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Salvatore Menza I paraverbi del siciliano 1 Introduzione Scopo del presente lavoro è individuare e descrivere i principali esempi di paraverbo in siciliano e nell’italiano regionale di Sicilia 1 . Secondo quanto proposto in Menza 2005, il paraverbo è una sottoclasse del verbo (denota, infatti, un evento e riempie il nodo testa del SV) caratterizzata da proprietà lessicali tali da risultare invariabile e incompatibile con la negazione e la subordinazione. L’introduzione del paraverbo all’interno del sistema delle parti del discorso ha l’effetto di modificare l’intero sistema, rendendolo più economico e migliorandone la potenza descrittiva. Il paraverbo, infatti, sostituisce la classe dell’interiezione (il cui concetto e la cui definizione tradizionali risultano inadeguati 2 ) e si presta a descrivere singoli lessemi tradizionalmente assegnati in modo 1 Al paraverbo in generale è dedicato il secondo capitolo della mia Tesi di Dottorato, Metalessicografia tra lingua e dialetto. Per una revisione di alcune categorie nella modellizzazione dei lessico (XV ciclo, Dipartimento di Filologia moderna, Università di Catania, coordinatrice la Prof.ssa M. Spampinato, tutor il Prof. S. C. Trovato, a.a. 2003/2004). 2 In particolare, la definizione tradizionale di interiezione come parola-frase (Poggi 1981 e 1995, Brøndal 1948 137-139, Tesnière 1959 (trad. it. 2001 67), Graffi 1994 204) è inadatta a descrivere le interiezioni che reggono un complemento, come accidenti (a te), evviva (il re), che hanno un comportamento chiaramente verbale (reggono un argomento interno al quale assegnano un ruolo semantico e costituiscono una frase minima assieme a quest’ultimo). Le interiezioni che non reggono alcun complemento (ad es. ahi) sono pure considerate paraverbi, ma paraverbi privi di argomento interno, ed assimilate, dunque, a verbi intransitivi o zerovalenti (cfr. Menza 2005 § 2), in grado di costituire delle frasi senza il concorso di altri elementi (es. piove o nevicava).

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Salvatore Menza

I paraverbi del siciliano

1 IntroduzioneScopo del presente lavoro è individuare e descrivere i principali esempi di paraverbo in siciliano e nell’italiano regionale di Sicilia1. Secondo quanto proposto in Menza 2005, il paraverbo è una sottoclasse del verbo (denota, infatti, un evento e riempie il nodo testa del SV) caratterizzata da proprietà lessicali tali da risultare invariabile e incompatibile con la negazione e la subordinazione. L’introduzione del paraverbo all’interno del sistema delle parti del discorso ha l’effetto di modificare l’intero sistema, rendendolo più economico e migliorandone la potenza descrittiva. Il paraverbo, infatti, sostituisce la classe dell’interiezione (il cui concetto e la cui definizione tradizionali risultano inadeguati2) e si presta a descrivere singoli lessemi tradizionalmente assegnati in modo insoddisfacente3 ad una o più altre categorie (per comodità esplicativa, forniamo alcuni esempi tratti dall’italiano): avverbio (es. chissà, un argomento interno → ‘pV (paraverbo) + SC (sintagma del complementatore)’: chissà se/chi verrà, chissà che non arrivi), aggettivo (es. certo, con focus fonologico obbligatorio: CERTO che voglio venire! ‘pV + SC’), congiunzione (es. volesse il cielo → ‘pV + SC’: volesse il cielo che tutto andasse bene!), preposizione (es. lungi → ‘pV + SP-da (+ SN)’: lungi da me una simile idea!), sostantivo (es. niente → ‘pV + (SN)’: niente biscotti, o, con argomento in topic, biscotti niente). È, inoltre, possibile ricondurre al paraverbo alcune categorie per intero, come ad es. la profrase (sì, no → ‘pV + SC (sottoponibile ad ellissi)’: sì che voglio partire!) e la locuzione di comando (Gradit, es. avanti tutta) e tutti i verbi che hanno perso l’originaria capacità di flettersi, come il pop. dice (dice che era un bell’uomo ‘pV + SC’), o le forme vendesi e affittasi (vendesi due appartamenti ‘pV + SN’) (V. Menza 2005 § 2.2). In tal modo, il numero complessivo delle parti del discorso diminuisce ed è possibile utilizzare un’unica rappresentazione sintagmatica per tutti i tipi di enunciato. Grazie alla teoria del paraverbo, infatti, è possibile rappresentare come proiezioni

1 Al paraverbo in generale è dedicato il secondo capitolo della mia Tesi di Dottorato, Metalessicografia tra lingua e dialetto. Per una revisione di alcune categorie nella modellizzazione dei lessico (XV ciclo, Dipartimento di Filologia moderna, Università di Catania, coordinatrice la Prof.ssa M. Spampinato, tutor il Prof. S. C. Trovato, a.a. 2003/2004).

2 In particolare, la definizione tradizionale di interiezione come parola-frase (Poggi 1981 e 1995, Brøndal 1948 137-139, Tesnière 1959 (trad. it. 2001 67), Graffi 1994 204) è inadatta a descrivere le interiezioni che reggono un complemento, come accidenti (a te), evviva (il re), che hanno un comportamento chiaramente verbale (reggono un argomento interno al quale assegnano un ruolo semantico e costituiscono una frase minima assieme a quest’ultimo). Le interiezioni che non reggono alcun complemento (ad es. ahi) sono pure considerate paraverbi, ma paraverbi privi di argomento interno, ed assimilate, dunque, a verbi intransitivi o zerovalenti (cfr. Menza 2005 § 2), in grado di costituire delle frasi senza il concorso di altri elementi (es. piove o nevicava).

3 Si rimanda a Menza 2005 per una discussione dell’inadeguatezza di tali categorizzazioni tradizionali.

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estese del verbo anche gli enunciati costituiti da taluni elementi nominali, dalle profrasi e dalle interiezioni, essendo tali categorie considerate, appunto, come nient’altro che tipi particolari di verbi.

Il comportamento dei paraverbi è sintetizzato nella definizione descrittiva in (1), mentre le caratteristiche lessicali che motivano tale comportamento sono specificate in (2) (cfr. Menza 2005 (§ 3)):

(1) Definizione descrittiva di Paraverbo

Il paraverbo (pV) è una parola invariabile in grado di costituire una frase principale minima4 assieme agli argomenti richiesti dalla sua valenza e specificati dalla sua struttura argomentale. Nell’indicatore sintagmatico, pV riempie il nodo testa del SV. pV è incompatibile con la negazione.

