Ricette - Il Paniere Di Cerere - Storia e Ricette Della Cucina Regionale Italiana

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UMBRIA monastica Gran parte dell’Umbria fu sotto l’influenza dalla civiltà Etrusca e poi di quella Romana. In cucina queste relazioni sono testimoniate dal consumo d’olio d’oliva, di legumi (lenticchia) e cereali (farro). In epoca medioevale le vicende di questa terra si legarono sempre più alla corte Papale, e dal XII sec. l’affermarsi dei liberi comuni, spinse la chiesa a favorire la nascita in tutta la regione di monasteri, abbazie e ordini religiosi. San Francesco, San Benedetto, Santa Chiara e Santa Rita sono alcune delle figure immortali generate in questa terra, che sulle tradizioni e il calendario monastico ha incentrato la sua cucina. Nell’area l’allevamento suino ed ovino vanta antiche tradizioni, e Norcia è sin dai tempi dei romani famosa per l’allevamento del maiale, celebre il “nero” della Valnerina, e tutt’oggi il termine norcino si usa in Italia per indicare colui che conosce l’arte di macellare e trasformare la carne di suino. Inconfondibili i prosciutti, le lonze, la salsicce, i budellucci, e la porchetta. Gli agnelli della città di S.Benedetto e i capretti di Cascia sono apprezzatissimi, mentre la produzione di caci e caciotte si esalta nelle medioevali giuncate e nel “castaldo” (formaggio di latte di pecora o mucca con l’aggiunta di tartufo bianco). I dipinti delle tombe etrusche, che mostrano l’usanza di

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UMBRIA monastica

Gran parte dell’Umbria fu sotto l’influenza dalla civiltà Etrusca e poi di quella Romana. In cucina queste relazioni sono testimoniate dal consumo d’olio d’oliva, di legumi (lenticchia) e cereali (farro). In epoca medioevale le vicende di questa terra si legarono sempre più alla corte Papale, e dal XII sec. l’affermarsi dei liberi comuni, spinse la chiesa a favorire la nascita in tutta la regione di monasteri, abbazie e ordini religiosi. San Francesco, San Benedetto, Santa Chiara e Santa Rita sono alcune delle figure immortali generate in questa terra, che sulle tradizioni e il calendario monastico ha incentrato la sua cucina. Nell’area l’allevamento suino ed ovino vanta antiche tradizioni, e Norcia è sin dai tempi dei romani famosa per l’allevamento del maiale, celebre il “nero” della Valnerina, e tutt’oggi il termine norcino si usa in Italia per indicare colui che conosce l’arte di macellare e trasformare la carne di suino. Inconfondibili i prosciutti, le lonze, la salsicce, i budellucci, e la porchetta. Gli agnelli della città di S.Benedetto e i capretti di Cascia sono apprezzatissimi, mentre la produzione di caci e caciotte si esalta nelle medioevali giuncate e nel “castaldo” (formaggio di latte di pecora o mucca con l’aggiunta di tartufo bianco). I dipinti delle tombe etrusche, che mostrano l’usanza di

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procurarsi la cacciagione, e le gesta dei signori medioevali che cacciavano con il falcone, ci ricordano come gli umbri apprezzino da lungo tempo i piatti dai sapore selvatici. Su tutti spicca il “palombaccio” (colombaccio selvatico) preparato in mille modi. Oltre alla cucina di terra e d’aria, c’è quella d’acqua, generata dai numerosi corsi e dai laghi Trasimeno e Piediluco. Tinche, anguille, carpe, persici reali, vengono esaltati nel leggendario “tegamaccio”, mentre le trote del Clitunno acquistano nuovo sapore e pregio nel matrimonio gastronomico con il tartufo nero. A Norcia e Spoleto “il diamante della cucina” rappresenta un’indispensabile ricchezza economica, e sia il “tuber melanosporum” re della cucina umbra, che lo scorzone (tartufo estivo meno profumato) vengono inseriti in ricette d’ogni tipo, dall’antipasto al dessert.

