarie e di sepoltura, da valutare con riferimento alla stessa data. A tal proposito
va osservato che, in mancanza di relictum non è possibile effettuare alcuna detrazione
per i debiti contratti dal defunto, nonché per quelli sorti a causa della morte, come le
spese funerarie documentate, in quanto si ritiene che se i debiti azzerano o superano il
relictum la legittima, che può sussistere solo in presenza di donazioni, vada calcolata
solo su quelle, senza tener conto dei debiti (Cass. civ. 24.02.1955 n. 558). Occorre,
28
quindi, effettuare la riunione fittizia tra attivo netto e donatum, costituito dai beni di
cui sia stato disposto a titolo di donazione in vita dal de cuius.
Benché l’istituto della riunione fittizia operi in maniera diversa dalla
collazione, trattandosi di una operazione meramente contabile, ha in comune con essa
la disciplina relativa all’oggetto ed alla valutazione dei beni in forza del rinvio
contenuto nell’art. 556 c.c. alle regole dettate negli artt. da 747 a 750 c.c., sicché i
beni oggetto di donazione vanno stimati, nella loro consistenza oggettiva, con
riferimento al momento della donazione, e nel loro valore economico sulla base del
potere d’acquisto della moneta al momento dell’apertura della successione - art. 747
c.c.. Peraltro appare condivisibile la tesi secondo la quale, pur nel silenzio della
legge, si debbano applicare le norme sulla collazione anche per la determinazione
dell'oggetto della riunione fittizia, sicché possono integralmente richiamarsi tutte le
argomentazioni prima svolte con riferimento alle donazioni escluse sia dalla
collazione che dalla riduzione, ai sensi dell’art. 742 c.c..
Sulla base dei principi sopra esposti, è stato evidenziato che, al fine di stabilire
se l'atto di disposizione patrimoniale compiuto in vita dal de cuius sia lesivo della
quota riservata ai legittimari, la donazione con riserva di usufrutto deve essere
calcolata come donazione in piena proprietà, riferendone il valore al tempo
dell'apertura della successione, in quanto l’accertamento della eventuale lesione va
compiuto avendo riguardo a tale momento (Cass. civ., sez. II, 24.07.2008, n. 20387).
Problemi applicativi si pongono con riferimento alla riunione fittizia della
donazione modale. In dottrina vi è un ampio dibattito sulla natura del modus, dibattito
che non occorre in questa sede ripercorrere, essendo pacifico che l'aggiunta del
modus non snatura l'essenza della donazione, non potendo assegnarsi ad esso la
funzione di corrispettivo, con la sussunzione della donazione modale nella categoria
dei contratti a titolo oneroso, ma comporta che la liberalità, che resta sempre la causa
del negozio, attraverso il modus, viene ad esserne limitata (Cass. civ. sez. II
26.07.2005, n. 15586; Cass. civ. 27.11.1985, n. 5888). Benché la donazione modale
non perda la sua natura di atto di liberalità, costituisce, nondimeno, opinione diffusa e
pienamente condivisibile quella secondo cui nelle donazioni modali, quando la
29
disposizione modale sia stata apposta a vantaggio del donante, o quando sia effettuata
solvendi causa, il valore dell'onere si detrae. La tesi secondo la quale dovrebbe essere
preso sempre in considerazione l’arricchimento di cui beneficia il donatario al netto
del valore della disposizione modale non appare, invero, sostenibile, poiché il modus
apposto ad una donazione non è un corrispettivo né un debito o un peso dell’eredità e
non può, pertanto, rientrare come tale nel calcolo previsto dall’art. 556 c.c.; inoltre
con la riunione fittizia si cerca di ricostruire l’integrità del patrimonio del de cuius ed
è evidente che sotto questo profilo il modus ed il mancato arricchimento del
beneficiario della donazione non assumono alcun rilievo. A diverse conclusioni
occorre, invece, giungere, come si è accennato sopra, nel modus a favore del
disponente, poiché in tal caso il modus limita il depauperamento del donante ed
appare, pertanto, giustificata la detrazione del suo valore.
Dalla donazione modale occorre distinguere il contratto atipico c.d. di
“vitalizio alimentare”, che consiste in un contratto autonomo e distinto anche da
quello di “rendita vitalizia”, di cui all'art. 1872 c.c., in quanto “nel vitalizio
alimentare le obbligazioni contrattuali hanno come contenuto prestazioni di carattere
accentuatamente spirituale e, in ragione di ciò, eseguibili unicamente da un soggetto
specificamente individuato per le sue qualità personali” (Cass. 8 settembre 1998 n.
8854). Nella pratica, però, con riferimento al tipo sociale nel quale all'alienazione
della nuda proprietà di un immobile corrisponde l'obbligo degli acquirenti di prestare
assistenza, pulizia, vitto e alloggio in luogo del prezzo, la volontà negoziale delle
parti risulta sovente di difficile interpretazione: di regola si è al cospetto di un
vitalizio alimentare (Cass. 19 febbraio 1996 n. 1280), ma la mancanza di un
corrispettivo fa sì che talvolta l’accordo configuri più propriamente una donazione
modale, specie quando donante e donatario non siano estranei, ma soggetti uniti da un
profondo legame affettivo, in cui la prestazione di assistenza integra, almeno in parte,
l'adempimento di una vera e propria obbligazione naturale.