(2) Definizione teorica di Paraverbo

a. Il paraverbo è un verbo, con le seguenti caratteristiche:

b. proietta lessicalmente un argomento esterno implicito PRO non commutabile con altri SN (es. [PRO accidentipV [a te]SN]SV);

c. ha precompilate nella propria entrata lessicale:

1. la polarità (o solo positiva o solo negativa)5;

2. una sola modalità (forza illocutoria), che è in grado di realizzare;

3. il focus fonologico o la compatibilità con esso (tre valori: i) paraverbo sempre con focus, ii) sempre senza focus, iii) indifferente);

Da (2)a discende la proprietà del paraverbo di realizzare, assieme ai propri argomenti, una frase minima. Questa, infatti, è una delle caratteristiche principali dei verbi.

Da (2)b deriva la proprietà dell’invariabilità quanto a tempo, persona e numero. PRO in posizione di soggetto, infatti, è incompatibile con le frasi a flessione finita6.

4 Indipendente, coordinata o anche parentetica.5 La polarità, si badi, è riferita al paraverbo, cioè alla testa, e non a un eventuale

complemento frasale. L’assegnazione di polarità al complemento frasale è una proprietà lessicale di alcuni paraverbi, come ad es. sì e no, indipendente dalla proprietà generale di tutti i paraverbi di essere predefiniti mediante una polarità. Sì, ad es., ha precompilata nell’entrata lessicale, in quanto paraverbo, la polarità positiva; in più, assegna polarità positiva al proprio argomento SC.

6 PRO è il soggetto implicito dei verbi non finiti (gerundio, infinito). L’incompatibilità di PRO con la flessione finita è stata spiegata in modi diversi: inizialmente, attraverso il Teorema di PRO (PRO non può essere retto e FLESS temporalizzato sarebbe in grado di reggerlo, v. Haegeman 1996 cap. 5); successivamente, ricorrendo all’ipotesi del Caso Nullo assegnato a PRO per accordo da FLESS non temporalizzato (Chomsky e Lasnik 1991) o, per reggenza, dalla testa FIN specificata negativamente (si tratta di una categoria funzionale che

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Da (2)c1 discende come conseguenza l’incompatibilità del paraverbo con la negazione (*non accidenti a te). Poiché la polarità è già implicita nel paraverbo, essa genera incompatibilità con l’espressione esplicita (mediante morfema dedicato) della polarità, ad es. mediante l’aggiunta del non. Si tratta di una sorta di blocco operato dal sistema nei confronti di enunciati in cui uno stesso tipo di informazione (la polarità) sia espressa da più morfemi (ad es. il paraverbo e la negazione), con o senza contraddizione nel valore espresso dall’uno e dall’altro morfema7.

Da (2)c2, infine, dipende l’invariabilità quanto al modo. La variazione del modo verbale consente di realizzare con il medesimo verbo diversi tipi di atti linguistici (dichiarativo, ottativo, iussivo ecc.), ma ciò non può avvenire coi paraverbi. Infatti, poiché nei paraverbi la modalità è già specificata lessicalmente e in modo rigido (ad es. evviva è ottativo, avanti tutta è iussivo, caspita è esclamativo, permesso? è interrogativo) un’ulteriore specificazione mediante un morfema indipendente potrebbe risultare incongruente con la prima (ad es. iussiva vs. ottativa), o, se congruente (ad es. ottativa + ottativa), ridondante, e questo ne motiverebbe il blocco. La lessicalizzazione della forza illocutoria, a sua volta, può essere correlata all’incompatibilità con la subordinazione (*dicono che/di accidenti, *vogliono caspita). La forza illocutoria, infatti, è connessa con l’atto linguistico, che è realizzato dall’enunciato (la frase indipendente), e non dalle singole subordinate, che sono sempre prive di una propria forza illocutoria. Tale caratteristica delle subordinate fa sì che ogni periodo, per quanto complesso, risulti sempre associato a una forza illocutoria e a non più di una (il che renderebbe il periodo ininterpretabile semanticamente e pragmaticamente). Ora, poiché il paraverbo è stabilmente associato ad una forza illocutoria, se una frase paraverbale fosse incassata all’interno di una frase sovraordinata, il periodo che ne risulterebbe sarebbe malformato, perché sarebbe associato a due forze illocutorie, quella associata alla sovraordinata e quella associata lessicalmente al paraverbo.

2 I paraverbi siciliani per classi valenzialiNei paragrafi che seguono, sono analizzati i principali paraverbi del siciliano (i più interessanti per le loro caratteristiche, non solo sintattiche, e il cui tipo lessicale non sia presente nell’italiano1) raggruppati in base alla loro valenza e al tipo di argomenti che sottocategorizzano. Nessuna distinzione è operata in base alla complessità del lessema (non vengono distinti, cioè, i paraverbi monorematici da quelli polirematici). Quando un paraverbo sia comune al

domina direttamente FLESS, e che specifica se la frase è a verbo finito o meno; può ospitare complementatori “non finiti” come di, a e per) (Rizzi 1997). Per le motivazioni dell’ipotesi che PRO sia proiettato dai paraverbi come argomento esterno, si rimanda a Menza 2005 § 2.3.

7 È cioè indifferente il fatto che paraverbo e morfema esplicito di polarità veicolino lo stesso valore (positivo e positivo, negativo e negativo), o che, invece, veicolino valori diversi (ad es. paraverbo positivo e negazione).

1 Salvo diversa indicazione, gli esempi del siciliano fanno riferimento al dialetto di Catania.

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siciliano e all’italiano regionale di Sicilia, si preferisce per lo più, per comodità, fornire gli esempi solo in italiano regionale.

