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Seconda parte Le forme della visibilità

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Seconda parteLe forme della visibilità

La mappa della città e il suo ritrattoProposte di ricerca1

Nell’Utopia di Tommaso Moro – che fu un best-selleragli inizi del XVI secolo, e che oggi consideriamo un te-sto paradigmatico per la filosofia, la teoria e la praticaarchitettonica e urbanistica – la “realtà” della città sitrovava simultaneamente affermata e denegata. Sancitadalla sua presenza moltiplicata e dall’attenzione di cuiera oggetto, ma come idealmente, teoricamente cancel-lata dalla sua integrazione a differenti spazi dai qualitraeva tuttavia le sue dimensioni e funzioni essenziali.

Non ci aveva perciò sorpreso constatare che il testodi Tommaso Moro assegnava un posto capitale – gerar-chicamente primario rispetto alle continuità e alle evolu-zioni della storia – alla geografia, nel senso etimologicodi scrittura della terra: spazi e luoghi geografici così arti-colati costituivano simultaneamente degli artefatti del le-gislatore fondatore e degli artefatti dello scrittore. “Uto-pia” è infatti al contempo un’isola artificiale costruita daUtopus e la pianta di un’isola descritta-scritta da Moro.Ma nello stesso tempo questa isola era in un certo mo-do, e persino nel suo tracciato, anche una schematizza-zione dell’Inghilterra.

Questa geografia trovava in realtà la sua più comple-ta realizzazione in una cartografia: la geografia dell’isolasi costruiva nella scrittura di una mappa che consistevaessenzialmente in un dispositivo di cinquantaquattrocittà disperse nella campagna, tutte equidistanti e tutte

simili, che costituivano in tal modo, con una sempliceschematizzazione, una disseminazione regolare di luoghiurbani. Questo dispositivo prevedeva tuttavia una cittàcapitale e centrale. Di qui il problema chiave di come ar-ticolare, sulla “carta”, regolarità geometriche ridondantie ripetute con una centralità che implica necessariamen-te una gerarchia e una norma.

Questo testo segnalava infine l’importanza di una ar-chitettura urbana, un’“architettografia”: la città e i suoiquartieri, le sue case, le sue strade, i suoi giardini. Que-sta architettura urbana totalizzava e gerarchizzava a untempo una topografia (articolazione di luoghi e di spazi),uno spazio politico e una dinamica economica. La carto-grafia della città, nei suoi luoghi e nei suoi spazi, si iden-tificava con un progetto politico-economico: essa nonera altro che la scrittura (il dessein/dessin2) di questoprogetto. La totalizzazione dell’una inscriveva nello spa-zio la perfezione dell’altro: cos’é un progetto perfetto senon – come la parola “perfetto” significa – un progettointeramente realizzato? La totalizzazione cartografica(utopiana) significava la realizzazione completa (la per-fezione) del progetto utopico. Detto altrimenti, essa si-gnificava la sua scomparsa.

In compenso, l’analisi minuziosa della topografia (fit-tizia) della città nei suoi luoghi e nello spazio a essa cir-costante, nelle sue relazioni con lo spazio politico e conla dinamica economica, ci rivelava delle mancanze, deivuoti: assenze o eccessi, sovradeterminazioni e conden-sazioni. Ora, queste mancanze e questi eccessi (che po-tevano apparire solo nel discorso analitico del libro, me-tatesto descrittivo) facevano sistema. Le incoerenze lo-cali (tale o talaltro luogo del testo) costituivano una coe-renza globale. Nella cartografia riappariva un progettoche non era voluto né dall’eroe utopiano né dallo scrit-tore utopista; un progetto non intenzionale, ma che co-stituiva l’intenzionalità del dispositivo cartografico. Le

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incoerenze della mappa (che facevano sistema) disegna-vano e proiettavano sulla mappa stessa, all’alba del XVIsecolo, ciò che potremmo chiamare la maturità di un’or-ganizzazione capitalista del mondo. Si poteva cercare didimostrarlo a partire da tre considerazioni:

1. Una mappa della città rappresenta la produzionedi un discorso sulla città.

2. L’analisi decostruttiva – è un paradosso ironico fa-re questa proposta a persone che hanno la funzione dicostruire – di questa rappresentazione mette in luce leideologie (i presupposti impliciti) sui quali tale discorsosi fonda.

3. Una mappa della città è un’“utopica”: lascia appa-rire luoghi e spazi non coerenti; ed è proprio questo in-sieme di non-coerenze a raffigurare il progetto di cui lamappa è portatrice (dico “raffigurare” per conservare ivalori di finzione e di simulazione che caratterizzano laforma di manifestazione del progetto).

Il commento di questi tre assunti ci fornirà alcunistrumenti di lavoro.

Prima osservazione: una mappa della città è la rap-presentazione della produzione di un discorso sullacittà, di uno o di una serie complessa di atti di linguag-gio, cioè precisamente di un’enunciazione. Come ognidispositivo rappresentativo, la mappa possiede due di-mensioni. La prima è transitiva: una mappa rappresentaqualcosa – il suo oggetto. La seconda è intransitiva o ri-flessiva: essa si (rap)presenta rappresentando qualcosa –il suo soggetto. In quanto rappresentazione, una mappasignifica (asserisce il suo enunciato, il tema) e al contem-po mostra che significa. Questa “mostrazione” o presen-tazione costituisce l’enunciazione cartografica, di cuivanno ricercate le modalità specifiche. Nel linguaggio,esse possono dipendere o dalle grandi funzioni sintatti-che (interrogazione, intimazione, asserzione), o dai modi

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verbali (optativo, congiuntivo) che enunciano degli at-teggiamenti del locutore rispetto a ciò che egli enuncia(preghiera, speranza, apprensione, attesa…), o da ope-ratori di incertezza, di possibilità, di necessità (“forse”,“apparentemente”, “sempre”), ecc. Si noterà ugualmen-te che da questo punto di vista la mostrazione, o enun-ciazione, non può essere sottoposta a una prova veridit-tiva. Si dovrà perciò prestare particolare attenzione allemodalità deontiche (la prescrizione, la permissività, lafacoltatività, l’interdizione) o a certe forme sottili dell’in-timazione come l’“istruzione”, il cui esempio tipico sonole “istruzioni per l’uso” redatte all’infinito che incontria-mo nella presentazione delle ricette di cucina, degli iti-nerari turistici, dei procedimenti di fabbricazione o dellaposologia dei medicinali.

Uno degli interrogativi che possiamo porre alla map-pa, alla pianta cartografica della città, è dunque quellodella sua enunciazione, della sua autopresentazione nelsuo rappresentare una città. La pianta della città erachiamata un tempo ritratto di città. Il ritratto di un indi-viduo e quello di una città pongono in effetti problemisimili riconducibili tutti alla questione della città comeindividuo. Da cosa riconosciamo che un ritratto o unapianta sono effettivamente tali? Cosa significa il criteriodella somiglianza? Che posto hanno la finzione e la figu-razione nell’esattezza e la fedeltà di una pianta? Questafedeltà è forse un’esigenza razionale che funziona comeun’illusione di lettura? Quali potrebbero essere i livellidi questi effetti?

Il termine stesso portrait [“ritratto”] è interessante erivelatore: il “pro-trait”, è ciò che viene portato in primopiano, pro-dotto, estratto o astratto dall’individuo ritrat-to. È un modello, nel senso epistemologico del termine,ma è anche ciò che è messo al posto di… , invece di… ,ciò che è sostituito a… In portrait, il tratto, la linea trac-ciata, rinvia alla traccia, alle vestigia, al resto o alla “rovi-

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na”, ma anche al dessin che è un dessein e, in fin deiconti, al pro-getto: questo dessin-dessein costituirebbe lastruttura stessa del pro-getto come intenzione di azioneorientata, significante, intenzionalità, ossia, in breve, lastruttura dell’enunciazione. Il ritratto, la pianta dellacittà, conterrebbe così, simultaneamente, la traccia di unpassato che permane e la struttura di un futuro da rea-lizzare. La questione diventa allora la seguente: in chemodo la città si ritrae nella mappa? Secondo quali mo-dalità, assertive, prescrittive, istruttive, epistemiche, ale-tiche, deontiche, ecc.?

Seconda osservazione: decostruire questa rappresen-tazione può riportare alla luce i presupposti impliciti suiquali si fonda e si articola un discorso sulla città. La de-costruzione di questa rappresentazione particolare costi-tuita dalla mappa della città è già cominciata con il dop-pio “gioco” del ritratto come traccia e vestigia, cometraccia, dessein e progetto, con il discorso che interrogale differenti modalità della mostrazione enunciativa.

Decostruire la rappresentazione della città nella suacartografia significa fare della pianta un testo: un testo,ossia un tessuto, cioè una trama e una concatenazione,una combinazione specifica di materie di espressioneche nella fattispecie sono essenzialmente due:

– l’immagine (visiva), l’icona, che si esprime nellaforma di un tracciato grafico, di un disegno talvolta co-lorato, ma in cui il disegno e il tracciato predominanosulla componente cromatica; il che pone il problemadelle funzioni del colore nella mappa o nella pianta;

– il linguaggio, o piuttosto il simbolo o il segno co-me scrittura, iscrizione, cioè espresso nella forma di untracciato grafico simbolico. Fare della pianta un testo,è mostrare come vengono tessuti i significanti topici, lematerie dell’espressione, nelle loro forme reciproche;come sono intrecciate le diverse forme del contenuto.A questo proposito, converrà domandarsi dove sia il

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simbolico nell’iconico, quali ne siano i luoghi e/o glispazi; domandarsi anche se la questione inversa del po-sto dell’iconico nel simbolico abbia un senso, se addi-rittura la si possa porre.

Ma porre questioni di luoghi all’icona e al simbolo,non significa forse anche interrogare gerarchie e domi-nanze, se non dominazioni? Ci si può chiedere ad esem-pio quali siano gli effetti di senso risultanti da questo in-treccio complesso di forme di espressione e forme delcontenuto eterogenee. Una mappa della città si legge osi vede? Probabilmente, l’uno e l’altro. Ma il problema èallora di sapere non solo come l’uno e l’altro si articola-no (è possibile vedere senza leggere, o leggere senza ve-dere? Vedere è una condizione necessaria per leggere oè il contrario?), ma anche quali siano gli effetti di sensodell’interferenza reciproca di queste due semiotiche.

E a questo proposito, potremo riproporre le questio-ni poc’anzi evocate a proposito del ritratto: cosa rappre-senta la pianta? La città, certamente; ma la risposta ètroppo sbrigativa nella sua concisione, e nella sua appa-rente ovvietà manifesta il peso dell’illusione referenziale– che apparirà però immediatamente non appena si con-sideri la varietà delle sue forme nel corso della storia enei diversi ambiti culturali.

Una terza osservazione concerne infine la messa inluce dell’“utopica” della città nella sua mappa, e perquesto occorre ritornare alla questione posta inizialmen-te: in che modo la pianta della città è (rap)presentazionedell’enunciazione? E come essa mostra l’enunciazionedei suoi enunciati cartografici? Più precisamente ancora:in che modo la pianta della città si costituisce enuncian-do l’enunciazione di un discorso sulla città – enunciazio-ne della città nei due significati del genitivo?

Proporrei tre indicazioni per rispondere a queste do-mande: innanzitutto, cercare gli indicatori dell’enuncia-zione cartografica. Nel linguaggio, come sappiamo, que-

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sti indici specifici denotano l’istanza che proferisce il di-scorso: così gli indici di persona quali “io” e “tu”, gli in-dici di ostensione come “qui” o “là”, i dimostrativi, e leforme temporali determinate in relazione a “io”, centrodell’enunciazione il cui tempo è il presente. Troviamo iloro equivalenti nella pianta o nel ritratto della città?

In secondo luogo, mostrare come questi indicatoridell’enunciazione siano stati determinati storicamente,sociologicamente, culturalmente, allo stesso modo incui le forme della lingua possono essere determinatedal contesto in cui appaiono, e dalla maniera in cui so-no prodotte. Un enunciato di forma affermativa adesempio, può venire inteso dall’allocutario come unadomanda o come un ordine a seconda dell’intonazionedel locutore.

Infine, ricercare le frequenze di alcuni di questi indi-catori. La loro ricorrenza indica infatti una certa impo-stazione del discorso sulla città e, nella mappa articolaun progetto della città, nel senso di una intenzionalità si-gnificante: quella dell’enunciazione del testo costituitodalla pianta. È importante sottolineare che non inten-diamo con ciò una “politica urbanistica” deliberata,pensata e decisa da un soggetto di potere (legittimo omeno) che si inscriverebbe in filigrana nella pianta dellacittà. È anzi piuttosto il contrario. Il funzionamento deldispositivo cartografico come intenzionalità significanteproduce un soggetto di potere la cui “politica urbanisti-ca” sarà, in qualche misura, la specificazione di questaintenzionalità significante. Il progetto avrà dunque undoppio significato, comporterà un’intenzionalità e unatraccia, un obiettivo di trasformazione della città e dellevestigia iscritte nella rappresentazione della sua pianta,un dessein strutturante il suo futuro possibile e un dessinche ne descrive la messa in scena.

Il potere della città è la dinamica dei flussi urbanimessi in segni, messi in rappresentazione, e ritroviamo

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qui l’iscrizione del progetto nello spazio cartografico enei suoi luoghi.

Il racconto e la descrizione costituiscono due grandimodalità di enunciazione. Più precisamente, sono duemaniere molto diverse di “debraiare” l’enunciazione. Sichiama debraiaggio enunciativo l’operazione attraversola quale l’istanza dell’enunciazione disgiunge e proiettafuori di sé, al momento dell’atto di linguaggio, alcunitermini che sono legati alla sua struttura di base, come“io”, “qui”, “ora”, il presente, per costituire gli elementifondatori dell’enunciato-discorso. Il racconto si effettuacosì attraverso la separazione del tempo dell’enunciazio-ne (la parola narratrice al presente) e del tempo dell’e-nunciato (un passato ormai concluso) e, inoltre, tramitela cancellazione di tutte le marche pronominali persona-li alle quali viene sostituita quella della terza persona.Nel racconto, l’avvenimento sembra raccontarsi da sé amisura della sua apparizione all’orizzonte del passato,senza che apparentemente nessuno lo racconti.

Nella descrizione, il debraiaggio è ambiguo: si trattadi far vedere (e vedere, nello stesso tempo) l’oggettodescritto da tutti i punti di vista e da nessuno. L’istanzadescrittiva è al presente perché si afferma presente inogni punto e in ogni tempo dell’oggetto che essa de-scrive: se, come nel racconto, non vi sono indici di per-sona, vi sono però indici di ostensione (“qui”, “ora”, iltempo presente). L’oggetto sembra offrirsi allo sguardonella semplice coesistenza presente delle sue parti sen-za che un’istanza descrittiva abbia bisogno di mostrarsiper descriverlo.

Da un lato, dunque, con la descrizione, abbiamo unosguardo senza punto di vista, uno sguardo sinottico cheabbraccia e comprende un ordine stabile dei luoghi. Iltesto corrispondente sarà fatto di classificazioni statiche,di un ordine di distribuzione degli elementi secondorapporti di coesistenza, di concatenazione strutturale di

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posizioni, in breve una proiezione paradigmatica il cuiprototipo è la mappa.

