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Filosofia delle religioni Paolo Belli L’esperienza religiosa di Gautama

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Filosofia delle religioni

Paolo Belli

L’esperienza religiosa

di

Gautama

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Prefazione

“Siamo tutti potenzialmente anime malate. I più sani e migliori di noi sono della

stessa pasta dei carcerati e dei pazzi “ (1).

Sono frasi indicative di William James di come intenda la salvezza: attraverso un

processo divino ed umano al tempo stesso.

James affronta come Psicologo il processo di coscienza dell’uomo e delle esperienze

religiose. In questi ultimi casi ne dà una spiegazione attraverso un metodo empirista e

intuitivo. La coscienza per James è un insieme di pulsazioni unitarie con flusso

continuo.

Tutte le cose pensate in relazione sono pensate fin dall’inizio in un’unità e nello

stesso tempo novità. Ciascuna pulsazione d’esperienza è unica e singolare entro un

alone che serve a far intendere la continuità ma anche la novità.

La concezione tipica della mente come flusso di coscienza è presente anche nella

psicologia buddhista e bràhmanica.

Queste identità di vedute proseguono, quando si considera il Self come problema

dell’identità personale, perché si ritrova la novità e la continuità d’ogni momento del

flusso di coscienza.

Gli empiristi si fermano alla molteplicità dei dati psichici legati da leggi

dell’associazionismo, gli spiritualisti e gli idealisti postulano un’Anima o Io

trascendentale che istituisca fra di loro relazioni.

Rispetto loro, James costituisce una “restaurazione del vago e dell’intederminato”

come compito della sua psicologia introspettiva.

Gli associazionisti, non riescono a dare conto dell’identità dell’Io e gli idealisti lo

pongono in un luogo della psiche non accessibile alla sperimentazione.

James, invece, propone la visione relazionale distinguendo l’Io materiale (senso del

corpo e quello che gli appartiene), l’Io sociale (il riconoscimento che l’Io ottiene da

parte dei propri simili) e l’Io spirituale (il mondo della coscienza, abitudini personali,

ciò che si pensa di essere veramente).

L’Io spirituale è l’Io di tutti gli altri Io.

E’ il possessore reale che va cercato dentro il flusso temporale e non fuori, come una

sostanza o un Io pura forma, ma nel flusso stesso.

Esso è nella forma di qualcosa che non fa parte degli oggetti della collezione. E’ il

reale. Questo è verificabile da ogni pensiero che nasce dal precedente e muore nel

successivo, trasmettendo tutto ciò che conosce al successore nella dimensione

intrascendibile della coscienza.

Vi è novità nella coscienza e continuità con i momenti che la precedono e che la

seguono. Ogni momento ha una sua identità e irriducibilità agli altri, eppure non è

mai rispetto a loro completamente nuovo.

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Sebbene James non abbia definito completamente alcune questioni, il suo contributo

è stato raccolto da A. N. Whitehead (1861- 1947) che ha utilizzato la nozione di

processo, di relazione, attraverso una logica duale per stabilire la coscienza come

forma soggettiva che “concresce” con altro.

La coscienza (l’Io) è frammentata e nello stesso tempo è la totalità medesima dentro

un processo relazionale: tutto è ovunque in ogni momento (2).

Un evento, pur temporale, è presente nella totalità ed ogni ambiente riceve un

contraccolpo dall’ambiente più remoto e più distante dell’universo perché il processo

è unico.

La coscienza svolge un duplice ruolo: ci si sente separati dall’ambiente (in questo

caso i pensieri), ma ci si riconosce parte del processo e annulla la separazione con

l’ambiente.

Il presente riceve il passato e costruisce il futuro attraverso una creatività costante,

dove il tempo diventa la “mobile immagine dell’eternità”.

Con la stessa logica, il singolo pensiero è anche la totalità, in questo caso la coscienza

stessa. Non vi è contrapposizione ma collaborazione. Così il passato è sempre nel

presente e viceversa.

Concezione questa sottoscritta dal buddhismo e che James intravede, con

l’assunzione che la nostra vita cosciente è solo una piccola parte di un ambito più

ampio e profondo che è l’Io subliminale o subconscio.

E’ proprio lo studio della natura umana l’interesse principale di James, gli stanno in

cuore le esperienze individuali e in particolare quelle religiose.

La teoria dell’inconscio, dell’Io o Sé subliminale gli deriva dai suoi studi di

parapsicologia ancorché dalla sua sensibilità introspettiva e intuitiva.

In linea con l’intuizionismo bergsoniano che rivendicava l’autonoma creatività della

vita spirituale e assieme alle scoperte della psicologia dinamica, James allargò

progressivamente il campo dell’osservazione scientifica. Affinò i metodi d’indagine

mantenendosi in un’impostazione di darwinismo adattato; pertanto considerò la

religione come un’essenziale funzione biologica che andava studiata come un

elemento espressivo della più generale natura umana.

Nel 1882, nella Londra vittoriana, fu fondata la Society for Psychical Research da

prestigiosi studiosi come: Henry Sidwick e Sir William Barret, James vi prese parte

attraverso vari studi.

Secondo questa società tutta una serie di fenomeni religiosi, dalle conversioni alle

guarigioni spontanee, dalle premonizioni alle apparizioni spiritiche si spiegavano

dall’irruzione del Sé subliminale nel conscio. James definì la coscienza come una

piccola isola persa nel gran mare dell’inconscio. La metafora dell’oceano sempre in

contatto con la terra, nello stesso tempo, fa intuire l’energia di quelle gigantesche

onde (le passioni) che talora la sconvolge.

E’ da questo mondo misterioso e sommerso che emergono quegli influssi che

determinano la vita conscia.

E’ lì che hanno origine e sede le passioni più oscure, gli impulsi, i sentimenti e tutto

quello che non può essere racchiuso nella ragione.

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E’ sotto questo profilo che James, trascurando il momento genetico “la mitologia

dell’origine”, nel testo Le varie forme dell’esperienza religiosa le descrive cercando

le cause della loro persistenza. Paga il suo debito a Darwin ritenendo le religioni

come funzioni biologiche dell’umanità che rispondono ad esigenze collettive e

individuali, ma è lontano dal puro funzionalismo di Durkeim.

Quello che interessa a James è l’esperienza religiosa individuale dove si scava alle

radici del fenomeno religioso e si delimita l’oggetto della credenza.

Ed è quando si tratta della sick soul, dell’anima malata, del Sé diviso, com’esperienza

del dolore di base nell’uomo, ma da cui può uscirne, che si ritrova una psicologia e

filosofia comune a diverse religioni. E’ il caso dell’esperienza religiosa fondante il

buddhismo, quella del Principe Gautama, che mi permetterà quest’excursus.

Paolo Belli

L’illuminazione di Gautama

In cosa consiste l’esperienza religiosa accaduta al Principe Gautama? Può essere

compresa su un piano pragmatico e psicologico? Per evitare equivoci occorre

inquadrare l’argomento.

L’esistenza storica di Gautama, poi chiamato il Buddha, è un dato accertato, ma altre

informazioni devono essere sottoposte a dubbio.

Questo crea non pochi problemi soprattutto quando si voglia scandagliare

un’esperienza di tale genere.

I singoli eventi e l’illuminazione, forse il più interessante, sono filtrati dal mito e

leggende che si sono costituiti soprattutto in un certo tipo di religiosità buddhista.

Non è possibile eliminare completamente le intrusioni d’elementi magici e fiabeschi,

perché miracoli o azioni prodigiose sono parti dell’agiografia che altera la prospettiva

storica. Inoltre le fonti, tutte del Canone buddhista sono partigiane e molto posteriore

rispetto agli avvenimenti.

E’ pur vero che vi fu una tradizione orale prima degli scritti, ma non depone a favore

dell’autenticità.

Lo stesso buddhismo delle origini, legato alla figura del fondatore, potrebbe essere

stato molto diverso dai suoi sviluppi, canonici e scolastici. Questa possibilità del

resto, è tranquillamente ammessa dagli storici (3).

Per cui non si dispongono delle dirette parole del Buddha, che come Socrate non

scrisse nulla, ma solo trascrizioni, esperienze di saggi, commenti di studiosi come

Carl Gustav Jung, Mircea Eliade, il Canone Buddhista in lingua pali che non era

certo l’idioma del Principe e, non da ultimo, James come mentore.

Oltre ai dati mi affiderò anche all’intuizionismo, come metodo, simile a James.

Così pur non disponendo di dati certissimi, nell’ambito della realtà storica, posso

attingere preziosi insegnamenti dallo stile di vita di colui che è stato definito come

Siddharta, il Maestro, il Risvegliato, il Beato, ecc.

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Tali dati saranno calati nella nostra realtà psichica in riferimento all’attuale periodo

post-moderno.

Siamo nel 528 a.C. è la fatidica notte in cui Siddharta diventa un Buddha.

La tradizione sostiene che l’asceta aveva compiuto 35 anni e coincise con il primo

plenilunio del mese di Vesàkha (aprile-maggio); poiché, anche la nascita di Siddharta

sarebbe avvenuta nello stesso giorno, l’indicazione non va presa alla lettera e se ne

coglie solo il valore simbolico.

Il Canone Buddhista nel capitolo del Risveglio (bodhi), afferma per audizione: “così

da me è stato udito” che il Beato si trovava ad Aruvelà, sulla riva del fiume

Neranjarà, ai piedi dell’albero della Bodhi (l’albero di pippala) (4).

Ora, in quell’occasione, il Beato rimase assiso per sette giorni in una particolare

posizione, che è quella detta del fiore di loto, sperimentando la beatitudine della

Liberazione.

La permanenza di sette giorni nel luogo dell’illuminazione è un elemento rituale

caratteristico, dell’antica India, dei sovrani consacrati dal battesimo regale

(abhiseka). Il Buddha viene, infatti, considerato alla stregua di un Sovrano Universale

(chakra-vartin, volgitore di ruota) e, come tale, furono tributati onori regali alla sua

salma.

Il Beato, trascorsi quei sette giorni, durante la prima vigilia della notte, riprendendosi

dall’estasi meditativa (samadhi) volse con concentrazione il pensiero alla nascita

delle cause condizionate (in pali: paticca-samuppàda).

Si rivolse alle cause dell’esistenza, da dove proviene, secondo un ordine diretto

esaminò il corpo.

Vide che ogni cellula è come una goccia d’acqua immersa nel fiume infinito di

nascita, esistenza e morte, senza riuscire a trovare nel corpo una sola cosa che

rimanga immutata o di cui sia lecito dire che costituisca un sé separato.

Mescolato con il fiume del corpo scorre il torrente delle sensazioni, in cui ogni goccia

d’acqua è una sensazione e, anche queste gocce si accavallano in un processo di

nascita, esistenza e morte.

Alcune sensazioni sono spiacevoli, altre piacevoli e altre ancora neutre, ma tutte sono

impermanenti (in pali: anicca). Appaiono e scompaiono, precisamente come le

cellule del corpo.

La concentrazione di Gautama investigò il fiume delle percezioni, che scorre

intrecciato al torrente del corpo e delle sensazioni.

Le gocce del fiume delle percezioni si frammischiano influenzandosi l’un l’altra, in

un identico processo di nascita, esistenza e morte.

Quando le percezioni sono accurate, la realtà si rivela; se sono distorte, la realtà si

vela.

Il messaggio è: gli uomini sono eternamente presi dalla sofferenza a causa della

percezione distorta. In psicoterapia questo è un fatto.

In una nevrosi sarebbe sufficiente percepire il problema in prospettiva differente per

la guarigione.

Il Buddha va ancora più in profondità, va all’origine della sofferenza umana.

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L’uomo soffre perché crede permanente ciò che è impermanente, dotato di un sé

quello che è privo di un sé, soggetto a nascita e morte ciò che non soffre e divide ciò

che non si può dividere.

Non è l’illusione (maya) del brahmanesimo, (questa percezione errata), ma una

condizione dovuta all’ignoranza (avijjà), cui si può porre fine.

Il Maestro, quindi, illuminò la catena dell’uomo che parte dall’ignoranza e

condiziona gli elementi dell’esistenza (sankhàra) in pratica l’intenzione d’agire,

questi condizionano la coscienza (vinnàna) che condiziona nome-forma (nàma-rùpa).

Nome-forma condizionano le sei sfere d’azione sensoria (salàyatana = i cinque sensi

più il mentale), condizionata dalle sei sfere d’azione sensoria è la percezione (phassa)

che, a sua volta, produce il contatto sensoriale (vedana = sensazione).

La sensazione condiziona la sete d’esistenza (tanhà = desiderio); condizionata dalla

sete d’esistenza è il legame verso una particolare vita (upàdanà); che produce

l’esistenza (bhava); l’esistenza produce la nascita (jàti); la nascita di conseguenza

porta a vecchiaia e morte (jarà-marana), dolore, lamento, sofferenza, tormento e

disperazione.

Il Beato avendo intuito tutto ciò affermò che quando si rivelano gli elementi della

realtà (in pali: dhamma, in sanscrito: dharma), al bràhmana (asceta), attraverso

l’ascesi meditativa, allora svaniscono i suoi dubbi, perché conosce e sperimenta

direttamente la realtà e le sue cause.

Proprio come uno scienziato nel suo laboratorio che ricerca le cause di un fenomeno,

il Buddha indica il metodo di sperimentazione diretto tramite il corpo.

Il corpo è necessario per la pratica meditativa, non è un oggetto dal quale proviene il

male, perciò non occorre disfarsene come avviene in alcune religioni.

Al contrario è il mezzo più efficiente, ma non il solo, utile alla Liberazione.

Vi è una rivalutazione del corpo nel buddhismo che avrà il suo massimo fulgore nel

Tantrismo tibetano (vajrayana).

Successivamente il Beato, sorto dall’estasi meditativa, durante la vigilia di mezzo

della notte, volse attentamente il pensiero alla nascita condizionata delle cause in

senso inverso.

Nel senso che se non vi è la condizione di essere dell’ignoranza, allora cessano tutti

gli elementi dell’esistenza: il Male.

L’ardente ascesi meditativa porta al dileguarsi delle cause.

Si scopre: “quando c’è questo, si verifica questo. Quando questo non c’è, quest’altro

non c’è; quando questo cessa, quest’altro cessa”.

Tutto è condizionato dall’ignoranza, per questo cessando l’ignoranza l’asceta diventa

come il sole quando irraggia nel cielo.

Ma a quale metodo fa riferimento il Buddha come mezzo di Liberazione?

E’ la stessa domanda che un bràhmano di passaggio in parte pose.

Avvenne che un certo bràhmano della scuola Huhumka-jàti, (coloro che praticavano

una giaculatoria mistica mantrica Hum la cui ripetizione meditata è ritenuta valida per

aprire il varco verso esperienze superiori), si avvicinò al Buddha e si pose accanto a

lui in piedi come segno di rispetto.

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Stando in piedi gli chiese: “ Ti prego, caro Gautama, in che misura si può dire che

uno è bràhmano e quali elementi costituiscono un bràhmano?”

Sinteticamente il Buddha rispose che i veri bràhmani sono i risvegliati, che hanno

distrutto i legami, attraverso una costante consapevolezza.

La stessa risposta, quindi il medesimo mezzo e lo stato interiore, fu ripetuta quando il

Beato dimorava presso Ràjagaha nel Bosco dei Bambù, al venerabile Mahà-Kassapa.

In altre occasioni, a Pàtalì, presso il tempio Ajakalàpa, a Savatthi nel bosco Jeta,

a Gayà un luogo dove si facevano bagni di purificazione, fu udita la stessa risposta:

mediante la scienza di se stesso, attraverso la “Consapevolezza” il bràhmano si libera

da forma e non forma, da piacere e dolore.

La suprema felicità consiste nello sciogliersi dell’Io.

Vedendo la natura interdipendente di tutti i fenomeni, il Buddha ne vide perciò la

natura vuota.

Tutte le cose sono vuote di un sé separato e isolato e, paradossalmente, ogni singola

cosa è piena di tutte le cose.

Comprese che la chiave della liberazione sta nei due principi dell’interdipendenza e

del non sé.

Illuminando i fiumi del corpo, delle sensazioni, delle percezioni, delle formazioni

mentali e della coscienza, Siddharta comprese che l’impermanenza e l’assenza di un

sé sono le condizioni indispensabili alla vita.