Va, infine, osservato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, nel giudizio
di reintegra nella quota di riserva, la richiesta diretta a ricomprendere nel relictum i
beni oggetto di una determinata donazione non costituisce domanda nuova né
30
eccezione in senso proprio. Soluzione differente viene, invece, accolta dalla
giurisprudenza con riferimento alla eccezione diretta ad ottenere la collazione di una
donazione; si ritiene, infatti, che la deduzione del fatto che un condividente sia tenuto
alla collazione di un bene donato, costituisca una eccezione in senso proprio, in
quanto diretta a paralizzare la pretesa di tale condividente a partecipare alla divisione
secondo quanto gli spetterebbe ove tale donazione non avesse avuto luogo, e sia
soggetta alle preclusioni di cui all'art. 167, secondo comma, c.p.c. (Cass. civ.
28.12.2011 n. 29372). Nell’azione di riduzione, la questione relativa alla inclusione
di beni donati nel calcolo per la riunione fittizia può, pertanto, essere risolta
incidentalmente e anche d'ufficio ai soli fini dell'esatta ricostruzione della sommatoria
di relictum e donatum, mentre la richiesta della parte integra una mera sollecitazione
del potere - dovere del giudice di decidere, è implicitamente contenuta nella domanda
introduttiva, non amplia il thema decidendum e non soggiace pertanto alle preclusioni
previste per le domande nuove e per le eccezioni non rilevabili d’ufficio (Cass. civ.
12.05.1999 n. 4698; Cass. 17.06.2011 n. 13385).
Alla riunione fittizia delle donazioni si applica altresì la regola contenuta
nell’art. 748 c.c., che stabilisce che «In tutti i casi, si deve dedurre a favore del
donatario il valore delle migliorie apportate al fondo nei limiti del loro valore al
tempo dell'aperta successione. Devono anche computarsi a favore del donatario le
spese straordinarie da lui sostenute per la conservazione della cosa, non cagionate da
sua colpa. Il donatario dal suo canto è obbligato per i deterioramenti che, per sua
colpa, hanno diminuito il valore dell'immobile». La norma, dettata con riferimento
alla collazione per imputazione dei beni immobili, si ricollega direttamente alla ratio
dell'istituto: il conferimento delle donazioni, finalizzato a ricostituire il patrimonio del
de cuius, non può comprendere ciò che, essendo stato realizzato dal donatario, non è
mai appartenuto al donante, e, simmetricamente, deve comprendere ciò che il
donatario ha deteriorato, per sua colpa. La giurisprudenza della Suprema Corte ha
chiarito, sotto il profilo processuale, che il donatario il quale invochi a suo favore
l'applicazione della regola indicata nell'art. 748, primo comma, c.c., ha l'onere di
allegare il fatto a mezzo di eccezione e di provarlo, se contestato, ma non soggiace
31
alle preclusioni previste per le domande nuove e per le eccezioni non rilevabili
d’ufficio (Cass. civ. 26.11.2015 n. 24150). In passato si era sostenuta l’inapplicabilità
della regola prevista dall'art. 748 c.c. al nudo proprietario, ma tale soluzione è stata
recentemente rivisitata dalla Suprema Corte nella pronuncia sopra menzionata (Cass.
civ. 26.11.2015 n. 24150). La Suprema Corte ha evidenziato che “Il principio,
risalente a Cassazione, sez. 2, sent. n. 2621 del 1974 (che richiama Cass., sez. 2. Sent.
n. 2221 del 1971), secondo cui il donatario che abbia ricevuto la nuda proprietà del
bene immobile, con riserva di usufrutto a favore del de culus, non può invocare a suo
favore la regola sancita dall'art. 748 cod. civ., non presenta i caratteri di assolutezza
[…]. La disciplina dei miglioramenti e delle addizioni nell'usufrutto, contenuta negli
artt. 985 e 986 c.c., assume a riferimento gli interventi sul bene posti in essere
dall'usufruttuario, che si traducono, al momento della resti restituzione, in altrettanti
obblighi del nudo proprietario al pagamento di un indennizzo. E questa la ragione per
cui Cassazione n. 2621 del 1974 ha affermato che «i miglioramenti giovano
all'usufruttuario o ai di lui eredi, e non già al donatario». Situazione diversa è quella
in cui il donatario nudo proprietario deduca, come nella specie, di avere attuato a sue
spese opere sul bene oggetto di usufrutto, che ne abbiano accresciuto il valore. In tale
situazione - che può verificarsi in quanto non esiste un divieto, per il nudo
proprietario, di effettuare interventi sul bene, con il consenso dell'usufruttuario, come
desumibile dall'art. 983 cod. civ. - le opere eseguite dal nudo proprietario non
possono «giovare all'usufruttuario o ai suoi eredi», poiché ad esse non corrisponde
affatto un credito dell'usufruttuario nei confronti del nudo proprietario. Viene a
mancare, in tale situazione, la giustificazione del conferimento, in sede di collazione,
del valore corrispondente al bene donato, comprensivo di opere realizzate dal
donatario-nudo proprietario a sue spese”.