Dall’altro, con il racconto, abbiamo lo sguardo di unviaggiatore in movimento che percorre spazi e itinerari,e un’occupazione successiva di punti di vista legati gliuni agli altri da percorsi orientati. Il testo sarà fatto distrategie e di tattiche processuali e lo spazio sarà l’effet-to prodotto dalle operazioni che lo orientano e lo tem-poralizzano in una unità polivalente di programmi con-flittuali o di prossimità contrattuali. In breve, il raccontoè una grande sintagmatica a sintassi plurali, un insiemefatto di percorsi, itinerari, tragitti.

Ma descrizione e narrazione sono strettamente lega-te: il racconto, inscrivendo un percorso, fa “passare” ilviaggio, dissipa la mobilità della sua performanza nellastabilità delle tracce che costruiscono l’ordine dei luoghiattraversati. Ogni racconto è così la costruzione di unaconfigurazione di luoghi come inscrizione di un percor-so. Il ritratto della città – come anche il suo profilo, ouno dei suoi profili possibili, la veduta topografica – èuna reificazione del “racconto” a partire dal suo inizio odalla sua fine, nei suoi indici spazio-temporali: è la cittàquale viene vista (o potrebbe esserlo, o avrebbe potutoesserlo) all’arrivo o alla partenza del viaggiatore. Si com-prenderà allora come la veduta topografica possa essereinvestita di una modalizzazione epistemica e aletica a se-conda che lo spostamento sia possibile o plausibile.

La descrizione, al contrario, è una configurazione disiti nell’ordine specifico di una coesistenza. Ma implica,nella sua stessa iscrizione, sintagmi di racconti presentinella forma discreta di percorsi possibili. La descrizionedispiega una matrice o uno scenario di spazializzazionivirtuali come concatenazione di strategie spazializzanti.La pianta o la mappa della città è così il suo sorvolo si-nottico e geometrico totale: la descrizione costruisce lasua dinamica secondo proposte – progetti – di percorsi

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possibili, dotati di articolazioni stabili, di punti di riferi-mento e segnaletiche spaziali. La pianta manifesta lacittà quale potrebbe essere percorsa, e forse come lo ènecessariamente, da parte dell’abitante della città, senzaesitazione, secondo itinerari obbligati. Il punto di par-tenza e il punto di arrivo sono, per ogni racconto, i luo-ghi che condizionano la produzione degli spazi che gliattori e gli attanti degli enunciati narrativi dispiegano aseconda dei loro movimenti. Come ha mostrato Michelde Certeau, il luogo e l’ordine dei luoghi si definisconocome legge nell’immobilità di una tradizione e di unamemoria in cui si fonda l’autorità che la produce. Inquesta prospettiva, la mappa può essere considerata co-me l’insieme delle concatenazioni strutturali di strategiedi spostamento in cui nomi e segni privilegiati fanno ri-conoscere l’autorità e la legge dell’ordine locale. All’op-posto, ogni racconto sarà un modo di metter(si) fuoridella legge del luogo o, al contrario, di estendere la leg-ge di un luogo determinato su altri spazi.

Si possono dunque distinguere, nel testo della piantae del progetto, gli indicatori di posizione e gli operatoridi spazializzazione; sono legati gli uni agli altri per im-plicazione, presupposizione o condizione. La mappa po-trà quindi essere il postulato di un itinerario (racconto)possibile, di un progetto che sarà allora la traccia dina-mica di questo postulato in cui il tragitto-progetto appa-rirà come la condizione necessaria di una configurazionelocale, come la “proiezione” di una mappa a venire.

Il re-embraiaggio enunciativo nella mappa (la pianta)e nel ritratto (il profilo) potrà realizzarsi non più solo at-traverso l’intreccio di due o tre significanti tipici, comele immagini (multiple o uniche, fisse, simultanee) o itracciati grafici di linguaggi (nomi scritti nell’immagineo fuori immagine, in scrittura “off” e sulla cornice), maanche tramite la combinazione, se non l’integrazione,della pianta e del profilo, della mappa e del ritratto, in

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luoghi diversi dell’oggetto-artefatto complesso chiamato“mappa” o in una formazione di compromesso come laveduta a volo d’uccello. In breve, la questione degli in-dicatori di enunciazione si porrebbe qui nell’articolazio-ne tra la pianta e il ritratto. Si tratterebbe di indicatori diarticolazione o di connessione di racconto e di descrizio-ne, cioè di due insiemi significanti debraiati.

Ci si può così interrogare, per esempio, sullo statutodel “verbale scritto” nella pianta, dei tracciati graficiverbali che la costellano. Come si combinano i sintagmiscritti, che si leggono da sinistra a destra, con i tracciatidella pianta che non segmentano la superficie né in mo-do lineare, né in maniera orientata? Il tracciato di unavia si percorre con l’occhio in due direzioni, ma il nomedi questa stessa via si scrive e si legge da sinistra a de-stra. La sovrapposizione dei grafemi conferisce al trac-ciato della pianta orientamenti di lettura e percorsi cheessa non prevedeva nella sua sostanza di espressione.

A livello della forma del contenuto, i sintagmi scrittisono per la maggior parte nomi propri, autonimi. Desi-gnano un luogo che è chiamato con quel certo nome. Itoponimi, quasi come indici, mostrano degli individui,delle singolarità. Segnalano, di conseguenza, una mol-teplicità infinita di percorsi singolari possibili. Sono glielementi fondamentali del debraiaggio enunciativo del-la dimensione verbale grafica della pianta. L’autonomiadei significanti nominali propri è un fattore molto po-tente dell’illusione referenziale. I nomi propri toponi-mici introducono, più che delle lessie della mappa co-me tale (cioè unità di lettura, contrassegni di posizio-ne), “citazioni” o frammenti di codice. Più precisa-mente, innescano la costruzione di codici – turistico,storico, geografico…

Nel ritratto o profilo della città i nomi propri hannouna funzione diversa. Il nome proprio toponimico puòessere in posizione di legenda in una nomenclatura: gli

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esempi più interessanti sono quelli in cui lo stesso insie-me presenta contemporaneamente una mappa e un ri-tratto della città. Le lettere di riferimento nel profilo rin-viano a una lista di nomi. Questa doppia “lettura” mettelo spettatore di tali ritratti di città in una posizione am-bigua: quella di conoscere il nome di quello che egli ve-de da un particolare punto di vista. Ma si tratta piutto-sto di un processo di riconoscimento del nome a partiredalla veduta o dall’icona della “cosa” rappresentata.Non è il nome del monumento o del luogo. Bisognad’altronde estendere “riconoscimento” [reconnaissance]al significato “militare” o “esplorativo” del termine, co-me la ricognizione di uno spazio a partire da un puntodi vista in cima a una collina. Siamo qui in presenza diun dispositivo metatestuale, ma relativo al processo dispazializzazione di cui abbiamo parlato. Produce enun-ciati di questo tipo: “Quando sarete entrati a Strasburgoe vedrete una chiesa di tale aspetto, allora sarete davantialla cattedrale”. Costella un percorso con una segnaleti-ca di nomi, facendo del paradigma toponimico di unacompetenza nominale un’istanza di performanza narra-tiva: in realtà, della narratività del ritratto è presente unasola sequenza del racconto possibile, la prima o l’ultima.I nomi della legenda sono gli indicatori di percorsi pos-sibili che nominano delle sequenze narrative, non mo-strate ma nominate.

D’altra parte, non essendoci alcun nome sopra o ac-canto alle cose, ma soltanto lettere che rinviano alla le-genda-paradigma situata fuori “immagine”, viene pre-clusa ogni possibilità di linearizzare, di spazializzare lestrade, le piazze, attraverso i loro nomi. Si determinauna disgiunzione costante tra il regime iconico a enun-ciazione enunciata (punto di vista) e il regime discorsivo(debraiato), tra un sapere – una competenza – e un ve-dere – una performanza. In compenso, si aprono tutte lepossibilità di una spazializzazione e di un’orientazione

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narrativa di cui però non si saprà mai nulla se non im-maginando itinerari fittizi della città. Questa disgiunzio-ne è qui il luogo di una precipitazione dell’immaginario,prodotta dall’anticipazione o dalla memoria. Più sempli-cemente, lo spettatore può limitarsi a contemplare lacittà a distanza senza mai penetrarvi. Curiosamente siviene ad affermare una teoria della città a distanza: il suoritratto ideale, teorico, al quale si aggiunge una cono-scenza dei suoi nomi, senza alcuna pratica della città.

L’iconico nel ritratto di una città

Nella veduta topografica, la città si presenta come unquadro. Il quadro-ritratto, la rappresentazione dellacittà, non solo ci rappresenta la città ma si presenta rap-presentandola, e secondo una modalità molto interes-sante, l’asserzione: “Ecco Strasburgo e i suoi edifici piùbelli”. A quest’asserzione, tuttavia, si combina quellache chiamerò una prescrizione teorica: “Ecco da dovedovete vedere (contemplare) Strasburgo, e i nomi chedovete sapere per riconoscere ciò che contemplate. Eccodunque da dove dovete vedere la città per conoscerne laverità”. Il ritratto, il profilo urbano è qui un profilo (insenso fenomenologico) essenziale, il profilo eidetico del-la città: la sua verità.

Di conseguenza, il profilo eidetico svela il poteredeontico della rappresentazione, la rappresentazione delpotere. Non è perciò sorprendente incontrarvi la figuradel delegato dell’enunciazione che ne rappresenta il po-tere teorico, un potere che talvolta è anche un potere po-litico. Questo delegato, questo rappresentante della rap-presentazione, è il più delle volte un personaggio che,nella scena rappresentata, nel ritratto della città, raffigurail suo spettatore fuori scena, fuori rappresentazione. Cosìin Argentina versus Septentr… di Barbier e Striedbeck

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(tav. I), il delegato dell’enunciazione non è altro che lapiccola figura del geometra prospettore, in secondo pia-no a destra, che sta rilevando la pianta della città, quellapianta che si trova sotto di lui sul bordo dell’immagine.Ma nello stesso tempo, egli contempla la città dal luogoin cui noi stessi come “spettatori-enunciatori” la vedia-mo. Il delegato dell’enunciazione è un prodotto del di-spositivo dell’enunciazione-rappresentazione. L’“io” del-lo spettatore del profilo eidetico della città è sì prodottodall’“egli” del geometra, ma quest’ultimo è a sua volta unprodotto del dispositivo enunciativo.

Si noterà peraltro, in tutti i profili-ritratti di Strasbur-go, la ricorrenza ridondante di una veduta identica, unasorta di stereotipo. È forse questa ripetizione a fare delritratto della città un’essenza “vera”, una eidetica: è pos-sibile in effetti individuare un elemento rappresentatoche, in tutti i profili dagli inizi del XVI fino al XX seco-lo, gioca in qualche modo il ruolo di operatore del profi-lo “eidetico”, un elemento iconico che diventa simbolo,per usare il linguaggio di Peirce, un segno quasi arbitra-rio la cui presenza “significa” Strasburgo. Si tratta dellacattedrale, regolarmente presentata al centro della rap-presentazione, e che molto spesso addita il nome “Stra-sburgo” con la sua guglia, raffigurata nella maggior par-te dei casi a destra (mentre è a sinistra nelle piante).

La cattedrale con la sua guglia è un indice anaforicoiconico (intratestuale) del nome toponimico: “Questa èStrasburgo” Ma la sua funzione è complessa, poiché la gu-glia della cattedrale, questo dito puntato verso il simbolo,è anche un nome “iconico”: “Strasburgo”. La guglia puòugualmente essere considerata come una sorta di segno traiconico e simbolico o meglio come l’operatore di trasfor-mazione dell’iconico in simbolico: “Questa icona è ‘Stra-sburgo’”. Ma nello stesso tempo, questo segno è un opera-tore “eidetico”, come abbiamo detto: “Questa icona è ve-ramente, necessariamente, certamente ‘Strasburgo’”.

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Che ne è dell’iconico nella pianta? Qual è il suo sta-tuto? A regime iconico debraiato, che esclude un puntodi vista, la pianta si dà a vedere di primo acchito cometotale, esclusiva, sinottica: si mostra mostrando tutto.Non vi è nulla di “nascosto”. Lo sguardo è dominante,alla verticale, ma non è in un luogo o in un punto deter-minato: è ovunque e in nessun luogo. La pianta non èsolo il potere, è il potere assoluto. Tale sembra essere ilsenso profondo del debraiaggio iconico. Ma per effet-tuarsi come “panottica”, la pianta deve necessariamenterendersi invisibile. La figura sintattica dell’ellissi l’animada parte a parte, ellissi dei volumi, ma anche dei traccia-ti. La pianta decide così di ciò che è rappresentabile e diciò che non può esserlo. Vi è dunque un criterio del rap-presentabile e del non rappresentabile. Di fatto, questadecisione è pragmatica: è rappresentabile ciò che è di-chiarato degno di rappresentazione, ciò che è considere-vole. La rappresentazione si lega così alla norma.

La veduta assonometrica o a volo d’uccello è unacombinazione della pianta e del profilo, della mappa edel ritratto, in un testo unico in cui il punto di vista è aun tempo assolutamente dominante come nella pianta, eapertamente fittizio come accade talvolta nelle vedutetopografiche. La pianta di Strasburgo, degli inizi delXVI secolo di Braun e Hogenberg (tav. II), è sintomati-ca di quella formazione di compromesso che è la vedutaa volo d’uccello, con a destra la rappresentazione di duepersonaggi – una coppia di borghesi di Strasburgo – chesvolgono il ruolo di delegato dell’enunciazione di cuiabbiamo già parlato: vedono la mappa come noi la ve-diamo, con uno sguardo “panottico” che il gesto di indi-cazione della figura maschile significa visivamente. Manon sono per questo al di fuori del luogo e dello spazio.Sono presi entrambi nello spazio della mappa (all’inter-no della sua cornice) e situati nel suo angolo inferioredestro che diventa allora la finzione di un punto di vista

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panoramico – una collina scoscesa – da cui la città po-trebbe essere contemplata come un “profilo-pianta” ocome una “mappa-ritratto”. A questo titolo, le due figu-re dell’angolo destro iconizzano la legenda scritta nelcartiglio dell’angolo sinistro, mentre questa legenda –questo legendum – li fa passare entrambi, più che allostato di testo, a quello di lettori di testo.