Senza impermanenza, senza mancanza di un sé, nulla potrebbe crescere ed evolvere.

Se un chicco di riso non avesse la natura dell’impermanenza e del non sé, non

potrebbe trasformarsi in una piantina.

Se le nuvole non fossero prive di un sé e impermanenti, non potrebbero trasformarsi

in pioggia (5).

Senza natura impermanente e priva di un sé, un bambino non potrebbe diventare

adulto. Nonostante tutto si giunge alla comprensione che non c’è nascita né morte.

Né creazione né distruzione.

Né grande né piccolo, né puro né impuro.

Queste sono tutte distinzioni create dalla Mente, che la scuola Buddhista

Vijnanavàda, della “Mente sola” (o Cittamatra, Yogàcàra), specificherà con piglio

psicologico.

Grazie, dunque, alla consapevolezza mentale, la mente, il corpo e il respiro di

Siddharta erano completamente unificati.

La pratica della consapevolezza l’aveva reso capace di sviluppare grandi poteri di

concentrazione, che ora poteva usare per illuminare corpo e mente.

La cronaca afferma, sempre per via d’audizione, che entrato in samadhi iniziò a

percepire la presenza d’infiniti altri esseri, nel momento presente, entro il suo stesso

corpo. Esseri organici e inorganici, minerali, muschi, erbe, insetti, animali persone:

tutto era dentro di Lui.

Vide che gli altri, in quel preciso momento, erano se stesso.Vide le proprie vite

passate, con tutte le nascite e le morti.

Assistette alla creazione e alla distruzione di migliaia di mondi e di migliaia di stelle.

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Provò le gioie e le pene di tutti gli esseri viventi. Vide che ogni cellula del corpo

conteneva tutto ciò che è nel cielo e nella terra.

Passato, presente e futuro sono tutt’uno. Gautama si calò ancora più profondamente

nella meditazione.

Vide come innumerevoli mondi nascono e muoiono, come sono creati e distrutti.

Vide gli esseri innumerevoli passare attraverso nascite e morti incalcolabili.

Comprese che le nascite e le morti sono solo apparenze e non la realtà.

Tale comprensione gli consentì di trascendere la rete della nascita e della morte.

C’è in questa parte della cronaca, una percezione dell’universo che è confermata dalla

fisica quantistica.

Fritjof Capra nel suo testo Il Tao della fisica, afferma che nello spazio-tempo, tutto

ciò che per ciascuno di noi costituisce il passato, il presente e il futuro è dato in

blocco. In ambito quantistico, con poderosi microscopi e sofisticatissimi impianti di

ricerca molecolare, le particelle osservate possono muoversi in avanti e indietro nel

tempo. Proprio come possono muoversi a destra e a sinistra dello spazio attraverso

una serie d’eventi interconnessi. Spazio e tempo sono del tutto equivalenti (6).

Affermazione questa condivisa dai mistici. Chuang tzu sostenne: “ occorre

dimenticare il trascorrere del tempo”. Swami Vivekananda affermò che tempo, spazio

e causalità sono la lente attraverso la quale si vede l’Assoluto, nell’Assoluto in se

stesso non c’è né spazio-tempo né causalità.

Misticismo orientale e la fisica relativistica si liberano del tempo. Tutto ciò è

possibile attraverso l’intuito che è legato allo spazio di una dimensione superiore ed

è, quindi, senza tempo.

Allo stesso modo, quando nella fisica i diagrammi quantistici sono letti come figure

quadridimensionali prive di una direzione definita nel tempo, non c’è un primo né un

dopo e quindi nessuna relazione di causalità.

Le particelle sub atomiche sono processi, di per sé non sono, tutte le cose composte

sono precarie, idem per il buddhismo e il taoismo. Le cose sono stadi transitori nel

perenne fluire del Tao.

La massa, la materia, è una forma d’energia che può trasformarsi in altre forme

d’energia.

La creazione e distruzione delle particelle materiali è una delle conseguenze

dell’equivalenza tra massa ed energia.

Per cui la massa è vista come pacchetto d’energia, ma poiché questa è associata ad

attività e processi, è implicito che la natura delle particelle sub atomiche sia dinamica.

Le particelle non devono essere rappresentate come oggetti tridimensionali, ma

com’entità quadridimensionali nello spazio-tempo, perché le loro forme sono

dinamiche.

Questa dinamicità le fa vedere come aspetto solido e porta a credere che siano

strutture stabili e materiali, quando osserviamo gli atomi non si vede nessuna

sostanza, vi sono solo forme dinamiche che si trasformano incessantemente l’una

nell’altra.

L’universo è dinamico, in una rete inestricabile di relazioni.

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Il “materialismo medico” contro di cui James lanciava le sue critiche è sconfitto dalla

stessa scienza. Il Buddha non può essere tacciato come visionario o schizofrenico

come fecero per santa Teresa.

Questo tipo di visione e percezione cosmica non è un sintomo di colon disordinato, se

non per chi la neghi.

E’ opportuno essere onesti e basarsi sui fatti, valutiamoli empiricamente.

I mondi che nascono e muoiono costantemente, la nascita e la morte come inesistenti

per se stessi è affermato dall’esperienza religiosa del Buddha e dalla fisica

quantistica, attraverso la via sperimentale.

Einstein e la teoria dei campi, mostrano entrambi che le particelle non possono essere

separate dallo spazio che le circonda.

Il campo è il vuoto dal quale il protone crea il mesone. Le particelle si generano

spontaneamente dal vuoto e svaniscono in questo, senza che vi siano altre particelle.

Alcune particelle emergono dal vuoto e tornano al nulla. Questi eventi avvengono di

continuo.

Così il vuoto non è vuoto, al contrario, contiene un numero illimitato di particelle che

sono generate e scompaiono in un processo senza fine.

In quest’aspetto della fisica c’è la più stretta corrispondenza con il non Sé e

l’interdipendenza, sperimentata dal Buddha.

Il metodo del Buddha è dunque la sperimentazione, ma di che tipo è la conoscenza?

Conoscere è vedere con gli occhi del Buddha

Occorre stabilire di che tipo di conoscenza stiamo parlando e quali dati sperimentali

si possono scegliere.

Vi sono teorie scientifiche, testi religiosi, miti, trattati filosofici con linguaggi

completamente diversi per esprimere la conoscenza. Procediamo con ordine.

Nel corso della storia si è costatato che la mente dell’uomo è capace di due tipi di

conoscenza. Vi sono due modalità di conoscenza chiamate rispettivamente: razionali

e intuitive, tradizionalmente associate alla scienza e alla religione.

In Occidente, la conoscenza intuitiva (il tipo religioso) non è tenuta in gran

considerazione, privilegiando la conoscenza scientifica. Al contrario, l’atteggiamento

orientale tradizionale è in genere l’opposto.

La conoscenza razionale è ricavata dall’esperienza quotidiana. Essa appartiene al

campo dell’intelletto, la cui funzione è di discriminare, dividere, confrontare,

misurare e ordinare in categorie. Aristotele docet!

In questo modo si producono molte distinzioni intellettuali; opposti che possono

esistere solo l’uno in rapporto all’altro.

La caratteristica di questo tipo di conoscenza è l’astrazione. Infatti, per poter

confrontare e classificare l’immensa varietà di forme, di strutture, di fenomeni non si

possono prendere in considerazione tutti gli aspetti. Occorre prendere in

considerazione solo alcuni aspetti indicativi. Chi può dire con certezze quali siano?

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In ogni caso, se ne devono tralasciare altri che sono parimenti importanti.

Secondo Whitehead, in tal modo si perde di vista il concreto, l’elemento relazionale.

Così tali astrazioni sono scambiate per realtà effettiva.

Si arriva ad una concretezza mal posta che non permette di spiegare il passaggio da

uno stato all’altro.

Il tempo, afferma Whitehead, è un concetto irrazionale: “Le cose sono separate dallo

spazio e sono separate dal tempo: ma esse sono altresì insieme nello spazio e insieme

nel tempo, anche se non sono contemporanee” (7). Così il tempo è la successione

d’elementi in se stessi divisibili e contigui.

La conoscenza razionale è pertanto un sistema di concetti e simboli, caratterizzata

dalla struttura lineare e consequenziale tipica del modo di pensare e d’agire.

Il linguaggio stesso, l’uso degli alfabeti, la rende evidente, perciò si costruisce una

mappa del territorio ed è scambiata per la realtà.

E’ chiaro che il nostro sistema astratto di pensiero concettuale non potrà mai

descrivere e comprendere l’esperienza religiosa di Gautama.

Al più ci si può attendere solo un’approssimazione, una rappresentazione limitata

della realtà.

La visione dell’Illuminazione è un’esperienza diretta della “essenza assoluta”,

indifferenziata, indivisa, indeterminata.

La realtà ultima non può mai essere oggetto di ragionamento o di conoscenza

dimostrabile.

Né può essere descritta adeguatamente con parole, perché essa è di là dei sensi e

dell’intelletto, ma certamente l’inconscio svolge un ruolo fondamentale, proprio

perché è l’irrazionale per eccellenza.

Da questa fonte ci perviene la conoscenza intuitiva. La conoscenza assoluta è quindi

un’esperienza della realtà totalmente non intellettuale.

Un’esperienza che nasce da uno stato di coscienza non ordinario, che può essere

chiamato uno stato meditativo o mistico.

Vi è conferma che uno stato di questo tipo esista, non solo è testimoniato da numerosi

mistici in Oriente e in Occidente, ma è anche indicato dalla ricerca psicologica, come

dice James: “E’ un’esperienza solenne” (8).

Lo spirituale nell’uomo è generalmente inconscio, in questo inconscio, che Jung

definisce collettivo, l’uomo è già in relazione con il Divino, basta abbandonarsi,

arrendersi, non lottare e questo emerge alla luce della coscienza.

Tuttavia se il metodo dell’abbandono è praticato dai mistici taoisti, dai Sahajia Yogi,

dai Derwishi e da alcuni santi in Occidente, il Buddha indica un metodo ascetico

definito “la Via di mezzo”.

Tale percorso esclude il rigoroso ascetismo e il completo abbandono alla fede, intesa

come dogma.

E’ un percorso spirituale su base scientifica, dove si valuta costantemente se stessi

con una consapevolezza costante. Tenera e amorevole.

Non posso scandagliare l’emozione del Buddha rimanendone fuori o tentando di

indovinarne i contenuti esperenziali, bensì, pur mantenendo la mia laicità, osservo e

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compartecipo empaticamente all’esperienza e provo a scandagliare al meglio

possibile descrivendo ciò che succede. E’ il criterio di studio di James.

E’ l’altro tipo di conoscenza: quell’intuitiva.

Il fallimento della logica fu espresso da una delle principali correnti del buddhismo

Mahayana: la Màdhyamika o Sunyavàda, conosciuta come la Dottrina del vuoto, ma

anche come Via di mezzo.

Gli insegnamenti della Scuola del vuoto furono sistematizzati da Nàgàrjuna (2° sec.

d. C.) nella Madhyamaka Kàrikà “ Strofe del cammino di mezzo” e nella Vigraha

Vyàvartanì “La sterminatrice di dissensi”, in cui attraverso una dialettica veramente

raffinata, dimostra che tutte le affermazioni sono ugualmente insostenibili.

Si conduce la logica al punto in cui essa si ribella a se stessa, riducendo così

all’assurdo le varie opinioni. Nel momento in cui ogni opinione sarà abbandonata

(come la dottrina della produzione condizionata del Buddhismo originario), si

conseguirà l’Illuminazione.

Si comprende che ogni cosa è priva di natura propria (svabhàva) e vuota (sùnya), in

altre parole priva di significato.

Per cui, paradossalmente, questo vale anche per l’esperienza del Buddha. Nàgàrjuna

propone una logica con quattro alternative: 1° l’esistenza della cosa; 2° la non-

esistenza della cosa; 3° l’affermazione dell’esistenza e della non-esistenza simultanee

della cosa; 4° la negazione dell’esistenza e della non-esistenza simultanee della cosa.

In base a quanto detto, nessuna di queste alternative è logicamente sostenibile.

Non si può sostenere nulla, neanche le Quattro Nobili Verità, e addirittura nemmeno

l’esistenza del Buddha.

Nàgàrjuna, in tal senso, formulò la teoria della doppia verità: la verità relativa o

convenzionale, seppure erronea, ha un valore propedeutico a quella superiore, ossia la

verità assoluta (paramàrtha). Solo in questa realtà assoluta si può vedere la natura

autentica delle cose così come sono (tathatà) (9).

Con questa concessione a Nàgàjuna, la conoscenza del Buddha potrebbe anche

essere definita “ignoranza”, perché quando si parla di ciò che per molte tradizioni

spirituali è l’esperienza suprema ogni termine finisce, per logica, con il risultare

inadeguato.

La realizzazione di quella che in ambito buddhista e bràhmanico è chiamata

esperienza della Liberazione o non dualità e, nel mondo cristiano esperienza dello

spirito o di Dio, non è un conoscere “qualcosa”, per il semplice motivo che in lei non

vi è un soggetto che comprenda un oggetto.

Un sufi, il califfo Abù Bakr affermò che l’impotenza di cogliere la conoscenza è

conoscenza, ma analoghi insegnamenti sono presenti nelle Upanishad, scritte prima

della nascita di Gautama.

Nisargadatta Maharaj uno dei maestri della tradizione Vedanta del secolo scorso

spiega: “ Puoi conoscere solo ciò che non è. Ciò che è, puoi solo esserlo: “La

conoscenza è relativa al conosciuto. In un certo senso è la controparte dell’ignoranza:

Dove non c’è ignoranza, che bisogno c’è di conoscenza?” (10).

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Nel Kunjed Gyalpo il tantra fondamentale del dzogchen, si trova scritto: “Vedere

realmente significa vedere che non c’è nulla da vedere, questo è detto l’occhio

dell’onniscienza” (11).

Mi pare appropriato accostare questi passi a quanto scrive Platone nella Repubblica

(508 E – 509 C) paragonando l’Idea del Bene, ossia il principio, a ciò che è il sole

rispetto all’occhio e alla vista. Il sole non è la vista, dice Platone: “… ma fornisce

verità alle cose conosciute e al conoscente la facoltà di conoscerle e quindi, come la

conoscenza e la verità, allo stesso modo che la luce e la vista, è giusto ritenerle simili

al sole, ma non ritenerle il sole, così è giusto considerarle entrambe simili al Bene ma

non pensare che siano il Bene, perché la condizione del bene va considerata ancora

maggiore”. Pertanto noi possediamo già la conoscenza, il senso della prospettiva va

rovesciato, è la “conversione dell’anima” (metànoia).

Non possiamo conoscere il conoscitore, perché siamo”Noi” il conoscitore.

Non però il nostro “Noi” superficiale, il piccolo ego che si vede incapsulato nel

corpo e separato dal mondo esterno, quanto piuttosto il conoscitore totale e

universale. In cui, casomai, è il corpo ad essere contenuto.

L’ego, l’Io, non conosce nulla, se non qualche ombra di verità, è sempre il

conoscitore totale che vede attraverso di noi, o meglio che conosce se stesso tramite,

in definitiva, se stesso.

Vi è una totale identità di conoscenza, conoscente e conosciuto.

Il simbolismo dell’occhio che vede tutto, non è solo nel mondo greco, lo è pure nella

tradizione cristiana.

Meister Eckhart nel sermone Qui audit me: “L’occhio nel quale io vedo Dio è lo

stesso occhio in cui Dio mi vede; l’occhio mio e l’occhio di Dio non sono che un solo

occhio, una sola visione, una sola conoscenza, un solo amore”.

E il Sommo Poeta: “ O luce etterna che sola in te sidi, sola t’intendi, e da te intelletta

e intendente te ami e arridi” (Dante, Paradiso, 33°, 124-126).

Un altro esempio in ambito Zen: “ Per quanto montagne, fiumi regioni, forme e

apparenze possano essere immensamente diversi, tutto è nell’occhio di Buddha.

Non soltanto siete lì: l’occhio è diventato voi. L’occhio del Buddha è diventato

l’intero corpo di ognuno, e ogni corpo è lì perfettamente eretto. Perciò questo limpido

occhio luminoso che abbraccia tutto il tempo non va considerato come le persone qui

presenti: voi siete l’occhio del Buddha, il Buddha è l’intero vostro corpo” (12).