Infine, va osservato che, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, “in
tema di collazione nella divisione ereditaria, l'art 748 c.c., il quale prevede, in favore
del donatario, la deduzione, oltre che delle spese straordinarie, delle migliorie, nei
limiti del loro valore al tempo dell'aperta successione, opera tanto con riguardo alle
migliorie apportate direttamente dal donatario stesso, quanto con riguardo a quelle
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apportate da altri, e, quindi, anche dal donante, salva restando, in tale ultima ipotesi,
l'eventuale ricorrenza di una successiva liberalità, suscettibile di distinta collazione
nel concorso dei prescritti requisiti” (Cass. civ. 18.06.1981 n. 4009).
Sulla massa risultante dalla somma del valore del relictum e del valore del
donatum, è possibile, quindi, calcolare la quota indisponibile, mentre per la verifica
della lesione di legittima occorre procedere alla imputazione delle liberalità fatte al
legittimario, ai sensi dell’art. 564 c.c., salvo che il legittimario ne sia stato
espressamente dispensato (vedi, tra le altre, Cassazione civile sez. II, 1 dicembre
1993, n. 11873).
Si deve premettere che ai sensi dell’art. 564 comma 2 c.c. “il legittimario, che
domanda la riduzione di donazioni o di disposizioni testamentarie, deve imputare alla
sua porzione legittima le donazioni e i legati a lui fatti, salvo che ne sia stato
espressamente dispensato” (cosiddetta imputazione ex se, da non confondere con
l’istituto che va sotto lo stesso nome e che definisce una delle modalità con cui si può
attuare la collazione). L’imputazione non costituisce, però, un limite alla esperibilità
dell’azione di riduzione, bensì un limite al suo accoglimento; non si è al cospetto di
una condizione di proponibilità, quale è l’accettazione con beneficio di inventario
prevista nel primo comma dell’art. 564 c.c., e neppure di una condizione dell’azione.
Essa rappresenta, infatti, da un lato, un’operazione di calcolo della legittima in quanto
la quantità di beni spettanti al legittimario di diritto, in qualità di erede, sul relictum,
va diminuita in relazione all'imputazione ex se, sicché il legittimario potrà conseguire
solo un supplemento rispetto ai beni donati e, dall’altro lato, un onere a carico del
legittimario, poiché se il legittimario non imputa le liberalità ricevute in conto, non
fornisce la prova dell’avvenuta lesione dei suoi diritti di riserva (Cass. civ.
12.03.1966 n. 711; Cass. civ., sez. II, 01.12.1993, n. 11873).
Da tale disposizione, comunque, discende uno specifico onere di allegazione a
carico di chi agisce in riduzione. Infatti, come ha più volte sottolineato la
giurisprudenza di legittimità, il legittimario che propone l'azione di riduzione ha
l'onere di indicare entro quali limiti è stata lesa la sua quota di riserva, determinando
con esattezza il valore della massa ereditaria nonché quello della quota di legittima
33
violata dal testatore. A tal fine, ha l'onere di allegare e comprovare tutti gli elementi
occorrenti per stabilire se, ed in quale misura, sia avvenuta la lesione della sua quota
di riserva oltre che proporre, sia pure senza l'uso di formule sacramentali, espressa
istanza di conseguire la legittima, previa determinazione della medesima mediante il
calcolo della disponibile e la susseguente riduzione delle donazioni compiute in vita
dal de cuius (Cass. civ. 19.01.2017 n. 1357; Cass. civ. 14.10.2016 n. 20830; Cass.
civ. 30.06.2011 n. 14473). La Suprema Corte ha, nondimeno, sottolineato che il
principio invocato non possa ritenersi disconosciuto quando la situazione giuridica
sottoposta all’esame del giudice sia costituita da un’ipotesi in cui, in assenza di
preesistenti donazioni poste in essere dal de cuius, ed in presenza di un testamento
che abbia del tutto pretermesso l’attore, l’esistenza della lesione, riscontrata
esclusivamente sui beni relitti (e senza quindi dover tenere conto delle liberalità
eventualmente fatte in vita dal defunto, anche in favore del legittimario agente in
riduzione, liberalità che indubbiamente potrebbero incidere sulla concreta sussistenza
della lesione lamentata sia nell’an che nel quantum) si manifesti con evidenza anche
per quanto attiene alla sua misura, posto che va necessariamente determinata in una
percentuale corrispondente alla quota riservata per legge al legittimario agente in
riduzione, potendosi quindi parametrare la misura della riserva da tutelare nella
medesima percentuale scaturente dalla previsione normativa, da applicare in questo
caso unicamente sul relictum (Cass. civ. 03.03.2017 n. 5458).