Un esempio veramente notevole di questo gioco delpunto di vista dominante e fittizio nella pianta e nel pro-filo è fornito da una pianta di Strasburgo del XVI secolo(tav. III). Gli edifici della città, le sue case e le sue chie-se, sono sì rappresentati secondo una visione a volod’uccello, ma a differenza della mappa precedente la lo-ro disposizione concentrica indica che il sito di visionedella pianta dovrebbe situarsi all’appiombo dello spaziobianco che è al suo centro: è come se lo spettatore dellapianta contemplasse l’insieme della città da “lì”, cioè daun luogo celeste la cui proiezione sulla superficie delsuolo rappresentato può iscriversi solo in negativo, sottola forma di un’assenza, di un punto cieco centrale. Que-sto dispositivo è confermato dai testi scritti nei tre ango-li del rettangolo della pianta, testi che risultano leggibilisolo a condizione di far ruotare la pianta attorno a que-sto stesso spazio bianco. Tuttavia questa rotazione si in-terrompe e/o comincia con lo stemma di Strasburgorappresentato nel quarto angolo, che non va letto diago-nalmente o obliquamente come i tre testi, ma vertical-mente e perpendicolarmente su uno dei lati corti del ret-tangolo. Non sorprende che la lettura e la visione dellamappa-ritratto abbiano la loro origine e la loro finalitàin quel segno, a un tempo iconico e scritturale, che è ilnome e il titolo della città. Questo punto di partenza-ar-rivo si segnala per una specie di disequilibrio compensa-to della lettura e della visione, in cui viene compromessaper un attimo la legge della buona forma che le regolaentrambe. Da questa stessa posizione si legge anche il

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testo scritto nello spazio bianco centrale ove è proiettatoil punto di visione esterno alla pianta, un testo che spie-ga questo punto iscrivendosi nel luogo vuoto che ne co-stituisce la traccia singolare e la strana figura al suolo,ma che, nel contempo, trasforma questo suolo “rappre-sentato” in un supporto neutro di segni di scrittura, lofinzionalizza in una pura astrazione. Ciò che noi, lettoridella pianta e spettatori del ritratto della città, appren-diamo leggendo questo testo in questo luogo, e scopria-mo guardando la città all’appiombo di questo spazio, èche occupiamo esattamente il luogo della guglia dellacattedrale di Strasburgo. Questo è l’unico edificio (oparte di edificio) a non essere rappresentato nella pian-ta-ritratto, e che non può esserlo poiché è da esso che lacittà viene vista nel suo ritratto e letta nella sua pianta,poiché è a partire da esso che ritratto e pianta sono costi-tuiti, perché è il fulcro produttore dell’uno e dell’altra.Mentre nella pianta di Braun e Hogenberg (tav. II) i dueborghesi di Strasburgo costituivano, nello spazio dellapianta-profilo, i delegati dell’enunciazione, figure che lapresentavano nel suo processo di rappresentazione, nellapianta di Strasburgo (tav. III) lo spazio bianco centrale(o quasi centrale) occupato da un testo esplicativo, luogovuoto al suolo trasformato in supporto di scrittura, è lafinzione che produce le figure della rappresentazione. Nonstupirà che il luogo di questa finzione sia precisamentela guglia della cattedrale, indice iconico del nome, ope-ratore “eidetico” della città. Ciò che potrà invece sor-prendere è che la sola maniera di iscrivere e di mostrare,di significare e di far vedere questo operatore che è con-temporaneamente simbolo, indice e icona, il solo mododi designare allo sguardo del pensiero e dell’occhio ilmonumento che designa questo doppio sguardo, siaquello di farlo sparire, di cancellarlo, cioè di mostrarlo eiscriverlo tramite la sua stessa assenza. In altre parole, diiscrivere e mostrare nel dispositivo rappresentativo della

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città il posto del soggetto che il dispositivo genera –sembrando invece il suo prodotto – come un “vuoto”, ilpunto cieco della pianta-profilo chiamata qui finzione.

Occorre qui aggiungere che, con una ricorrenza nonmeno ostinata del segno “cattedrale” nei profili di Stra-sburgo, permane nelle piante cartografiche anche unastessa forma: la figura dell’insularità. In pianta, Strasbur-go è e resta un’isola. Dico espressamente figura. Lepiante di Strasburgo rendono figurabile – per usare itermini di Freud – un tratto geografico distinto, uno tragli altri, che la cartografia raccoglie per farne un trattodominante, cioè un principio organizzatore, un “model-lante” primario della rappresentazione il cui effetto disenso è considerevole (nel senso sopra indicato): Stra-sburgo, la città, è un’isola. La pianta di Strasburgo tra-sforma la città in isola urbana. Lo schema finale dellacartografia e del progetto urbano di Strasburgo potreb-be essere illustrato dalla figura seguente:

immagine della legge che regge il gruppo di trasforma-zioni urbane. Ma l’isola è, nello stesso tempo, la figuradella chiusura della pianta-panopticon.

Nelle immagini che ho presentato la pianta in quantotale passa in secondo piano; in particolare negli esempidel XVII e del XVIII secolo, nei quali la pianta, nel sen-so geometrico del termine, è sempre accompagnata daun ritratto-profilo della città, e non il contrario. C’èun’autonomia del ritratto-profilo (cfr. il profilo eideti-co), e così pure una subordinazione della pianta al profi-

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“Strasburgo”

cattedrale

centro isola

lo. La pianta è eteronoma in rapporto al quadro. Biso-gnerebbe interrogarsi, a questo punto, sull’iconicità del-la pianta. Si constaterebbe una tendenza al simbolico.

Da questo punto di vista la figura 1 è interessante,perché, nella composizione generale dell’insieme, le seipiante che illustrano alcune sequenze della storia diStrasburgo occupano la parte anteriore della scena, trala Saggezza e l’Abbondanza. Sono in primo piano, insenso teatrale o pittorico, ma sono in posizione inferiorerispetto al ritratto-profilo, che occupa grosso modo lametà superiore dell’insieme.

La pianta cartografica rinvia al progetto (ritratto-pro-filo) urbano. Ma qui ancora si manifesta la sorprendentecircolarità tra una verità del concetto e una verità del-l’immagine, la verità dello schema nella sua tensione alsimbolico (la pianta) e quella dell’eidos fenomenologico(il ritratto-profilo). Il “pensato” costruito è congiunto alvisibile “manifestato”.

Si noterà la presenza di sei piante: tre a sinistra, tre adestra. Il centro della serie è occupato dallo stemmadella città tenuto da due putti; un terzo suona la trom-ba della fama. Subito sopra, nel ritratto della città, lacattedrale addita con la sua guglia il nome della città,che fluttua in cielo su una banderuola. La “veduta to-pografica” della Strasburgo di oggi è non solo l’eidosdella città, ma anche la verità dell’insieme delle suepiante. Questo ritratto-profilo della città possiede, inrapporto alle sei piante, un interessante “statuto” tem-porale. In effetti, è il ritratto della città “ora” – dove sivede la funzione di embraiaggio enunciativo svolta dal“punto di vista” (sia spaziale che temporale) della rap-presentazione. Ora, le sei piante – secondo l’ordine dilettura di una riga scritta, sottolineato anche dalla le-genda “Incrementa urbis” e dalla loro articolazione visi-va (di una complessità crescente) – si “leggono” da sini-stra a destra come la storia delle espansioni di Strasbur-

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go, dalle origini – pianta n° 1 – fino a “oggi” – la sestapianta, di cui si può pensare che la veduta topograficarappresenti il profilo. Ma il ritratto di Strasburgo domi-na le sei piante: è l’essenza fenomenica della storia diStrasburgo nel suo presente intemporale. Si assiste cosìalla messa in scena della tesi rilevante secondo la qualeil progetto (ritratto-profilo) urbano (al tempo stessotraccia di un passato e disegno di un futuro) è un pre-sente fuori tempo, una verità a-cronica, la legge struttu-rale di un sistema di trasformazioni che la cartografiadella città manifesta storicamente.

Il passaggio dalla pianta n° 6 al segno della cattedralee al nome “Argentina”, attraverso la mediazione del de-legato enunciativo che vede la città nel suo profilo qui-ora, ma per disegnarne l’ultima pianta, manifesta il di-scorso sulla città, un testo che la pianta cartografica rap-presenta insieme al profilo-ritratto della città. Questospostamento è un’operazione di trasformazione dellacartografia della storia (con le sue trasformazioni dalpassato al futuro) in un progetto urbano (profilo-ritrat-to) a-cronico che ne costituirebbe la verità.

“Prova” ne siano, se si può dir così, i boccascena delproscenio che ospita le sei piante: due piedistalli reggo-no gli dèi fluviali del Reno e dell’Ille, che definiscono al-legoricamente l’insularità di cui abbiamo parlato; sottodi loro sono sedute due figure di dee, esse pure allegori-che: Atena-Minerva, la Saggezza, ma armata, con il bla-sone di Francia sullo scudo, appoggiata all’olivo dellapace (pax armata); a destra, Cerere-Demetra, l’Abbon-danza, con la cornucopia e i frutti della terra (il grano esoprattutto la vite), appoggiata sullo scudo blasonatodell’Alsazia. Dalla saggezza armata e potente della Fran-cia all’abbondanza dell’Alsazia, ecco il terminus a quo eil terminus ad quem delle trasformazioni cartografiche,come se, fin dall’inizio, la saggezza e il calcolo politiciavessero disegnato o progettato una pianta/un piano3

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che la storia avrebbe progressivamente realizzato, nel-l’abbondanza felice, tutta agricola, di una provincia chetrovava nel suo progetto urbano – il profilo-ritratto dicittà con il suo segno iconico e il suo nome simbolico –la propria verità intemporale.

1 La ville dans sa carte et son portrait, “Cahiers de l’école normale supé-rieure de Fontanay”, 30-31, 1983, pp. 11-26. Testo scritto in occasione di unintervento al convegno dell’Agence d’urbanisme pour l’agglomération stra-sbourgeoise sur le projet urbain, 30-31 ottobre 1981.

2 Le due accezioni del termine italiano “disegno” sono espresse in france-se dai due termini omofoni dessein (scopo, intenzione) e dessin (rappresenta-zione grafica), che abbiamo lasciato in originale laddove la traduzione italianaavrebbe occultato le differenze di significato. N.d.T.

3 In francese: plan. Il termine significa sia carta geografica, rappresenta-zione in proiezione orizzontale sia progetto elaborato, programma. N.d.T.

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Elogio dell’apparenza1

Svetlana Alpers (1984) ha scritto un libro molto ap-prezzabile – e apprezzato – sull’arte olandese del XVIIsecolo. Ma quest’ultima compare solo nel sottotitolo.Intitolando il volume Arte del descrivere, l’autrice rive-la più vaste e più alte ambizioni, proponendo in realtàalla storia dell’arte odierna un nuovo modello teoricoe metodologico per lo studio dei suoi oggetti nelle artivisive. Questo modello si rivela particolarmente op-portuno nella situazione attuale della ricerca, nel cam-po della storia dell’arte come in quello più vasto dellescienze storiche e sociali, e il successo internazionaledi quest’opera ne è la prova. Esso si dimostra dunquevalido ben al di là dell’arte olandese del XVII secolo.Tuttavia, lo ripetiamo, Arte del descrivere ha come sot-totitolo originale La pittura olandese nel XVII secolo:una buona parte delle questioni e dei problemi postidal libro concerne le relazioni tra questo titolo e que-sto sottotitolo. Un nuovo modello teorico e metodolo-gico, dicevamo: ma si tratta anche di un modello chesembrerebbe trovare un prototipo artistico in un’artestoricamente e socialmente determinata; un modello icui elementi cognitivi essenziali sarebbero forniti dalleteorie, dal sapere e dalle pratiche scientifiche contem-poranei a quest’arte; un modello infine che, dopo dueo tre secoli – dopo Michelangelo, Reynolds, Fromen-tin, Claudel, per citare solo qualche nome – sembre-

rebbe necessario in modo particolare allo studio diquest’arte, affinché possa rivelare tutta la sua veritàstorica, la sua autenticità espressiva e la sua qualitàestetica. L’impresa della Alpers, il punto di vista adot-tato e i suoi obbiettivi, si situano dunque all’incrociotra principi teorici, postulati metodologici e procedureanalitiche di grande generalità epistemologica, e laparticolarità storica e culturale di un oggetto specifi-co. Ed è proprio da questo incontro che scaturiscono,con quella forza stimolante e persino provocatoria checontraddistingue l’opera della Alpers, i quesiti che po-ne alla storia dell’arte e alle scienze sociali, altro aspet-to della sua fecondità euristica.

Con grande chiarezza di scrittura e di pensiero, unpensiero diretto e limpido, una scrittura sobria e incisi-va, la Alpers delinea fin dall’introduzione i grandi trattidel suo modello, che possiede una notevole caratteristi-ca, propriamente strutturale. Questi tratti sono, infatti,definiti per opposizione o per differenza, ma, al contra-rio di quel che accade in certe operazioni strutturaliste,non vengono dedotti in astratto da una qualche struttu-ra elementare della significazione, bensì reperiti nellastoria. Una lettura rapida dell’opera potrebbe far pensa-re che la Alpers non faccia che riproporre sotto unanuova veste la vecchia opposizione tra il Nord e il Sud,tra l’Olanda e l’Italia. Ma non è affatto così. Portandoavanti il suo lavoro strutturale sul duplice fronte dellastoria dell’arte moderna in Europa e della storia di que-sta storia, della teoria di questa storia e della storia diquesta teoria, la storica dell’arte vuol mostrare che sel’arte olandese del XVII secolo può fornire un nuovo mo-dello di lavoro è perché possiamo contrapporla all’arteitaliana del Rinascimento, e nella misura in cui quest’ul-tima ha fornito fin dall’inizio agli artisti, ai teorici e aglistorici dell’arte un modello generale e duraturo dell’im-magine pittorica e della sua interpretazione:

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Lo studio dell’arte e della sua storia è stato condizionatoin misura rilevante dallo studio dell’arte italiana. […] L’ar-te italiana e la sua evocazione retorica hanno non solo pla-smato la grande tradizione dell’arte occidentale, ma hannoanche condizionato lo studio delle sue opere. [...] Daquando la storia dell’arte è diventata una disciplina acca-demica istituzionale, le principali metodologie critiche conle quali abbiamo imparato a guardare e a interpretare leimmagini pittoriche [...] si sono sviluppate in rapporto allatradizione italiana (Alpers 1984, p. 5).

Ma è proprio su questo punto e in questo lavoro dif-ferenziale di contrasti e di opposizioni che Svetlana Al-pers incontra una temibile difficoltà, che peraltro noncerca affatto di eludere. Definire l’arte olandese comenon italiana, l’immagine pittorica olandese come nonclassica o non rinascimentale, il paesaggio, la naturamorta o il ritratto olandesi come non albertiani, signifi-ca, infatti, riferirsi ancora al modello italiano, alle cate-gorizzazioni che ha prodotto e al linguaggio stesso del-l’analisi e dell’interpretazione che su di esso è stato co-struito. Ma se la differenza tra l’arte olandese e l’arteitaliana costituisce effettivamente una delle linee diret-trici dell’opera, quello che l’autrice ci invita a leggerenon è affatto uno studio comparato, ovvero comparati-vo. Questa differenza o questo insieme di differenzenon costituiscono l’oggetto del suo lavoro, ma soltantola sua condizione teorica e metodologica, una condizio-ne che al tempo stesso va al di là dell’arte olandese delXVII secolo, e rivelerebbe la sua validità epistemologicanon solo nell’analisi, ma forse anche nella maniera stes-sa di guardare tutte le immagini “non albertiane”, chesi tratti di Manet, del Caravaggio, di Velasquez o diVermeer. Emerge qui una variante del processo meto-dologico evocato un tempo da Edgard Wind. In effettiè evidente che gli strumenti e le procedure metodologi-che dell’analisi sono stati elaborati in funzione dell’arte

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olandese del XVII secolo dal punto di vista della sua dif-ferenza rispetto all’arte italiana classica del Rinascimen-to. Ma è altrettanto certo che, pur elaborati a partire daquesta differenza e a essa subordinati, possono rivelarsiefficaci e operativi in tutto il campo che tale differenzadischiude e delimita.