Questi modi, apparentemente opposti, di indicare ciò che in molte tradizioni spirituali

è considerata come l’esperienza suprema fa riferimento alla metafora della

conoscenza attraverso il simbolismo della visione.

Va da sé che, poiché queste modalità espressive vogliono solamente cercare di

alludere ad una condizione che si situa di là degli opposti, senza peraltro annullarli,

non hanno nessuna pretesa d’assolutezza.

Caso mai può essere solo un utile espediente per portare il “soggetto” a realizzare uno

stato di per sé indefinibile.

In effetti, mi pare più appropriato parlare di “realizzazione” di un tale stato.

Perché ciò implica non tanto la creazione o il raggiungimento di qualche dimensione

completamente nuova del reale, quanto la scoperta, o riscoperta, di qualcosa che è già

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da sempre, ma di cui non ci accorgiamo, giacché il nostro occhio non guarda nella

giusta direzione.

Allora qual è la giusta direzione? Paradossalmente, non c’è una giusta direzione, ci

può essere utile, com’espediente, la pratica della consapevolezza, ma non è la

Liberazione ed anche la Liberazione non è disgiunta dalla materia, perché in sé non è.

Questa sintetica conclusione è stata articolata, attraverso domande e risposte simili

alle precedenti, nella Prajnàpàramità nel sùtra del Cuore (Hrdaya Sùtra).

La Prajnàpàramità, composto in India tra il 2° e 4° secolo d. C., è una raccolta di 38

libri e appartiene all’insegnamento buddhista Mahayana.

Il sùtra del Cuore breve ma denso trattato è definito, come suggerisce il nome, il

cuore dell’insegnamento.

L’intero sùtra costituisce la risposta fornita dal nobile Bodhisattva Avalokiteswara

alla domanda postagli dal discepolo Sàriputra, durante un’assemblea di monaci e

Bodhisattva alla quale era presente anche il Buddha, in meditazione.

Si riprende sia la regola espositiva sia illustrativa, del Buddha risvegliato, come

descritto nel Canone Buddhista.

La domanda posta da Sàriputra consiste nel quesito fondamentale per il

raggiungimento della salvezza: “Cosa deve fare un figlio di buon lignaggio per

raggiungere l’estinzione (nirvana)? Qual è la retta visione delle cose che conduce alla

salvezza? Qual è la via che, eliminata l’ignoranza, conduce all’estinzione del dolore?

Qual è in definitiva l’insegnamento del Buddha?” (13).

L’intero sùtra, che costituisce la risposta data da Avalokiteswara a queste domande

centrali, consiste in una descrizione sintetica ed enigmatica della ”perfezione” e del

modo in cui è possibile praticarla.

La spiegazione fornita da Avalokiteswara è corretta e coerente con l’insegnamento

originario del Buddha, e questo è provato dalle parole conclusive del Buddha, il quale

risvegliatosi dallo stato di samàdhi, esclama: “Ben detto! Ben detto! E’ proprio così

figlio di nobile lignaggio, è proprio così. Si dovrebbe praticare la “perfezione”

proprio come tu hai detto!”.

E da notare che il termine Prajnàpàramità, ha diversi significati oltre a Suprema

Virtù e Perfezione, viene lodata come la Santa, la Signora, la Nobile, la Dea.

Il termine Prajnàpàramità, letteralmente, significa “la sapienza andata oltre”,

“l’intuizione superiore”, “la conoscenza ultima”, ma può essere tradotto con

“perfezione di sapienza”, inoltre la parte finale del sùtra è considerata come mantra.

In ogni caso il suo significato principale può essere considerato una retta

comprensione, o meglio “visione”, stato che si situa oltre i limiti concettuali della

ragione, oltre l’ignoranza, oltre la credenza della legge di trasmigrazione (karma).

Stiamo parlando dello stesso tipo di conoscenza precedente.

Una conoscenza diversa da quella che comunemente si ritiene sussista tra un soggetto

ed un oggetto.

E’ una conoscenza che rende il soggetto tutt’uno con l’oggetto che conosce, tutt’uno

con la verità.

Seguendo le parole d’Avalokiteswara contenute nel sùtra e confermate poi dal

Buddha, la Prajnàpàramità descrive la retta visione delle cose, vale a dire della

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concezione della vacuità (sùnyatà) di tutto ciò che comunemente si ritiene essere un

sé. E’ quindi un punto d’arrivo, è la profonda comprensione della realtà, e in altre

parole dei caratteri anatman (non sé) e anicca (impermanenza) di tutte le presunte

identità.

Questo principio, il punto d’arrivo, come per Nagàrjuna, una volta raggiunto si

autoabolisce immediatamente, poiché esso stesso è vuoto.

Così come vuoti sono il soggetto che conosce e l’azione del conoscere.

La Prajnàparamità è quindi la verità ultima (paramàrtha satya) che coincide con la

vacuità (sùnyatà). In che modo possiamo intendere il concetto di vacuità?

Intanto essa non significa negazione o nulla assoluto. Non è nichilismo. Si tratta

invece di un “vuoto di” essenza propria (svabhàva). Non è una realtà metafisica e

assoluta separata dal mondo fenomenico, perché vi è interconnessione, dipendenza

con tutto il resto peraltro, con questo, si evita pure il sostanzialismo.

E’ necessario fare alcune precisazioni per evitare errate concezioni di sùnyatà perché

dai nostri traduttori, nella nostra lingua, è reso con “il vuoto”.

Usando l’articolo definito (“il”) scrive S. Batchelor: “ C’è il rischio di equiparare il

vuoto a nozioni metafisiche quali l’Assoluto, la Verità o, addirittura, a Dio. La

nozione di vuoto, così, cade in balia di quelle abitudini mentali che si proponeva di

scalzare” (14).

Sarebbe quindi più corretto parlare di “vuoto”, inteso come l’attributo sostanziale di

tutte le cose che, paradossalmente, non è sostanza perché indefinibile.

Il dualismo è così superato affermando: l’essenza di tutti i fenomeni è vacuità, gli

estremi in sé non sono, sebbene non si neghi l’esistenza nel piano relativo.

A questo punto sorge un problema: come si concilia la teoria dell’Io o del Sé

junghiano? Allo scopo ci può aiutare il passo più famoso e paradigmatico dell’intero

Sùtra.

Rùpam sùnyatà sùnyataiva rùpam

“La forma è vuoto e il vuoto è la forma”. Il primo termine (rùpa) è il primo dei

cinque aggregati (skanda) che, in breve, rappresentano i costituenti della nostra

personalità, sono cioè quegli elementi che insieme formano ciò che viene definito con

i termini di: Io, “individuo”, “persona”.

E’ quello che il senso comune ritiene, ma sono nomi convenzionali per descrivere

una realtà complessa (khanda in pali), denominata “I cinque Aggregati”.

Occorre però designarli empiricamente, vi è la necessità di definirli per evitare

dispute, giacché la designazione nominale non corrisponde a nessuna realtà precisa.

Vi è ambiguità nei termini e alcune divergenze, tra i vari studiosi.

Darò quindi una mia interpretazione di cui mi assumo piena responsabilità.

Rùpa è dunque il primo aggregato della materia o della forma, il quale comprende i

quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco), i cinque organi di senso e gli oggetti

corrispondenti nel mondo esterno (la forma vedibile, l’odore, il suono, il gusto,

l’oggetto tangibile); per la tradizione buddhista esiste inoltre un sesto organo di

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senso, la Mente (manas in sanscrito, mano in pali) i cui oggetti sono i pensieri e le

idee. La concezione della Mente inclusa nel primo aggregato è sostenuta dalla scuola

della Mente Sola (cittamatra), con la quale concordo.

Il secondo aggregato è quello della sensazione (vedanà): in questo gruppo sono

inclusi tutti i tipi di sensazioni, piacevoli, spiacevoli o neutre, mentali o fisiche,

conseguenze del contatto tra i sei organi di senso e i rispettivi oggetti.

Esistono quindi sei tipi di sensazioni, relativi ai sei sensi.

Il terzo è l’aggregato delle percezioni (samjanà in sanscrito, sannà in pali): si tratta

del riconoscimento, dell’interpretazione degli oggetti, per esempio come si classifica

un elemento come “rosso” o “gioia” o “bambina”.

Il quarto fattore della personalità è l’aggregato dei samskàra (sankhàra in pali),

traducibile con “composto” o “creazione” (15).

E’ ciò che è intenzionale e che spesso si consolida in abitudini, sono pure le

formazioni mentali; in definitiva, è l’aggregato dell’attività mentale del volere ed è

composto da una serie di stati da cui hanno origine le nostre azioni.

Vi sono, ripetendo lo schema precedente, sei tipi diversi di volizione, connessi con i

sei sensi e i sei oggetti del mondo esterno.

Il quinto aggregato è quello della coscienza discriminante (vijnàna in sanscrito,

vinnanà in pali), il quale consiste in un certo tipo di consapevolezza, una sorta di

“consapevolezza” della consapevolezza alla presenza d’oggetto. (Tale studio della

Mente è presente negli Yogasùtra di Patanjali commentati da M. Eliade).

Ancora una volta esistono sei tipi di coscienza, poiché la coscienza necessita di uno

dei sei sensi come fondamento e di uno dei sei fenomeni esterni come oggetto.

Siamo alla svolta decisiva con cui l’analisi buddhista demolisce il Sé.

Approfondiamo: quando la coscienza sorge in dipendenza dall’occhio e dalle forme,

si ha coscienza visiva; quando sorge in dipendenza dall’orecchio e dai suoni, si ha

coscienza uditiva; quando sorge in dipendenza dal naso e dagli odori, si ha coscienza

olfattiva; quando sorge in dipendenza dai corpi e cose tangibili, si ha coscienza

tattile; quando sorge in dipendenza della mente e d’oggetti mentali, si ha coscienza

mentale.

La coscienza, quindi, è sempre in dipendenza dalla materia, dalla sensazione, dalla

percezione e dalla volizione e non può mai essere concepita come un’entità assoluta,

separata e incondizionata, ossia la coscienza non dovrebbe essere presa come

“spirito” in opposizione alla materia.

L’Io si può trovare nella coscienza, in una sensazione fisica, in uno stato d’animo, in

un impulso, tutti elementi transitori, passeggeri, contingenti.

L’Io potrebbe non essere qualcosa, ma neppure non è nulla. E’ semplicemente

inafferrabile, introvabile.

Io sono quello che sono non a causa di un Io essenziale celato nel centro del mio

essere, ma a causa di una matrice di condizioni, irripetibile e senza precedenti, che mi

ha formato.

Più mi addentro a scavare nel mistero di chi sono io, o di cosa è quest’altra cosa, più

mi accorgo di continuare a girare a vuoto.

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Non c’è fine a questo processo; c’è solo un infinito che evita di cadere negli estremi

opposti dell’essere e del non essere (16).

Passo ora ad analizzare l’affermazione “la forma è vuoto” (rùpam sùnyatà).

Il sùtra menziona l’aggregato della forma per primo in cui costituisce il supporto

materiale per gli altri quattro e, quindi, una volta compresa la sua vacuità, è più

comprensibile la vacuità degli altri.

La vacuità della forma non va intesa, come già affermato, nichilisticamente.

E’ “esistenza”, ma assenza d’essenza separata, indipendente, assoluta, delimitata e

permanente.

In questo senso, gli aggregati sono vuoti per due ragioni fondamentali: 1° per

l’implicazione reciproca tra le loro componenti, un esempio che riguarda l’aggregato

della materia: il colore di un fiore non esiste indipendentemente dal fiore e

dall’organo di senso che lo percepisce; 2° per l’interrelazione tra gli stessi aggregati

in cui non può esserci percezione senza sensazione.

Tutti i fenomeni del mondo, compresi gli skandha, possono essere visti come facenti

parte di una catena d’eventi, processi mutuamente intercorrelati e quindi privi di una

realtà sussistente ed indipendente.

Il sutrà continua con sùnyataiva rùpam (il vuoto è forma), un’affermazione che può

essere interpretata come una semplice ripetizione, ma che possiede un’importanza

significativa per la comprensione del vero significato di vuoto.

Mentre la prima frase sembra semplicemente negare l’esistenza separata dei

fenomeni, ora un elemento positivo è messo alla luce e vale a dire la forza positiva,

creatrice della vacuità: il suo essere l’”essenza” stessa di tutti i fenomeni.

I fenomeni non sono annullati dalla vacuità; al contrario, è la vacuità che, pur non

identificandosi con questi, li fa essere quello che è.

E’ quindi sostenuto che l’assenza di un Sé assoluto (e vale a dire l’assenza di un

atman), non significa non esistenza, ma precisamente l’assenza di una particolare

essenza che esprime se stessa come, l’esistente in assoluto.

“Il vuoto è forma” significa quindi che il vuoto possiede una valenza funzionale, nel

senso che fa essere tutte le cose, pur non identificandosi con queste.

Niente può essere sia forma sia vuoto, tuttavia paradossalmente, sono la stessa entità

nel senso che una non può esistere senza l’altro: la forma serve da base per il vuoto,

ma il vuoto è la vera natura della forma.

Ecco come Batchelor riassume chiaramente questi concetti, facendo riferimento ai

temi della “via di mezzo” e dell’”Illuminazione”: “Il vuoto è privo di essere

intrinseco, così come lo sono un vaso, una banana, o un narciso; e se non ci fossero

vasi, banane, o narcisi non vi sarebbe nemmeno il vuoto: il vuoto non nega

l’esistenza di queste cose; si limita a descrivere come esse siano prive di un’essenza

intrinseca e separata. Il vuoto è la Via Centrale che conduce non oltre questa realtà,

ma proprio al suo cuore. E’ la traccia su cui muove colui che è costantemente

vigile” (17).

Vi è, in Batchelor, un rimando all’uso della consapevolezza (vipassana) per

conseguire la vacuità. Sùnya in sanscrito significa anche “zero”, simbolo matematico

che, possedendo una gran quantità di funzioni, rende possibili molte delle pratiche

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scientifiche. Questa concezione del vuoto inteso come condizione di tutte le cose, è

espresso pure da G. Chang (18).

La matematica, per chiarire il concetto di vuoto, diventa il sostegno di Hosaku

Matsuo, paragonando sùnya ad uno sfondo produttivo ed esemplifica questo concetto

attraverso la figura del “goblet and profile” (calice e profilo) di Edgar J. Rubin

(1921): si tratta del famoso disegno che produce un effetto ottico tale che è possibile

scorgere alternativamente nello stesso disegno un calice e due profili di volti umani.

La ragione di quest’illusione ottica è l’assoluta dipendenza reciproca tra le due figure,

poiché ciascuna di loro costituisce lo sfondo dell’altra: ciò che è necessariamente il

vuoto, l’esterno, per il calice, è il pieno dei due profili, e vale a dire è essi stessi; e

viceversa. (19).

Vi sono altri commenti, d’autorevoli studiosi, che spiegano l’affermazione:

sùnyataiva rùpam. Fra i tanti nomino Nishida Kitaro, G. Pasqualotto, D. T. Suzuki,

gli altri non citati non me ne vogliano, che ritengono il vuoto nella tradizione

buddhista non un principio assoluto (positivo o negativo), non una verità che si

sostanzializza e permane, ma ritengono che anche il vuoto sia vuoto.

Nel senso che è sempre relativo a ciò che esso caratterizza, poiché non può mai darsi

separato dalle realtà che caratterizza nella loro unica essenza, la vacuità.

L’unico attributo fondamentale di tutte le realtà (sùnya) si applica anche alla sùnyata

stessa: ecco spiegato come la vacuità sia un principio autoabolitivo.

Si può definire questo fenomeno con la famosa espressione “vacuità della vacuità”

(sùnya sùnyata), unico vero vertice della realizzazione del Buddha.

Diversamente da queste teorie “positive” della vacuità, Alex Vayman nel suo

commento sul Hridaya Sùtra propone una spiegazione leggermente diversa e cioè:

“ vuoto è forma” nel senso che le forme (come il senso comune le intende, separate e

indipendenti) sono frutto di un sogno, d’illusione, sono esse stesse un sogno, non

esistono in realtà (20).

Concetto pregevole questo che non nego di aver condiviso per molti anni, data la mia

impostazione idealistica, ma poi mi chiesi: chi è che sogna, chi è il sognatore? Cos’è

il sogno? E non trovai un qualcosa.