L'onere dell'imputazione non sussiste in caso di dispensa da parte del defunto,
che consente al legittimario di trattenere le liberalità ricevute e, altresì, di agire in
riduzione per ottenere l'intera quota di legittima, conseguendo, all'evidenza, un valore
superiore a quello riservatogli dalla legge. Da taluno si è osservato che, comportando
la dispensa dalla imputazione una “espansione” della legittima, si verificherebbe una
sorta di “restrizione” della disponibile, in quanto il legittimario può essere autorizzato
a chiedere la riduzione di disposizioni testamentarie e di donazioni che altrimenti non
sarebbero riducibili. Va, nondimeno, osservato che le liberalità con dispensa dalla
imputazione non gravano sulla disponibile, ma aumentano il valore della quota di
legittima entro i limiti della disponibile. In caso contrario, infatti, non si spiegherebbe
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come tali disposizioni si sottraggano all'azione di riduzione nell’ipotesi prevista
dall’art. 552 c.c. quando il legittimario che sia stato dispensato dall’imputazione
rinunci all’eredità; in tal caso, infatti, il legislatore ha previsto che il legittimario
possa conseguire i beni ricevuti per donazione o legato entro i limiti della disponibile
anche quando, per integrare la legittima spettante agli eredi, sia necessario ridurre
disposizioni testamentarie o donazioni. Da ciò discende che l’aumento di valore della
quota di legittima a seguito della dispensa dalla imputazione attribuisce al
legittimario il diritto di trattenere le liberalità ricevute e, al contempo, di conseguire
l'intera quota di legittima solo nei confronti di soggetti beneficiari di liberalità prive
di tale esonero, poiché, nella ipotesi in cui l’azione di riduzione venga esperita nei
confronti di altri legittimari che siano stati parimenti dispensati dalla imputazione,
anche questi ultimi beneficiano dell’accrescimento della loro quota di riserva
derivante dalla dispensa, situazione di vantaggio che va tutelata anche a fronte di
un’azione di riduzione avanzata da altro legittimario. Naturalmente, la dispensa dalla
imputazione può avere effetto nei limiti in cui sia contenuta entro i limiti della quota
disponibile, poiché non è possibile che attraverso la dispensa vengano lesi i diritti dei
legittimari.
Va, infine, osservato che le clausole con le quali il donante abbia regolato
l’imputazione di una donazione, ad esempio stabilendo che essa viene effettuata “a
titolo anticipata legittima, il di più sulla disponibile”, incidono solamente sul limite
che la quota di legittima rappresenta per il potere di disposizione del de cuius, ma non
interferiscono nel rapporto tra i coeredi (Cass. civ. 10.02.2006 n. 3013; Cass. civ.
27.01.1995 n. 989; Cass. civ. 13.01.184 n. 278; Cass. civ. 02.02.1979 n. 726).
Anche con riferimento alla imputazione ex se occorre verificare come operi la
donazione modale. Comunemente si ritiene che non possono accogliersi
integralmente le conclusioni rassegnate con riferimento alla riunione fittizia, in
quanto si tratta di istituti aventi scopi diversi. Poiché l’imputazione ex se tende a
verificare se il de cuius abbia già arricchito il donatario il quale per tale motivo non
possa lamentare alcuna lesione della quota di riserva a lui spettante, si ritiene che si
debba guardare all’incremento patrimoniale che il legittimario in concreto abbia
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ottenuto con la donazione, con la conseguenza che in tutti i casi si dovrà tenere conto
del modus al fine di diminuire il valore della disposizione liberale, a meno che non
sia stato imposto a beneficio dello stesso onerato.
Effetti dell’accoglimento della domanda di riduzione
Quanto agli effetti dell’accoglimento della domanda di riduzione della
disposizione lesiva della quota di legittima, va evidenziato che essa non è nulla né
annullabile, ma ove l’azione di riduzione sia esperita vittoriosamente, viene resa
inefficace dalla sentenza di riduzione nella misura occorrente per consentire al
legittimario l'acquisizione di un patrimonio netto, calcolato al momento dell'apertura
della successione, ai sensi dell’art. 556 c.c., che soddisfi il suo diritto di legittima
(Cass. 11286/02; Cass. 5323/02; Cass. 2708/92). In particolare, l’accoglimento
dell’azione di riduzione fa rientrare nell'asse l'oggetto delle disposizioni lesive nella
misura occorrente per consentire al legittimario l'acquisizione di un patrimonio netto,
calcolato al momento dell'apertura della successione, ai sensi dell’art. 556 c.c., che
soddisfi il suo diritto di legittima. Naturalmente non possono considerarsi lesive le
disposizioni testamentarie che non eccedano la quota di cui il defunto poteva
disporre, comprendendosi in tale espressione anche il caso della disposizione con cui
si è devoluto ad uno dei legittimari quanto gli spetta di legittima. In particolare, l’art.