È a questo punto che incontriamo la difficoltà teoricasopra evocata: perché a questo campo e agli oggetti diquesto campo – definiti per il momento come non italia-ni, non classici, non rinascimentali, non albertiani, perriferimento negativo al modello italiano classico, rinasci-mentale, albertiano – andranno attribuiti contenuti, valea dire nozioni e concetti, categorie e schemi di analisi in-dipendenti da questo riferimento, e che proprio perquesta ragione potrebbero rivelarsi operativi al di fuoridell’ambito olandese e del periodo considerato, il XVII

secolo. La Alpers ha cura di precisare ciò che intendeper “idea di arte del Rinascimento italiano”. Innanzitut-to, la definizione albertiana di “quadro”: “una superficieo una tavola incorniciata, posta a una certa distanza daun osservatore che guarda, attraverso di essa, un mondoaltro o sostitutivo” (Ibid, p. 5). In secondo luogo, la de-finizione di questo mondo contemplato attraverso il di-pinto come un luogo teatrale in cui figure umane com-piono “azioni significanti basate su testi di poeti” ( Ibid,p. 5). L’arte italiana classica del Rinascimento è un’artedel racconto per immagini. La storia ne costituisce la fi-nalità più elevata perché la sua narrazione in pittura di-pende sia dalla conoscenza dei testi in cui è raccontata,sia dalla conoscenza dei segni sensibili, corporei, esterni,attraverso i quali gli attori umani mostrano le passioniche animano internamente le loro azioni. È chiaro chequesti due elementi della definizione non si riferiscono aun tipo particolare di pittura italiana del Quattrocento:costituiscono soltanto un modello nel quale l’arte olan-dese del XVII secolo non rientra. Di qui il contromodello

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elaborato dalla Alpers a partire da quest’altro tipo di ar-te, che presenta come prima caratteristica quella di esse-re non narrativa ma descrittiva e, come seconda, il fattoche i suoi quadri siano delle non-finestre (nel senso diAlberti), cioè delle superfici. Ma descrizione e superficienon vanno riferiti a un tipo particolare di pittura olan-dese del XVII secolo. Anche in questo caso si tratta di unmodello, in grado di articolare ciò che appare alla Alperscome uno dei due modi fondamentali della rappresenta-zione pittorica. È su queste due caratteristiche che an-drà perciò interrogato il libro.

A dire il vero superficie e descrizione non costitui-scono, propriamente parlando, due dimensioni autono-me del modello così costruito. Teoricamente, esse si so-vrappongono: capita spesso alla nostra autrice di parlaredi superficie di descrizione (o di iscrizione) per caratte-rizzare l’immagine pittorica olandese, così come avrebbepotuto evocare, se fosse stato quello il suo oggetto, ledescrizioni fenomeniche (o di superficie) che ben carat-terizzano peraltro certi testi di Keplero o di Huyghens oanche di Bacone, citati nell’opera. Ma l’una, la superfi-cie, concerne più direttamente l’immagine, copre il ver-sante iconico del modello; l’altra, la descrizione, rientrapiù precisamente nell’ambito del linguaggio e del suoaspetto discorsivo. Ci si potrà evidentemente domanda-re come sia stato elaborato questo modello interpretati-vo dell’arte olandese del XVII secolo per render contodel suo specifico modo di rappresentazione. Sembrereb-be che l’autrice sia arrivata al concetto di quadro comesuperficie, e al discorso descrittivo che esso richiede, apartire da una duplice operazione: da una parte fa emer-gere un discorso teorico, critico e storico che è stato piùo meno rimosso dalla storia dell’arte fin dalla sua nascitacome istituzione accademica; dall’altra, definisce la “po-sizione” storica specifica dell’arte olandese del XVII se-

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colo nel senso preciso della sua collocazione in un con-testo epistemico, scientifico, culturale, sociale, politicoben determinato, contesto che la Alpers studia con unavasta e ricca erudizione, ma solo per estrarne i tratti co-stitutivi del proprio modello.

Sulla ferma volontà dell’autrice di confutare un certotipo di discorso istituzionale della storia dell’arte – di-scorso che ha trovato nel Rinascimento italiano (e nellaletteratura di cui è stato oggetto) i suoi punti di riferi-mento, le sue categorizzazioni, i suoi concetti e perfinole sue procedure – si leggano le pagine che l’autrice hadedicato a Alois Riegl nel testo Style is What You Makeit: the Visual Arts once again (1979), macchina da guerralanciata simultaneamente contro la teoria wölfflinianadello stile e contro l’iconografia di Panofsky:

Come fanno oggi gli strutturalisti [la relazione era statapresentata nel 1977], Riegl accosta i fenomeni rispettando-ne la natura, ma anche mantenendo una certa distanza, inuna relazione non partecipante. In altri termini, sceglieuna posizione dalla quale poterne meglio osservare lastruttura essenziale senza pregiudizi interpretativi (Alpers1979, p. 98).

Così facendo – studiando i tessuti antichi del MedioOriente, l’arte della tarda antichità, i ritratti di gruppoolandesi o l’arte italiana postrinascimentale – Riegl “inparticolare evita [...] quel centro normativo – spesso in-confessato – degli studi di storia dell’arte, che è l’artedel Rinascimento italiano” (Ibid., p. 98). Secondo la Al-pers l’analisi strutturale di Riegl dipende dunque dallanatura dell’oggetto studiato, innanzitutto perché questooggetto mette a distanza il proprio osservatore e, in que-sto modo, rivela le complicità e le connivenze (tanto piùpregnanti quanto meno percepite) che la storia dell’arteistituzionale intrattiene con il suo campo di studio privi-legiato e con gli oggetti che interpreta a partire da que-

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st’ultimo: questo “centro normativo” – e prescrittivo,aggiungeremo – costituito dall’arte del Rinascimento ita-liano, dalla sua storia e dalla sua teoria.

La messa a distanza dell’osservatore indotta dall’og-getto stesso delle sue osservazioni è accompagnata inRiegl da un altro aspetto che risulterà anch’esso deter-minante nel modello della Alpers, ossia il fatto che Riegl

considera la produzione artistica come dipendente da unparticolare artefice o gruppo di artefici. L’impulso o la ne-cessità di fare dipende dalla relazione psicologica che sistabilisce tra l’uomo e il suo mondo. In sintesi, l’arte – iltermine è mio, [scrive la Alpers,] e non di Riegl – è unamediazione tra l’artefice e il mondo ( Ibid, p. 98).

Arriviamo così a una delle strategie sviluppate nel-l’Arte del descrivere. “In che modo allora bisogna guar-dare l’arte olandese?” si chiede l’autrice.

La mia risposta è che si deve guardarla tenendo conto delsuo contesto [...] Facendo appello al contesto, intendonon solo vedere l’arte come manifestazione sociale, ma an-che accostarmi alle immagini attraverso la considerazionedel ruolo e della presenza che esse hanno nell’ambito piùvasto della vita culturale (Alpers 1984, p. 12).

Qui ancora, la Alpers obbedisce a ciò che mi sembral’essenza di un’impostazione strutturale in storia: l’operad’arte non viene analizzata soltanto come uno specchiodella realtà storica e sociale di cui essa rappresenterebbel’esatta e minuziosa trascrizione, o come espressione de-gli ideali – o delle ideologie – di cui tale società sarebbein quel momento portatrice, o ancora come sintomo ditendenze e movimenti più o meno nascosti che l’operametterebbe in luce. Il quadro, l’immagine, vengono coltinella loro funzione, nel loro funzionamento storico e so-ciale: perché, e come, quelle determinate immagini, pro-

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prio in quel determinato momento? A quali bisogni, aquali desideri – intellettuali, filosofici o religiosi – ri-spondono? E a quali necessità politiche ed economiche?Qual è il loro ruolo nel campo della conoscenza scienti-fica e tecnica? Grazie alla Alpers, leggeremo con un al-tro sguardo o rileggeremo con un nuovo sguardo l’auto-biografia di Constantin Huygens, i Paralipomeni a Vitel-lione o la Diottrica di Keplero e anche i Saggi di Bacone.

Arte del descrivere: la caratteristica più rilevante del-l’arte olandese del XVII secolo, della tradizione nordicadi cui fa parte, e più generalmente di un modo pittoricoche spesso e troppo sbrigativamente viene definito reali-sta, sarebbe dunque l’arte della descrizione. Un modelloche non è applicabile esclusivamente all’arte olandese,ma, meglio di qualunque altra categoria o nozione, sem-bra capace di spiegarla con grande precisione, mettendoin luce opposizioni e differenze con l’arte italiana, essen-zialmente, “ideal-tipicamente”, narrativa:

La qualità immobile o sospesa di queste opere [la Crocifis-sione di San Pietro del Caravaggio, l’Acquaiolo di Velá-squez, la Donna con la bilancia di Vermeer e il Déjeunersur l’herbe di Manet – si noti che di queste opere una sol-tanto è olandese] è indice di una certa tensione fra gli as-sunti narrativi e l’attenzione per l’immediatezza descritti-va. Tra azione e attenzione descrittiva sembra esserci unrapporto di proporzionalità inversa: l’attenzione per la su-perficie del mondo descritto comporta il sacrificio dell’a-spetto narrativo della rappresentazione (Ibid, p. 7).

Dire che il quadro è una non-finestra equivale a direche è una superficie, ma questa superficie va intesa co-me schermo di inscrizione-descrizione sul quale siproietta - o viene registrata - la “superficie” del mondo,schermo in cui questa si rappresenta, si inscrive o me-glio si replica.

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Proprio a questo proposito la Alpers trova nella cul-tura scientifica e tecnica dell’Olanda del XVII secolo ildispositivo che “modellizzerà” il suo modello: la cameraobscura. La camera oscura, della quale Huygens non sistanca di descrivere con ammirazione affascinata le pro-prietà meravigliose, è

quell’apparecchio che permette alla luce di passare attra-verso un foro (spesso otturato da una lente di vetro) e dientrare in una scatola, o in una camera buia, in modo daproiettare su uno schermo un’immagine del mondo ester-no (Ibid, p. 31).

una definizione che la nostra autrice accompagna conquesto notevole brano scritto da Huygens in francese:

Ho a casa mia l’altro strumento di Drebbel, che producemeravigliosi effetti di immagini riflesse in una camerabuia. Non mi è possibile descriverne la bellezza a parole:ogni pittura è morta in confronto, perché qui è la vitastessa, o qualcosa di ancora più nobile, se soltanto nonmancassero le parole. La figura, il contorno e i movimentivi si fondono con naturalezza, in un modo assolutamentepiacevole (Ibid, p. 32).

La camera obscura, che costituisce per Huygens oper Hoogstraten il modello della pittura veramente na-turale, rappresenta anche, per Keplero – che definiscela visione come “un’immagine [pictura] della cosa visi-bile che si forma sulla superficie concava della retina” –il modello stesso dell’occhio. Tutte queste definizioniimplicano, è chiaro, una teoria della visione come repli-ca o duplicazione della cosa. E quando Keplero dichia-ra che i processi psicologici della visione non lo interes-sano, la Alpers ne trae la giusta conclusione che “la for-za del suo metodo” è quella di “deantropomorfizzare lavisione”. Il dato primario è il mondo, che si proietta

sotto forma di luce e colori in un “occhio morto”. Il mo-dello della visione, ossia della pittura, è un modello pas-sivo da cui viene eliminato ogni soggetto costruttore che– direbbe Kant – è l’infaticabile operatore delle sintesidelle diverse intuizioni sensibili sotto i concetti dell’in-telletto e attraverso la mediazione dell’immaginazione.Come scrive Keplero con grande ironia:

Lascio ai filosofi naturali il compito di discutere in chemodo questa immagine [pictura] venga costruita dai prin-cipi spirituali della visione che risiedono nella retina e neinervi, e se sia fatta comparire davanti all’anima o al tribu-nale della facoltà visiva da uno spirito interno alle cavitàcerebrali, o sia invece la facoltà visiva a uscire, come unmagistrato inviato dall’anima, dalla camera di consiglio delcervello per incontrare questa immagine dei nervi ottici enella retina, discendendo per così dire in una corte di ran-go inferiore (Ibid, p. 54-55).

Tutte queste ipotesi metafisiche in fondo si equival-gono: nessuna può intaccare la definizione positiva,anzi positivista, della visione come costruzione mecca-nica dell’immagine, semplice risultato passivo della re-gistrazione istantanea dei raggi di luce da parte dellasuperficie retinica. Mentre Huygens nel descrivere allasua sposa la camera obscura si meraviglia del dispositi-vo e dell’immagine che vi viene prodotta, l’occhio diKeplero, come scrive molto bene la Alpers, è un oc-chio morto, in cui il mondo cangiante delle apparenzesi riproduce in una rappresentazione, intesa “nel du-plice senso di artificio – per il suo modo di operare – edi risolvere i raggi di luce in un’immagine” (Ibid, p.55). Il che significa, detto più chiaramente, che la su-perficie del mondo si identifica – nell’immagine, e at-traverso di essa – con la superficie retinica. “Ut picturaita visio” scrive Keplero. Dietro il modello della came-ra obscura di Huygens, dietro l’occhio-macchina di

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Keplero, si profila lo schema di funzionamento del-l’apparecchio fotografico. Il quadro è una non-fine-stra, cioè una superficie sulla quale, come su unoschermo (il fondo della camera obscura, la retina del-l’occhio, la lastra fotografica), il mondo si riproduceper proiezione, “nello stesso modo in cui la luce foca-lizzata attraverso il cristallino produce un’immaginedella retina”, come scrive la Alpers (1997) nel suo arti-colo di The viewing of Las Meninas: “In luogo di unartista che guardi il mondo attraverso una cornice perdipingerlo” – di qui l’importanza della cornice e del-l’inquadratura per costruire l’immagine dipinta secon-do il modello italiano – “il mondo produce da sé lapropria immagine senza bisogno di una cornice” (Al-pers 1997, p. 98). L’artista ancora una volta non co-struisce, non compone, non crea un mondo di pitturasulla tela. È il mondo a farsi vedere sulla tela, come inun occhio morto, cioè senza sguardo. Se la superficie èuno dei tratti del modello elaborato dalla Alpers apartire dalla teoria kepleriana della visione e dalla tec-nica della camera obscura, a partire cioè dal contestoepistemologico della pittura olandese del XVII secolo,il vero modello di questo tratto distintivo differenzialenon è altro che l’immagine prodotta da quell’apparec-chio che, sottolinea l’autrice, condivide alcune sue ca-ratteristiche fondamentali con il modo “nordico” dirappresentazione, precisamente quelle che gli conferi-scono il suo potente effetto di realtà:

la frammentarietà, la natura arbitraria delle cornici, l’im-mediatezza. Quell’immediatezza esaltata dai primi pionieridella fotografia dicendo che essa aveva dato alla natura ilpotere di riprodursi direttamente, senza intervento del-l’uomo (Alpers 1984, p. 63).

Come per la pittura olandese, le condizioni di produ-zione e di fabbricazione dell’immagine fotografica, scri-

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ve ancora la storica dell’arte, la situano in quello chechiama “il modo kepleriano” (in opposizione al modoalbertiano) di rappresentazione. Per condizioni di pro-duzione bisognerà intendere, naturalmente, non tanto ledeterminazioni storiche, sociali e culturali di fabbrica-zione, quanto piuttosto i presupposti teorici ed episte-mologici di produzione, la cui categoria fondamentalenon è affatto l’icona o il simbolo nel senso di Peirce, mal’indice, cioè la traccia, l’impronta, il segno lasciato dallacosa stessa. È come se il mondo nelle sue apparenze,con la propria superficie, si mostrasse da sé sulla super-ficie della tela, si autoduplicasse per produrre la propriaesatta replica sotto l’occhio affascinato e attento dellospettatore testimone: l’artista, che non ha avuto altrafunzione, altro compito, che quello di essere – comeavrebbe voluto Stendhal, due secoli dopo, nei suoi ro-manzi – “uno specchio che si porta lungo la strada”.