Strangozzi al tartufo

C’è una leggenda che corre sull’origine di questo piatto, semplice ma allo stesso tempo raffinato. Sembra che sulla collina di Campello Alto (sopra le fonti del Clitunno), nel vicino castello di Pissignano, sia sostato Barbarossa prima di distruggere Spoleto. Probabilmente la cuoca del castello preparò al rosso imperatore degli strangozzi talmente buoni da convincerlo a cambiare la sua idea originale di distruggere l’Umbria. Ricetta Disporre della farina a fontana, aggiungere sale, poco olio e acqua tiepida. Impastare fino ad ottenere una panetto abbastanza consistente. Tirare la sfoglia un po’ più spessa delle fettuccine, e tagliarla a strisce larghe la punta di un’unghia. Preparare il condimento facendo dorare dell’aglio tritato nell’olio. Togliere l’aglio dal tegame, lasciar intiepidire il liquido, e aggiungere tartufo nero tritato con poco sale. Con questo intingolo condire la pasta una volta cotta.

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Lasche fritte alla maniera Umbra

Sin dal Medioevo il Trasimeno era ricco di questi pesci, come testimonia anche Mastro Martino (sec. XV), ed i perugini ne erano talmente ghiotti da essere additati da tutti come “mangialasche”. Allora le arborelle si arrostivano sulla brace e si condivano con salsa di agresto. Nei secoli passati fra i tributi pasquali che il Papa riceveva dalla Guelfa Perugia, c’erano anche numerose ceste di questi pesciolini. Ricetta Pulire e lavare accuratamente le lasche. Adagiarle in una padella con olio fumante e friggerle a fuoco allegro fino a che non siano dorate e croccanti. Sgocciolare le lasche, e servirle lasciando che ciascuno dei commensali le sali a piacere e vi aggiunga una spruzzatina di limone.

TRENTINO ALTO ADIGE italo-tedesca

Anche se sorelle, la cucina trentina e quella dell’Alto Adige vanno considerate separatamente. Trento ha una tradizione gastronomica fatta da una cucina di sopravvivenza, affiancata dai pranzi fastosi del tempo del Concilio. Bolzano, la porta delle Dolomiti, invece costituisce un punto d’incontro fra usanze culinarie austriache, germaniche e ungheresi. Questo miscuglio ha finito per creare un’impronta latina tutta particolare, dove fino a pochi anni fa era difficile trovare piatti di pasta. Si riscontra in Alto Adige una ricerca del fasto decorativo dei piatti, abbinato alla puntigliosa scelta degli ingredienti e delle salse, come la “Bozner souce” (salsa bolzanina). La doppia componente etnografica della regione non si smentisce neppure nella preparazione dei dolci.

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Le materie prime sono in molti casi analoghe: latte e panna, castagne e mele, prugne e albicocche, noci e frutti di bosco. Simile è pure la vocazione per la vigna che presenta Moscati di ceppo comune. Invece l’elemento che, per motivi climatici, distingue le ricette è la farina: in Trentino bianca o gialla, e in Alto Adige soprattutto scura di segale. Decisivo anche il fattore storico, perché pur avendo condiviso a lungo il dominio asburgico, le due province ne hanno assorbito diversamente la cultura. Da Bolzano a Bressanone sono di casa i dolci viennesi: torta sacher, krapfen, e kaiserschmarren (crespelle dolci). A Trento e Rovereto, assieme allo strudel e allo zelten, si trovano la pinza de lat e la torta di fregolotti. Trentino Per secoli il divario fra la cucina povera e quella dei potenti fu grandissimo. Polenta (mais, patate, grano saraceno) crauti (ottenuti dal cavolo cappuccio tagliato a listerelle sottili e conservato sotto sale), lardo, minestrone, un po' di formaggio e burro, sono stati i cibi che hanno nutrito le popolazioni di questa terra. Ben diversa la realtà delle corti dei ricchi prelati e dei potenti che, come ci testimonia il Platina (sec. XV), consumavano soprattutto carni provenienti dalle Alpi. Nel periodo del concilio di Trento (1545 al 1563) si toccò l’apice dello splendore di questa cucina. Il "pasticcio di maccheroni", ancora oggi piatto delle grandi occasioni, è una delle ricche preparazioni importate da cuochi e ciambellani al seguito dei prelati. Nei banchetti i trionfi più lussuosi erano certamente quelli legati alla cacciagione, sia di volatili (gallo cedrone), sia di animali del bosco come daini, camosci e caprioli, cucinati sui carboni, ma spesso consumati pasticciati con burro, formaggio e latte, come indica una vecchia ricetta per il “cosciotto di caccia”. Fra i piatti ricchi ricordiamo anche la lepre alla trentina, un esempio di salmì agrodolce introvabile altrove. Ma alle corti non si disdegnavano neppure i cibi poveri, come testimonia Bartolomeo Scappi (sec. XVI) citando la “minestra d'orzo”, ancora oggi piatto tipico. Solo nell’800, in seguito dell'annessione di questa terra al Regno d'Italia, la cucina trentina si è arricchita della pasta,