In analisi, ciò che emerge da questi due passi del Hridaya Sùtra è la convinzione,

esperita, che qualsiasi forma di essere (ontologico, psicologico, logico) sia

caratterizzata dalla vacuità, vale a dire svabhàvasùnya, priva come essenza propria,

separata ed autonoma.

L’essenza di tutto ciò che esiste è la mancanza d’essenza (anàtman), così il Buddha

propone una visione radicale, che sarà portata all’estremo, ancora più paradossale, dal

Chan cinese e in seguito dallo Zen giapponese.

Ripassando gli esempi precedenti, che hanno portato a questa conclusione, si

evidenziano tutte le sostanze come sùnya perché dipendenti dalle cause e dalle

condizioni che le hanno prodotte, dalle parti che le compongono, dalla mente che le

pensa, o più in generale da tutto ciò che è diverso da loro stesse.

La relazione è intrinseca ad ogni cosa, niente è assolutamente sostanziale ed

autonomo.

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Ancora, nel campo logico, le parole all’interno di un discorso dipendono da loro

(proprio come ora), ed inoltre dalle cose che definiscono, e viceversa le cose dalle

parole.

La stessa vacuità è vuota perché dipende dalle cose, dalle forme che caratterizza e,

senza di esse, non potrebbe esistere: si spiega così l’espressione paradossale “vacuità

della vacuità”.

Tutte le realtà, poi, non possono essere considerate assolute ed esistenti per sé e in sé,

poiché, oltre che anàtman, sono sempre impermanenti, vacue, fugaci, istanti dinamici

sempre in cambiamento ossia: anicca.

Alla luce di questa concezione, si spiega l’impostazione, apparentemente nichilista,

del Sùtra del Cuore: la negazione in esso presente dei cinque skandha (aggregati

della personalità), dei dharma (elementi della realtà), delle principali dottrine

buddhiste (pratìtya samutpàda) comprese le Quattro Nobili Verità indicate dal

Buddha quando si decise, nel celebre Sermone di Benares, a divulgarle ossia: 1° la

vita è piena di dolore; 2° la sete di esistere è l’origine del dolore: 3° la sete di esistere

può essere soppressa; 4° esiste un cammino, in varie fasi, che permette di estinguere

la sete (21).

Tutto deve essere realizzato eliminando l’ignoranza sotto la prospettiva della vacuità,

della Prajnàpàramità, della verità ultima.

Il Bodhisatwa Avalokita è immerso nella Prajnàparamità e di conseguenza tutte le

cose, compresi i principi su cui si basava l’insegnamento buddista, gli appaiono nella

loro nishsvabhàva, nella loro vacuità d’essenza propria.

Questa negazione non è però assoluta, quanto piuttosto consiste in un cambiamento di

prospettiva: le categorie buddhiste sono negate in qualità di principi assoluti,

dogmatici, nei quali è facile credere e fare affidamento, ma sono tuttavia ritenuti

strumenti che l’uomo possiede per raggiungere il fine principale, che consiste

nell’eliminazione dell’ignoranza e nel raggiungimento della salvezza.

I principi su cui si basa l’insegnamento buddhista non sono quindi negati, ma

semplicemente concepiti come una verità strumentale, relativa (una zattera) al fine di

giungere all’altra sponda, quella della verità così com’E’ della Prajapàramità, piano

dal quale vediamo questi stessi principi, e tutto ciò che esiste, caratterizzati dalla

vacuità.

Trovo importante quindi utile ricordare lo scopo pratico, pragmatico, sperimentabile,

di tale concezione della vacuità: l’eliminazione del dolore, la cura per l’anima

ammalata, la sick soul di James e, per di più, ottenere il risveglio. Tutto ciò è

possibile applicando il concetto di vacuità nella terapia e nel quotidiano.

Il processo di risveglio o di psicoterapia può essere schematizzato come segue:

l’eliminazione dell’errata concezione del Sé indipendente perché comporta, di

conseguenza, la fine di ogni attaccamento egoistico e di brama, infatti mancando il

Sé, ed un oggetto posseduto, cessa anche di esistere il concetto di “mio” e “tuo”; ciò

permette l’eliminazione del dolore (dukkha), considerato come quello stato che

accompagna ogni azione umana, sia essa piacevole o spiacevole o neutra. Questo e

solo questo era il fine del Buddha: l’eliminazione del dolore, il qual è sempre

provocato da sofferenze fisiche o psichiche, dal non ottenere o dal perdere ciò che

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piace e, soprattutto, dal ritenere erroneamente le cose sostanziali e permanenti, nel

non vederle come anattà e anicca.

Il parallelo con l’ambito medico è particolarmente esplicito negli insegnamenti del

Buddha. Uno dei punti importanti del suo insegnamento, le Quattro Nobili Verità,

presenta proprio una scansione medica: la diagnosi, ossia la constatazione della

presenza del dolore (dukka) in ogni aspetto della vita umana; l’eziologia, vale a dire

la ricerca e l’individuazione delle cause, la verità perciò l’origine del dolore che sta

nella sete o brama; la prognosi, che per il Buddha è esatta, perché si dà la cessazione

del dolore; e infine la terapia o cura, la via che conduce al venir meno del dolore

ossia il Nobile Ottuplice Sentiero (22). Tutto ciò rappresenta, dunque, la cura

dell’anima che, in maniera diversa e in tempi differenti, si è proposto Jung uno degli

occidentali più sensibili alla filosofia buddhista.

La cura delle anime

Il compito di Jung, come lo stesso afferma, nel suo libro Memorie, Sogni e riflessioni,

è la “cura delle anime” (23).

Diversamente dalle psicoterapie più convenzionali, che si prefiggono soprattutto

l’adattamento della personalità e la cura dei sintomi e, che a tal fine, applicano

tecniche terapeutiche di manipolazione, la psicoterapia di Jung mira alla guarigione

dell’anima, all’approccio con il luminoso.

Il fine non è solo la cura della patologia, ma soprattutto l’ottenimento

dell’integrazione individuale o realizzazione del Sé.

Nascosto nel profondo di ogni essere umano si cela il seme di ogni futuro sviluppo,

che nel suo significato definitivo rappresenta un seme di divinità. Con altro intento,

nel buddhismo si parla di natura buddhica presente in ciascun essere.

Il senso della psicoterapia di Jung è aiutare questo seme a germogliare, maturando

ogni sua potenzialità, attraverso un metodo naturale.

Tale metodo di trattamento è il processo naturale d’individuazione (24). Il processo

d’individuazione è sostanzialmente un processo inconscio e autonomo in cui la

psiche, nel suo naturale e spontaneo desiderio di completezza e d’integrazione, si

sforza d’armonizzare tra loro i contenuti consci e inconsci.

Il terapeuta quindi, afferma Jung, ha come guida la natura, e il suo intervento consiste

non tanto nel suo intervento, piuttosto nel far in modo che si sviluppino le possibilità

creative che si celano nel paziente.

Jung notò che i pazienti che riuscivano a liberarsi dalla schiavitù dei problemi della

loro vita, ottenendo livelli più elevati di sviluppo e d’integrazione psichica, in

sostanza non facevano alcunché, semplicemente permettevano che le cose

accadessero. In silenzio, lasciavano che il proprio inconscio comunicasse con loro, ne

ascoltavano i messaggi, prestandovi la più completa e seria attenzione.

In altre parole, i pazienti stabilivano una relazione conscia con i propri processi

inconsci, ed è proprio ciò che succede attraverso la consapevolezza,

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l’autoesplorazione, l’introspezione (vipassana) indicata dal Buddha come metodo

sperimentale, e ampiamente utilizzata in tante altre scuole orientali non buddhiste. Si

“molla la presa” si lascia andare, è un accadere senza sforzo.

Quando il processo psichico si può evolvere con tranquillità, l’inconscio fertilizza la

coscienza e a sua volta la coscienza illumina l’inconscio.

La reciproca influenza e l’unione dei due opposti fa sorgere la consapevolezza e

favorisce l’ampliamento della personalità. Il buddismo Ch’an e Zen, il taoismo, lo

Yoga sahajiaia concordano con Jung quando afferma che il processo non deve essere

regolato dall’esterno e il terapeuta o il maestro non interferisce con l’operato della

natura. Ove si sviluppa una personalità più ampia, la consapevolezza aumenta e si

trasforma, si manifesta un nuovo centro della personalità, il Sé, mentre si attenuano le

tendenze egoiche.

Il nuovo centro è come un magnete, attira a sé tutto ciò che appartiene, in modo

genuino e autentico, all’unicità della personalità.

L’integrità e l’unità dell’individuo prendono gradualmente forma dal relativo terreno

originario e tutto ciò che è futile, superfluo e non autentico è abbandonato.

L’Io, che si era sviluppato come reazione alle pressioni e ai voleri del mondo esterno

e dell’ambiente culturale, a questo punto cede e permette il manifestarsi delle

pressioni e delle sollecitazioni del mondo interiore, della sua anima, del Sé.

L’Io è stato sacrificato al Sé; l’esistenza ordinaria ha acquisito un significato,

l’individuo è entrato in contatto con il luminoso.

La sua iniziale condizione inconscia si è trasformata in coscienza più elevata,

ottenendo l’integrazione della personalità, un processo rappresentato simbolicamente

dal mandala e dalla sua struttura.

Nessuno sa come avviene l’armonizzazione tra i contenuti consci e inconsci, poiché

si tratta di un processo di vita irrazionale. Nella psicoterapia di Jung non esistono

prefissati metodi di trattamento; i mezzi si sviluppano naturalmente nel corso del

lavoro terapeutico, come risposta alle particolari necessità di un paziente.

Ogni individuo è unico e imprevedibile, perciò Jung invita gli terapeuti a liberarsi

d’ogni preconcetto e di qualunque convinzione teorica, abbandonando totalmente i

metodi e le tecniche (25).

Jung afferma di non seguire un sistema prestabilito e i suoi eredi spirituali dovrebbero

ricordarlo, ma indica che l’unico metodo, per così dire, consiste nella comprensione

di “caso per caso”, utilizzando un linguaggio diverso.

Siamo, così, nella stessa visione del metodo non-metoto, tipica dei maestri Ch’an,

tuttavia nella sua pratica, Jung, fece costantemente uso di due metodi fondamentali: il

lavoro con i sogni e l’immaginazione attiva.

L’interpretazione dei sogni ha una lunga storia che si perde nella notte dei tempi,

mentre l’immaginazione attiva è un originale prodotto del lavoro creativo di Jung.

Egli ritiene che il processo dell’immaginazione sia paragonabile al procedimento

alchemico. In essenza, questo implica un costante dialogo tra i due opposti, in altre

parole, tra la coscienza e l’inconscio, nel corso del quale tutte le caratteristiche del

proprio essere s’integrano con gradualità.

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Si tratta di un lavoro di riconciliazione e di unione degli opposti, analogo allo Hatha

Yoga, che conduce alla trasformazione psicologica.

Il processo si articola in varie fasi. All’inizio si cerca di creare uno stato di calma

mentale, libero da pensieri, in modo da poter semplicemente osservare in modo

neutro, senza giudicare, notando lo spontaneo emergere e dispiegarsi dei contenuti

dell’inconscio, i frammenti della fantasia.

Questa fase è identica alla meditazione di consapevolezza delle varie pratiche

spirituali orientali.

L’esperienza è quindi annotata per mezzo della scrittura o in un’altra forma, come un

disegno, una pittura, una scultura, una danza o qualsiasi altro tipo d’espressione

simbolica.

Nello stadio successivo la mente inizia a partecipare attivamente e deliberatamente al

confronto con l’inconscio. Il significato della produzione dell’inconscio e il suo

relativo messaggio devono, perciò, essere compresi e armonizzati con la situazione e

con le richieste della mente conscia.

Alla fine quando l’Io e l’inconscio avranno trovato un punto di contatto, l’individuo

avrà la possibilità di vivere in modo più consapevole, ma dovrà osservare una nuova

etica e una nuova condotta. Non si potrà più condurre la propria vita fingendo di

ignorare l’occulto lavorio dell’inconscio.

E’ da rilevare che i principi di questa psicologia non sono applicati come metodo di

trattamento medico ma, piuttosto, come via per un’educazione di sé, compiuta

dall’individuo stesso.

Tali principi si prefiggono di determinare nei pazienti una condizione di “fluidità”,

ove sia possibile sperimentare il cambiamento e la crescita senza bloccarsi in

condizioni statiche. E’ un’altra analogia con il metodo taoista della spontaneità.

Jung cerca di suscitare nei pazienti una percezione delle proprie connessioni

transpersonali, ampliando la loro capacità d’attenzione di là della coscienza

personale. Questo è particolarmente importante per l’uomo moderno, che con il suo

atteggiamento razionale ha ostacolato e ha represso la dimensione spirituale

dell’esistenza.

Tale dimensione spirituale o dell’esperienza religiosa non è collegata ad alcun credo,

dogma o categoria, ma è una funzione psichica fondamentale che possiede enorme

significato (26). Si riconosce che non esiste guarigione personale senza un recupero

della visione religiosa della vita.

Nella terapia, il ruolo dello psicoterapeuta e il suo stretto rapporto con il paziente

rivestono un’importanza cruciale. La terapia, per Jung, è un processo dialettico che

vede il confronto di due realtà psichiche, in cui ambedue devono subire una

trasformazione.

La terapia, quindi, darà i suoi frutti solo se il terapeuta, non meno del paziente,

parteciperà all’esperienza terapeutica. I concetti sono strumenti, che possono

proteggere dall’esperienza dolorosa del paziente, grazie ai quali il terapeuta può

mantenere un’adeguata distanza.

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Tuttavia, il terapeuta, non dovrebbe proteggersi dietro il paravento dell’autorità

professionale, perché quest’atteggiamento lo impoverirebbe d’importanti

informazioni ottenute per mezzo del proprio inconscio.

Jung desidera che i propri pazienti diventino psicologicamente maturi, sicuri di sé e

indipendenti dal terapeuta.

Proprio come l’apprendista dell’alchimista, i pazienti possono imparare tutti i trucchi

del laboratorio, ma alla fine devono impegnarsi personalmente nell’opus dato che

“nessun altro può farlo al loro posto” (27).

Il processo d’individuazione deve proseguire a lungo, anche quando la terapia

formale è terminata.

Parlando dal punto di vista dello psicoterapeuta, Jung, rivela come il rapporto con i

vari tipi di persone incontrate nel suo lavoro terapeutico sia stato per lui

un’inestimabile esperienza d’apprendimento e anche una delle relazioni più

importanti ed espressive della sua vita.

Devo rilevare che l’individuazione, non solo provoca un ampliamento della

personalità, ma anche un’espansione delle relazioni collettive.

Contrariamente a quanto qualcuno può pensare, individuazione non significa

isolamento o abbandono delle responsabilità sociali ed etiche; al contrario, la

coscienza personale e la consapevolezza collettiva si accrescono reciprocamente in

una naturale e spontanea progressione.

Il processo d’individuazione, afferma Jung: “ Fa nascere una nuova consapevolezza

della comunità umana proprio perché ci rende consapevoli dell’inconscio, che unifica

e accomuna tutta l’umanità, dato che noi stessi siamo parte dell’umanità” (28).

Incontriamo qui sullo stesso terreno il concetto buddhista di compassione (karuna),

che in realtà è un altro aspetto della saggezza.

Saggezza e compassione sono i due lati della stessa medaglia; la prima rappresenta la

coscienza individuale la seconda quella transpersonale, e sono qualità ugualmente

indispensabili per l’ottenimento dell’Illuminazione. Ancora di più, Illuminazione è

saggezza e compassione al medesimo tempo.

Occorre considerare che il lavoro di Jung possiede caratteristiche, e dimensione

illimitata, che lo pone come pioniere della psicologia transpersonale.

Un esempio di quest’eclettismo lo si può cogliere nella conversazione tra Jung ed Ira

Progoff (sua valente allieva). Dopo una lunga discussione sul tema del metodo la

Progoff, ancora insoddisfatta, pose a Jung la seguente domanda: “ Supponi – gli

chiesi – di liberarti di tutti i problemi che ostacolino una esposizione intellettuale

valida dei tuoi metodi; supponi di poterla esprimere senza preoccuparti che altri la

possano fraintendere o farne cattivo uso: Supponi di poterlo fare nel modo più

aderente possibile al tuo autentico sentire… in che cosa consisterebbe?… “Ah,

rispose… sarebbe troppo divertente! Sarebbe un tocco di Zen” (29).