La pittura olandese del Secolo d’oro o il regno dellasuperficie. Superficie liberata, probabilmente: ma que-sta superficie è paradossalmente quella del mondo equella del quadro, identificata in una congiunzionequasi magica di cui è un sintomo la meraviglia di Huy-gens davanti all’immagine della camera obscura. Così,camera obscura, occhio senza sguardo e apparecchio fo-tografico sono per la Alpers sia modelli che metafore:modelli che ricava dalle circostanze spazio-temporali,storiche e culturali del suo oggetto e dai presupposti diuna teoria della percezione visiva (e più in generale diuna teoria empirista, fenomenista, della conoscenza);metafore che evocano qualità espressive ed emotivespecifiche: l’immagine pittorica è in qualche modo più“reale” della cosa di cui è l’immagine; il simulacro, nelsenso platonico del termine, possiede un grado di esi-stenza superiore al paradigma che pur tuttavia riprodu-ce; il mondo visibile acquisisce nella sua proiezione di-pinta un fascino, un potere di suggestione di cui era

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sprovvisto. Ascoltiamo ancora una volta ConstantinHuygens descrivere i “meravigliosi effetti di immaginiriflesse” nella camera obscura: “ogni pittura è morta inconfronto, perché qui è la vita stessa, o qualcosa di an-cora più nobile, se non mancassero le parole”. A que-st’immagine manca la parola, come manca alla poesiamuta della pittura, come manca a Huygens per descri-verne la bellezza: “Non mi è possibile descriverne labellezza a parole”.. La camera obscura non è più il di-spositivo meccanico dell’occhio morto di Keplero. Èproduttrice di un incantesimo, una magia naturale – èun immagine, e tuttavia è la vita –, quella stessa magiadi cui al contempo, sul versante “italiano”, anzi alber-tiano, Mersenne, Nicéron, Maignan esplorano gli effettinon di metamorfosi ma di anamorfosi, nell’ambito dellaprospettiva legittima della rappresentazione ritrattisticao del racconto religioso e storico.

Ritorno alla superficie, dunque: questa sarebbe la pa-rola d’ordine della “nuova storia dell’arte”, che trove-rebbe, con il libro della Alpers e nella pittura olandesedel XVII secolo da lei studiata, l’oggetto storicamente,culturalmente, esteticamente e teoricamente privilegiatoper costruire i propri modelli operativi: la superficie co-me luogo ambivalente, al tempo stesso opera di pittura emanifestazione del mondo, immagine e cosa, in breve, lospazio degli indici, delle tracce, delle marche. Occorrecomprendere questa parola d’ordine in tutta la sua am-piezza, domandandoci se questo piano non albertiano,non narrativo, non classico, non italiano, non vada presoin considerazione in ogni immagine pittorica. Non biso-gna dimenticare che Poussin, citato dalla Alpers perchéprivilegia il “prospetto” – la prospettiva teatrale, narrati-va, in breve, italiana – invece dell’“aspetto” olandese,semplice apparenza delle cose, non bisogna dimenticareche lo stesso Poussin, contemporaneo degli olandesidella Alpers, alla fine della vita definiva la pittura come

“un’imitazione fatta con linee e colori su qualsiasi super-ficie di tutto quanto si vede sotto il sole” e il cui fine su-premo è il diletto. Occorre dunque ripartire da questasuperficie, la superficie d’iscrizione delle linee e dei co-lori in cui si dispiega tutto il lavoro della pittura; occorreritornare a questo livello che non è quello dell’iconogra-fia, e che è forse addirittura anteriore a quello che Pa-nofsky chiamava preiconografico: un livello non piùprofondo o più nascosto - in superficie, anzi - ma di-menticato. È qui che si scoprono le “condizioni” specifi-che della rappresentazione pittorica: “In che modo, inquali condizioni l’uomo è rappresentato pittoricamentesulla superficie di una tela?” scrive la Alpers (1997). Al-la questione del senso secondo, convenzionale, icono-grafico, viene sostituita la questione non del senso, madelle condizioni di possibilità dell’opera nella sua singo-larità, la questione trascendentale in senso kantiano.

Porsi queste domande, cominciare a rispondervi, esi-ge che l’analista – e più ancora l’interprete – si avvicinial quadro, lo guardi da molto vicino, “quasi da troppovicino”, quindi se ne allontani e lo guardi quasi da trop-po lontano; il discorso analitico potrà farsi solo al prezzodi questa oscillazione. L’analista ritroverà allora con laAlpers i maestri nordici, fiamminghi o olandesi che giàhanno fatto, in qualche modo, questo lavoro per lui:“l’attenzione per la superficie del mondo descritto com-porta il sacrificio dell’aspetto narrativo della rappresen-tazione”, formula che la nostra autrice illustra con un te-sto di Panofsky su Jan Van Eyck:

L’occhio di Van Eyck funziona come un microscopio e co-me un telescopio nello stesso tempo […] di modo chel’osservatore è costretto a oscillare fra una posizione piut-tosto lontana dal quadro e molte posizioni ravvicinate [...]Tuttavia, una tale perfezione ha il suo prezzo. Né il micro-scopio né il telescopio sono strumenti adatti per indagarele emozioni umane (Alpers 1984, p. 7).

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E poiché i segni dell’emozione umana permettono lacostruzione iconica e la narrazione di un racconto, la Al-pers ha ragione nel criticare il riferimento normativo diPanofsky all’arte italiana. Potremmo facilmente illustra-re l’oscillazione descritta da Panofsky non soltanto conVan Eyck ma, in area italiana, con i disegni di Leonardo,in cui si rivela l’equivalenza strutturale di un fiore e diun’inondazione, di una treccia di capelli e della correntedi un fiume, delle vene capillari e di un diluvio. Il loroisomorfismo offre allo sguardo dello spettatore gli effetticognitivi, teorici, scientifici e al tempo stesso visionari,finzionali, immaginativi, dell’oscillazione tra il troppo vi-cino e il troppo lontano.

Un frammento di Pascal, scritto approssimativa-mente alla stessa epoca, ci introdurrà al problema delladescrizione e del modo descrittivo che, in opposizioneal modo narrativo, è l’altra dimensione del modellodella Alpers:

Una città, una campagna, da lontano sono una città o unacampagna; ma, quanto più ci avviciniamo, son case, alberi,tegole, foglie, erbe formiche, zampe di formiche, all’infini-to. Tutto questo vien compreso sotto il nome di “campa-gna” (Pascal n° 65-115, p. 24).

Nelle condizioni dell’esperienza proposte da Pascal,il moto di avvicinamento (quello del corpo che “passeg-gia” come quello del microscopio), ha come risultato dicancellare tutti i dati costitutivi della rappresentazione“albertiana”: il punto di vista fisso, la delimitazione del-lo spettacolo tramite un confine rigoroso e immobile,l’esatta determinazione dell’occhio rispetto al piano tra-sparente della rappresentazione. Attraverso lo sguardo,il mondo viene trasformato in un “artefatto-natura” pri-ma ancora di essere dipinto sulla tela con linee e colori.Nell’atto di immobilizzarsi per la contemplazione sottoun determinato punto di vista, in quello di limitare la di-

strazione dello sguardo nei limiti della cornice della “fi-nestra”, in questo segreto calcolo di un optimum di vi-sione, si articola il programma di una volontà di rappre-sentazione, cioè di dominio e di appropriazione dellanatura. Lo spostamento del punto di vista cambia nonsoltanto il luogo di visione ma anche l’inquadratura e ladistanza; così l’oggetto stesso dello sguardo, lo spettaco-lo “nascosto”, distanziato, che il mondo offre allo sguar-do, si disperde, si dissolve nella proliferazione delle sin-golarità: apparente fecondità delle cose. “Natura diver-sifica e imita” (Pascal 541-120, p. 24), scriveva Pascal inun enigmatico pensiero. Ripetizione non dell’identico,ma della differenza.

Ciò che la natura imita, è la diversità o piuttosto ladifferenziazione che la anima. Essa ripete senza fine lasua prodigiosa differenza, il suo potere di produrresingolarità ma, così facendo, con questa stessa imita-zione, la Natura accede alla riflessione attraverso la fi-gura di questo sguardo che, man mano che si avvicina,distingue case, alberi, tegole, e così via, senza sosta,per arrestare infine questa enumerazione delle formedella Natura dando a quest’ultima il nome che la defi-nisce: infinito. A questo nome si oppone o piuttosto sene sovrappone un altro: “Tutto questo [cioè le case, letegole, le foglie…] vien compreso sotto il nome di‘campagna’”. Un nome, un termine, pone un termine,quello della convenzione linguistica, al movimentodell’infinita differenza, un nome che “copre” l’infinitae infima singolarità di ogni cosa, l’abisso della diffe-renza, senza mai poterlo colmare. Tale sarebbe, sottole pacifiche certezze borghesi dell’Olanda del Seicen-to, il problema o piuttosto l’aporia e il paradosso dellasuperficie di descrizione nella sua relazione con il lin-guaggio, con il discorso che “dice” il quadro. Comenota la Alpers con grande sottigliezza, c’è un’osserva-zione che ritorna spesso nel discorso della critica e

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della storia dell’arte a proposito della pittura olande-se. Riguarda il fatto che di questi quadri non vi sianulla da dire: il quadro mostra esattamente tutto ciòche potrebbe essere nominato, porta tutti quei nomisulla sua superficie e sembra che tutta la sua “sostan-za” consista in questa articolazione esibita e semprenominabile della superficie o, più precisamente, delpiano di rappresentazione.

Il quadro è una superficie di descrizione perfetta-mente trasparente, esattamente coestensiva al discorsodescrittivo che l’enuncia e nel quale si esaurisce in una“piatta” tautologia tra immagine e lingua. “Una città,una campagna (da lontano) sono una città o una cam-pagna… Ma, quanto più ci avviciniamo…”. Ora, po-tremmo dire – come Panofsky quando guarda un qua-dro della maturità di Van Eyck – che il quadro “nordi-co”, “olandese esige che ci si avvicini per meglio vede-re”. “L’osservatore”, scrive Panofsky, “è costretto aoscillare fra una posizione piuttosto lontana dal qua-dro” – la posizione distante di un soggetto che è nonsolo sguardo, ma punto di vista, non solo potenza di vi-sione, ma potere di totalizzazione, che non solo costi-tuisce degli insiemi assemblando le cose nell’aperturadel suo angolo di visione, ma li riduce all’unità ordinatadi una sintesi di cui la prospettiva geometrica, lineare,legittima, definisce le condizioni operative – e “molteposizioni ravvicinate”. Pascal, scrittore, uomo di lin-guaggio, condannato alla linearità dei significanti lin-guistici, alla loro successione monotona, si rende per-fettamente conto che queste numerose posizioni, consi-derate da Panofsky come simultaneamente molto ravvi-cinate al quadro, sono di fatto e per il discorso che leenuncia, successivamente sempre più ravvicinate: l’oc-chio cessa di vedere una città e una campagna per vede-re case e alberi, tegole e foglie e poi delle erbe e su que-st’erba delle formiche... La descrizione della superficie

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descrittiva del quadro è come un filo di linguaggio, incui si infila, come le perle di una collana, una lista aper-ta di termini; un filo interminabile, a meno di spezzarloperentoriamente nominando questa “interminabilità”:l’infinito. Ogni descrizione è aporetica, ed è allora chelo spettatore panofskyano riprende la distanza, si allon-tana e enuncia il titolo del quadro che ne costituisce l’e-satta descrizione: “È una città e una campagna”. Costi-tuirà la forza (e forse l’eccesso) di Pascal – o, secondoun’altra tonalità “affettiva”, di Leibniz – interrogare ilconcetto iconico e discorsivo di descrizione e attraversodi esso quello, metafisico, di realtà. Ogni descrizione èaporetica, perché racchiude l’infinità della differenzasingolare, l’infinità della realtà – a meno di arrestarequesto flusso di reale (così potentemente evocato daPascal nel frammento dei due infiniti, e di cui gli studisull’acqua corrente di Leonardo potrebbero costituiregli emblemi – un reale che sfuggirà sempre, ma per ec-cesso, al discorso e all’immagine), a meno di fissarne gli“elementi differenziali” nelle convenzioni linguistiche enei codici iconici:

Sulla terra ci sono erbe: noi le vediamo. – Dalla luna nonsi vedrebbero. E su queste erbe, peli; e in questi peli, pic-coli animali; ma poi più nulla. – O presuntuoso! – corpimisti son composti di elementi; e gli elementi, no. – O pre-suntuosi, ecco un punto delicato! – Non bisogna afferma-re che esiste quel che non si vede. – Bisogna dunque parla-re come gli altri, ma non pensare come loro (Pascal 782-266, p. 92-93).

Dire come gli altri “è una città, è una campagna…”ma, a differenza di loro, pensare la differenza infinitadella realtà senza poterla mai dire o rappresentare.

Se dunque lo strumento metodologico per ritrovarela natura nella sua purezza e trasparenza è l’osserva-zione – lo sguardo senza pregiudizi e senza preconcet-

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ti dell’induzione empirica, che si limita a raccogliere idati costitutivi del suo sapere – bisogna comprendere– e sarà ancora una volta la forza dello sperimentatore,del fisico, del matematico Pascal, l’averlo intuito – chela descrizione iconica e discorsiva, che registra l’osser-vazione, può trovare le condizioni teoriche di possibi-lità, la legittimità epistemologica, il fondamento e, nelsuo farsi, la stabilità cognitiva, solo a condizione di ri-correre al paradigma filosofico del convenzionalismo:ogni cosa ha il suo nome, ogni cosa ha la sua figura,ogni cosa è nel suo nome e nella sua figura, immediata-mente appropriata a se stessa. La conoscenza esattaconsiste nel ritrovare il lessico iconico e linguisticooriginario del mondo, al di là delle stratificazioni dellatradizione, delle sedimentazioni, delle credenze e dellarigidità inconscia di quelle abitudini mentali che lehanno fissate e incorporate.

Ma “man mano che ci si avvicina…”, questo lessicofigurativo e nominale forse non si disfa? Così come l’oc-chio di Pascal, “vivo” perché in movimento, si avvicinainfinitamente alla superficie del mondo per perdersi inciò che nominava esattamente con la figura e il nome“una città, una campagna”, così lo sguardo dello spetta-tore che risponde al richiamo del quadro di Vermeer siavvicina alla tela fino alla miopia assoluta, come nellaVeduta di Delft o nell’Allegoria della Pittura, e scopre suquesta superficie, con Lawrence Gowing o Svetlana Al-pers, la stessa strana, paradossale, mancanza per eccessodella descrizione:

Vermeer sembra quasi non curarsi di quel che sta dipin-gendo, o addirittura non saperlo. Come si chiama questamacchia di luce? È un naso? Un dito? Che cosa sappiamodella sua forma? Per Vermeer questi problemi non esisto-no: il mondo concettuale dei nomi e della conoscenza è di-menticato, niente lo interessa all’infuori del visibile, la sfu-matura, la macchia di luce (Alpers, 1984, p. 56).

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La Alpers illustra con questa citazione di Gowing ilmovimento, a suo parere specifico, di Keplero, che nonsoltanto definisce l’immagine retinica una rappresenta-zione, ma inoltre distoglie lo sguardo dal mondo realeper concentrarsi sul mondo dipinto nel fondo dell’oc-chio. Senza sottolineare abbastanza il paradosso, misembra, la Alpers nota: “Tutto questo implica un’estre-ma oggettività e la rinuncia a formulare giudizi di valoresul mondo così rappresentato” (Ibid, p. 56). La descri-zione del quadro (nel duplice significato oggettivo e sog-gettivo del genitivo), la sua superficie “quasi retinica” diiscrizione che è quella stessa del mondo, impegna losguardo in una affascinante avventura:

“Se concentriamo l’attenzione su un particolare – peresempio la mano del pittore nell’Arte della pittura – pro-viamo un senso di vertigine perché la mano è costruita conpure sfumature di luce, e non dichiara affatto la sua iden-tità di mano” (Ibid, p. 56).