2.1 Paraverbi monovalenti (bivalenti contando PRO)

2.1.1 ‘pV SN’a) forza/fozza (es. fozza Catània!). L’argomento potrebbe essere

erroneamente considerato un vocativo (forza, (o) Catania!), perché il paraverbo forza è anche zerovalente. Si noti, però, che il significato di forza zerovalente è diverso da quello monovalente. Mentre, infatti, forza monovalente è ottativo, esprime il desiderio che il referente dell’argomento abbia successo, e l’enunciato cui dà vita può essere utilizzato anche in assenza di tale referente al momento dell’atto linguistico, forza zerovalente, invece, è iussivo, esprime un’esortazione rivolta al destinatario del messaggio, che deve necessariamente essere presente nel luogo e nel momento in cui l’atto locutorio avviene. Inoltre, il contorno prosodico della frase con forza zerovalente e il vocativo che ribadisce il destinatario del messaggio (es. forza, Luca!) non ammette, a differenza del contorno legato a forza monovalente, un unico movimento melodico con picco sul vocativo, privo di pause, e con riduzione di lunghezza e intensità sul paraverbo, richiedendo, invece, una certa prominenza anche su forza. Forza zerovalente, inoltre, può essere modificato da un aggiunto SP retto da ccu ‘con’ che indica lo strumento dell’azione a cui si esorta il destinatario (es. forza (Giovanni) con quei remi!).

b) caquali ‘macché’ (es. caquali spatu! chista alalonga è! ‘macché pesce spada! questa è alalonga!’). Tale paraverbo è marcato pragmaticamente, perché richiede un cotesto sinistro.

c) te’ (es. te’ i soddi e non mi stunari cchjù a testa ‘eccoti i soldi non seccarmi più’). Di origine verbale (forma apocopata dell’imperativo non dittongato di ‘tenere’), è ormai privo di flessione. Che non si tratti di una forma apocopata in sincronia è confermato dalla mancanza del dittongo, normale nelle forme rizotoniche (tieni, tiene)2. Da non confondere con ttè, zerovalente, forse omoetimologico, che ha però diverso significato (si usa per esprimere maligna soddisfazione nei confronti di qcs. di spiacevole capitato ad altri: ttè, accussì ti nzigni! ‘così la prossima volta impari!’).

d) amara (dialetti etnei sudorientali, Leonforte e Villarosa (EN), cfr. VS I 134 s.v. amara) (es. amara tia! ‘guai a/povero te’, amara iddu! ‘guai a/povero lui’, (S. Alfio, CT) amara a to peddi! lett. ‘a. la tua pelle!’, ‘povero te!’). Originariamente aggettivo (amaru, forma rimotivata a partire da maru < gr. μαυ̃ρος ‘nero’ nel senso fig. di ‘triste, sventurato’3), diventando invariabile passa a paraverbo. Il costrutto con l’aggettivo (pure documentato in siciliano, v. VS I 135-

2 A meno di non voler considerare ogni occorrenza di te’ legata a una commutazione di codice (da it. standard o colloquiale a it. regionale).

3 Per l’etimologia cfr. Trovato 2002 850.

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136 s.v. amaru 4-5) è una predicazione marcata, con anteposizione del predicato e assenza della copula, resa superflua dal mutamento dell’ordine (amaru iddu ‘povero lui’, amara idda ‘povera lei’, cfr. bello, il tuo orologio!, furba, la ragazza!). Alla base del processo di perdita della flessione potrebbe essere la variante catanese in cui il pronome argomento è preceduto dalla preposizione a, che causa sistematicamente, per elisione, la cancellazione della terminazione morfologica dell’aggettivo, neutralizzando la distinzione tra maschile e femminile: amar’a-ttia, amar’a iddu. La preposizione è poi rianalizzata assieme all’aggettivo, dando vita al paraverbo amara. Quanto al raddoppiamento fonosintattico, non è da escludere una fase in cui amara, per memoria dell’antica preposizione inglobata nel significante, lo determinasse (amar’a-ttia > *amara-ttia). La forma definitiva, in cui amara non produce raddoppiamento (amara tia), potrebbe trarre origine da una analogia con combinazioni in cui l’argomento del paraverbo inizia per vocale, ad es. amara iddu (<amar(u) a iddu), in cui il raddoppiamento non può comunque avere luogo: iddu : amara iddu = tia : x, x = amara tia (e non *amara-ttia). La variante catanese, a causa della neutralizzazione del genere dovuta all’elisione, è anch’essa passata da aggettivo a paraverbo, ed è studiata infra in 2.1.2h.

e) àutru ca ‘altro che’ (es. àutru ca rrïalu, ti miritassi na sugghjat’i vastunati! ‘altro che regalo! ti meriteresti una buona dose di bastonate!). Il SN può essere sostituito da una infinitiva: àutru ca iri a bballari: stasira ti stai â casa! ‘altro che andare a ballare: stasera ri-mani a casa!’. Necessita di un cotesto sinistro, o di un contesto ex-tralinguistico equivalente, all’interno del quale si trova l’elemento (ripetuto dall’argomento SN) che il parlante intende negare, contrad-dire, stigmatizzare e sim. Un ulteriore cotesto destro conterrà, per con-trasto, l’alternativa proposta. Il testo che viene costruito attorno al par-averbo altro che si connota come sarcastico. La stessa etichetta andrà attribuita, pertanto, nel lessico, al paraverbo.

f) sic. e it. reg. sic. senza (es. senza fretta!, senza bugie!, senza botte!). Più spesso l’argomento è realizzato, con uguali funzioni, da una infinitiva con soggetto implicito (senza correre!, senza insultare, senza spingere, senza dire brutte parole!)4 o da un SC il cui soggetto sia di preferenza il destinatario del messaggio (senza che corri, senza che insulti!, senza che dici brutte parole!, senza che ti fai vedere!). Indipendentemente dalla forma sintattica dell’argomento (SN,

4 Il costrutto è notato per la prima volta, nell’it. reg. di Sicilia, da Giovanni Tropea (1976 38), che lo riconduce ad un’espressione imperativale con ellissi del verbo, ad es. (tra parentesi graffe l’elemento ellittico): {cammina/camminate} senza correre! Considerare senza un paraverbo, piuttosto che una preposizione o una congiunzione, evita di dover postulare l’ellissi di un verbo il cui ripristino non è sempre possibile o univoco. Quale potrebbe essere, ad es., il verbo cancellato nelle frasi senza insultare e senza dire brutte parole?

Per quanto riguarda il dialetto, v. Di Benedetto 1995. Nessuna menzione del costrutto, invece, è in VS IV 814 s.v. senza1.