Per la Progoff quest’allusione di Jung al “tocco di Zen”, significò riportare il lavoro

alla sua essenzialità e che si deve realizzare al di là d’ogni razionalità.

Proprio come “la cura delle anime” era lo scopo e il ruolo di Jung, la comprensione

della sofferenza e l’emancipazione dalla stessa e in pratica la Liberazione è la meta

finale del buddhismo.

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Ancor prima della nascita della dottrina buddhista, questo era l’essenziale problema

della filosofia indiana, e il metodo di liberazione proposto dal Buddha fu il principale

e singolare contributo alla filosofia dell’India.

Il Buddha, per mezzo della sua esperienza religiosa, comprese e sostenne

ripetutamente che le sole speculazioni e astrazioni filosofiche e metafisiche non sono

in grado di trasformare la vita dell’individuo. Per questo motivo Buddha rispose con

un “nobile” silenzio quando gli furono poste domande di carattere metafisico sulla

natura dell’assoluto, sulle verità eterne.

Egli invece indicò la Via e proclamò che ognuno di noi deve trovare la soluzione ai

propri fondamentali problemi esistenziali, non solo tramite l’intelletto e il pensiero

logico, ma soprattutto sviluppando una coscienza più elevata, la bodhi.

L’Assoluto, l’infinito, il Divino non possono essere concettualizzati, ma possono

essere sperimentati da ciascun uomo. Le visioni interiori e le profonde intuizioni di

Gautama, la trasformazione della propria coscienza durante la meditazione sotto

l’albero della bodhi, non potevano essere comunicate con le parole.

Egli poteva solo indicare la Via, il metodo. Nella sua più intima essenza la via è

semplice, non va cercata in luoghi misteriosi ed esotici, nei libri o nelle sacre

scritture, ma nel profondo di noi stessi.

E’ un compito simile a quello dell’apprendista dell’alchimia, o del paziente di Jung.

Quando nel profondo della psiche di una persona si realizza la trasformazione della

coscienza, a quel punto la metafisica cessa d’essere tale ed è sperimentata come

conoscenza intuitiva e diventa illuminazione.

Jung ha dichiarato che il suo lavoro si fonda su fatti empirici e, molto del suo lavoro

considerato mistico, in seguito è stato convalidato dalle scoperte della scienza

moderna. Il metafisico è diventato empirico.

Esistono molte vie e sentieri che portano alla liberazione. Nel suo profondo ogni

sentiero è paragonabile a una trasformazione radicale della coscienza, a una morte e a

una rinascita simboliche, da una modalità d’esistenza profana a una spirituale.

Secondo i termini della psicologia analitica, questa morte sarebbe il sacrificio dell’Io,

che dà origine alla scoperta del Sé.

Per rispondere ai diversi bisogni e temperamenti di differenti individui, si sono

sviluppati numerosi metodi, in particolare nel buddhismo.

Nel tantrismo (vajrayana) molte tecniche sono strutturate alla fine di influire sui tre

aspetti dell’essere umano: il corpo, la parola e la mente. Il metodo principale,

utilizzato dal Buddha nel proprio processo di trasformazione, consiste nella

meditazione, mentre all’inizio del sentiero tantrico, nelle pratiche preliminari si

seguono vari metodi di meditazione per calmare, educare e disciplinare la mente, per

ottenere la concentrazione e coltivare la consapevolezza (30). In seguito, in

conformità a simili fondamenta, si pratica un metodo più complesso e caratteristico

del vajrayana, la visualizzazione.

Nella visualizzazione il meditatore crea delle immagini mentali, con vari livelli di

complessità, che rappresentano divinità tantriche pacifiche e di gradevole aspetto

oppure irate e terrificanti, in cui il praticante s’identifica: queste immagini lo

guideranno lungo il processo.

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Ogni divinità rappresenta un’energia vitale che risiede nelle profondità

dell’individuo: l’inconscio. Il meditante entra in contatto con queste energie, positive

o negative, e le utilizza, le trasforma per ottenere stati di coscienza più elevati.

Il metodo è basato su assunzioni irrazionali che si possono comprendere unicamente

come si comprendono i processi irrazionali dell’esistenza, citati in precedenza

riguardo al metodo psicoterapeutico di Jung.

I meditatori ricevono, dopo un’iniziazione, una divinità scelta in accordo ai loro

particolari bisogni e capacità spirituali. Viene loro, quindi, insegnato come dedicare

tutta la propria attenzione alla forma di divinità che dovranno ricreare nella mente.

Si visualizzano tutti i più piccoli dettagli dell’immagine, in tutta la sua complessità e

varietà di colori, sino a quando la visualizzazione acquista una realtà pari a quella del

praticante.

Di fatto, costui non solo contempla la divinità ma s’identifica totalmente in Lei.

In un istante il meditatore si trasforma nella divinità, la cui essenza archetipica è

scesa dentro il suo corpo e mente. Il nucleo centrale della visualizzazione consiste in

quest’unione con la divinità.

Si tratta di un processo dinamico in cui l’Io e la sua consapevolezza ordinaria sono

abbandonati e sostituiti dalla coscienza più elevata della divinità. Per usare il

linguaggio di Jung: l’Io individuale è sacrificato al Sé.

Il processo di visualizzazione non significa reprimere le parti irreprimibili della

nostra psiche, piuttosto è un modo per entrare in contatto le forme archetipiche che ci

uniscono con l’umanità d’ogni tempo, trasformandole, in modo da pervenire ad uno

stato di coscienza più elevato.

Le varie divinità sono simboli delle forze positive e negative, buone e cattive, che si

danno battaglia nella psiche. Nessuna di queste forze e di tali energie andrà perduta:

ognuna di loro sarà utilizzata e trasformata in pura consapevolezza, in pura essenza

spirituale. Per usare un linguaggio alchemico, si può affermare che il piombo si

trasforma in oro. Secondo Jung queste divinità sono archetipi che fanno parte

dell’inconscio collettivo, sono paragonabili agli istinti. Entrambi sono fondamentali

forze dinamiche della personalità umana che perseguono un loro particolare fine,

rispettivamente nell’organismo psichico e in quello fisiologico.

Egli considera gli archetipi come immagini primordiali, la più antica e universale

forma di pensiero dell’umanità. Possono essere sia sentimenti sia pensieri (31).

E’ necessario rilevare, tuttavia, che gli archetipi non sono idee ereditarie, ma

semplicemente tendenze della psiche umana che, se attivate, possono esprimersi in

particolari forme e significati. Così si esprime, a tal proposito, Jung: “ Gli archetipi

sono numerosi quanto le varie situazioni della via. Il ripetersi infinito ha impresso

queste esperienze nella nostra costituzione psichica, non tanto in forma di immagini

cariche di contenuto, bensì all’inizio solo come forme primarie, forme prive di

contenuto, che rappresentano semplicemente la possibilità di un certo tipo di

percezione e d’azione. Quando si verifica una situazione che corrisponde a un dato

archetipo, quest’ultimo si attiva e quindi si manifesta una spinta che avanza contro

ogni ragione e volontà agendo come una pulsione istintuale…” (32).

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Simili immagini primordiali, di fatto, esistono sin dai tempi più remoti,

manifestandosi in molte forme diverse, per esempio nell’idea del demonismo, del

potere magico, dell’immortalità dell’anima e in molte altre.

Esistono per Jung, dunque, innumerevoli archetipi ma l’archetipo che contiene tutti

gli altri, la quint’essenza archetipica, è il Sé.

Il Sé è l’organizzatore, la guida, il principio unificante che fornisce alla personalità

una direzione e un significato di vita. E’ l’inizio, l’origine della personalità e allo

stesso tempo la sua meta finale, il culmine della sua crescita, e quindi la realizzazione

di sé. Il Sé è l’homo totus, l’uomo di là dal tempo, che non solo esprime la sua unica

individualità e completezza, ma è il simbolo della divinità dell’essere umano quando

entra in contatto con il cosmo e in questo modo il suo microcosmo riflette il

macrocosmo esteriore. Il Sé è unico e limitato nel tempo ma anche universale ed

eterno, giacché le prime caratteristiche esprimono l’essenza dell’uomo e le successive

sono un’immagine di Dio, un simbolo archetipo.

Tra gli stadi del sé considerato come origine all’inizio, e del Sé considerato come

meta, nella sua destinazione finale, esiste una costante continuità di sviluppo, che

Jung ha definito il processo d’individuazione. Questo processo psichico archetipico e

universale è autonomo e inconscio, e ha seguito il proprio corso da un tempo

immemorabile. Esso riflette lo sforzo compiuto dalla psiche per armonizzare i

contenuti inconsci con quelli consci, ed è la spinta naturale e spontanea verso la

realizzazione di sé, la totalità e la ricerca di significato.

Tale processo si è espresso collettivamente per mezzo di una moltitudine di miti e di

simboli, nei quali l’umanità ha dato forma esteriore alle proprie esperienze interiori.

A livello individuale, sebbene il processo si evolva costantemente, dato che la psiche

non riposa mai, può rimanere semplicemente inconscio oppure può diventare un

compito consapevole. Se condurrà in una direzione piuttosto che un’altra dipenderà

dal possibile intervento della coscienza del singolo in questione.

La differenza tra le due vie è enorme e le relative conseguenze sono di gran portata.

Nel primo caso, in cui la coscienza non è coinvolta: la fine rimane oscura quanto

l’inizio. Nell’altro la coscienza si espande e si arricchisce sempre di più.

Per mezzo dell’alchimia e del suo simbolismo Jung divenne consapevole che la

trasformazione della personalità avviene a causa dell’interazione tra Io e inconscio,

dalla quale emerge un individuo nuovo e unificato.

E’ un nuovo essere, anche se non completamente nuovo, poiché è sempre esistito,

sebbene fosse nascosto e inattivo nel caos dell’inconscio.

Il processo richiede un’aperta comunicazione tra la mente inconscia e quella

cosciente, una sensibilità ai segnali dell’inconscio, che comunica al conscio mediante

il linguaggio dei simboli. E’ un dialogo continuo tra conscio e inconscio, tra esterno e

interno, tra la vita quotidiana e le sue dimensioni simboliche: sogni, fantasie e visioni.

L’arduo compito di confrontarsi consapevolmente con l’inconscio produce

l’espansione della coscienza e l’attenuarsi dei poteri dell’inconscio, per di più,

determina il rinnovamento e la trasformazione della personalità.

Questo mutamento, che è lo scopo centrale dell’alchimia e della psicoterapia

transpersonale, accade grazie alla funzione trascendente.

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In verità è qualcosa di più di un compito arduo e a volte doloroso.

E’ una lotta tra due forze contrastanti (molti mistici lo confermano), la lotta della

ragione e della razionalità contro il caos e l’irrazionalità.

Allo stesso tempo le tendenze consce e inconsce della psiche devono trovare un

equilibrio: la coscienza deve dare ascolto alla controparte inconscia, prestando

attenzione alle voci interiori, in modo che l’inconscio possa cooperare con la

coscienza, invece di creare disturbo.

Poiché il processo mira alla totale trasformazione della personalità, non si deve

escluderne alcun suo aspetto, né alcunché ne faccia parte. E’ il coronamento

dell’unione degli opposti che crea una nuova vita (born again in James), e non un

aborto della logica; ciò deve essere compiuto non solo dal Logos, il principio

razionale, ma anche dall’Eros, il principio di relazione o di spinta al piacere.

In questo modo l’individuazione conduce all’unità, da uno stato indifferenziato

d’inconsapevolezza alla completezza del Sé, del mandala, del proprio centro.

Il mandala è il cerchio mistico attraverso il quale, l’iniziato al mondo dello spirito,

ritrova il Sé. E’ uno dei simboli più antichi che si può rintracciare sin dall’era

paleolitica, si ritrova in ogni luogo e in ogni epoca.

I mandala più artistici e più elaborati sono creati dai buddhisti tibetani.

Sono immagini che contengono simboli degli opposti riuniti attorno ad un nucleo

centrale. Il loro disegno e struttura esprimono sia il mondo proiettato esternamente sia

il mondo interiore della psiche. In tal modo i mandala rivelano al praticante

l’interazione delle forze che oprano nel cosmo e nella propria mente.

I mandala tibetani consono semplici composizioni estetiche: sono simboli religiosi e

filosofici con preciso significato stabilito dalla tradizione. Essi sono nati dalle visioni

ed esperienze interiori di mistici yogi, in ambienti speciali e spiritualmente creativi.

Jung, d’altro canto, per mezzo della sua esperienza personale e del suo lavoro con i

pazienti, aveva osservato che quando la psiche si trovava nel processo di

reintegrazione al seguito da un periodo di squilibrio, spesso si manifestava

spontaneamente lo stesso tema del mandala. In tutti questi casi, gli autori del mandala

non potevano avere alcuna conoscenza del misticismo orientale.

Jung notò che nei suoi pazienti schizofrenici i simboli del mandala appaiono molto

più spesso in momenti di disorientamento psichico, come fattori compensativi di

riordinamento. E’un tentativo naturale di guarigione.

Attraverso i sogni e l’immaginazione attiva dei pazienti impegnati nel processo

d’individuazione, Jung pervenne alle prove della formazione dei mandala.

I contenuti di tali visioni esprimevano, in modo simbolico, il conflitto degli opposti e

la loro riconciliazione. E quando il Sé emergeva al centro della psiche esso veniva

rappresentato dal punto più interno e centrale della rappresentazione mandalica.

L’armonia così ottenuta possiede una qualità divina. Nelle iniziazioni i discepoli

ricevono istruzioni precise su come visualizzare i mandala.

In mancanza di una forma d’iniziazione sanzionata culturalmente, Jung fu guidato

dall’inconscio verso la propria iniziazione interiore, ossia il tipo d’iniziazione cui

vengono sottoposti coloro che sono destinati a diventare sciamani nelle tribù

siberiane, eschimesi, indiane d’america e tibetane (33).

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Negli junghiani c’è un particolare interesse al fatto che, anche se la nostra cultura non

fornisce più riti d’iniziazione, persista nell’uomo un bisogno arhetipico di

iniziazione, se la società non li offre, li produce il Sé nei sogni.

Sembra che l’iniziazione sia prefigurata dal Sé maschile come un attributo normale

dell’esistenza sociale. Gli analisti molto spesso cadono nel credersi “grande maestro

iniziato”, in quanto a loro spetta sottolineare l’importanza dei simboli iniziatici che si

presentano nel paziente. Vi è in molti pazienti il desiderio di diventare discepoli o

appartenere ad un gruppo identificabile che si può definire come: fame di iniziazione.

Molto probabilmente i passaggi all’interno di questi ambienti, in forma minima, sono

gli stessi delle iniziazioni mandaliche. Nel tantrismo, i discepoli, entrano

mentalmente nel mandala ed esplorano il lavorio della loro mente, il loro inconscio, e

gradualmente si avvicinano al loro centro dove gli opposti si riconciliano.

Nella profondità della psiche vi sono sia le divinità irate sia pacifiche, le forze

conflittuali dell’esistenza, gli impulsi e le passioni primordiali, sia la scintilla della

divinità. L’intero processo è rappresentato per mezzo di complessi simboli, che

riassumono il dramma della disintegrazione e della reintegrazione della psiche.

Dalla dualità, dalla molteplicità e dalla frammentazione psichica che segue la

primordiale unità inconscia, si giunge alla reintegrazione psichica, alla non-dualità,

alla coscienza pura.

Nonostante l’infinita varietà dei mandala, sia quelli dei tantristi sia quelli prodotti dai

sogni e dall’immaginazione attiva, in ciascuno di loro si riscontra una fondamentale

unità strutturale.

Tutti questi diagrammi cosmici, infatti, hanno origine dall’inconscio collettivo che è

comune a tutta l’umanità. I mandala sono simboli di unità che riconciliano gli opposti

a livelli di coscienza più elevati e allo stesso tempo sono dei canali attraverso i quali

si esprime una realtà universale, perciò se si entra in contatto con questa realtà si

ottengono effetti profondi che favoriscono le esperienze trasformative della

coscienza. Il simbolismo del centro è stato studiato da Mircea Elide che propone nel

Mito dell’eterno ritorno quanto segue: “ Il simbolo, il mito, il rito, esprimono, su

piani diversi e con i mezzi che sono loro propri, un complesso sistema di

affermazioni coerenti sulla realtà ultima delle cose, sistema che può essere

considerato come una vera e propria metafisica” (34).