È un’esperienza che stordisce: l’occhio si perde inuna superficie in cui le rappresentazioni delle cose per-dono definitivamente le parole che le designano e leidentificano.

Questa perdita nell’eccesso – questa vertigine, co-me dice molto bene la Alpers – mette in discussione senon il concetto di descrizione almeno la sua operati-vità: si tratta di passare dalla denominazione dei “con-tenuti” figurativi alla concettualizzazione delle manieredi coglierli e di fissarli sulla superficie, concettualizza-zione che – è importante sottolinearlo – non ha nulla ache vedere con un impressionismo “descrittivo”, me-taforico o poetico, che ha probabilmente un suo valo-re, ma riguarda solo indirettamente la conoscenza del-le opere in storia dell’arte. In questa direzione, biso-gna forse spingersi ancora più avanti della Alpers nel-l’elaborazione delle categorie della descrizione, affi-

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narle e complessificarle attraverso un va e vieni co-stante tra la strumentazione epistemica che le “circo-stanze” storiche, sociali e culturali offrono al pittoreper “descrivere” il mondo con linee e colori sulla su-perficie della tela, e gli strumenti metodologici che lescienze sociali offrono allo spettatore. Questi ultimi siriveleranno operativi solo a condizione che lo sguardosi soffermi con estrema attenzione su questa superficiedipinta, cioè solo a condizione di una esatta pertinen-za teorica delle questioni che questo sguardo pone allasuperficie stessa.

Da questo punto di vista, nel valutare, nel libro dellaAlpers, l’esattezza di questa pertinenza, e dato che il suolavoro si fonda sull’opposizione strutturale tra la narrati-vità dell’arte italiana del Rinascimento e la descrittivitàdell’arte olandese del XVII secolo, può sembrare al lin-guista e al semiotico che i suoi riferimenti al “narrativo”e al “descrittivo” siano a un tempo troppo ristretti etroppo vaghi. Non è questa la sede per sviluppare que-sta critica, tanto più che la Alpers – ed è la forza e altempo stesso la debolezza del suo libro – ha effettiva-mente costruito questa opposizione soltanto a partiredal campo del visibile e solo per render conto dei duemodi visivi di rappresentazione nella storia e nella sto-riografia dell’arte, come nella sua teoria e nei suoi meto-di. Così, l’autrice si accontenta di citazioni marginali dimodelli linguistici e semiotici (cfr. in particolare le note11 dell’introduzione e 56 del capitolo 2). La “narrati-vità” è in verità per la Alpers quella, “ideale-tipica”, del-l’arte italiana del Rinascimento: il soggetto del quadro èuna storia messa in scena da attori umani in uno spazioteatrale costruito dalla prospettiva legittima, una storiatratta dalla mitologia antica o dalla tradizione cristiana,e il cui riferimento è essenzialmente un testo letterario,profano o religioso. L’accento del discorso critico e l’o-rientamento dell’analisi vengono allora spostati verso la

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costruzione del luogo scenico nel quadro, il che implicaun soggetto-sguardo che costruisce questo spazio attra-verso un piano di rappresentazione esattamente limitatoda una cornice (per-spectiva), un soggetto-sguardo la cuidistanza da questo piano e la cui posizione in rapporto aesso determinano rigorosamente la collocazione delle fi-gure e la loro scala in una profondità illusoria.

Può darsi che tutto il problema della rappresentazio-ne narrativa in pittura, e in particolare nella pittura“classica”, sia da studiare alla luce di questo spostamen-to. Sarebbe allora necessario esplorare le diverse moda-lità figurative di articolazione del racconto, e le costri-zioni (variabili storicamente) che esse impongono allanarrazione “iconica” e alla “definizione” sensibile, visi-va, ottica, geometrica, ecc. dello spazio rappresentatosul piano di rappresentazione. Abbiamo tentato altrovedi costruire i modelli di questa articolazione, in partico-lare quello della pittura di storia nell’arte classica delSeicento, in cui la disposizione paratattica delle figuredella narrazione è il risultato, a livello dell’enunciato, diuna operazione di trasformazione – per figurazione, ro-tazione e lateralizzazione – della struttura del dispositivodi rappresentazione, cioè dell’apparato formale dell’e-nunciazione (Marin 1980). Queste ricerche costituivanouna calcolata trasposizione dell’articolo di Émile Benve-niste sulla distinzione tra discorso e storia. Prendere inconsiderazione questa distinzione, e i numerosi lavoricui ha dato luogo, avrebbe permesso forse di affinarequella nozione di descrizione di cui la Alpers mirava acostruire il modello per le arti visive a partire dall’arteolandese del XVII secolo. È vero che, tra discorso e sto-ria, la nozione di descrizione ha uno statuto ambiguo,poiché possiede sia i tratti narrativi sia quelli discorsivi:da questo punto di vista, il riferimento ricorrente al la-voro di Ann Banfield (1982), anch’essa debitrice almenoin parte di Benveniste, è prezioso, e meriterà di essere

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proseguito e sviluppato nel campo delle arti visive e del-l’immagine pittorica in particolare, e su una strada di cuil’Arte del descrivere costituisce una tappa essenziale.

In ogni modo, il magnifico “elogio dell’apparenza”che tesse questo libro attraverso lo studio dell’arte olan-dese del XVII secolo, si completa, sulla scia delle ricerchedi Ann Banfield circa lo scarto tra il self e lo speaker nelracconto di finzione, con una messa in discussione del“soggetto albertiano” (soprattutto nei capitoli 4 e 5), avantaggio di un soggetto multiplo, frammentario, porta-tore di uno sguardo plurale, o ancora a profitto di quel-lo che noi stessi abbiamo riconosciuto nelle nostre ricer-che sull’utopia e sui modi di rappresentazione cartogra-fica del XVII secolo come un non-soggetto, contempora-neamente dappertutto e in nessun luogo, la cui scom-parsa ha come risultato paradossale di animare le cosestesse, nella loro rappresentazione, di una autopresenta-zione visiva, di una sorta di “coscienza-cosa”, che evocaoggi, nel declino caotico alimentato dalle mode postmo-derne, quei motivi leibniziani o pascaliani che hanno fat-to da sfondo a questa nostra lettura di un libro impor-tante, per la storia dell’arte e per le scienze sociali.

1 Éloge de l’apparence, versione francese dell’articolo pubblicato in, “InPraise of Appearance”, October, 37, 1986, pp. 99-112, riveduta in alcuni pun-ti sulla base delle correzioni apportate dall’autore alla versione inglese.

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Mimesi e descrizione1

Come introduzione a questa relazione su mimesi edescrizione, vorrei proporre una breve fiaba estetica sul-le origini della pittura, che ho trovato in Le Songe dePhilomate di Félibien (1725). Parla Pittura, dopo averdipinto il mondo creato da suo Padre, il Dio degli Dei:

Poiché le Divinità delle acque hanno considerato anche imiei dipinti con piacere, hanno voluto farne delle copie;e vi sono riuscite così bene che ora potete vedere conquale facilità riescano a fare un quadro in un istante.Anche i grandi Fiumi e i Torrenti, sebbene rapidi e im-petuosi, cercano spesso di imitarli, ma non hanno abba-stanza pazienza per portare a compimento tutto ciò cheiniziano. Non restano che le Ninfe dei fiumi, dei laghi edelle fonti, dall’indole più dolce e tranquilla, che provi-no un piacere così grande in questa occupazione da nonfare altro che rappresentare in continuazione tutto ciòche si offre alla loro vista [ma sono] così capricciose chei loro quadri non si [possono] vedere perché li compon-gono sempre a testa in giù […] oltre al fatto che gli Zefi-ri spesso si diverto[no] ad alterare i tratti e a mescolare icolori dei loro quadri. [Al che Amore aggiunge]: Ho vo-luto […] invitarle a farmi il ritratto: alcune Ninfe dellefonti e dei laghi più tranquilli se ne sono dette felici. Mauna volta finito il mio quadro, non potevo toglierlo lorodi mano; e appena mi allontanavo, cancellavano tuttoquello che avevano fatto per sostituirlo con qualcosad’altro (Ibid., vol. 4, pp. 454-456).2

Come potete constatare, per Félibien – seguace diPoussin e difensore del disegno e dell’arte classica,brillantemente evocato da alcuni interventi durantequesto convegno – la pittura trova il suo paradigma al-legorico nel riflesso delle cose nella specularità delleacque: la Natura, produttrice di immagini nella casua-lità degli incontri degli esseri, è già essa stessa operatri-ce di mimesis: Natura naturans, natura artifex. E la pit-tura troverà, se non la sua origine, almeno la sua condi-zione di intelligibilità e di bellezza in un riflesso origi-nario del mondo visibile su se stesso. L’arte del pittoreriproporrà a sua volta questa artificiosità della Natura,superando però la sua carenza naturale, che è l’ordinedel tempo. Le immagini che galleggiano sulla superfi-cie calma delle acque sono perfette, ma effimere: la lo-ro rappresentazione si misura nella presenza fugace de-gli esseri animati che vi si riflettono. Soltanto Narcisosaprebbe restare immobile sulla riva, affascinato dallasua immagine fino a morirne. Il tempo di apparizione escomparsa degli uccelli, delle ninfe o degli dei, grazieal desiderio di Amore, è colto da Pittura nella fissità enella permanenza di una presenza più duratura: rad-doppiamento mimetico; presenza attuale di una rap-presentazione; presenza attuale di un’assenza o di unamorte. Attraverso la pittura, la cosa nell’istante dellasua apparizione diventa modello, fissando l’indolentefrivolezza della sua apparenza nella posa dell’oggettocatturato da uno sguardo e trasposto sul quadro dauna mano che possiede tutta la technè e tutta la scienzadell’arte. Nemmeno Narciso morente sulla riva dellafonte, ha lasciato un ritratto, in memoria dell’amoreper se stesso; rimane solo il fiore della sua metamorfo-si, che conserverà della sua presenza – un’immagine ri-flessa – soltanto il nome. Word and image, parola e im-magine, un nome per un’immagine: è questo il vastotema che ci ha riuniti a convegno. Mimesi e descrizione

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è l’oggetto del mio intervento. Pronunciando il nomedi Narciso, infatti, evocherò il suo corpo disteso sulconfine tra terra e acqua, o la sua immagine morentevicino alla superficie, o le ombre dipinte dell’uno odell’altra sulla tela di un Poussin o di un Caravaggio, oil fiore che rende immortale il suo ricordo: mimesi tral’essere stesso, la sua metamorfosi e un nome che ètraccia scritta di una descrizione e contemporaneamen-te di una storia…? Vorrei quindi porre il mio problemanel cuore dei giochi delle favole e delle allegorie sull’o-rigine della pittura, tra il nome e l’immagine.

A dire il vero, se si pone il problema della mimesi edella descrizione sul confine dei miti d’origine, sembraproprio che il poeta e il filosofo siano le vittime – comeNarciso – del fascino di un duplice desiderio: quello diun linguaggio fatto di parole tanto trasparenti al mondodelle cose che la descrizione – che ne sarebbe la piùperfetta realizzazione o il fantasma – opererebbe unatraduzione generalizzata delle figure rappresentate delquadro in nomi. Ma questo desiderio ne ha come con-dizione un altro, che gli somiglia come un fratello, chepotrebbe essere l’inverso: il desiderio di un dipinto cosìtrasparente al mondo sensibile da esserne il sogno allospecchio, il fantasma di uno specchio allo specchio. Larappresentazione pittorica sarebbe allora a sua volta ilrisultato di una trasposizione generalizzata delle cosedel mondo in immagini dipinte; accoglierebbe solo il ri-torno delle cose, che si farebbero così catturare dallatrappola della tela e della superficie dipinta, già trappo-la del linguaggio, rete e ragnatela di nomi: sogno o desi-derio di un mutuo scambio, traduzione, traslazione, tra-sposizione in cui la logica dell’economia della mimesiartistica si converte allo stesso regime della logica e del-l’economia della descrizione dell’immagine. E vicever-sa, nel caso specifico: identica logica ed economia dellinguaggio e dell’immagine, resa possibile dalla duplice

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intercessione della figura mimetica di pittura e del no-me descrittivo che si limita a designare. Questa equiva-lenza corrisponde di fatto a uno scambio senza profittoné perdita; esso corrisponde a logiche complesse e aeconomie raffinate nel campo delle parole e del lin-guaggio così come in quello delle cose e delle figure, lacui congruenza è il risultato di una transazione finale,di un bilancio ultimo in cui le carenze e gli eccessi di unambito si trovano esattamente compensati dai guadagnie dalle perdite dell’altro. Detto altrimenti, il desideriodi trasparenza delle immagini alle cose e dei nomi alleimmagini negherebbe una turbolenza centrale, radicalenello spazio stesso in cui sembrano compiersi le equiva-lenze tra le une e le altre (cfr. Derrida 1989).

In realtà, la mimesi pittorica opera nel luogo precisoin cui irresistibilmente si affermano i prodotti del suopotere, e con esso, della logica che lo sottende e dell’e-conomia che lo articola.

Prima proposizione di questo organon: l’arte di di-pingere produce il doppio della cosa, tanto fedele etanto somigliante che, là sulla tela, c’è la cosa stessa. Eallora, come diceva Platone, e Pascal dopo di lui, per-ché imitare? “Qual cosa vana è la pittura, che si fa am-mirare per la rassomiglianza delle cose di cui non siammira l’originale!”(Pascal 40-134, p. 89), inutilitàdell’arte che da sola non vale niente… Ma se, comescriveva Filostrato nella Vita di Apollonio di Tania (IV,19, p. 283), la mimesi è un’artista meno saggia dell’im-maginazione, phantasia, forse – seconda proposizionedell’organon mimetico – essa non produce il doppiodelle cose e il suo artefatto ne è solo l’immagine più omeno somigliante. Aggiungendosi al modello, questoartefatto lo sostituisce facendo mostra, in questa varia-zione dell’identico, della varietà delle sue risorse e deisuoi effetti. Attraverso una magia innocente, come Fé-libien fa dire a Pittura, l’arte della mimesi in quanto ar-

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te, con tutto il lavoro, la technè, e la scienza dell’arte,inganna gli occhi che credono di vedere nella pitturaciò che non esiste – cose, esseri, movimenti, vento enuvole. Il misterioso piacere della mimesi pittorica sicompie allora nella rappresentazione. I suoi effetti sidanno tra due proposizioni contrarie e simultanee diuna stessa logica: tra un’arte mimetica incontenibilenella sua potenza creatrice di doppi e un’arte mimeticache opera su somiglianze e dissomiglianze attraverso lesue figure. Ingannare gli occhi non significa trompe-l’oeil: le apparenze che, secondo Félibien, Pittura di-spiega davanti agli occhi grazie alla sua magia, sono in-gannatrici in proporzione all’ammirazione per l’arte didipingere. Le apparenze non ingannano lo sguardo, adifferenza di questi “doppi” che talvolta l’occhio in-contra aggirandosi ai margini della rappresentazione,come ci è stato detto, e che lo illudono a tal punto davolerli toccare. La cosa stessa entra nella rappresenta-zione, si spinge nell’immagine per superare i confinitra immaginario e realtà: magia tutt’altro che innocen-te. Nel trompe-l’oeil la cosa è un fantasma che ricordal’inquietante e familiare stravaganza dell’essere nellarappresentazione pittorica, un fantasma che, con formee colori piacevoli, ne presenta una sembianza gioiosa.Potrebbe anche essere che, lungi dal trovare nel trom-pe-l’oeil dei doppi – ossia la realizzazione dei suoi sco-pi – l’arte di dipingere, attraverso il gioco grazioso disomiglianze sempre un poco dissimili, abbia l’unicoscopo di scongiurare, con l’innocente magia della rap-presentazione, l’inquietante ritorno nell’immagine deidoppi, dell’essere innominabile e indescrivibile perchétroppo vicino agli occhi (cfr. Marin 1984).