558 comma 1 c.c. stabilisce che “la riduzione delle disposizioni testamentarie avviene
proporzionalmente senza distinguere tra eredi e legatari” e ciò implica che la
riduzione deve essere effettuata in modo da conservare tra le disposizioni ridotte la
medesima proporzione di valore voluta dal testatore. Il comma 2 del medesimo
articolo consente, tuttavia, al testatore di derogare al criterio proporzionale stabilendo
che una disposizione debba avere effetto a preferenza delle altre, con la conseguenza
che potrà essere ridotta solo se il valore delle altre non sia sufficiente a integrare la
quota riservata ai legittimari. Muovendo dal principio che la legittima è quota di
eredità, la giurisprudenza di legittimità ha evidenziato che, dichiarata la riduzione
della disposizione testamentaria, il diritto del legittimario leso si estende a tutti i beni
ereditari ed a ciascuna parte di essi e che, conseguentemente, ogni quota deve essere
formata di una quantità proporzionale di beni mobili ed immobili esistenti nella
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massa (Cass. civ. 16.08.1948 n. 1500). E’ stato, infine, sottolineato che la riduzione
importa l’obbligo del coerede ad essa soggetto di restituire in natura gli immobili al
coerede avente diritto alla reintegrazione della sua quota legittima (Cass. civ.
15.05.1957 n. 1735), senza che si possa procedere ad imputazione del valore dei beni
che è facoltà prevista per la sola collazione (Cass. civ. 12.05.1999 n. 4698). Quando
il valore dei beni di cui è disposto per testamento non sia sufficiente, l’art. 555
comma 2 c.c. prevede la riduzione delle donazioni e tale disposizione trova la propria
ragione nel fatto che, altrimenti, si consentirebbe al de cuius di revocare in modo
surrettizio le donazioni da lui effettuate mediante delle disposizioni testamentarie
lesive dei diritti dei legittimari, anche se, nel momento in cui esse erano state
compiute, non erano lesive della legittima, in contrasto con il principio di
irrevocabilità delle donazioni. D'altra parte, si procede direttamente alla riduzione
delle donazioni qualora le disposizioni testamentarie non eccedano la quota di cui il
defunto poteva disporre. Secondo quanto stabilito dall’art. 559 c.c., la riduzione delle
donazioni si effettua in base al criterio cronologico, ossia "cominciando dall'ultima e
risalendo via via alle anteriori", finché i diritti del legittimario non siano reintegrati.
La ragione del precetto normativo - che è inderogabile - sta nel principio di
irrevocabilità delle donazioni derivante dalla natura contrattuale delle stesse: se,
infatti, la riduzione di donazioni avvenute in date diverse avvenisse
proporzionalmente, si consentirebbe al donante di revocare in parte la donazione
precedente per mezzo di una donazione successiva. Solo in caso di riduzione di
donazioni coeve la giurisprudenza ha fatto uso del criterio proporzionale (Cass. civ.,
22.06.1961 n. 1495).
Occorre al riguardo precisare che quando venga accolta l'azione di riduzione
per lesione di legittima, nel caso di donazioni indirette, non si verifica l'acquisizione
alla comunione ereditaria del bene, ma del suo controvalore. Infatti pur dovendosi
riconoscere, come si è detto sopra, che l'acquisto di un immobile con denaro del
disponente e intestazione ad altro soggetto (che il primo intende, in tal modo,
beneficiare), costituisce lo strumento formale per il trasferimento del bene ed il
corrispondente arricchimento del patrimonio del destinatario e che pertanto integra
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una donazione indiretta del bene, e non del denaro, nondimeno, alla riduzione delle
liberalità indirette non si può applicare il principio della quota legittima in natura,
connaturale invece all'azione nell'ipotesi di donazione ordinaria d'immobile (art. 560
c.c.); ne discende che l'acquisizione riguarda il controvalore, mediante il metodo
dell'imputazione, perché con l'azione di riduzione delle donazioni indirette non è
messa in discussione la titolarità dei beni donati e non si incide sul piano dalla
circolazione dei beni; viene perciò a mancare il meccanismo di recupero reale della
titolarità del bene mentre il valore dell'investimento finanziato con la donazione
indiretta, deve essere ottenuto dal legittimario sacrificato con le modalità tipiche del
diritto di credito (Cass. 12.05.2010 n. 11496; Cass. civ. 14.06.2013 n. 15026).
Azione di restituzione contro i beneficiari
L'effetto costitutivo dell'azione di riduzione si esaurisce nel rendere inefficaci
le disposizioni lesive nei confronti dei legittimari che l'abbiano chiesta, e nella misura
occorrente per reintegrare la quota agli stessi riservata. Successivamente il
legittimario che abbia ottenuto la sua quota di eredità, nella sua qualità di erede, agirà
contro i beneficiari delle disposizioni lesive per la restituzione. L’azione di riduzione
e l’azione di restituzione vanno, pertanto, nettamente distinte: la prima è un'azione di
impugnativa; la seconda una azione di condanna, che presuppone già pronunziata la
riduzione. Essendo la quota di legittima una quota di eredità, il legittimario ha diritto
normalmente di conseguirla in natura e solo eccezionalmente, se ciò non sia possibile
e nelle particolari ipotesi previste dall'art. 560 c.c., al bene ereditario o a una parte di
esso si sostituisce l'equivalente in denaro; ma, in quest'ultimo caso, il credito del
legittimario non è di valuta ma di valore e, perciò, quando si procede alla aestimatio
rei, per il soddisfacimento del diritto del legittimario, devesi aver riguardo alla
quantità di moneta occorrente per attribuirgli il valore che ha il diritto di conseguire
(Cass. civ., 16.10.1961 n. 2166).