Il “centro” è quindi la zona del sacro per eccellenza, quella della realtà assoluta

formulabile oltre che dal mandala, dalla montagna sacra, l’axis mundi, dall’ombelico

del mondo. La via che conduce al centro è una via difficile e questo si verifica a tutti i

livelli del reale: circonvoluzioni di un tempio, pellegrinaggi verso luoghi santi,

ricerche, smarrimenti nel labirinto, difficoltà di chi cerca la via verso il Sé, verso il

centro del suo essere. Il cammino è arduo, disseminato di pericoli, poiché è un rito di

passaggio dal profano al sacro, dall’effimero e dall’illusorio alla realtà e all’eternità,

dalla morte alla vita, dall’uomo alla divinità.

L’accesso al “centro” equivale a una consacrazione, a un’iniziazione; a un’esistenza

ieri profana e illusoria, succede ora una nuova esistenza, reale durevole ed

efficace (35). Tuttavia vi sono delle discordanze, tra i due pensatori, detto da

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Eliade: ” Come risaputo, per Jung gli archetipi costituiscono strutture dell’inconscio

collettivo; ma nella mia opera non tocco affatto i problemi della psicologia del

profondo e non utilizzo il concetto d’inconscio collettivo. Come ho già detto io uso il

termine di “archetipo” esattamente come Eugenio d’Ors, in quanto sinonimo di

“modello esemplare” oppure “paradigma”, cioè, in ultima analisi, nel senso

agostiniano. Ma oggi questo vocabolo è stato riattualizzato da Jung, che gli ha

attribuito un nuovo significato, ed è certamente auspicabile che il termine archetipo

venga usato nel senso prejunghiano soltanto con tutte le precisazioni necessarie” (36).

Tenendo conto delle distinzioni, doverose, tra i due studiosi si rilevano degli interessi

comuni per il pensiero, per i miti e riti dell’estremo orientale.

Per Eliade, in particolare, vi è una non nascosta simpatia verso lo Yoga ed è proprio

questa disciplina ascetica che ci riporta alle tecniche psicofisiche con cui il Buddha si

è confrontato.

Il processo di salvazione nello Yoga

Nel suo periodo di studi e ascesi, il Buddha aveva praticato Yoga e conosciuto la

dottrina Sàmkhya con i maestri Udraka Ràmaputra e Aràda Kàlàma, presso Vaisali.

Emile Sénart scriveva già nel 1900, che il Buddha non ripudia in blocco le tradizioni

ascetiche e contemplative indiane, ma le completa: “E’ sul terreno dello Yoga che il

Buddha si è elevato; quali che siano le novità che egli ha potuto infondervi, è nel

mondo dello Yoga che il suo pensiero si è formato” (37).

Il Buddha respinge tanto l’ortodossia bràhmanica (lo Yoga è una delle visioni

bràhmaniche), quanto le innumerevoli scuole mistiche ascetiche sviluppatesi in

margine alla società indiana.

L’analisi buddhista è impietosa circa il concetto di persona, perché il Sé non ha nulla

a che vedere con quest’illusoria entità che è l’anima umana. Ci si spinge oltre il

Sàmkhya e lo Yoga perché si evita di postulare il Sé com’esistente in assoluto.

Si nega la possibilità di trattare un principio assoluto.

Il postulato di un Bràhman, spirito puro, assoluto, immortale, eterno, identico

all’atman (il Sé di Jung) viene negato od omesso, perché questo dogma correva il

rischio di soddisfare l’intelligenza e, di conseguenza, impediva all’uomo di

risvegliarsi. A guardare le cose più da vicino, afferma Eliade, ci si rende conto che il

Buddha respingeva tutte le filosofie e le ascesi a lui contemporanee perché le riteneva

idola mentis, che erigevano una sorte di schermo tra l’uomo e la realtà assoluta,

l’unico e vero incondizionato.

Un considerevole numero di testi canonici dimostra che il Buddha non ha prospettato

la negazione di una realtà ultima, incondizionata, al di là del flusso dei fenomeni

cosmici e psico-mentali, ma si è semplicemente guardato dal discorrere troppo su

quest’argomento (38). Il problema era d’indicare un cammino verso il nirvana, verso

la trascendenza della stessa trascendenza.

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Il Buddha si rivolgeva all’uomo che soffre, all’anima presa nella rete della

trasmigrazione e, proprio come lo Yoga, la salvezza si conseguiva in seguito ad uno

sforzo personale, ad una concreta assimilazione della verità. Non era questa né una

teoria né un’evasione ascetica, ma occorreva comprendere e sperimentare

direttamente la verità. Problema: la comprensione rischiava di rimanere una semplice

speculazione e la sperimentazione rischiava di sfociare nell’estasi mistica.

La soluzione trovata fu quella di utilizzare le tecniche Yoga, infatti, i preliminari

dell’ascesi e della meditazione buddhista sono analoghi a quelli raccomandati dagli

Yoga Sùtra come da altri testi classici.

L’asceta deve scegliere un luogo appartato, in una foresta, ai piedi di un albero, in

una caverna, in un cimitero o anche su un mucchio di paglia in mezzo ad un campo,

mettersi nella posizione àsana e iniziare la sua meditazione.

Benché contenga degl’elementi morali (yama niyama), questa meditazione non ha

senso etico. Il suo scopo è di purificare la coscienza dell’asceta, di prepararla ad

esperienze spirituali più alte. La meditazione Yoga, qual è interpretata dal Buddha, ha

lo scopo preciso di “rifare” la coscienza dell’asceta; vale a dire creargli un’esperienza

immediata. E’ necessario che attraverso tutti i suoi gesti concreti, andatura, funzioni

intestinali, posizione del corpo, respirazione, l’asceta riscopra in maniera concreta le

indicazioni del Maestro.

Il monaco (bhikkhu), deve prendere coscienza di tutti i suoi atti fisiologici, che fino a

quel momento compiva automaticamente e incoscientemente.

Nel Dìghanikàya si afferma: “La strada, o monaci, ad un'unica meta, al superamento

del pianto e del lamento, all’allontanamento della sofferenza e del dolore, al

comparire del giusto metodo per la realizzazione dell’estinzione è quella dei quattro

pilastri della consapevolezza. Quali quattro? Ecco, o monaci, un monaco nel corpo,

osservando il corpo, dimora strenuo, attento consapevole, lontane nel mondo la

cupidigia e la sofferenza. Nella sensazione, osservando la sensazione, dimora strenuo,

attento, consapevole, lontane nel mondo la cupidigia e la sofferenza. Nella mente,

osservando la mente, dimora strenuo, attento consapevole, lontane nel mondo la

cupidigia e la sofferenza. Negli elementi, osservando gli elementi, dimora strenuo,

attento, consapevole, lontane nel mondo la cupidigia e la sofferenza” (39).

Il fine al qual è tesa questa lucidità è facilmente comprensibile.

Il monaco, qualunque cosa faccia e senza sosta, deve al tempo stesso abbracciare il

suo corpo e la sua anima, ma questa permanente attenzione alla propria vita

fisiologica, questa tecnica d’annientamento delle illusioni create da una falsa

concezione dell’anima fa parte dei preliminari.

La vera meditazione buddhista, affermata nel Canone, comincia con la

sperimentazione dei quattro pilastri psichici chiamati jhàma (dhyàna in sanscrito).

E’ sempre nel Canone nella parte Dìghanikàya, che è stata formulata la tecnica della

meditazione. Si entra nel 1° stato (jhàna) quando si ha la percezione che i cinque

impedimenti (la sensualità, la malizia, la pigrizia, l’agitazione, il dubbio) siano stati

distrutti. Poi, con la soppressione della riflessione e dell’intelletto, il monaco entra nel

2° stato che, nato dalla concentrazione, è caratterizzato dalla tranquillità interiore,

l’unificazione dello spirito, la gioia e la serenità. Poi il bhikku, con la rinuncia alla

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gioia, rimane indifferente. Attento e pienamente cosciente, sperimenta la felicità di

cui parlano i saggi: è il 3° stato dove, a questo punto, sorge una sottile e reale idea di

felicità e indifferenza. Dopo di che il monaco, rinunciando a qualsiasi sentimento di

soddisfazione e insoddisfazione per la fine della gioia e dell’afflizione che provava

prima, entra e permane nel 4° jhàna, uno stato di purezza assoluto, d’indifferenza e di

pensiero senza soddisfazione e insoddisfazione. Fisiologicamente il quarto stato è

caratterizzato dall’arresto della respirazione.

“In lui svanisce allora questa sottile e reale idea che aveva prima di felicità e

indifferenza, e sorge una sottile e reale idea d’assenza di soddisfazione e

insoddisfazione, e in questa idea egli permane” (40).

L’itinerario non si ferma qui. Accenno solo all’esistenza d’altri quattro esercizi

spirituali chiamati samàpatti (conseguimenti) che preparano l’asceta all’estasi finale.

Ci si trova in difficoltà nel descrivere questi stati di coscienza, sono difficili da

comprendere. Essi corrispondono ad esperienze troppo lontane da quelle della

coscienza così detta “normale”. Sarebbe tuttavia inesatto spiegarle come inibizioni

ipnotiche, perché durante la meditazione del monaco si costata una continua lucidità.

Del resto, il sonno e la trance ipnotica sono ostacoli che i trattati indiani di

meditazione conoscono benissimo, e contro i quali il praticante è messo

costantemente in guardia.

Il nucleo, che m’interessa rilevare, è che in questi dhyàna vi sia una struttura comune

con le diverse tappe dello Yoga classico evidenziate, ma non solo, negli Yoga Sùtra

di Patanjali. Un breve inquadramento del testo ci può servire allo scopo.

Lo Yoga è uno dei sei dharsana, vale a dire uno dei sei “sistemi di filosofia” indiani

ortodossi ammessi dal bràhmanesimo. Il termine Yoga ha, etimologicamente, diversi

significati nel caso presente è utilizzato nel senso di unione degli opposti, e indica

ogni tecnica d’ascesi e ogni metodo di meditazione. A fianco dello Yoga classico

esistono innumerevoli forme popolari a sistematiche di Yoga; quello buddhista, degli

jaina, quello Yoga di struttura magica con carattere sciamanico, e altri con struttura

mistica (41). Ciò che caratterizza lo Yoga non è solamente il suo aspetto pratico, ma

anche la sua struttura iniziatica. Non si può imparare lo Yoga da soli; è indispensabile

la direzione di un maestro (guru). Lo Yoga presenta un rigore iniziatico, perché come

altre iniziazioni religiose, lo yogi abbandona il mondo profano, la famiglia e la

società e, guidato dal suo maestro, s’impegna a superare i condizionamenti e i

comportamenti umani. Si assiste ad una morte, iniziatica, seguita da una rinascita in

un altro modo d’essere; quella rappresentata dalla Liberazione.

Da questo punto di vista Lo Yoga riprende e prolunga, su un altro piano, il

simbolismo arcaico e universale dell’iniziazione, già attestato, d’altronde, dalla

tradizione bràhmanica. In tale ambito l’iniziato è chiamato il “due volte nato”.

La rinascita iniziatica è definita da tutte le forme dello Yoga come l’accesso ad un

modo di essere non profano e difficilmente descrivibile, che le scuole indiane

esprimono con differenti nomi: moksha, Nirvana, asamskrta, bhodi ecc.

Tra tutti i significati che assume la parola “Yoga” nella letteratura indiana, quello

meglio precisato si riferisce alla “filosofia” Yoga (yoga-darshana) come è esposta nel

trattato di Patanjali lo Yoga Sùtra e nei relativi commenti.

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Darshana significa visione, comprensione, contemplare, ed è un sistema

d’affermazioni coerenti con il fine di liberare l’uomo dall’ignoranza, quindi dal

dolore. Grazie a Patanjali lo Yoga, da tradizione mistica, si è trasformato in sistema

filosofico. Vi è una lunga controversia riguardo la persona autrice degli Yoga Sùtra,

comunque sia queste controversie, riguardanti pure l’epoca di compilazione del testo,

non sono così importanti. Ciò che conta è che le tecniche d’ascesi e di meditazione

esposte da Patanjali (o chi per lui), certamente risalgono ad un’epoca molto antica;

non si tratta di sue personali scoperte, come il Buddha, bensì erano state sperimentate

molti secoli prima. Lo scopo era di compilare un manuale pratico di tecniche molto

antiche (42). La datazione del testo oscilla dal 2° secolo a.C. al 3° secolo d.C.,

cinquecento anni d’incertezza non sono poi tanto in una cultura orale come

quell’indiana, dove la tradizione è a tutto oggi presente. Il testo è composto di 196

sùtra divisi in quattro capitoli o sezioni. La Sezione prima si occupa della natura

generale dello Yoga e della sua tecnica. Ha lo scopo, in realtà, di rispondere alla

domanda: “che cosa è lo yoga?”. Poiché lo scopo essenziale dello Yoga è il samàdhi,

quest’ultimo occupa naturalmente il posto più importante, per il confronto con le

tecniche buddhiste, e sarà analizzato in seguito.

La prima parte della seconda sezione tratta della filosofia dei klesa ed ha lo scopo di

dare una risposta alla domanda: “perché si deve praticare lo Yoga?”. Vi si compie

un’analisi delle condizioni della vita umana, della miseria e sofferenza che tali

condizioni causano, simile a quella buddhista. La seconda parte della seconda sezione

tratta delle prime cinque pratiche della tecnica Yoga, alla quale si fa riferimento come

bhairanga, in altre parole esteriori. Tali pratiche hanno carattere preparatorio e

intendono mettere in grado l’asceta (sàdhaka) di praticare il samàdhi. La sezione è

intitolata Sàdhana Pàda ed ha lo scopo di preparare fisicamente, mentalmente,

sentimentalmente e moralmente il neofita alla pratica dello Yoga superiore.

La terza sezione tratta, nella prima parte, delle restanti tre tecniche pratiche Yoga,

alle quali si fa riferimento come antaranga, in altre parole interiori. Attraverso queste

pratiche, appunto, si giunge al samàdhi dove si svelano tutti i misteri della vita e si

acquistano i poteri (siddhi). Tale sezione è chiamata Vibhùti Pàda e nella seconda

parte si tratta in dettaglio delle conquiste ottenute.

Nella quarta e ultima sezione sono esposti i problemi filosofici essenziali che lo

studio e la pratica dello Yoga comportano. La natura della mente e della percezione

mentale, del desiderio e del suo effetto, della Liberazione (kaivalya) e dei risultati che

si conseguono sono sistematizzati. Poiché questi argomenti hanno a che fare con la

Liberazione, la sezione ha il titolo di Kaivalya Pàda.

Il soggetto del testo ha una natura profonda e le idee sono esposte sotto forma di

sùtra, che è un linguaggio antico molto efficace nella sua sinteticità, per esprimere

concetti filosofici e stati psicologici, tuttavia può prestarsi ad una gran varietà

d’interpretazioni. Vi è il rischio dell’interpretazione ideale e quello d’interpretazione

rigida, che cercherò di evitare.

“Yogas’ citta-vritti-nirodhah”ossia: “lo Yoga è la soppressione delle modificazioni

della mente” (43). E’ uno dei sùtra più utili alla comparazione con l’esperienza del

Buddha. Mi soffermo sul termine citta, che è il microcosmo dell’anima come riflesso

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del macrocosmo ed è comunemente chiamato Mente nella psicologia contemporanea,

ma ha una portata e un campo d’azione più vasto.

Il citta può considerarsi un mezzo universale attraverso il quale la coscienza

funziona su tutti i piani dell’universo manifesto, la “mente” nella psicologia resta

confinata ad esprimere unicamente il pensiero, la volizione ed il sentimento.

Non si deve, però, pensare il citta come una specie di mezzo materiale modellato in

diverse forme ogni volta che sono prodotte immagini mentali di diversa specie.

Esso è fondamentalmente della stessa natura della coscienza, che è immateriale, ma

influenzata dalla materia.

In realtà, può essere definito il prodotto di entrambi, della coscienza e della materia,

in altre parole del purusha e della prakriti, essendo necessaria per il suo

funzionamento, la presenza dell’uno e dell’altra. E’ come uno schermo intangibile

che consente alla luce della coscienza di proiettarsi nel mondo manifesto.