La seconda proposizione dell’organon mimetico è,dunque, quella della rappresentazione che sostituisce efornisce un supplemento al suo modello. Le somiglianzedissimili che la caratterizzano, la maggiore o minore ve-

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rosimiglianza fa sì che il “ri” di “ripresentazione” si gio-chi tra duplicazione e sostituzione. Come già aveva no-tato Platone, ogni rappresentazione mimetica è un esse-re inferiore rispetto al suo modello, ma ciò che perde inessenza – ontologicamente – guadagna in pragmatica,grazie alle risorse della sua arte in termini di effetti sen-sibili e passionali. E senza dubbio questo gioco della du-plicazione e della sostituzione dissimula e cancella, fa-cendoli così dimenticare, sia il fantasma dell’immaginecome doppio della cosa, sia quello del nome come tra-sparente descrizione dell’immagine.

Nel dizionario di Furetière (1690), si trova alla vo-ce del verbo représenter, un’interessante tensione chene mette al lavoro il senso. Rappresentare significa, dauna parte, sostituire un elemento presente a uno as-sente – che, per inciso, corrisponde alla struttura ge-nerale di ogni segno, linguistico o visivo che sia –, so-stituzione regolata, naturalmente o per convenzione,da un’economia mimetica: è la somiglianza presuppo-sta tra l’elemento assente e quello presente che auto-rizza a operare la sostituzione. Ma esiste un altro si-gnificato, secondo cui rappresentare significa esibire,mostrare, insistere, presentificare attraverso una paro-la: è l’atto stesso di presentare che costruisce l’identitàdi ciò che viene rappresentato e lo identifica. Da unlato, un’operazione mimetica che assicura il funziona-mento, la funzione o anche la funzionalità di un ele-mento presente al posto di uno assente; dall’altro, unaspettacolarizzazione, un’auto-presentazione costitutivadi un’identità, un’auto-identificazione che assegna unlegittimo valore di bellezza.

In altri termini, rappresentare significa presentarsinell’atto di rappresentare qualcosa e ogni rappresenta-zione, ogni segno o processo rappresentazionale com-prende una doppia dimensione – una dimensione rifles-siva: presentarsi; una dimensione transitiva: rappresen-

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tare qualcosa – e un duplice effetto: l’effetto di soggettoe quello di oggetto. Semantici e pragmatici contempo-ranei li chiamano, e non a caso, “opacità” e “trasparen-za” (Recanati 1979, p. 31 e sgg.). Inutile dire che tuttala fantasmatica della descrizione e della mimesi è statacostruita sulla dimensione transitiva della rappresenta-zione (rappresentare qualcosa), dimenticando la suaopacità riflessiva e le sue modalità (presentarsi): unamimetica dell’immagine pittorica apre la strada delleparole alle immagini, poiché le immagini delle cose (inpittura) sono già i nomi delle cose (nel linguaggio), poi-ché una descrizione verbale delle cose è già inscrittanell’immagine. I due specchi del linguaggio e dell’im-magine si identificano immediatamente nell’opera pit-torica e ogni processo di presentazione non fa che offu-scare, opacizzare questi due specchi gemelli in cui, co-me diceva Baudelaire, l’amore degli amanti si consumain un’estenuante contemplazione.

Alla manipolazione della trasparenza mimetica dellarappresentazione da parte della sua opacità riflessiva opresentativa, può corrispondere quella della trasparenzarappresentativa del discorso descrittivo operata dai suoiconfini opachi. Retorici e teorici del discorso, da Gor-gias a Fontanier, non hanno forse, da lungo tempo, stu-diato figure del discorso come ipotiposi, parallelo,subjectio ad aspectum, allitterazione, che ritraggono lecose in modo così vivace, energico, animato che sembradi vederle udendone la descrizione? Ma ciò di cui non cisi rende conto è che se le parole sono in grado di dipin-gere e presentificare, se il linguaggio descrive facendovedere, è solo grazie alla forza che lo attraversa e che èarticolata dalle parole, è solo grazie all’incarnazione del-la voce resa possibile dalle frasi. Questo è ciò che Pous-sin (24.11.1647, p. 125), con i teorici italiani della musi-ca del XVI secolo, chiamava il suono delle parole, performularne l’analogia con le modalità di rappresentazio-

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ne propriamente pittoriche dei colori e della disposizio-ne delle figure. Oltre le parole e le frasi, la forza di que-ste figure del linguaggio traccia, all’interno dell’operapittorica o verbale, la confusa sintassi del desiderio cheanima il pittore o l’oratore, insieme ai suoi effetti pate-mici; di essi il corpo dello spettatore e dell’ascoltatorediventa, a sua volta, sede. Nessuna descrizione verbale,che sia duplicata dalla macchina mimetica dell’immagi-ne, riuscirà a render conto delle oscure forze della pre-sentazione della rappresentazione, in cui prendono for-ma, per mezzo dei loro effetti, le identificazioni immagi-narie del soggetto.

Mi sembra che, insieme a queste figure del discorso– la cui forza descrittiva di cose o di artefatti artisticista prima del nome e oltre l’enunciato frastico – si in-contri, per quanto riguarda le immagini, lo sfuggentemodello di analisi proposto da Panofsky (1961, 215-232) per “la descrizione e l’interpretazione del conte-nuto delle opere d’arte figurative”.. Ci imbattiamo al-lora nel nostro problema fin dal primo livello di fun-zionamento del modello: e precisamente quello delladescrizione, del senso-fenomeno, di una fenomenolo-gia. Subito Panofsky sottolinea che non esiste una“percezione innocente” dell’opera d’arte, come invecesosterrà Bourdieu (1979), quand’anche fosse regolatadall’organon della mimesi, o forse proprio per questaragione. Tra il quadro e il suo spettatore, che virtual-mente ne opera una descrizione, esiste sempre qualco-sa: un discorso, il tesoro del linguaggio, le sue risorsepraticamente infinite e, come direbbe Blanchot, il bru-sio di una personale riflessione sui discorsi naturalizza-ti della doxa. Il soggetto vede e non parla ancora, mascopre nel quadro che contempla una direzione obbli-gata per il suo sguardo e una potenziale descrizione giàpre-scritta nella tela. Attraverso l’interiorizzazione dischemi culturali sotto forma di strutture semantiche e

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sintattiche della lingua, la percezione della cosa rap-presentata viene commutata con la cosa che essa rap-presenta e il nome del referente reale viene sostituito alnome del referente dipinto. Contemporaneamente vie-ne occultato ciò che già Aristotele (Categorie, I, 1) se-gnalava nelle Categorie e cioè che tra il cavallo dipintoe il cavallo reale c’è semplice omonimia; o ciò che per ilogici di Port-Royal (Arnaud e Nicole 1683, pp. 204-205) era l’enunciato fugurativo, e cioè il nome di Cesa-re pronunciato davanti al ritratto di Cesare. Tuttavia,nonostante tutte le precauzioni metodologiche e teori-che di Panofsky, nulla toglie che una descrizione, quel-la che lui chiama puramente descrittiva o puramenteformale, sia vicina a una fenomenologia dell’opera pit-torica: “Una descrizione che fosse davvero puramenteformale non potrebbe nemmeno usare espressioni co-me ‘sasso’, ‘uomo’, ‘roccia’” (Panofsky 1961, 216),semplicemente perché il dispositivo mimetico determi-na una trasparenza transitiva così perfetta, che le paro-le, i sostantivi e i predicati non possono che imporsiimmediatamente, naturalmente al discorso descrittivo,pena la caduta nell’in-sensato qualora se ne liberasse. Èallora che letteralmente l’opera così nominata nonavrebbe più niente da dire. Nel modello panofskiano èfacile individuare questo processo di occultamento del-la massa opaca della pittura, dei suoi tratti e delle suetracce, delle sue figure e dei suoi colori. Questi ele-menti, che Panofsky chiamava in modo molto significa-tivo fattori puramente formali, si trovano però reinte-grati al terzo livello, il livello iconologico, quello di unafilosofia delle forme simboliche: ritorno del rimosso,questi fattori, scartati al livello fenomenologico descrit-tivo perché privi di senso, diventano a questo punto“documenti del senso unitario della concezione delmondo” (Ibid., p. 228). Essi producono senso in quan-to costruiscono con i nomi del senso-fenomeno e i sa-

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peri culturali del senso-significazione (per usare i ter-mini di Panofsky) il senso essenziale, quello dell’essen-za di una cultura. Ma qualunque sia la portata dellacritica al modello di Panofsky, rimane il fatto che il du-plice movimento che abbiamo tentato di mettere inevidenza – l’esclusione dall’“infrapreiconografico” e lasua reintegrazione nel “sovraposticonografico” che ca-ratterizzerebbe la descrizione nel campo di una mime-tica transitiva dell’opera d’arte – comporta un’esigenzadi interpretazione di cui è necessario tenere conto. Ela-borare le categorie fondanti di una descrizione, di que-sto al di qua dei nomi delle cose che è la pittura inquanto pittura, non è sufficiente: bisogna che il discor-so che ne risulta sia preso in conto dalla teoria e dallastoria dell’arte, una storia il cui oggetto non sarebbeesclusivamente la trasparenza transitiva, ma anche l’o-pacità presentativa della rappresentazione e dei suoieffetti. È chiaro che qui faccio mie le preoccupazionidi Oskar Bätschmann, filtrandole attraverso una teoriadell’arte che tenti di concettualizzare ciò che MeyerSchapiro (1969) chiama gli aspetti non mimetici dellarappresentazione mimetica e che Kant definisce sferatrascendentale delle condizioni di possibilità della mi-mesi artistica.

Quindi non scagliamo troppo in fretta contro il mo-dello di Panofsky, la macchina da guerra della pitturanon figurativa, dell’opera d’arte detta astratta o infor-male, anche se la sua emergenza nella storia può essererivelatrice, se non del superamento del modello, alme-no della sua complessificazione. Restiamo ancora unmomento nel campo della rappresentazione, regolatain modo complesso e in continua evoluzione dalla logi-ca e dall’economia della mimesi: tentiamo ancora unavolta di collegare la pittura alla parola, il quadro al no-me. Trasformiamo in domanda la pretesa di esaustivitàe di oggettività implicite in ogni descrizione dell’opera

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pittorica. La finzione che mette in scena sarà il proble-ma e il fantasma del suo desiderio sarà lo strumento dianalisi. In breve, poniamo nuovamente la domanda in-genua: ogni quadro, ogni cosa dentro al quadro si offrealla nominazione?

Per discuterne farò dapprima riferimento a un qua-dro: si tratta di Vanità (o Memento mori) di Philippede Champaigne (tav. IV), conservato al museo di LeMans. La perfetta leggibilità dell’opera si deve alla pre-gnanza della sua visibilità: tre oggetti dipinti, posatil’uno accanto all’altro su un tavolo di pietra: un vaso dicristallo con un tulipano, a sinistra, un teschio al cen-tro, una clessidra a destra. Il quadro non è solo la fede-le rappresentazione pittorica di tre oggetti, ma è anchela rappresentazione, la messa in visione della lista deinomi che li indicano: paradigma visivo della lista di no-mi, che secondo Philippe Hamon (1981) costituisce, aragione, il paradigma “teorico” della descrizione reali-sta (e, a questo proposito, non dimentichiamo cheChampaigne è fiammingo). Il tavolo di pietra che reggei tre oggetti per offrirli contemporaneamente alla vistae al linguaggio, potrebbe anche essere considerato co-me la visualizzazione della successione lineare dei nomiche descrivono gli oggetti, elenco visivo e verbale chetrova il proprio centro strutturale in un nome e in unoggetto: il teschio centrale simbolo di morte. Secondoil modello di Panofsky, la lista dei nomi elencati nelquadro di Champaigne attraverso l’elenco scritto diun’esatta mimesi, offre al nostro sguardo e alla nostralingua l’insieme del quadro. Senza dubbio potremmoallungare la lista dei tre nomi, di predicati classificatorie modificatori, predicati di predicati, che sviluppereb-bero, per incassamenti successivi la transitività rappre-sentativa. Si passerebbe dalla generalità dei nomi allaparticolarità del loro potere di designazione, per arri-vare infine all’identificazione della singolarità della fi-

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gura dipinta, fino al nome proprio di ciò che essa rap-presenta, il nome del quadro, questo Memento mori diChampaigne. La nostra rete nominale, sequenza de-scrittiva dalle maglie sempre più sottili, il nostro qua-dro dall’ordito sempre più fitto, si esaurisce completa-mente nel suo nome? Domanda: cosa si può dire dellosfondo da cui le figure emergono, su cui i nomi figuratie le figure nominate si stagliano in sequenza? Che diredello sfondo che le fa emergere come lista figurata eche, proprio perché le presenta sotto quella forma, èl’unico responsabile del loro funzionamento sequenzia-le? Un sfondo nero, d’accordo. Ma cosa rappresentaquesto sfondo nero? Niente. Senza dubbio posso no-minarlo, definendo “niente” come “il niente”: un no-me che non designa, che non è altro che un nome: no-me dell’innominabile, luogo di cancellazione della se-quenza, il cui annullamento è, però, in qualche modocondizione di produzione visiva e verbale della sequen-za stessa. Un niente che è una rimanenza, un’eccedenzarispetto al potere di nominazione, in cui però questopotere trova il suo impulso.

Se questo sfondo non rappresenta niente, è vero an-che che si presenta come niente; non si presenta comerappresentante qualcosa: si presenta e basta. È in questaauto-presentazione pura che il quadro di Champaignepuò raffigurare con tanta forza i tre oggetti che rappre-senta attraverso la loro traduzione istantanea in lista dinomi. Detto altrimenti, lo sguardo descrittore assiste allascissione tra opacità e trasparenza. La riflessività del se-gno rappresentazionale è in qualche modo teoricamentee praticamente separata della sua transitività; tramitequesta frattura si prepara forse la strada verso un sensopiù alto, al di là dell’iconografia, che si apre su un al diqua pre-iconografico.

Questo sfondo innominabile, di cosa è sfondo? Ditre oggetti che la rappresentazione pittorica offre alla vi-

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sta e alla lettura? O forse è lo sfondo del quadro stesso,supporto dello sfondo rappresentato su cui le tre figuresi offrono alla vista accedendo al linguaggio? L’uno el’altro, senza dubbio. L’alternanza di opacità e traspa-renza si converte là, in quel luogo dell’opera, nella fusio-ne ambigua dello sfondo e della superficie, del quadro edella rappresentazione, una conversione isterica – se co-sì si può dire – della rappresentazione pittorica.