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infinitiva, SC), il paraverbo senza esprime il divieto, diretto al destinatario del messaggio (è, dunque, deittico), di compiere l’azione riferita dall’argomento. Il SN, così, viene interpretato semanticamente come evento in cui il destinatario ricopre il ruolo di agente (fretta = ‘avere fretta, agire di fretta’; bugie = ‘dire bugie, mentire’; botte = ‘dare botte’ ecc.), il che spiega la preferenza per SN al plurale e senza articolo.

2.1.2 ‘pV SP’a) accura (es. accura ô picciriddu! ‘attenzione al bambino!’), anche

con ellissi dell’argomento.b) amara (di area catanese) (es. amara a-mmia/a-ttia/a iddu! ‘accidenti

a me/a te/a lui!’; l’incontro tra la vocale finale di amara e la preposizione a dell’argomento determina una degeminazione vocalica: []. Il paraverbo, attestato in Sicilia anche con argomento SN, trae origine dall’aggettivo amaru (v. supra § 2.1.1e) a seguito di elisione della vocale finale a contatto con la preposizione a, che ne neutralizza la marca di genere (amar(u/a/i) a > amar’a). Il SN contenuto in SP può essere sostituito (la preposizione che regge SP non è più, però, a, ma ri ‘di’) da una struttura frasale con la proforma interrogativa quannu ‘quando’ in posizione di complementatore, paragonabile ad una relativa con pronome misto: amara ri quannu cci rissi ca puteva vèniri! ‘accidenti a quando gli ho detto che poteva venire!’. Tale struttura può ricorrere in luogo di SN perché è equiparabile, da un punto di vista funzionale e semantico, a un nominale inerentemente temporale del tipo ‘il momento in cui...’. I due tipi di SP possono combinarsi dando vita a una configurazione bivalente (v. § 2.2.1): amara a-mmia ri quannu ci rissi ca puteva vèniri! Equivalenti a amara SP-ri, sia semanticamente che sintatticamente, sono i pV mmalirittu (lett. ‘maledetto’) e malanova, nonché l’it. reg. sic. maledizione: mmalirittu/malanova ri quannu cci rissi ca puteva vèniri! ‘accidenti a quando gli ho detto che poteva venire’, maledizione a quando...! Malanova seleziona anche un SP-di: malanova di tia ‘accidenti a te’; maledizione seleziona anche un SP-a: maledizione a te!

c) ntâ lingua!, ntê manu! e u coddu (es. ntâ lingua/ntê manu/u coddu a-Mmaria! ‘lett. nella lingua/nelle mani/il collo a Maria!’) per lanciare una maledizione (anche scherz., o come imprecazione priva della componente magico-religiosa) volta a produrre, nella persona cui fa riferimento l’argomento SP, un danno alla parte del corpo specificata, rispettivamente la lingua, le mani o il collo (meton. ‘la testa’ e quindi, metaforicamente, la stessa esistenza in vita). L’argomento SP può es-sere sottoposto a ellissi in condizioni di recuperabilità contestuale.

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2.1.3 ‘pV SC’La parte del discorso tradizionale invariabile e in grado di sottocategorizzare una frase è la congiunzione subordinante. Ora, poiché anche il paraverbo è invariabile, è possibile scambiare per congiunzioni (o locuzioni congiuntive) i paraverbi monovalenti che sottocategorizzano SC. Sull’inopportunità di una simile operazione si rimanda alla scheda dedicata a iamu/iamuninni (infra, item j).

Costituiscono argomento SC non solo le subordinate rette da un complementatore (come che, di, a ecc.), ma anche le interrogative indirette e le esclamative dipendenti, caratterizzate da un sintagma con proforma spostato nello specificatore di SC5 (v. infra le schede dedicate a addiri, addiu, avoglia). Che l’esclamativa sia davvero dipendente (e non una frase indipendente coordinata asindeticamente ad un paraverbo zerovalente o transitivo assoluto che costituisce frase a sé) è assicurato dal contorno intonativo e prosodico. La frase paraverbale (con complemento SC), infatti, non tollera pause ed ha un unico picco melodico in corrispondenza del paraverbo e intonazione discendente fino alla fine dell’argomento. I picchi melodici, nel caso di due frasi coordinate, sono invece due (in corrispondenza del DTE6 del costituente prosodico maggiore di ciascuna delle due frasi, ovvero dell’accento principale più a destra) ed è possibile separare le due frasi con una pausa. Si confrontino le seguenti due frasi dell’italiano: accidenti! se mi piace! (frase paraverbale senza argomenti + esclamativa indipendente) vs. accidenti se mi piace! (unica frase paraverbale con esclamativa dipendente dal paraverbo). Bisogna comunque precisare che, al contrario dell’italiano, il siciliano non sembra conoscere esclamative indipendenti introdotte da su/si ‘se’, e perciò, per quanto riguarda il siciliano, non c’è dubbio che l’esclamativa sia dipendente dal paraverbo: *su-mme figghja mi fa n-zuvvizzu! ‘se mia figlia mi fa una faccenda domestica!’ (v. infra la scheda dedicata a addiu).

È molto frequente, inoltre, coi paraverbi che sottocategorizzano un SC, la dislocazione a sinistra del soggetto della subordinata (v. infra le schede dedicate a addiu/addiri e capace), che assume così, apparentemente, la posizione di soggetto del paraverbo: it. reg. sic. capace che i ragazzi mangiano fuori ‘è molto probabile che i ragazzi mangino [lett. ‘mangiano’] fuori’ → i ragazzi capace che mangiano fuori. Lo stesso avviene nelle frasi con verbo che sottocategorizza SC: capitava ca Ggiuanni tunnava cchjù-ttaddu ‘capitava che Giovanni tornasse [lett. ‘tornava’] più tardi’ → Ggiuanni capitava ca tunnava cchjù-ttaddu; sàcciu ca Ggiuanni nesci ‘so che Giovanni esce’ → Ggiuanni sàcciu ca nesci.

Analizziamo adesso nel dettaglio i principali paraverbi siciliani con struttura argomentale ‘pV SC’:

5 Non è facile stabilire se it. se/sic. su/si si trovi nello specificatore o piuttosto nel nodo testa di SC. Cfr. Haegeman 1996 254-255.

6 “Designed Terminal Element” (Elemento Terminale Designato). Nella gerarchia prosodica associata ad un enunciato, è la sillaba con prominenza maggiore in ciascun livello. Cfr. Nespor 1993 169.