Probabilmente il segreto della sua natura può essere conosciuto solo attraverso

l’Illuminazione.

Il Buddha non nega la mente, la supera utilizzando proprio questa soppressione delle

modificazioni (vritti), che vanno intese non sole come creazioni mentali, ma anche

come stati di coscienza superiori al quotidiano. Quando sono completamente inibite

queste modificazioni della mente, a tutti i livelli, il veggente attinge l’auto-

realizzazione o come altro si vuole chiamare. Per pervenire a questo stato Patanjali

propone otto tipi di pratiche e, pertanto, è definito àstànga-yoga, vale a dire Yoga

costituito da otto membra.

Tali “membra” possono essere considerate sia come un gruppo di tecniche, sia come

tappe dell’itinerario ascetico spirituale il cui termine ultimo è la Liberazione

definitiva. Esse sono: 1° freni (yama); 2° le discipline (niyama); 3° le posizioni del

corpo (asana); 4° il ritmo della respirazione (pranayama); 5° il ritiro dei sensi

all’interno di sé (pratyàhàra); 6° la concentrazione (dhàranà); 7° la meditazione

(dhyàna); 8° samàdhi.

Si evidenzia un processo mistico e alchemico già segnalato da Jung.

Lo yogi può adottare qualunque di queste tecniche secondo delle proprie necessità e

temperamento, tali esercizi sono generalmente insegnati in forma in parte modificata

nelle varie scuole. Gli esercizi vanno proseguiti per lungo tempo e senza interruzione,

fino alla padronanza perfetta del desiderio, si diventa indifferenti alla gioia e al

dolore, all’attrazione e alla repulsione è lo stato chiamato vairàgya nell’analisi

buddhista. La ragione per la quale si ricerca questo stato di “distacco” è perché serve

a frenare ed annullare tutte le modificazioni mentali. Il desiderio influenza

costantemente il flusso di coscienza pertanto va trasceso e, di conseguenza, anche il

desiderio dell’auto-realizzazione.

L’ideale Yoga è diverso dall’ideale religioso ortodosso. In quest’ultimo, è prescritto

un tipo particolare di vita e di condotta e se il devoto di una religione particolare si

conforma a quel codice di comportamento, si aspetta di continuare a vivere dopo la

morte in un mondo superfisico o in un paradiso, fra ogni specie di gioie e felice.

I cieli delle varie religioni possono differire, ma l’idea generale è la medesima: se si

seguono certe norme e comportamenti ci si assicura la felicità eterna dopo la morte.

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La filosofia Yoga non nega l’esistenza del cielo e dell’inferno, ma presenta allo yogi

una meta ideale nella quale le gioie e i dolori della vita sono effimeri e illusori allo

stesso modo del regno celeste. Si trascende anche la gioia suprema dell’Illuminazione

attraverso il vairàgya. E’ la distruzione di tutte le opinioni e ricerche della

beatitudine, affermato dal Buddha, ma come vi arriva lo yogi?

Non solo attraverso lo sforzo, come si penserebbe, bensì attraverso la propria facoltà

discriminatrice chiamata viveka, emanazione dello spirito (purusha), il Sé.

Per lo Yoga e il Sàmkhya (la filosofia sorella), il Sé è puro, eterno e libero, non può

essere asservito perché non può avere rapporti, se non con se stesso. L’uomo però,

crede che lo spirito sia asservito e pensa che possa essere liberato. Sono illusioni della

vita psico-mentale, perché in realtà lo spirito è libero dall’eternità. Se la sua

liberazione appare come un dramma, è perché ci si pone da un punto di vista umano,

lo spirito è uno spettatore, come pure la liberazione non è che un prendere coscienza

della sua libertà eterna. L’uomo crede di soffrire, crede d’essere asservito, crede di

desiderare la liberazione, ma nel momento in cui comprende, essendosi risvegliato,

l’Io materiale come prodotto di prakriti, comprende simultaneamente che l’intera

esistenza è una catena di momenti dolorosi, mentre il vero spirito contemplava

impassibile il dramma della personalità. La personalità umana, perciò, non esiste

com’elemento ultimo, non è che una sintesi d’esperienze psico-mentali, e si

distrugge. In altri termini cessa d’agire, non appena la rivelazione è un fatto

compiuto. Una volta avvenuto il Risveglio, la personalità diventa inutile.

Secondo Eliade, la situazione del purusha qual è configurata dallo Yoga è

paradossale (44). Per quanto puro, eterno e intangibile, lo spirito si presta non di

meno ad associarsi alla materia, non fosse altro che illusoriamente; anche per

prendere coscienza del proprio modo d’essere e “liberarsi”, è ancora obbligato a

servirsi di uno strumento creato dalla prakriti (in questo caso l’intelligenza).

Senza dubbio, se guardiamo le cose in questo modo, l’esistenza umana ci appare

drammatica.

Se lo spirito è libero, perché gli uomini sono condannati a soffrire nell’ignoranza o a

lottare per la libertà che già possiedono? Se il purusha è perfettamente puro e statico,

perché permette l’impurità, il divenire, l’esperienza, il dolore e la storia?

Sono questioni e problemi applicabili anche al bràhmanesimo e irrisolvibili, se non

con la categoria della fede. La filosofia indiana non giudica il Sé da un punto di vista

storico o logico, non cerca le cause che hanno determinato l’attuale stato di cose.

Bisogna accettare la realtà qual è. Per evitare il paradosso di questo Sé assolutamente

privo di contatto con la Natura e autore del dramma umano, il buddhismo ha

eliminato “l’anima-spirito”, intesa come unità spirituale irriducibile e l’ha sostituita

con gli stati di coscienza.

Concorderei perfettamente con Eliade se il purusha fosse considerato effettivamente

come reale, ma ritengo che sia un postulato, un mezzo utile, un “facilitatore” per

arrivare alla Liberazione finale. A questo punto si è liberi anche dallo Spirito.

Utilizziamo pure il linguaggio allegorico delle varie dottrine trasponendolo, però, in

un piano psicologico di “stato coscienziale”, ma anche questa modalità espressiva è

pur sempre un mezzo per esprimere un’inesprimibile che solo l’esperienza diretta può

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far realizzare. Lo stato di samàdhi mi può servire: cerco di vederlo nella giusta

prospettiva degli Yoga Sùtra approfondendo un poco.

Il samàdhi può definirsi generalmente come un processo per penetrare negli stati

profondi della propria coscienza, la quale funziona attraverso diversi gradi della

mente. La Coscienza è un aspetto della Realtà ultima che si manifesta, e la sua

espressione dipende dal particolare grado della mente attraverso la quale essa

funziona, nel senso che più rozzo è il mezzo più limitata è l’espressione.

Secondo Patanjali, l’involuzione progressiva della coscienza nella materia avviene

per stadi successivi, allo stesso modo, l’evoluzione dalla materia avviene in stadi

progressivi e di liberazione dai limiti materiali. I diversi stadi del samàdhi

rappresentano questa liberazione progressiva della coscienza dalle limitazioni nelle

quali si trova impigliata, ed il kaivalya è quello stato nel quale essa può tornare a

funzionare in perfetta libertà e ciò, lo interpreto come un liberarsi pure da se stessa.

Poiché la coscienza funziona a diversi livelli, secondo i diversi gradi della mente,

attraverso vari meccanismi chiamati “veicoli” (kosha), il suo liberarsi può essere

considerato il ritirarsi da un veicolo ed entrare in un altro più raffinato.

Questo ritirarsi progressivo della coscienza, nel samàdhi, in veicoli sempre più

raffinati sono gli stadi del samàdhi. Nei primi sùtra del Vibhùti Pàda, la terza sezione

del nostro testo, sono descritti gli stati di coscienza così indicati come nel Canone

Buddhista.

Nel primo s’indica la concentrazione (dhàranà), come il confinarsi della mente entro

l’oggetto della concentrazione. La psicologia orientale riconosce gli usi del tipo

ordinario di concentrazione, ma in questo caso la pratica ha un senso più mirato. In

questo primo stadio, la mente si trova confinata entro una sfera limitata, definita

dall’oggetto sul quale essa si concentra. E’ un confinamento entro un territorio che

consente una limitata libertà di movimento. Soltanto quando la mente perde il

contatto con l’oggetto, ed in essa penetra un oggetto irrilevante o estraneo, si può

ritenere che la concentrazione sia interrotta. Il lavoro principale consiste nel tenere

impegnata la mente sull’oggetto e nel riportarla immediatamente indietro non appena

la connessione si spezzi.

Nel secondo sùtra il flusso ininterrotto della mente verso l’oggetto, scelto per la

pratica, diventa contemplazione o meditazione (dhyàna) in Cina diventerà Ch’an e

Zen in Giappone. In questo stadio vi è un contatto continuo, non interrotto, tra mente

e oggetto, pertanto si deve considerare questa continuità di flusso come un’unità di

misura del controllo necessario sulla mente e dell’intensità della concentrazione.

L’”attingimento” di questo stadio rivela che la mente sta preparandosi all’ultimo

stato, il samàdhi. Il terzo sùtra indica che nella contemplazione, quando vi è

consapevolezza unicamente dell’oggetto della meditazione e non di se stessa (della

mente), è il samàdhi. Questo stato segna il culmine di tutta la preparazione

precedente, volta a porre la mente in grado di sprofondare nel regno delle realtà,

nascoste dietro il mondo fenomenico. Patanjali definisce questa scomparsa della

consapevolezza di se stessa da parte della mente: “La forma propria o natura

essenziale della mente scompare, la vera forma essenziale è il vuoto (svarùpa-

sùnyam)” (45). Ritroviamo la stessa esperienza comunicata dalle varie correnti

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buddhiste, tuttavia procedendo c’è qualche differenza. Piuttosto che una conoscenza,

il samàdhi è uno “stato”, una modalità specifica e si ritrova in molte tradizioni

religiose, non esclusa quella cristiana. Nello Yoga, però, questo “stato” rende

possibile l’autorivelazione del Sé attraverso l’esperienza diretta. Vi sono nello Yoga

diversi tipi di samàdhi, non menzionati in altre religioni, vale a dire non tutti i tipi di

samàdhi realizzano la Liberazione finale. Patanjali afferma due tipi distinti di “stati”

uno con sostegno (samprajnàta) e l’altro senza sostegno (asamprajnàta).

Ci troviamo in presenza di due classi di “stati”, nettamente differenti; nel primo caso

quando il samàdhi viene ottenuto tutte le funzioni mentali sono arrestate ad eccezione

di quella che medita sull’oggetto. Nel secondo caso scompare qualsiasi forma di

“coscienza” e si ottiene il totale rapimento. Senza dubbio anche in questo secondo

caso vi è stato lo sforzo dello yogi per ottenerlo.

Non ritratta di un dono, né di uno stato di grazia, seppure si rilevano degli stati

mistici avvenuti per grazia divina. E’ il coronamento delle innumerevoli

concentrazioni e meditazioni precedenti, ma giunge senza essere chiamato, senza

essere provocato, senza una specifica preparazione; per tanto Eliade lo definisce

come un “ratto” (46). Nel samprajnàta samàdhi vi sono pure diverse fasi: ciò è

dovuto al fatto che esso è perfettibile e non realizza uno “stato” assoluto e

irriducibile.

Si distinguono a tal proposito quattro fasi ma, come sottolinea Vijnana Bhiksu, un

altro commentatore di Patanjali, i termini sono puramente tecnici; essi sono delle

applicazioni convenzionali a differenti forme di realizzazione. La grazia del Dio

(Ishvara) permette, in alcuni casi, di raggiungere direttamente gli stadi superiori, e

allora è inutile tornare indietro per realizzare gli stadi preliminari. Queste fasi tuttavia

devono essere superate se si vuole penetrare nell’essenza delle cose.

Se nello stato del samprajnàta samàdhi, considerate pure le varie fasi, vi è ancora una

seppur minima coscienza, nel asamprajnàta samàdhi questa differenza scompare.

Esistono due vie, due possibilità, per raggiungere l’ultimo “stato” la via tecnica

(upaya) e la via naturale (bhava) (Y. S., !°, 18). La prima si conquista tramite il

samàdhi la seconda è possibile solo agli dèi immersi nella materia, in questo modo lo

yogi è equiparato agli dèi ed agli esseri sovrumani.

La prima norma è quella più apprezzata e ritenuta stabile e: cosa succede a questo

punto? Ebbene secondo Eliade il frutto dell’asampràjnata samàdhi, il Kàivalya è

raggiunto, non vi è l’arresto definitivo d’ogni esperienza psico-mentale come

nell’esperienza del Buddha, ma piuttosto una condizione particolare dello Spirito

considerata come “rivelazione”. L’intelletto (buddhi), compiuta la sua missione, si

ritira, distaccandosi dallo Spirito ritorna alla materia. Il Sé rimane così libero e

contempla se stesso, la coscienza umana è soppressa; essa non funziona più, le sue

parti si riassorbono nella sostanza primordiale. Lo yogi raggiunge la Liberazione,

come un morto egli non ha più rapporto con il mondo è un “morto nella vita”. E’ un

jìvanmukta, un “liberato in vita”, non vive più nel tempo, non è più assoggettato al

tempo, vive in un eterno presente (47). Il finale dello Yoga è paradossale, giunti

all’incontro con il Sé, non si ha più possibilità di precisare in quale misura sia ancora

lecito parlare della contemplazione del Sé o di una trasformazione ontologica

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dell’uomo. La semplice riflessione dello Spirito è molto più di un atto di conoscenza

mistica, poiché permette allo Spirito di avere il dominio di se stesso, ma lo ha sempre

avuto. Non si può affermare questa presa di possesso come semplice conoscenza di

sé, perché vi è una rottura di livello l’essere Spirito coincide con il non essere uomo.

La “conoscenza” è considerata come dominio magico residuo arcaico dello

sciamanesimo. Pur con queste contraddizioni, superate da altre scuole, è innegabile il

contributo tecnico dello Yoga, inoltre si possono considerare i vari concetti espressi

come postulati con possibilità di cambiamento e di conoscenza del subconscio.

Eliade, pure, ammette che a differenza della psicoanalisi, lo Yoga ritiene che il

subcosciente possa essere dominato dall’ascesi e addirittura conquistato, mediante la

tecnica d’unificazione degli stati di coscienza, di cui ho trattato. L’esperienza

psicologica e parapsicologica dell’Oriente in generale e dello Yoga in particolare è,

incontestabilmente, più vasta e meglio organizzata dell’esperienza in base alla quale

sono state costruite le teorie occidentali sulla struttura della psiche. È dunque

probabile che, anche su questo punto, lo Yoga abbia ragione e che il subcosciente, per

quanto paradossale possa sembrare, possa essere conosciuto, padroneggiato e

conquistato (48). Molto prima della psicoanalisi, lo Yoga ha mostrato l’importanza

svolta dal subcosciente, proprio nel dinamismo dell’inconscio, esso vede l’ostacolo

più serio che lo yogi debba superare. Le “latenze” (vàsanà) vogliono uscire, durante

gli stati meditativi, e attualizzarsi in stati di coscienza. La resistenza, che il

subcosciente oppone ad ogni atto di rinuncia e d’ascesi, a ciascun atto che potrebbe

avere per effetto la liberazione del Sé è il segnale che si sta scendendo sempre più

profondamente dentro il subconscio. Ad ogni livello di profondità appaiono tali

latenze che attualizzandosi nella mente del meditante s’annullano. In realtà già questa

è una liberazione ed un’accettazione di quello che si è.

Diversamente, anzi all’opposto, per Eliade queste apparizioni e sparizioni delle

latenze nell’orizzonte mentale tradiscono il rifiuto di se stessi (49). Siamo distanti su

questo punto.

Diversamente da Freud, lo Yoga non vede nell’inconscio solo la libido. Nello Yoga si

mette in luce il circuito che collega coscienza e subcosciente, e ciò lo porta a

considerare il subcosciente sia come matrice sia come ricettacolo di tutti gli atti, gesti

e intenzioni egoiste, dominate dal desiderio d’autosoddisfazione, d’appagamento, di

“sete”. Dal subcosciente deriva e ivi ritorna, per motivi karmici, tutto ciò che vuole

manifestarsi per avere una forma, per mostrare la propria “potenza”, per precisare la

propria individualità. Tutto ciò visto in prospettiva del Sé è una rappresentazione, un

gioco, magari tragico cui si può porre fine lasciando che si estingua. Siamo dal punto

di vista dell’osservatore che guarda divertito tutto ciò che succede, è vero, forse è

troppo semplice, ma può essere sperimentato e se funziona accolto.