Quando la riduzione di una disposizione testamentaria o di una donazione è
soltanto parziale, sui beni che ne costituivano l’oggetto si costituisce una comunione
e l'azione di restituzione conseguente alla riduzione svolge una funzione divisoria.
Per la divisione di tale comunione, occorre applicare le norme in tema di divisione
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dell’eredità quando essa riguardi una disposizione testamentaria a titolo universale,
mentre quando riguardi donazioni e legati, il legislatore ha stabilito delle regole
particolari per l’ipotesi in cui oggetto della disposizione lesiva sia un bene immobile.
L’art. 560 c.c. stabilisce, infatti, che “la riduzione si fa separando dall'immobile
medesimo la parte occorrente per integrare la quota riservata, se ciò può avvenire
comodamente”, mentre “se la separazione non può farsi comodamente e il legatario o
il donatario ha nell'immobile una eccedenza maggiore del quarto della porzione
disponibile, l'immobile si deve lasciare per intero nell'eredità, salvo il diritto di
conseguire il valore della porzione disponibile. Se l'eccedenza non supera il quarto, il
legatario o il donatario può ritenere tutto l'immobile, compensando in danaro i
legittimari”. Il donatario o legatario potrà, pertanto, ritenere l’immobile per intero
solo se questo non sia comodamente divisibile e se il donatario o legatario abbia
nell’immobile un’eccedenza non superiore al quarto della porzione disponibile,
mentre, ove non sussistano entrambi i suddetti requisiti l'intero bene va assegnato in
natura al legittimario, che deve provvedere al conguaglio in denaro, a favore del
legatario o donatario, in misura pari al valore della disponibile. Nel caso in cui il
donatario o legatario sia anche legittimario, il 3° comma dell’art. 560 c.c. stabilisce,
invece, che questi potrà ritenere tutto l’immobile solo nel caso in cui il valore del
bene non superi l'importo della disponibile e della quota che gli spetta come
legittimario (Cass. civ. sez. II, 20.01.1986 n. 360).
Azione di restituzione contro i terzi acquirenti
La sentenza che dispone la riduzione è dotata, entro certi limiti, di retroattività
reale, ossia produce effetti anche nei confronti dei terzi che abbiano acquistato diritti
dal destinatario della disposizione ridotta.
Riguardo ai diritti di godimento o di garanzia ed in generale a tutti i vincoli di
carattere reale o obbligatorio posti in essere dal donatario o dal legatario, l’art. 561
c.c. stabilisce che “gli immobili restituiti in conseguenza della riduzione sono liberi
da ogni peso o ipoteca di cui il legatario o il donatario può averli gravati, salvo il
disposto del n. 8 dell'articolo 2652. I pesi e le ipoteche restano efficaci se la riduzione
è domandata dopo venti anni dalla trascrizione della donazione, salvo in questo caso
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l'obbligo del donatario di compensare in denaro i legittimari in ragione del
conseguente minor valore dei beni, purché la domanda sia stata proposta entro dieci
anni dall'apertura della successione. Le stesse disposizioni si applicano per i mobili
iscritti in pubblici registri”. La norma appare, invero, espressione di un principio
generale che opera anche nel caso in cui sia l’erede a dovere restituire i beni al
legittimario a seguito dell’accoglimento della domanda di riduzione ed a prescindere
dalla natura dei beni, siano essi mobili o immobili. Naturalmente la retroattività della
riduzione fa salvi gli effetti delle norme sulla trascrizione, per i beni soggetti a
pubblicità e della regola "possesso vale titolo", per i beni mobili non iscritti in
pubblici registri (art. 1153 c.c.). Per quanto riguarda la disciplina della trascrizione
della domanda di riduzione, l’art. 2652, n. 8, con riferimento ai beni immobili,
stabilisce che “se la trascrizione è eseguita dopo dieci anni dall'apertura della
successione, la sentenza che accoglie la domanda non pregiudica i terzi che hanno
acquistato a titolo oneroso diritti in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente
alla trascrizione della domanda”, mentre l’art. 2690, n. 5, c.c., con riferimento ai beni
mobili iscritti in pubblici registri, stabilisce che “se la trascrizione è eseguita dopo tre
anni dall'apertura della successione, la sentenza che accoglie la domanda non
pregiudica i terzi che hanno acquistato a titolo oneroso diritti in base a un atto
trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda”). Ciò significa che
anche nel caso in cui i pesi e le ipoteche siano stati trascritti anteriormente alla
domanda giudiziale, ma questa sia stata trascritta, rispettivamente nel termine del
decennio o del triennio dall’apertura della successione, essi non saranno opponibili al
legittimario. A seguito della riforma introdotta dalla L. 14 maggio 2005, n. 80, la
portata della retroattività reale della riduzione è stata parzialmente temperata poiché il
legislatore ha modificato l’art. 561 c.c. prevedendo che qualora l'azione di riduzione
sia proposta decorsi venti anni dalla trascrizione della donazione (fatta salva la
sospensione prevista dal 4° comma dell’art. 563 c.c.), rimangono efficaci i pesi e le
ipoteche che gravano i beni immobili (o mobili registrati) restituiti a seguito della
riduzione; il donatario deve però compensare in denaro i legittimari in ragione del
minor valore dei beni, a condizione che il legittimario abbia agito nei dieci anni
dall'apertura della successione. Un altro limite alla portata retroattiva della riduzione
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è posta, poi, al secondo comma dell’art. 561 c.c. in materia di frutti, i quali sono
dovuti non già dalla data dell'apertura della successione, bensì dal giorno della
domanda giudiziale, presumendo il legislatore che si tratti di un possesso in buona
fede. Va osservato che l'accoglimento della domanda di riduzione non comporta
l'automatica attribuzione dei frutti, occorrendo un'espressa e rituale domanda (Cass.