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a) accura (+ SC-a: accura a-nno-sciddicari! ‘attenzione a non cadere!’).b)addiri e addiu seguiti da SC retto da su ‘se’ o, piu raramente, da ca

‘che’, per esprimere disappunto, delusione e stupore per il mancato verificarsi dell’evento riferito dall’argomento frasale (l’argomento, quando è retto da su, potrebbe essere analizzato anche come interrogativa indiretta). Tale evento è considerato dal mittente come necessario, normale, dovuto, in base alle circostanze, e pertanto atteso (es. addiri/addiu su-mme figghja mi fa n-zuvvizzu! lett. ‘devi dire/addio se mia figlia mi fa una faccenda domestica’, con dislocazione: me figghja addiri ca mi fa n-zuvvizzu!). Non è ammessa l’ellissi dell’argomento.

c) nicosiano aùsö e sic. aùsu ‘è/era come (se)’ (es. nic. «I pòverë apë, cö ddö fietö de fumö, ausö che se möstàvenö a mbrïachè e nen avìenö chjù tanta balia de mezzichè» ‘Le povere api, con quella puzza di fumo, era come se si ubriacassero un po’ e non avevano/avessero più la forza per morsicare [propr. ‘pungere’]’ (Castrogiovanni in stampa); Ggiuvanni, ri quannu si maritau, ausu ca a-ll amici sò nê canusci cchjù ‘Giovanni, da quando si è sposato, è come se non conoscesse più i suoi amici’).

d) it. reg. sic. avoglia (sic. avogghja/a’ vogghja < ai vògghja lett. ‘hai voglia’). 1. (con esclamativa dipendente/interrogativa indiretta7 retta da se, sottoponibile a ellissi) conferisce, con enfasi, polarità positiva alla frase complemento, con particolare riferimento a una quantità, a una estensione (anche di spazio o di tempo) di cui si afferma la piena sufficienza o addirittura l’abbondanza, in relazione all’azione da compiere: «— Vorrei scendere da quel lato; basta lo spazio/ci passo? —Avoglia se basta/se ci passi!»; il pane avoglia se basta, oggi ‘il pane basta di sicuro, oggi’; il bambino ha mangiato? Avoglia!; «— pensi che Giovanni sia già arrivato a Roma? — ormai avoglia se è arrivato!»). Agrammaticale l’uso con un complemento frasale il cui predicato non possa essere modificato da un intensificatore o che non faccia riferimento ad una quantità: «— c’è tuo padre? — *avoglia se c’è». 2. con SC-a, esprime che è possibile compiere con grande intensità (o anche facilità, libertà) l’azione riferita dalla subordinata, o (partic. con predicati subordinati transitivi) coinvolgendo una grande quantità di oggetti: in questo parco avoglia a correre! ‘si può correre liberamente, quanto si vuole’, avoglia a mangiare fragole! ‘ci sono fragole in grande quantità, è possibile mangiarne molte’, in questo ripostiglio così grande, avoglia a mettere roba! ‘è possibile mettere molta roba!’. Dà luogo ad agrammaticalità la combinazione con una subordinata incompatibile con l’intensificazione o la quantificazione: *avoglia ad arrivare/a esserci. Da non confondere con it. reg. sic. avere voglia (da cui pure potrebbe avere avuto origine il paraverbo), che presenta più forme ed è perciò un verbo (hai voglia, avete voglia, avevate voglia...), che regge SC-di e ha significati diversi, anche se in

7 È difficile distinguerle in casi del genere.

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qualche modo apparentabili a quello del paraverbo avoglia. Avere voglia, infatti, è un verbo polirematico con semantica modale, equivalente a potere deontico (‘avere il permesso’): avete voglia di prendere tutto quello che volete ‘potete/avete il permesso di prendere tutto quello che volete’. In una accezione secondaria, al permesso si sovrappone un giudizio di inutilità dell’azione rispetto agli scopi dell’agente: «Avete voglia di mettervi profumi e deodoranti: siete come sabbie mobili tirate giù» ‘potete, ma è del tutto inutile che vi mettiate [propr. ‘che vi aspergiate con’] profumi e deodoranti...’ (Franco Battiato, Bandiera bianca in La voce del padrone, Emi Music, 1981).

e) it. reg. sic. capace ‘è probabile’ (es.: capace che tua sorella stasera non rientra a casa; con dislocazione: tua sorella capace che non rientra a casa stasera; con argomento ellittico: «—Può essere che Daniela stasera non rientra? — Capace.»). Capace, in sincronia, è anche un aggettivo (‘probabile, possibile’) che può costituire il predicato di una soggettiva: è capace che tua sorella stasera non rientra a casa. L’espressione verbale copula+capace, però, è priva di flessione: ?*era capace che..., *fu capace che... La sequenza è capace, essendo invariabile, può anche essere considerata, nel suo complesso, come un paraverbo, alla stessa stregua di capace, di cui costituisce una variante polirematica8 libera. Adottando questa analisi, la copula non è presente, in sincronia, nella forma profonda, ma solo in diacronia. L’ellissi della copula, pertanto, è sì alla base della genesi del paraverbo (il soggetto frasale diviene complemento), ma non è più un processo della derivazione superficiale9. Il ripristino della copula effettuato per il test è, dunque, solo apparente. Quanto alla sintassi del pV capace, non è inutile aggiungere che una distribuzione di tipo avverbiale può avere luogo se il paraverbo costituisce parentetica: l’argomento diventa la frase principale all’interno della quale la parentetica si inserisce (tua sorella, capace, non rientra a casa).

f) cu sapi (o cu u sapi, lett. ‘chi (lo) sa, chissà’) seleziona un’interrogativa indiretta: cu sapi su-tto matri vinni/quannu tònnunu/quantu costa ecc. ‘chissà se tua madre è venuta/quando tornano/quanto costa’. Può ricorrere anche senza complementi e in posizioni diverse all’interno della frase. In questi casi, tuttavia, andrà considerato come frase parentetica costituita da un solo paraverbo zerovalente (o assoluto) (non comunque come un avverbio): fossi Ggiuanni arruau... cu sapi! ‘forse Giovanni è già arrivato... chissà!’,

8 Si noti, inoltre, che non è possibile inserire modificatori tra è e capace: *è proprio/davvero capace che...

9 In realtà, poiché esiste, in sincronia, un aggettivo capace, e poiché nulla impedisce a tale aggettivo, come si è già detto, di costituire il predicato di una soggettiva, la struttura superficiale è capace che piove può derivare da due strutture profonde, una con il pV è capace seguito dal SC argomento che piove, e l’altra costituita da copula (è)+aggettivo (capace)+soggettiva (che piove). E non è possibile stabilire, di volta in volta, quale sia la struttura profonda.