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sostituita da sempre con i “canederli” e da una buona varietà di gnocchi. Fra le specialità ricordiamo lo “smacafam” (torta salata), e il “gröstl”, un piatto della cucina povera creato per recuperare gli avanzi di carne. Alto Adige È la zona della regione che corrisponde alla provincia di Bolzano. Messisbugo (sec. XVI) ci fornisce minuziose indicazioni per le "torte alla tedesca", simili ai dolci di mele e allo strudel che rappresentano questa cucina. Francesco Leonardi (sec. XVIII) attinge alla gastronomia tedesca non solo nelle ricette dei cotechini, tanto diffusi in val d'Adige, ma anche nel modo di servirli, prevedendo che siano "tagliati nel mezzo con pretsemolo". L'origine della cucina dell'Alto Adige è tedesca nelle preparazioni, nell'accostamento dei sapori (zucchero/sale), nell'uso delle spezie, nella scelta degli alimenti dove dominano patate, segale, orzo e cavolo cappuccio. Altre influenze giungono dalla cucina dell'impero austro-ungarico come testimonia il “gulasch”. Ma in quest’area sono popolarissimi i “knödel”, preparati in molti modi, per lo più con pane di segale e fegato o speck.

Canederli alla tirolese

In una casseruola fate appassire nel burro sciolto una cipolla e un ciuffo di prezzemolo tritati, rosolate dello speck e quando sarà colorito del pane raffermo. Ritirate la casseruola dal fuoco e lasciate raffreddare il soffritto. Battete in una terrina delle uova intere leggermente salate, del latte, il soffritto, ed infine versateci poco alla volta della farina. Quando il composto sarà ben amalgamato formate delle palle aiutandovi con il palmo della mano. Portate ad ebollizione acqua salata e cuocete i canaderli per circa venti minuti a fuoco basso. Scolateli e poi versateli su abbondante brodo di manzo bollente. Serviteli dopo tre minuti cosparsi di brodo.

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Wurstel giganti alla tirolese

Con un coltello aprite una profonda fessura per lungo in dei wurstel, spalmatevi all’interno della senape, ed inseritevi una mezza fetta di sottiletta. Avvolgete i wurstel in della pancetta affumicata e disponeteli in una teglia. Passateli in forno caldo avendo cura di girarli a metà cottura affinché si dorino da ambo le parti.

Schlutzkrapfen (ravioli di spinaci) altoatesini

Mondare degli spinaci, lavarli bene e lessarli nella loro acqua; farli saltare in padella con un po’ di burro, tirarli a cottura fino a che non avranno perso l’acqua, quindi salare. Incorporare a della farina di segale un uovo, un pizzico di sale, e il quantitativo di latte necessario per ottenere una pasta della giusta consistenza per essere tirata a sfoglia. Dividere la sfoglia in due. Sulla prima parte mettere gli spinaci a mucchietti (distanza di un palmo), utilizzare l’altra sfoglia per ricoprire, per poi ritagliarvi dei ravioli quadrati, avendo cura di sigillarne bene i bordi. Cuocere i ravioli, condirli in un piatto di portata con abbondante burro fuso e parmigiano grattugiato. Servire gli schlutzkrapfen ben caldi.