civ. sez. II, 26.02.1993 n. 2453) e che il debito relativo ai frutti non è di valuta ma di
valore (Cass. civ., 16.10.1961 n. 2166)
Con riferimento alle alienazioni traslative, l’art. 563 c.c. stabilisce, invece, che
se colui contro il quale è stata pronunciata la riduzione ha alienato a terzi i beni
oggetto della disposizione ridotta, la sentenza di riduzione non ha effetto immediato
contro gli aventi causa, ma per ottenere la restituzione di detti beni, il legittimario
deve proporre un'ulteriore domanda nei confronti dei terzi acquirenti. Anche la norma
citata si riferisce espressamente ai donatari, si ritiene che essa è applicabile anche alle
alienazioni fatte da eredi testamentari o da legatari (Cass. civ. sez. II, 22.03.2001 n.
4130). Secondo l'opinione prevalente, l'azione di restituzione ha natura reale in
quanto il legittimario può perseguire il bene nei confronti di ogni subacquirente,
anche se in dottrina è autorevolmente sostenuta pure la tesi che ne propugna la natura
personale. Presupposti per l'esercizio dell'azione di restituzione contro i terzi
acquirenti sono: a) una sentenza di riduzione (passata in giudicato) contro l'erede, il
donatario o il legatario; b) l'avvenuta alienazione traslativa del bene da parte del
beneficiario della disposizione ridotta; c) la preventiva escussione dei beni del
soggetto contro il quale è stata pronunciata la riduzione: se questi non è più in
possesso della cosa è tenuto a pagarne l'equivalente, e solo la sua insolvenza rende
possibile agire contro il terzo acquirente. Al fine di favorire la circolazione dei beni
donati, la L. 14 maggio 2005, n. 80 ha limitato la portata della norma, stabilendo che
l’azione di restituzione nei confronti dei terzi acquirenti è esperibile solo entro venti
anni dalla trascrizione della donazione; decorso tale termine – e salvo quanto previsto
dal 4° comma del medesimo articolo – il legittimario, esperita vittoriosamente
l'azione di riduzione – non può più ottenere dal terzo avente causa del donatario la
restituzione degli immobili, ma solo il pagamento, a carico del donatario,
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dell'equivalente in denaro, con la conseguenza che l'incapienza del patrimonio di
quest'ultimo comporta di fatto l'impossibilità per il legittimario di soddisfare i suoi
crediti. Il 4° comma dell'art. 563 c.c. prevede peraltro che il decorso del predetto
termine ventennale rimanga sospeso nei confronti del coniuge e dei parenti in linea
retta del donante, che abbiano notificato e trascritto, nei confronti del donatario e dei
suoi aventi causa, un atto stragiudiziale di opposizione alla donazione. Il diritto di
opposizione viene qualificato come “personale e rinunziabile” e l’opposizione ha
effetto per vent'anni dalla sua trascrizione, dopo di che perde effetto se non viene
rinnovata.
Ove sussistano i presupposto indicati dall’art. 563 c.c., il legittimario può
chiedere la restituzione dei beni ai terzi acquirenti, nel modo e nell'ordine in cui
potrebbe chiederla ai destinatari delle disposizioni ridotte e ciò significa che sono
applicabili le norme contenute negli artt. 560, 561, 555, 2° comma, e 559 c.c.. Se le
alienazioni compiute sono più di una, l'azione si deve proporre secondo l'ordine
temporale delle alienazioni, incominciando dall'ultima. Il terzo acquirente può, però,
liberarsi dall'obbligo di restituire in natura le cose donate pagando l'equivalente in
danaro (comma 3 art. 563 c.c.). Inoltre, come nell’ipotesi prevista nell’art. 561 c.c., la
retroattività della riduzione fa salvi gli effetti delle norme sulla trascrizione, per i beni
soggetti a pubblicità, e della regola "possesso vale titolo", per i beni mobili non
iscritti in pubblici registri.