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occarunu... cu sapi... u visti nesciri ‘qualcuno... chissà... l’ha visto uscire’. Che cu sapi in questi esempi costituisca una parentetica è confermato a) dalla pausa, obbligatoria, che lo separa dai costituenti appartenenti alla frase principale; e b) dal fatto che la frase principale sia equiparabile, semanticamente, ad un argomento di cu sapi (cfr. «cu sapi su Ggiuanni arruau» ‘chissà se Giovanni è arrivato/che non sia arrivato’, «cu sapi su occarunu u visti nesciri» ‘chissà se qualcuno lo ha visto uscire/chissà che qualcuno non lo abbia visto uscire’). Tale caratteristica è, infatti, tipica delle frasi verbali parentetiche (cfr. Borgato e Renzi 1995 166). Si confrontino le frasi appena viste con una frase che contiene una parentetica verbale: a. Rumani — penzu — Ggiuanni tonna ‘domani — penso — Giovanni torna’; b. Penzu ca rumani Ggiuanni tonna ‘penso che domani Giovanni torna’. Come è facile osservare, le due frasi sono semanticamente equivalenti. Nella prima, il verbo penzu ‘penso’ costituisce una parentetica all’interno della principale rumani Ggiuanni tonna ‘domani Giovanni torna’; nella seconda, invece, la stessa frase è subordinata al verbo penzu, di cui costituisce un complemento. Cu sapi può, in determinate circostanze, esibire un comportamento apparentemente avverbiale, occupando una posizione di aggiunto a sinistra della frase. Tale frase, tuttavia, è compatibile solo con un particolare tipo di contorno intonativo, marcato, sospensivo: cu u sapi to frati vinni... ‘chissà che tuo fratello non sia già arrivato...’ o ‘chissà se tuo fratello è venuto...’. Simile comportamento si osserva nel sinonimo regionale chissà: chissà Giovanni ha comprato il pane... (con la medesima intonazione marcata). In italiano (non regionale), invece, è necessario che la frase retta da chissà sia introdotta da un complementatore esplicito (che/se), e dunque si esclude che chissà occupi una posizione avverbiale. La collocazione in posizione di aggiunto in siciliano, tuttavia, è, come si diceva, solo apparente. Decisiva è, per il nostro giudizio, l’osservazione del contorno intonativo. Se si trattasse, infatti, di una frase modificata da un avverbio, sarebbe possibile associare alla frase più contorni diversi. La rigidità nella associazione ad un contorno, invece, è tipica dei paraverbi. Dunque assumiamo che cu sapi e it. reg. sic. chissà possano selezionare un SC con complementatore nullo: chissà [Ø Giovanni ha comprato il pane]SC. Equivalente a cu sapi è il sic. e it. reg. sic. sa’10. Quest’ultimo, però, differisce da cu sapi per alcune caratteristiche sintattiche. Come cu sapi, anche sa’ sottocategorizza una interrogativa indiretta, ma non se introdotta da si/su/suddu ‘se’, probabilmente per ragioni fonologiche, per via cioè della somiglianza tra sa’ e su/si. Inoltre, sa’ non può ricorrere privo del complemento, né come parentetica, né in risposta a una domanda: sa’ quannu/comu/cu’ veni ‘Chissà quando/come/chi viene’; — To frati

10 La grafia con segno d’apocope, oltre a suggerire che derivi per apocope dalla forma verbale sapi, 3a sing. del pres. ind. di sapiri ‘sapere’, segnala anche che, pur essendo un monosillabo tonico, non produce raddoppiamento fonosintattico.

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torna? ‘tuo fratello torna?’ — *sa’? ‘chissà’; *Me frati — sa’ — tonna rumani ‘mio fratello — chissà — torna domani’.

g) it. reg. sic. e pop. dice/ sic. dici (es. dice che l’estate sarà calda). È analizzato generalmente (es. Gradit s.v. dire I.9) come forma impersonale di dire. Tuttavia, non mostra flessione di tempo e modo, ed è incompatibile con la subordinazione, al contrario della forma pronominale sinonima si dice (*diceva che... vs. si diceva che..., *era convinto che dicesse in giro che sua moglie lo tradiva vs. era convinto che si dicesse in giro che...). Dice, pertanto, è un paraverbo (che seleziona come argomento interno un SC-che non sottoponibile a ellissi), mentre si dice è una forma verbale appartenente a un paradigma impersonale e pronominale di dire.

h) facuntu e it. reg. sic. fai conto (es. facuntu ca chiovi / fai conto che piove ‘sta per piovere’). In diacronia si identifica con la seconda persona singolare11 di una locuzione verbale *fari cuntu (lett. ‘fare conto’), ma, in sincronia, è invariabile. Pertanto, lo si considera paraverbo12. Per quanto riguarda la sintassi, facuntu è un paraverbo monovalente che seleziona come argomento interno un SC, sottoponibile a ellissi in contesti adeguati; dal punto di vista semantico, esprime l’imminenza dell’evento riferito dall’argomento frasale: sic. facuntu ca arriva a zzia, it. reg. fai conto che arriva la zia ‘tra poco arriva la zia’; — Quann’arriva a zzia? ‘quando arriva la zia?’ — Facuntu ‘tra poco’. Sinonimo di facuntu è il paraverbo unnè, di area messinese ed ennese (gli esempi che seguono sono del dialetto di Furci Siculo (ME)). Con facuntu condivide sintassi e semantica, ma non consente l’ellissi dell’argomento SC: unnè chi-gghjovi ‘sta per piovere’; — quannu ven’a zzia? ‘quando arriva (lett ‘viene’) la zia?’— unnè chi-vveni ‘sta per arrivare (lett. ‘venire’)’/*unnè. Il Vocabolario siciliano (VS V 907 s.v. unnè 2) categorizza la voce come congiunzione polirematica (la documentazione riguarda il dialetto di Catenanuova (EN)), includendo al lessema il complementatore dell’argomento interno: unnè ca. Sull’inopportunità di considerare congiunzioni (o locuzioni congiuntive) i paraverbi monovalenti che sottocategorizzano un argomento frasale si veda la scheda dedicata a iamu/iamuninni, infra (anche unnè può ricorrere all’inizio di un testo ed essere preceduto da congiunzione: e/ma unnè chi gghjovi ‘e/ma sta per piovere’).