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ABRUZZO sette virtù

L'asperità delle catene montuose che circondano l’Abruzzo, ha da sempre fatto mantenere a questa terra un'arte culinaria viva ed indipendente. Per molti secoli l'economia della regione ha consentito a fatica la sopravvivenza: né l'agricoltura, poco remunerativa sull'Appennino più alto, né la pastorizia davano benessere. L’assenza delle grandi famiglie stanziali e delle relative dimore con i sontuosi banchetti, non ha fatto lasciare traccia di ricette abruzzesi nei più famosi trattati di gastronomia dei vari secoli. E’ il peperoncino la presenza costante di tutti i piatti dell’area, mentre lo zafferano, che qui trova la sua culla italiana, stranamente non viene quasi impiegato in cucina, e l'unico piatto che lo prevede è una marinata di pesce: lo scapece di Vasto. La pasta di grano duro, un’eccezionalità della terra d’Abruzzo, vede la ricetta più famosa nei maccheroni alla chitarra. Altro protagonista dell’antica tavola della regione è un minestrone che viene chiamato Le Virtù. La gastronomia dell’Abruzzo è massicciamente influenzata dalle preparazioni dei pastori, importanti sono i formaggi e la carne ovina: tipici l’agnello a "catturo", la "capra alla neratese", o gli "arrosticini" (spiedini di carne di pecora arrosto). Fra le carni avicole storico è il «pollo alla Franceschiello», tagliato a pezzi e cotto con l’aggiunti di olio, aromi, olive, sottaceti, così chiamato perché fra i piatti preferiti del Re delle Due Sicilie. Sulla costa si incontra il sapore del mare; pesce azzurro, ma anche molluschi, crostacei, e le straordinarie minuscole triglie dette "agostinelle". Molto rinomati i diversi brodetti che in ogni località rappresentano una variazione della zuppa di pesce adriatica. L'abitudine della gente d'Abruzzo di festeggiare le occasioni solenni con interminabili pranzi, fece nascere le “panarde”, eventi celebrativi d’opulenza contro la miseria quotidiana. Il

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pranzo di nozze rispettabile non poteva avere meno di venti portate, quello offerto all'ospite di riguardo arrivava a trenta, e chi non resisteva a degustare tanta abbondanza rischiava di offendere irrimediabilmente l’anfitrione dell’imbandigione. Le panarde si organizzano ormai solo a scopi di folclore, ma le tradizioni abruzzesi hanno generato illustri cuochi, che nel ‘900 sono stati garanzia di precisione ed estro nelle cucine di transatlantici, alberghi di lusso e illustri famiglie: da quella imperiale nipponica a quella della Casa Bianca.

Maccheroni alla chitarra

Questa ricetta tipica abruzzese si prepara con la chitarra, telaio rettangolare di legno munito di sottilissimi fili d'acciaio. Impastate della farina con uova ed una presa di sale. Appena la pasta sarà consistente ed omogenea, fatene una palla e lasciatela riposare coperta per un quarto d'ora. Stendete la pasta con uno spessore pari alla distanza dei fili della chitarra e tagliatela in rettangoli delle stesse dimensioni dell'utensile. Appoggiate ogni rettangolo sulla chitarra e passatevi sopra il mattarello: ne cadranno maccheroni a sezione perfettamente quadrata. Cuocete la pasta in abbondante acqua salata; scolatela e conditela con ragù di capretto, spolverizzando poi la ricetta con pecorino.

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FRIULI VENEZIA GIULIA aristocontadina