Non per fede, affermano Yoga e il Buddha, ma per sperimentazione diretta si

perviene a quello che si é. La disperazione o fede d’Eliade evidenzia non tanto

l’uomo decaduto e che quindi può salvarsi solo tramite la fede in Dio, quanto l’uomo

al bivio. Ad Ercole si prospettano solo due strade: o l’una o l’altra, una giusta e l’altra

sbagliata. Siamo in una dualità e non altro? Se così fosse sarebbe tragico, ma perché

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non andare oltre sviluppando tutte quelle capacità che fanno dell’uomo quello che è?

Perché non ritrovare il “Senso” attraverso l’etica del vuoto, ma vi è?

Il problema dell’etica nella vacuità

L’incontro con l’atman, Dio o la Coscienza assoluta fa esperire il Principio supremo

del cosmo o la Realtà ultima, o la vacuità che sia, e durante questi stati di coscienza,

o dopo, pongono il quesito della morale. Questa forte propensione della psiche umana

ad affrontare una valutazione morale di sé si riflette nel giudizio divino,

nell’escatologia mitologica di varie culture.

Entrando nelle profondità del processo d’autoesplorazione, si scoprono emozioni ed

impulsi problematici di cui si è totalmente inconsapevoli: gli aspetti oscuri e

distruttivi dell’inconscio, che Jung ha chiamato “Ombra”. Sono le deità terrifiche nel

tantrismo, e tale scoperta può essere davvero terrificante ed insopportabile.

Alcuni di questi elementi oscuri rappresentano le reazioni di fronte agli aspetti

dolorosi della storia personale, soprattutto traumi dell’infanzia e della fanciullezza.

Per Stanislav Grof, l’intenso potenziale distruttivo sembra essere associato con il

livello perinatale della psiche, il regno dell’inconscio connesso con il trauma della

nascita. Le ore d’esperienze dolorose e pericolose, collegate con il passaggio

attraverso il canale del parto, provocano nel feto una reazione violenta. Si crea così

un deposito di tendenze aggressive che si racchiudono nell’inconscio per il resto della

vita, per questo occorre affrontarle e trasformarle in qualche modo durante

l’autoesplorazione (50). E’ evidente che le varie doppie personalità dei romanzi non

siano solo dei personaggi fittizi, ma gli aspetti Ombra dell’essere umano.

Chi è stato capace di guardare in profondità, nella propria psiche, spesso ammette di

aver scoperto dentro di sé un potenziale distruttivo e malvagio.

Di fronte ad intuizioni così terribili, è normale sperimentare ansietà nei confronti

della propria natura e, ancora di più, ad accettarla. Quando l’autoanalisi va in

direzione transpersonale sorgono seri quesiti etici sull’umanità nel suo insieme.

Le esperienze religiose sono di carattere transpersonale, pertanto, molto spesso fanno

vivere drammatiche scene storiche ed evidenziano la violenza, la cupidigia e impulsi

sfrenati da cui le apocalissi. Ciò solleva numerosi interrogativi sulla natura dell’uomo

e sul rapporto tra bene e male. Che cosa diciamo di fronte alle carneficine, alle

guerre, agli stermini di massa, all’Olocausto, ai lager? A tutto quello che Erich

Fromm ha definito “aggressione maligna”? Di solito quando vi è un processo

d’autoesplorazione si accede a vari livelli di coscienza e si ottiene l’accesso ad

informazioni ed intuizioni su argomenti d’etica, e risposte ai vari problemi morali.

Per un certo verso, il giudizio morale sulle faccende quotidiane può cambiare

drasticamente senza le intuizioni dei livelli più elevati di coscienza, ma con il senno

di poi quella che era stata considerata un’azione benefica è sinistra. Il mistero del

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bene e del male diventa ancora più confuso se si mettono a confronto i codici morali

e spirituali di varie culture.

Le questioni etiche, come ipotesi, potrebbero provenire da livelli di coscienza non

facilmente accessibili, soprattutto quelle che riguardano la dimensione spirituale.

L’introduzione di criteri religiosi nelle situazioni del quotidiano, tuttavia, può

diventare inibente se ciò avviene in maniera estrema, senza il filtro delle

considerazioni pratiche. Durante le esplorazioni dell’inconscio, e vi sono diversi

metodi a riguardo, si scoprono degli archetipi e delle successioni che formano gli

eventi della realtà materiale. Qui, il tema centrale è la dicotomia fondamentale

presente nel mondo archetipico. Il pantheon di questi esseri o forze comprendono sia

il principio del bene sia quello del male, in tale ottica, essi sono i responsabili degli

eventi che accadono sulla Terra. Simili entità, è chiaro, sono manifestazioni non

autonome ma dipendono da “qualcosa d’altro” che li trascende. Ciò fa sorgere la

domanda: esiste un Principio creativo Unico?

Conosciamo benissimo le risposte della teologia, delle religioni e delle varie filosofie,

però ciò che è fondante sono le esperienze d’identificazione con la Coscienza

Assoluta o con il Vuoto.

Tali esperienze implicano la trascendenza di tutte le polarità, ivi inclusi gli opposti

del bene e del male, e contengono tutta la gamma della creazione ma in forma non

manifesta, poiché pura potenzialità.

Le considerazioni etiche, infatti, sono applicabili come categorie al mondo dei

fenomeni concreti ma essi stessi fanno parte del processo di creazione; dunque, non

hanno un’esistenza indipendente ed assoluta. Uno dei “motivi” della creazione, che si

ritrova in varie religioni, sembra essere il bisogno del principio creativo di conoscere

se stesso. La tesi che “Dio possa vedere Dio”, oppure “Il Volto possa contemplare il

proprio Volto” è una costante spirituale. L’esistenza di una parte oscura del creato

non fa altro che far risplendere il Luminoso, e ciò dà una straordinaria ricchezza e

profondità al dramma umano.

L’assenza del male metafisico ridurrebbe il bisogno della religione, giacché Dio

senza un avversario come il demonio diventerebbe comodo e scontato, tuttavia

ripulendo il creato dall’Ombra cosmica il mondo, forse, sarebbe poco interessante.

A mano a mano, che il processo d’autoesplorazione esperenziale procede, si scopre

che la creazione è dicotomizzata a tutti i livelli in cui s’incontrano forme e fenomeni

separati.

Sotto quest’aspetto, il male è intimamente connesso con il meccanismo dinamico

della percezione individuale ovverosia: il male e la sofferenza sono basati su una

falsa percezione della realtà, in particolare sulla credenza dell’uomo di costituire un

Sé indipendente e separato.

L’esempio che illustra meglio è il processo della morte e della rinascita psico-

spirituale, durante il quale le esperienze d’agonia, di terrore compiuto da divinità irate

sono seguite da un senso di ricongiungimento, d’unione con la fonte spirituale.

Secondo le cronache riportate dopo di tali esperienze cosmiche, tutti i confini che si

percepiscono solitamente nell’universo sono arbitrari e illusori, nella realtà assoluta

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ciascun ruolo nel dramma cosmico ha, in ultima analisi, soltanto un unico

protagonista: gli interpreti sono tutti lo “stesso”.

In ogni discussione metafisica sull’esistenza del male occorre tenere

pragmaticamente in considerazione il concetto di “vacuità”, precedentemente trattato.

La ragione per cui si decide d’interpretare il proprio personaggio, come realtà

separata, è perché si è interessati a tal esperienza e ciò è bene, purché lo sappia.

La consapevolezza del vuoto che sta alla base del mondo delle forme può aiutare

significativamente di fronte alle difficoltà.

Nello stesso tempo, non rende l’esistenza meno importante e non interferisce nella

capacità di gustare anche quegl’aspetti piacevoli e gioiosi della vita.

E’ un atteggiamento che accetta il male giacché parte intrinseca della creazione,

perché si arriva alla consapevolezza dei comportamenti dannosi fondandosi sulla

conoscenza e comprensione dell’ordine universale, che è esperenziale. Qualunque

decisione etica è un atto creativo, che riflette lo stadio di coscienza in cui si vive e

attraverso le informazioni di cui si dispone.

Poiché il male è intrinsecamente intessuto nella struttura cosmica ed è indispensabile

per l’esperienza, non può essere sconfitto né sradicato. Tuttavia, sebbene non sia

possibile eliminare il male dallo schema generale delle cose può essere riconosciuto,

e si possono sviluppare vari modi per fronteggiarlo.

Non è possibile evitare la sofferenza, ma si riesce ad influire in qualche modo sul

momento in cui avviene e sulla forma che prende attraverso l’autoesplorazione.

L’autoesplorazione è imparare a vedere in profondità nelle cose per comprenderne la

vera natura, in modo da non cadere inutilmente nella sofferenza e nelle sensazioni

sgradevoli. Essa è una pratica, un’esperienza affine a molte tecniche spirituali, ma

non può essere confinata dentro schemi religiosi, perché è parte dell’uomo.

L’esperienza dello stato illuminato è inseparabile dalla saggezza e dalla compassione,

quest’ultimo termine inteso con un significato ampio che include l’amore, come

affermano le scuole buddhiste (51).

Il Risveglio fa emergere l’etica dell’amore senza necessariamente passare attraverso

la fede in Cristo, e ciò può essere condivisibile anche da un ateo, con buona pace

d’Armido Rizzi (52).

Il frutto dell’esperienza della vacuità è la compassione, pertanto, come afferma

James, è il senso comune che deve giudicare (53).

Ci si trova davanti a un nuovo momento, ad un’etica raggiungibile per via

esperenziale. Compassione per ottenere l’armonia sulla terra e come principio di

responsabilità universale: il dovere etico di trasformare se stesso per ritrovare quello

che si è; e si è sempre stati. Il tutto empiricamente, sperimentabile.

Ancora di più, la compassione può considerarsi il punto d’incontro tra religioni e

filosofie atee in un proficuo dialogo culturale. Auspicabile.

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Note

1) William, James, Invito al pensiero, a cura di Giuseppe Ricondra, Mursia, Milano

1999. Pag. 152.

2) Alfred, North, Whitehead, La scienza e il mondo moderno, Boringhieri,

Torino,1979. Pag. 109.

3) Buddha, a cura di L. V. Arena, Newton, Milano, 1996. Pag. 8

4) Canone Buddhista, a cura di Pio, Filippani, Ronconi, Vol. 1° Utet Torino 1986.

Pagg. 151, 154.

5) Thich, Nhat Hanh, Vita di Siddhartha, Ubaldini, Roma, 1992. Pag. 83.

6) Fritjof, Capra, Il Tao della fisica, Adelphi, Milano, 1982. Pagg. 215, 216.

7) A. N. Whitehead, La scienza e il mondo moderno, CIT. Pag. 79.

8) William, James, Le varie forme dell’esperienza religiosa, Morcelliana, Brescia,

1998. Pag. 53.

9) Gianluca Magi, Quaderno Indiano, Rimini, presso l’istituto Scienze dell’uomo,

2002. Pag. 23.

10) Nisargadatta Maharaj, Io sono quello, Rizzoli, Milano, 1982 Vol. 2°. Pag.80.

11) Chogyal, Namkhai, Norbu, La suprema sorgente, Ubaldini, Roma, 1997.

Pag. 174.

12) Keizan, Lo Zen nell’arte dell’illuminazione, a cura di T. Cleary, Ubaldini, Roma,

1994. Pag. 22.

13) E., Conze, I libri buddisti della sapienza, Ubaldini, Roma,1976. Pag. 9.

14) S., Batchelor, Il buddhismo senza fede, Neri Pozza, Vicenza, 1998. Pag. 86.

15) Laura, Zago, Simplegadi, quaderno di filosofia interculturale, n. 22 ottobre,

Padova, 2003. Pag. 52.

16) Batchelor, op. cit. Pag. 84.

17) Ibid. Pag.86.

18) G. Chang, The Buddhist Teaching of Totality, The University of Pennsylvania

Press, University Park, 1971. Pag. 61.

19) Hosaku, Matsuo, The logic of Unity, the Discovery of Zero and Emptiness, in

Prajnaparamita Thougt, State University of New York, 1987. Pag. 115.

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20) Alex,Vayman, Secret of the Heart Sutra, University of California Press,

Berkeley.,1977. Pag. 142.

21) Leonardo, Vittorio, Arena, La Filosofia Indiana, Newton, Roma, 1995. Pag. 19.

22) Laura, Zago, Simplegadi, quaderno di filosofia interculturale, n.1 Padova, 1996.

Pag. 79.

23) Carl, Gustav, Jung, Memorie, Sogni, Riflessioni, a cura di: Anela Jaffe,

Saggiatore, Milano, 1965. Pag.124.

24) Ibid. Pag. 124.

25) Carl, Gustav, Jung, The Practice of the Psychotherapy, Princeton, Princeton

University Press, 1966. Pagg. 7-8.

26) Ibid. Pag. 46.

27) C., G., Jung, Mysterium Coniunctionis, Princeton, Princeton University Press,

1970. Pag. 528.

28) Carl, Gustav, Jung, The Practice of the Psychotherapy, op. cit. Pag.108.

29) Radmila, Moacanin, La Psicologia di Jung e il Buddhimo Tibetano,

a cura di: Adalia Samten, Chiara Luce, Pomaia, 1995. Pag 55.

30) Ibid. Pag.57.

31) C., G., Jung, The Archetypes and the Collective Unconsciuos. Princeton,

Princeton University Press, 1969. Pagg. 42-56.

32) Ibid. Pag. 48.

33) Antony, Stevens, Su Jung, Astrolabio, Roma, 1991. Pag. 129.

34) Mircea, Elide, Il Mito dell’eterno ritorno, Borla, Roma, 1999. Pag. 13.

35) Ibid. Pag. 27.

36) Ivi, pag. 6.

37) Mircea, Eliade, Patanjali e lo Yoga, Celuc, Milano, 1984. Pag. 126.

38) Ibid. Pag. 127.

39) Canone Buddhista, a cura di: Eugenio, Frola, Vol. 2°, Utet Torino, 1986. Pag.

560.

40)Mircea, Eliade, Patanjali e lo Yoga, op. cit. Pag 146.

41) Mircea, Eliade, Lo Yoga, Rizzoli, Milano, 1995. Pag. 20.

42) Ibid. Pag. 24.

43) I., K., Taimni, La scienza dello Yoga, Ubaldini, Roma, 1970. Pag. 18.

44) Mircea, Eliade, Patanjali e lo Yoga, op. cit. Pag. 32.

45) I., K., Taimni, La scienza dello Yoga, op. cit. Pag. 258.

46) Mircea, Eliade, Lo Yoga, op. cit. Pag. 86.

47) Ibid. Pagg. 98- 99.

48) ivi. Pag. 55.

49) ivi. Pag. 56.

50) Stanislav, Grof, Il gioco Cosmico della Mente, Red, Como, 2000. Pag. 88.

51) Richard, Robinson, La Religione Buddhista, Ubaldini, Roma, 1998. Pag. 237.

52) Armido, Rizzi, Il Sacro e il Senso, Leumann, Torino, 1995. Pag. 184.

53) William, James, Le varie forme dell’esperienza religiosa, op. cit. Pag.296.

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Bibliografia

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Stanislav, Grof, Il gioco Cosmico della Mente, Red, Como, 2000. Pag. 88.

Thich, Nhat Hanh, Vita di Siddhartha, Ubaldini, Roma, 1992. Pag. 83.

William, James, Invito al pensiero, a cura di Giuseppe Ricondra, Mursia, Milano 1999. Pag. 152.

William, James, Le varie forme dell’esperienza religiosa, Morcelliana, Brescia, 1998. Pag. 53.

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INDICE

Prefazione --------------------------------------------------------- 2

L’illuminazione d Gautama ------------------------------------- 4

Conoscere è vedere con gli occhi del Buddha ------------------- 9

Rùpam sùnyatà sùnyataiva ------------------------------------------ 14

La cura delle anime --------------------------------------------------- 19

Il processo di salvazione nello Yoga ------------------------------ 28

Il problema dell’etica nella vacuità ------------------------------- 36

Cesena, 21, 4, 2004