L’art. 562 c.c. prevede, infine, il rischio di insolvenza del donatario che abbia
subito la riduzione, ripartendo le conseguenze negative fra il legittimario ed i donatari
precedenti. Esso stabilisce, infatti, che “se la cosa donata è perita per causa
imputabile al donatario o ai suoi aventi causa o se la restituzione della cosa donata
non può essere richiesta contro l'acquirente, e il donatario è in tutto o in parte
insolvente, il valore della donazione che non si può recuperare dal donatario si detrae
dalla massa ereditaria, ma restano impregiudicate le ragioni di credito del legittimario
e dei donatari antecedenti contro il donatario insolvente”. Infatti, la detrazione del
valore del bene donato dalla massa ereditaria comporta una proporzionale
diminuzione delle quote dei legittimari, i quali possono chiedere la riduzione delle
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donazioni anteriori, ma in misura minore di quella in cui si sarebbe dovuta ridurre la
donazione fatta all'insolvente. L'insolvenza rilevante ai fini della norma in esame è
quella esistente al momento dell'apertura della successione, mentre l'insolvenza
successiva resta a carico del legittimario, così come le diminuzioni di valore e il
perimento dei beni oggetto delle disposizioni riducibili, sopravvenuti per caso fortuito
dopo l'apertura della successione.
L’azione di riduzione e la successione del coniuge
In base all’art. 540 comma 1 c.c. “a favore del coniuge è riservata la metà del
patrimonio dell’altro coniuge”. Inoltre l’art. 540 comma 2 c.c. attribuisce al coniuge
il diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che
la corredano. Tale disposizione pone rilevanti problemi interpretativi e la prima
questione da risolvere attiene alla individuazione del titolo della chiamata del coniuge
superstite nelle situazioni giuridiche attive aventi ad oggetto l’abitazione familiare ed
i suoi arredi. Secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. civ.,
sez. II, 15.05.2000, n. 6231; Cass. civ., sez. II, 23.05.2000, n. 6691 Cass. civ., sez. II,
06.04.2000, n. 4329), l'attribuzione dei diritti di abitazione e di uso costituisce, nella
successione necessaria, una vocazione a titolo particolare, autonoma rispetto alla
chiamata nell’intero o in una quota del patrimonio ereditario che, quando non si
traduce in una specifica disposizione testamentaria, dà luogo ad un legato ex lege in
favore del coniuge, che rientra tra “gli altri diritti nella successione” cui allude l’art.
536 c.c.; di conseguenza, trattandosi di legati di specie, il coniuge superstite può
invocarne l'acquisto ipso iure, ai sensi dell'art. 649 c.c., commi 1 e 2, senza dover
ricorrere all'azione di riduzione, fatta comunque salva la facoltà di rinuncia. Ci si
domanda, poi, se la chiamata determini o meno a vantaggio del soggetto beneficiario,
un incremento della quota di riserva già spettategli in piena proprietà quale erede
necessario. L’opinione dominante, prendendo le mosse dalla lettera della legge, è nel
senso che tali diritti costituiscono un quid pluris che modifica sia sotto il profilo
qualitativo che sotto il profilo quantitativo la riserva spettante al coniuge superstite.
In tal modo si incide notevolmente sulle modalità di calcolo della quota complessiva
del coniuge quale erede necessario ed in proposito l’art. 540 comma 2 c.c. precisa che
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“tali diritti gravano sulla porzione disponibile e, qualora questa non sia sufficiente,
per il rimanente sulla quota di riserva del coniuge ed eventualmente sulla quota
riservata ai figli”; ciò significa che si realizza un fenomeno analogo, quanto agli
effetti, all’istituto della dispensa dall’onere dell’imputazione previsto dall’art. 564
comma 2 c.c., in favore del legatario che riunisca in sé anche la qualità di
legittimario; inoltre, laddove la casa ed i mobili esauriscano l’intero attivo ereditario,
la quota di riserva dei figli dovrà constare necessariamente di una quota di nuda
proprietà di tali beni, mentre la circostanza che i diritti di abitazione e di uso gravino
prima sulla quota di riserva del coniuge e poi su quella dei figli rende palese l’intento
legislativo di accordare la prevalenza ai diritti di abitazione e di uso anche a scapito
della quota in piena proprietà spettante al coniuge, pur di soddisfarlo nelle sue
peculiari esigenze esistenziali. Alcuni autorevoli studiosi hanno, viceversa, sostenuto
che i diritti di abitazione e di uso costituirebbero un prelegato ai sensi dell’art. 661
c.c. con la conseguenza che il coniuge superstite avrebbe diritto di conseguire tale
legato nella sua interezza, prima della divisione ereditaria, fermo il diritto a
conseguire la quota ereditaria, ma nella massa da dividere non si deve tenere conto di
tale conferimento a vantaggio del coniuge, ma tale tesi contrasta con la lettera della
legge che non addossa l’attribuzione in modo indistinto e proporzionale su tutti gli
eredi. La giurisprudenza di legittimità ha accolto la tesi dottrinale prevalente ed ha
riconosciuto alla intangibilità qualitativa di tali diritti in favore del coniuge superstite,
prevista dall’art. 540 comma 2 c.c., una duplice funzione: suppletiva contro eventuali
disposizioni lesive, ed integrativa nel senso che “il godimento di tali diritti debba
essere avvalorato in aggiunta alla quota di riserva spettante al coniuge superstite,
risultante dalla divisione della massa ereditaria al netto di quel valore” (Cass. civ. sez.
II, 23.05.2000 n. 6691; Cass. civ. sez. II 6.04.2000 n. 4329).
dott. Corrado Bonanzinga