Nel romanzo di Ippolito Nievo “Confessioni di un italiano” (1867) si legge a proposito della famosa cucina del castello di Fratta, collocato idealmente in Friuli: “ Là un fumo denso e vorticoso, là un eterno gorgoglio di fagioli in mostruose pignatte…”. Rifacendosi a questa autorevole testimonianza, molti credono che la cucina della regione sia quasi elusivamente basata sul “minestron di fasuis”, invece la gastronomia di quest’area è caratterizzata dalla fusione delle tradizioni contadine con quelle aristocratiche, assimilate durante il dominio della Serenissima e degli Asburgo. La realtà geografica di Trieste ha poi sviluppato una cucina aperta ai piatti del mare come il "brodeto" e il famoso “baccalà” fatto con patate, acciughe e prezzemolo. I primi piatti della cucina friulana sono caratterizzati dall'uso diffuso di zucchero, burro, frutta, formaggi, marmellate, mostarde, senapi. L'alimento fondamentale di questa terra è la polenta, realizzata con il mais abbondantemente prodotto nella regione. La polenta friulana è piuttosto consistente e molto cotta, e si accompagna bene ai formaggi, ai funghi della Carnia, ai tartufi bianchi delle colline del Goriziano. Numerosa la famiglia dei formaggi vaccini (gli ovini sono scarsi), che assumono il nome della località in cui vengono prodotti. Il "frico", sorta di focaccia di formaggio arricchita con patate o altri ingredienti, è l'esempio di come vengono abbondantemente consumati i prodotti dell'arte casearia da parte dei friulani. Considerato l'antipasto dei pranzi d’antica origine contadina, era preparato dalle donne prima di portare gli animali al pascolo, lasciando sulle braci del focolare un padellino con le croste avanzate del formaggio. Nell’alimentazione della regione la carne di maiale ha sempre avuto un posto di rilievo, con particolari cure dedicate alla confezione di salumi come il prosciutto San Daniele. Di origine ungherese è il goulasch molto diffuso in tutta

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l’area, così come la brovada con il "muset", cioè il cotechino cotto nelle rape acide. Per i dolci la Gubana è il portabandiera della pasticceria regionale, nata povera con quel che la campagna offriva e arricchitasi con frutta secca e spezie. Nelle valli montane si fa festa con la polenta fritta, i dolci di patate e frutti di bosco, le torte di mele e ricotte. Altre tipicità della regione la Presnitz, gli Strucchi o Struki (raviolini dolci fritti ripieni frutta secca), e la Putizza (dolce matrimoniale di pasta lievitata ripiena). Nei caffè storici di Trieste si gustano anche torte viennesi come la Sacher.

Cialzons alla friulana (agnolotti carnici)

Le origini di quest'insieme che vede accostare erbe aromatiche, marmellata e ricotta affumicata, è certamente di tradizione in parte orientale e in parte austriaca (molto presente nella cucina friulana). Preparare gli agnolotti con una sfoglia di farina, acqua e sale e riempirli con un composto di patate lesse, mele e pere tritate, biscotti sbriciolati, prezzemolo, menta, melissa, basilico, maggiorana, erba luisa, uva passa, ricotta affumicata, cioccolato fondente, marmellata di prugne, zucchero e cannella. Cuocere i cialzons in acqua salata, e servirli con burro fuso insieme a cannella in polvere, zucchero e abbondante ricotta affumicata grattugiata.

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BASILICATA o LUCANIA secolare

Sassi Matera

Anticamente abitata dagli Enotri, i pionieri della viticoltura nel sud della penisola, in seguito occupata dai Lucani, la regione prese probabilmente il nome dai “basiliskoi”, i funzionari bizantini. Dal punto di vista gastronomico la Basilicata risente parecchio dell’influsso delle regioni confinanti. La sua cucina è povera e si basa sui prodotti della terra, le carni e i latticini derivanti dagli allevamenti ovini e il maiale. Qui è sempre stata praticata l'arte di conservare gli alimenti, e la mancanza di corti e ricchi banchetti ha limitato il panorama dell'arte culinaria. Fra i prodotti che si ricavano dal suino il più celebre, fin dai tempi della antica Roma, è la salsiccia o lucanica, ricavata dal maiale della regione, in genere magro perché pascola sulle montagne insieme a pecore e agnelli. Ricetta antica per agnello e castrato è la «pigneti»: pezzi di carne, patate, pomodoro, cipolla, peperoncino, formaggio pecorino e salame sbriciolato, che vengono messi in un'anfora di terracotta, poi chiusa con creta e passata in forno caldissimo. Altro alimento fondamentale nella gastronomia lucana è il pane fatto con semola di grano duro, elemento base anche della maggioranza dei primi piatti. Il condimento più usato è il ragù con gli «'ntruppicc» (intoppi), cioè pezzetti di carne suina o ovina. Presenza immancabile sulla tavola di questa regione è il peperone essiccato, che viene esaltato nella «sugna piccante», caratteristico condimento conservato in vasi di vetro, ottenuto con polvere di peperone, finocchio, sale e grasso suino

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Lucanica o salsiccia di Apicio

Ecco la ricetta per la preparazione della "lucanica" come la si legge nel De Re Coquinaria di Apicio (I sec. d.C). "Per fare le lucaniche: si trita pepe, comino, peverella, ruta, prezzemolo, spezierie dolci, coccole di lauro, salsa d'Apicio; esi mescola il tutto con polpa sminuzzata, pestando poi di nuovo il composto insieme con salsa, pepe intero, molto grasso e finocchi. Insacca poi il tutto in un budello allungandolo quanto è possibile. E così si sospenda al fumo".