È vero, facendo questo discorso io descrivo, ma ladescrizione che produco opera un’elaborazione dell’e-conomia mimetica, che allo stesso tempo però regolatransitivamente – a con quanta forza! – la rappresen-tazione che sto descrivendo. Nello sforzo che il discor-so descrittivo fa per aderire quanto più possibile allamimetica transitiva della rappresentazione, lo sguardodescrittivo è portato a elaborare, all’interno del qua-dro, alcuni nomi-categorie che permettano di leggereciò che lo sguardo percettivo coglie, invece, senza al-cuna mediazione. In tal modo le sintesi degli oggettidel mondo esperienziale si trasformano in ri-conosci-mento dei nomi che designano queste sintesi: vaso dicristallo, tulipano, teschio, clessidra. Questi nomi-ca-tegorie (o concetti) – “supporto-sfondo”, “superficie-piano”, “margine-risvolto”, “non figurativo-figura”,ecc. – nonostante rendano conto nel linguaggio delleparti della rappresentazione percepite dallo sguardosenza poter essere immediatemente nominate, questiconcetti, dicevo, tentano di articolare, nel discorso del-la conoscenza, non tanto l’ineffabilità della pittura,quanto piuttosto l’opacità del modo di presentarsi del-la rappresentazione. Cercano di costruire le modalitàspecifiche delle relazioni – cioè delle forze e dei loroeffetti – che legano riflessività e transitività: copertura,occultamento, confusione, sincope, conversione, sosti-tuzione, ambivalenza, ecc. Così, lo spazio di queste re-lazioni e delle loro modalità – un campo degli effetti

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di forza – potrebbe formalizzare, all’interno di unateoria e di una pratica della descrizione, quelli chechiamerei i marcatori di virtualità – allo stesso tempo,possibiltà logica e potenza dinamica –: non figurativoo figura, ma figurabilità; non nome o enunciato, nomi-nazione o enunciazione, ma nominabilità ed enuncia-bilità. In breve, si tratterebbe di ricondurre la descri-zione alla possibilità della descrizione, la visione del-l’immagine alla visibilità, la sua lettura alla leggibilità:processo e non sistema; dinamica strutturale e non sta-tica tabulare. Si tratterebbe di individuare, in un ari-stotelismo generalizzato, i mezzi concettuali per unadescrizione che possa spaziare attraverso l’intero cam-po della mimetica pittorica per ritrovare se stessa, perrinvenirvi le tracce e gli effetti delle forze che vi ope-rano e di cui essa è spesso la potente negazione.

Abbandoniamo un momento il Memento mori diChampaigne per un altro testo che interpella la descri-zione mimetica e la mimesi transitiva in modo più pene-trante di quanto io sappia fare e secondo un’altra pro-spettiva. Prendiamo questo pensiero di Pascal:

Una città, una campagna, da lontano sono una città o unacampagna; ma, quanto più ci avviciniamo, son case, alberi,tegole, foglie, erbe, formiche, zampe di formiche, all’infi-nito. Tutto questo vien compreso sotto il nome di “campa-gna” (Pascal n° 65-115, p. 24).

Per fare il gioco della mimesi pittorica, sostituiamoa questa città e a questa campagna un quadro olandese,la Veduta di Delft di Vermeer (tav. V), contemporaneoal tempo in cui Pascal scriveva il pensiero. Troviamocosì riuniti tutti gli elementi del problema che ci siamoposti: la mimesi pittorica e la descrizione linguistica.Nella sua incisiva brevità, il pensiero di Pascal riprodu-ce l’azione verbale della descrizione pura. Lo schema

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strutturale sfruttato dai processi razionali della cono-scenza e il modello della descrizione come meta-classi-ficazione (secondo Hamon) sono prodotti e unificatiattraverso una sequenza che va dal generale al partico-lare, grazie al gioco combinato dei classificatori e deimodificatori. La descrizione subordina una lista predi-cativa sempre più ricca, a un’unità inglobante: un no-me (città, campagna) che vale per tutti i nomi, com-prendendo in sé un numero determinato di forme (ca-se, alberi…). Una volta operata la conversione di que-ste forme (per mimesi e nominazione) nelle cose corri-spondenti, possiamo scomporle a loro volta nelle partiche le costituiscono, tegole, foglie, erbe… La teoriadella descrizione, con questo gioco di incassamenti ge-rarchizzati, con quello dei costituenti e delle variantiche, secondo Benveniste, istituisce la gerarchia struttu-rale del linguaggio stesso, mira a costruire l’enunciazio-ne nominale di un’individualità, un nome proprio che,nel quadro, è Delft: nome di una città precisa e nomedi quel quadro… o, nel pensiero di Pascal, una città,una campagna. Quindi perfetta reversibilità tra mimesie descrizione, tra immagine mimetica (pittorica) e no-me proprio (nome della città e della campagna) – e no-me del quadro che le rappresenta fedelmente. È pro-prio questa teoria che Pascal mette in discussione nellasua stessa costruzione: mette in discussione una teoriadella descrizione che “realizzerebbe” o reificherebbenelle cose o nelle loro immagini mimetiche, nel suoprocesso di costituzione, la gerarchia strutturale dellinguaggio, facendone un concetto costruito e non unfunzionamento d’uso. Fa questo, ponendo al punto dipartenza ciò che il processo della descrizione colloca alpunto di arrivo: “Una città, una campagna […] sonouna città, una campagna”. Mette in discussione il ver-bo essere che consacra la reversibilità istantanea tra im-magine mimetica e nome che la designa, lo mette in di-

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scussione utilizzando il processo stesso della descrizio-ne, costruendo il nome che contiene la lista, ma inver-tendone l’orientamento. Il nome proprio, elemento chedescrive fedelmente una mimesi ripoduttrice fedeledelle cose – Delft, una città, una campagna – lungi dal-l’essere il designatore rigido di una descrizione defini-ta, di un “mimema” copia esatta, non è altro che l’eti-chetta d’uso, e logora, di una infinità. Meglio che nien-te: questo ci consente di parlare della cosa agli altri e diessere compresi… Il nome che descrive, che designa,nel quale la cosa è un nome, l’immagine nominale nellaquale il nome è una cosa, per farla breve, il nome-im-magine, è un circostanziatore d’infinità, dell’infinità diuna lista di nomi incassate le une nelle altre: il che si-gnifica che gli incassamenti classificatori e le liste ter-minano e che i nomi finiscono; che le figure e le partidelle figure presto si confondono e le immagini scom-paiono. Al silenzio e all’interruzione del discorso, faeco – se così si può dire – l’informe dell’immagine, l’in-terruzione della figura. La scrittura di Pascal vuole si-gnificare questo movimento verso niente di pronuncia-bile, precisamente nel sintagma della sua enunciazione:“Una città, una campagna, da lontano sono… ma,quanto più ci avviciniamo, sono…”. Il verbo “essere”che segna lo scambio tra nome e immagine è nell’enun-ciazione, determinato in anticipo dagli enunciati dimovimento successivi: da lontano – da vicino. È messoin stato di flusso. Con questo movimento di avvicina-mento nello spazio e nel linguaggio, che è insieme mo-vimento di approssimazione nella percezione e nellaconoscenza, ben lungi dal precisarsi e dal formarsi, so-no invece le equivalenze, i riconoscimenti per identifi-cazione che “passano allo stato fluido”, stato che, se-condo Benveniste (1971a), è l’esatta traduzione di “rit-mo” in greco. È ritmo lo sguardo da cui emerge il sog-getto descrittore. Il soggetto è in stato di flusso, come

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già aveva splendidamente intuito Montaigne: “Perchéè me stesso che dipingo […] Non descrivo l’essere.Descrivo il passaggio” (Montaigne 1992, p. 3, p. 1067).

All’inizio, per rispondere ai bisogni della nostraanalisi, abbiamo sostituito il quadro di un paesaggioolandese a quello idealmente contemplato da Pascal.Da lontano, dall’alto della collina dove si è messo ilpittore, Delft è una città, una campagna (penso ad al-cune analisi di Svetlana Alpers, 1984). Da lontano, auna certa distanza dal quadro, da dove si colloca lospettatore-descrittore, c’è Delft. Volete forse descriveredefinitivamente, vedere chiaramente? Avvicinatevi,non abbiate paura di avvicinarvi: ci sono delle case,delle tegole, delle erbe, delle formiche… guardate congli occhi di un miope, di un iper-miope… non ci sonopiù tegole, erbe, formiche per riempire le liste di predi-cati del nome… ma solo piccole gocce rosse, verdi ebianche, grandi macchie pastose blu e gialle, superficioleose, un piccolo lembo di giallo, brevi tratteggi colo-rati… dall’informe in stato di figurabilità, emerge tuttoil lavoro dei tocchi, dei peli del pennello, i gesti dellamano, il corpo del pittore nella pittura: dentro questopiacere dell’occhio nascono tutte le derive di un imma-ginario teorico dei cui limiti si troveranno alcuni splen-didi esempi in Plinio – sì, proprio in Plinio. Egli evocala linea di contorno del Parrasio che “deve come giraresu se stessa e finire in modo da lasciare immaginare al-tri piani dietro di sé e da mostrare anche quelle partiche nasconde”.2 Bisognerebbe citare anche Vasari eDolce quando parlano del vecchio Tiziano. Piaceredella pittura che può anche essere un momento di giu-bilo per il linguaggio che attinge al tesoro quasi inesau-ribile delle parole e delle figure. E qui bisognerà citareancora Diderot o i Goncourt quando parlano di Char-din. Ascoltateli in questo passaggio che meriterebbeuna lunga e accurata analisi:

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È un bicchiere d’acqua tra due castagne e tre noci; guar-date per qualche tempo, poi indietreggiate di qualchepasso, il bicchiere gira, è un bicchiere, è dell’acqua [enon più un bicchiere d’acqua], è il colore senza nome fat-to della doppia trasparenza del contenuto e del conte-nente. Alla superficie dell’acqua, sul fondo del bicchiere,è il giorno stesso che gioca, trema e s’immerge. Le sfuma-ture più tenere, le variazioni più fini del blu che volge inverde, un’infinita modulazione di un certo grigio glauco,cristallino e vitreo, un tocco dappertutto interrotto, deibarlumi che si rivelano nelle ombre, delle luci intense po-sate come con un dito sul bordo del bicchiere, è tuttoquello che si vede avvicinandosi alla tela (de Goncourt1967, pp. 83-84).

Il linguaggio tenta così di dire il suo piacere attraver-so il piacere dell’occhio, innalzando di fronte a quella“muraglia di pittura” che era il capolavoro di Frenhofer,una lista di parole che sgorgano infinite dalle risorse delvocabolario. Riprendete il vostro posto più lontano dalquadro… l’infinito, che il linguaggio non riesce a coglie-re e che si limita a imitare (a riflettere nel suo ordine), èracchiuso nel nome di Delft, un bicchiere d’acqua, duecastagne e tre noci nell’esatta immagine mimetica: tra-sparenza transitiva, involucro dell’opacità presentativain cui si scopre un processo di differenziazione senza fi-ne, nel corso del quale il reale viene sottratto al disposi-tivo mimetico che ne regola la rappresentazione (rappre-sentare qualcosa, il reale) e la significazione viene sot-tratta al dispositivo descrittivo che ne articola l’enuncia-zione (nominare la cosa).

“Da lontano… ma, quanto più ci avviciniamo”. L’o-pacità presentativa della rappresentazione mimetica ap-pare nello spostamento del soggetto osservatore, descrit-tore virtuale, nella variazione tra il vicino e il lontano delquadro: meglio ancora, il soggetto osservatore-descritto-re si identifica, si presenta come potenza dello sguardo e

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della descrizione soltanto in questa variazione, soltantonell’oscillazione tra il lontano e il vicino. Appare comel’effetto di un flusso, di un ritmo, uno stato di fluttua-zione che rappresenta la dimensione originaria della for-ma, flusso che nessun nome e nessuna figura saprebbebloccare per produrne il concetto o trovarne il tema (cfr.Maldiney 1985, 32). La stessa cosa è stata detta e ripetu-ta della pittura moderna, da Cézanne e Manet in poi,prova dell’indicibile e dell’innominabile costiuita dai di-scorsi tenuti su di essa. La pittura moderna, proponen-dosi come esplorazione creatrice delle condizioni dipossibilità della rappresentazione, sostituendosi all’in-terruzione dell’opacità e della trasparenza, si sottrae datutto ciò che la predisporrebbe al linguaggio, facendoscomparire quel nucleo verbalizzabile, descrivibile chel’immagine e la figura fanno emergere nella materialitàdella pittura. Tutto ciò che serve a una teoria più rigoro-sa della descrizione si trova in una costruzione teoricapiù esatta e precisa e in una pratica d’analisi più attentarispetto rappresentazione pittorica.

“Da vicino… da lontano”. Per concludere, vorreiproporre due immagine dell’opera di Leonardo da Vin-ci. Da vicino, da troppo vicino: il particolare dell’accon-ciatura del Ritratto di Ginevra de’ Benci (tav. VI, VII);da lontano, da troppo lontano: il disegno di un Paesag-gio di diluvio (tav. VIII). Da molto vicino, non c’è modomigliore per descrivere i riccioli dipinti di Ginevra chedi “dire” il turbinìo delle forze elementari scatenate sulmondo da Dio o dalla Natura. Da lontano, da moltolontano, non c’è modo migliore di “dire” i flutti e i gor-ghi dell’acqua celeste che di descriverli come riccioli dicapelli, trionfo di un’acconciatrice. Gombrich (1986),tra gli altri, lo ha analizzato in modo ammirevole. Al-l’occhio di Dio, molto alto, molto lontano, la rappre-sentazione della catastrofe cosmica può apparire pro-

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prio come una capigliatura femminile. Per l’occhio diun insetto, della formica di Pascal, da molto vicino,l’immagine di un ricciolo di capelli può sembrare pro-prio il turbinìo del diluvio. I discorsi che si sforzano didire, di descrivere in questo modo l’opacità della rap-presentazione nella trasparenza mimetica – così comece le propongono il disegno e il dipinto di Leonardo –combinano l’esattezza del riconoscimento visivo e laprecisione dei nomi, le omologie tra la cosa e ciò che leassomiglia, con lo splendore folgorante delle metaforepoetiche, con le immagini apocalittiche di una rivelazio-ne, con le variazioni delle metamorfosi differenziatrici edei loro contrari raffigurabili.

Mimesi-descrizione; parola-immagine: è un immensoprogramma di ricerca e di lavoro aperto in questa confe-renza, la cui vastità e ricchezza dipendono, mi sembra,dal tema problematico che ci ha fatto riunire: il temadelle frontiere e dei margini, dei confini e delle interfac-ce, che ci obbliga necessariamente ad abbandonare lecertezze disciplinari, le omogeneità e le regolarità di uncampo specifico per tentare di costruire il discorso mol-teplice delle eteronomie di funzionamento, delle tra-sgressioni e delle mescolanze. Non dobbiamo però di-menticare il rigore teorico e la precisione metodologicaper il semplice motivo che margini e confini della mime-si e della descrizione, della parola e dell’immagine, sonosempre singolarmente situati nei tempi della storia e neiluoghi della cultura: non c’è altro modo di descrivere glieffetti di quelle forze che attraversano questi limiti e daessi sono collegate e articolate, che farsi storico, antro-pologo o sociologo di questi momenti e di questi luoghi.Storico, antropologo e sociologo che lo saranno tanto dipiù quanto più osserveranno le opere d’arte, prese sin-golarmente, in sequenza e nel loro insieme con l’atten-zione più severa, quanto più le descriveranno attraversouna fascinazione rigorosa, da molto vicino, per meglio

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riconoscerne da lontano, gli effetti sensibili e patemicinelle loro modulazioni storiche e culturali.

1 Mimésis et description, conferenza pronunciata al colloquio di Amster-dam, aprile 1987, e pubblicata in Proceedings of the First International Confe-rence on Word & Image/Actes du Premier congrès international de Texte &Image, numero speciale di “Word & Image. A Journal of Verbal/Visual En-quiry”, 4 (1), 1988, pp. 25-36.

2 Plinio 1988, vol. V, p. 367. Cfr. anche Pigeaud 1987, pp. 413-430.