i) nic. fuora öra ‘sarebbe l’ora/il caso (di...), bisogna’ (es. «fuora öra de pighjè ö melë» ‘è il momento giusto per / bisogna raccogliere il

11 Che si tratti di una seconda persona e non di una terza è dimostrato dalla mancanza di raddoppiamento fonosintattico del primo segmento di cuntu, che avrebbe luogo se la forma verbale precedente fosse il monosillabo tonico fà (3a p. sing.). Come è noto, infatti, le forme che presentano una ossitonia secondaria, dovuta, in sincronia, ad una apocope — è questo il caso di fa’ (<fai ‘fai’, 2a p. sing.), non producono raddoppiamento fonosintattico.

12 Nel caso che i parlanti ne percepiscano la struttura interna lo si potrebbe considerare una polirematica paraverbale (fa’ cuntu). Si seguirà qui la prima ipotesi (monorematica: facuntu).

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miele’ (Castrogiovanni in stampa)) e fuora bön ‘sarebbe buono (se...) / sarebbe il caso (di...)’ (es. «fuora bön de ndè ô Casaö» ‘sarebbe il caso di andare al Casale’ (Castrogiovanni in stampa)); sic. forra bbonu (+ SC-su). Le forme nic. fuora e sic. forra sono forme disusate di condizionale (3a pers. sing) del verbo ‘essere’, che proseguono il piucchepperfetto indicativo latino (FUERAT)13. È possibile avanzare l’ipotesi che non siano più verbi, ma parti di polirematiche paraverbali, per una serie di ragioni. Innanzitutto, la coscienza, da parte dei parlanti, della loro appartenenza al paradigma, rispettivamente, di essö e èssiri, sembra oggi molto debole e tende a indebolirsi ancora. Inoltre, in sincronia, esse non possono comunque essere considerate delle forme, quantunque “irregolari”, del monorematico ‘essere’, in quanto, se così fosse, dovrebbero poter ricorrere liberamente in combinazione con qualunque predicato nominale, mentre, invece, sono stabilmente associate l’una a öra/bön e l’altra a bbonu, con cui formano, dunque, delle polirematiche. Se a tali polirematiche riconosciamo una flessione che le riunisca in un unico paradigma, secondo la coscienza dei parlanti, assieme con forme come nic. avëssö/averia stàitö bön o sic. avissa statu bbonu ‘sarebbe stato il caso (di...)’, allora è lecito lemmatizzarle sotto l’infinito essö bön/öra e èssiri bbonu. Se, al contrario, si ritiene che esse non siano associate dal parlante a nessun’altra forma, allora è più corretto categorizzarle come paraverbi polirematici, come qui si propone.

j) sic. iamu/iamuninni, nic. ngiàmenë (lett. ‘andiamo(cene)’). Nelle narrazioni orali letterarie o tendenti al letterario (fiabe, apologhi, racconti reali e realistici con valore didascalico e sim.), si usano per introdurre una nuova sequenza del racconto, in particolare nel caso che si stiano abbandonando le vicende di alcuni personaggi per seguirne altre, spesso contemporanee o anteriori alle prime (analessi) e a queste collegate da nessi di causalità e sim.: nic. «Ngiàmenë che tâ crièsgia ghj’ièrenö a cugnada rricca chî fighjë e comö vedéttënö dê soë parëntë vestuë pulitë, cömenzanö a dì tra de dëë: — E che vòssenö fè, röbanö oë trövanö?» ‘Ora, però/A questo punto, nella chiesa c’erano la cognata ricca con le figlie e, non appena videro i loro parenti vestiti eleganti, cominciarono a dire fra loro: — Ma come hanno fatto [dove hanno preso i soldi per dei vestiti del genere]? O li hanno rubati o hanno trovato un tesoro nascosto (lett. ‘Andiamocene che nella chiesa... E che vollero [=poterono] fare? rubarono o hanno trovato? [idiomatico]’) (La Via 1887 103, trad. mia); «Ngiàmenë ch’iera oramaë menzögiörnö e nen se sentìa nuddö sciorö e nuddö se smövia pe fè a menestra» ‘Veniamo al fatto che era ormai mezzo-giorno e non si sentiva alcun odore [di pietanze appena preparate o in preparazione] e nessuno si smuoveva per fare la minestra’ (La Via 1887 103, trad. mia); «Ngiàmenë che ö dragö, dopö che dâ carösa ghje

13 In Dante e in Petrarca si trova fora ‘id.’ e in Cecco Angiolieri fuora (Rohlfs 1968 346 (§ 602)).

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fé nförrïè a so casa, ghje dissö...» ‘(Ora) dovete sapere/bisogna dire che il drago, dopo che ebbe mostrato la propria dimora alla fanciulla (lett. ‘dopo che alla ragazza le fece girare la sua casa’), le disse...’ (La Via 1887 111, trad. mia). Depongono a favore della categorizzazione come paraverbi dei lessemi in esame la loro origine verbale, il fatto che vengano parafrasati mediante verbi o formule verbali («veniamo al fatto», «dovete sapere/bisogna sapere»), nonché la loro capacità di reggere un complemento frasale. Tale capacità è tipica, però, anche delle congiunzioni testuali, cui certo rimanda la funzione svolta dai paraverbi ngiàmene e iamuninni. Si noti però che le congiunzioni tes-tuali (in quanto avverbi di frase, cfr. Marotta 1996 110) possono ricor-rere non solo nella prima posizione del periodo, ma anche più a destra, in corrispondenza del confine sinistro del secondo costituente, o persino di un costituente ancora più interno, es.: (il simbolo % indica le possibili posizioni della cong. testuale dunque) «Dunque sua figlia % volle % comprare % delle nuove tende %». Tale mobilità non sem-bra, invece, consentita alle voci in esame.

k)nic. mefa mefa, esprime che l’evento riferito dal suo argomento frasale è finto, simulato: «— Papà, i tenëma i sönë? —. [...] ö massaro, pighjà a l improvisa, nen ghje savëtö manco rrespöndö e talïà a möghjia; ma dëddai, che s’ö presuadia, mefa mefa che ti talïava pe n’auta banda.» ‘— Papà, facciamo venire l’orchestra [in casa, per una festa]? — Il massaro, preso all'improvviso, non gli seppe nemmeno rispondere e guardò la moglie; ma lei, che se l’immaginava [che il marito avrebbe cercato conforto per dire di no ai figli], fece finta di guardare da un’al-tra parte [di non aver sentito, capito]’ (da Castrogiovanni in stampa).

l) sic. furtuna, nic. mancömaö (es. sic. furtuna ca non chjuviu, nic. mancömaö che nen ciövëtö ‘menomale che non ha piovuto’). Esprime soddisfazione, contentezza per il verificarsi di un fatto o sollievo per uno scampato pericolo, per il mancato verificarsi di un evento che avrebbe avuto conseguenze spiacevoli.

m) it. reg. sic. vuoi vedere ‘sta a vedere’ (es. vuoi vedere che tuo fratello è già partito?).

2.2 Bivalenti (trivalenti contando PRO)

2.2.1 ‘pV SP SP’È possibile ricondurre a questa classe una particolare configurazione del sic. amara, già descritta in § 2.1.2b.

2.3 Zerovalenti (monovalenti contando PRO)Il termine zerovalente andrebbe riservato ai paraverbi che non ricorrono mai con un argomento interno esplicito o a quelli che, esibendo due configurazioni (una con e una senza argomento interno in superficie), abbiano significati distinti nell’una e nell’altra14, dimodoché il significato

14 Si pensi, ad es., al pV forza. Esso ha una configurazione zerovalente ed una configurazione transitiva, che abbiamo già analizzato (forza Catània). Nella configurazione

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associato alla configurazione senza argomento non sia riconducibile a quello associato alla configurazione con argomento ripristinando un qualche elemento ellittico (es. accura e facuntu).I paraverbi privi di argomenti interni sono spesso accompagnati da un SN vocativo (es. attia, pagghjolu! ‘sta’ attento a quello che fai, stupido15!’), la cui indipendenza dal paraverbo è segnalata anche dal contorno prosodico-intonativo. La sequenza frase paraverbale + vocativo, infatti, è caratterizzata da una pausa obbligatoria (o strategia equivalente, ad es. allungamento della vocale finale) tra l’una e l’altro, e da due picchi accentuali, uno all’interno della frase paraverbale e uno all’interno del vocativo; di conseguenza, non è consentita alcuna riduzione, della durata e della prominenza, nel corpo del paraverbo, come accade, invece, nel caso di una frase paraverbale con argomento SN

La classe accoglie tutte le onomatopee, le voci per richiamare l’attenzione degli animali da lavoro o per indurli a compiere determinate operazioni, le locuzioni di comando, e molte delle interiezioni “non aberranti”, cioè quelle coerenti con le definizioni tradizionali di interiezione. Oltre ai già visti attia! e ttè (v. § 2.1.1c), menzioniamo anche au! ‘ehi!’, due lessemi dell’it. reg. sic. giovanile, spettacolo! e spavento! (espressioni di meraviglia), e tre paraverbi nicosiani: bravö (perché invariabile: nic. bravö fighjözza! ‘brava/ben fatto, figlia mia!’); soveprasgëssö ‘vogliate favorire! buon appetito!’, e baraffè (Signörözzö!)! ‘che sia così, (Signor mio!)’, semanticamente equivalente all’it. voglia/volesse il cielo (v. supra § 1), ma privo di argomenti interni.

3 Testi citatiBeccaria, G. L.19962 (a c. di) Dizionario di linguistica e di filologia, metrica,

retorica, Torino, Einaudi (I ed. 1989).Borgato, G. e L. Renzi1995 Le frasi parentetiche in Renzi, Salvi e Cardinaletti 1995,

pp. 165-174 (= cap. III).Brøndal, V.1948 Les parties du discours. Partes orationis. Ètudes sur les

categories linguistiques. Traduzione francese dall’originale danese (1928) di Pierre Naert, Copenaghen, Einar Munksgaard.

priva di argomento interno, forza è un paraverbo iussivo, che esorta il destinatario a completare un lavoro già avviato o a intraprendere un lavoro a cui si è fatto riferimento. Nella configurazione transitiva, invece, forza è piuttosto un paraverbo ottativo (auspica il successo di qualcuno, esortandolo (ma non è questo l’aspetto principale) ad impegnarsi), equivalente all’it. viva/evviva o alè. A differenza di forza zerovalente, forza transitivo può essere usato felicemente anche in assenza dei referenti e in più momenti diversi.

15 Pagghjolu, in area catanese, si usa per denotare in particolare una persona, per lo più un adolescente o un giovane, che esibisce comportamenti, atteggiamenti o pensieri immaturi, irresponsabili, infantili, inadatti (o, meglio, non più adatti) alla sua età.

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Castrogiovanni, S. in stampa De na nada a l àöta. (romanzo-etnotesto sulla vita della

masseria nel dialetto galloitalico di Nicosia, 413 pagg. dattiloscritte).

Di Benedetto, F.1955 Del proibitivo e di alcuni usi di senza in siciliano, in Studi

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Graffi, Giorgio1994 Sintassi, Bologna, Il Mulino.Haegeman, Liliane1996 Manuale di Grammatica Generativa. La Teoria della

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Rizzi, L.1997 The Fine Structure of the Left Periphery, in Haegeman

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Rohlfs, G.1968 Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi

dialetti. Morfologia. Edizione italiana riveduta dall’autore e aggiornata al 1967, Torino, Einaudi (traduzione di Temistocle Franceschi, titolo originale: Historische Grammatik der Italienischen Sprache und ihrer Mundarten, II, Formenlehre und Syntax, 1949, Bern, A. Francke AG.).

Tesnière, L.2001 Elementi di sintassi strutturale, a cura (e traduzione) di

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Tropea, Giovanni1976 Italiano di Sicilia, Palermo, Aracne.Trovato, S. C.2002 La Sicilia in I dialetti italiani. Storia struttura uso, a cura

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VS1977-2002 Vocabolario siciliano, fondato da G. Piccitto, diretto da G.

Tropea, a cura (vol. V) di S. Trovato, 5 voll., Palermo-Catania, Centro Studi filologici e linguistici siciliani.

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