Lagane lucane e ceci

Impastare delle farina di grano duro con tanta acqua tiepida, quanta ne occorrerà per ottenere una pasta liscia e consistente, che lavorerete lungo energicamente. Ricavare dall’impasto delle sfoglie sottili e tagliarle a fettuccine della larghezza di un dito. Intanto mettere cuocere a fuoco lento dei ceci (tenuti a bagno per una notte) in acqua non salata. Preparare una salsa facendo prima imbiondire nell’olio d’oliva uno spicchio d’aglio, per poi unire dei pezzetti di pomodori da sugo maturi (spellati e senza semi), rosmarino e sale, che lascerete restringere per dieci minuti. Quando i ceci saranno quasi cotti, a parte lessare le lagane in acqua salata e scolarle al dente. Versare in una zuppiera i ceci e la pasta, e condirli con la salsa. Lasciare riposare qualche minuto prima di servire.

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LOMBARDIA eterogenea

Si può affermare che non esiste una cucina lombarda unitaria, ma tradizioni differenti da provincia a provincia con influssi esercitati dalle regioni limitrofe, nelle quali la zona dipianura è nettamente distinta da quella prealpina e alpina. In ogni caso elementi comuni alle varie gastronomie delle province lombarde non mancano: prevale il burro sull’olio, il riso sulla pasta, e c’è una produzione diffusa di formaggi e latticini. Milano. Patria della corte degli Sforza e del panettone è sempre stata aperta a tutte le tendenze culinarie. "Risott giald" (zafferano), cassoeula, "ossobuco in gremolada", cotoletta, sono i simboli che evocano alla mente i tempi del Manzoni. I gusti carnivori, con trippe ed altre frattaglie, hanno origini lontane, e non a caso i milanesi erano soprannominati “busecconi” ovvero “tripponi”. Monti e Laghi. Forse il piatto lombardo più antico (origini celtiche) è il “cuz” che ancora si prepara d’inverno nella Valcamonica. Si tratta di carne d’agnellone cotta nel suo grasso, insaporita con erbe odorose, e poi lasciata refrigerare all’aperto in grandi mastelli di legno. Ma il meglio del repertorio della montagna lo offre la Valtellina, che ha nei pizzoccheri il suo emblema. Scendendo verso il laghi ci si immerge nella cucina d’acqua dolce, già apprezzata fin dai tempi di Virgilio e Catullo. Mantova. I Gonzaga tennero signoria in questa città per ben quattro secoli ed ebbero al loro servizio cuochi famosi, tra cui lo Stefani. Quest’area costituisce una ricca “marca di confine” gastronomica. Qui si trovano paste ripiene tipiche emiliane, risotti di radice lombarda, piatti di corte medioevali e dolci come la sbrisolona. Pavia. Il risotto alla certosina, creazione monacale ma al contempo aristocratica, è uscito dal cenobio voluto da Gian Galeazzo Visconti. Altre ricette famose: la zuppa pavese e la colomba pasquale.

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Bergamo e Brescia. Hanno conosciuto in passato il dominio della Serenissima e recano ancora l'impronta della cucina dei dogi, con i “casonsei” e il “riso alla pitocca”. Como. Città natale di Mastro Martino che fra i suoi contemporanei non conobbe rivali nell'arte della cucina e della sua codifica. Cremona. Nota sopratutto per la mostarda ed il torrone, è conosciuta anche per l’opulenza del suo “bollito misto”.

Risotto oro e zafferano

Ingredienti per 4 persone 300 gr. di riso Carnaroli, 80 gr. di burro, 20 gr di parmigiano grattugiato, 5 gr di stigmi di zafferano, 50 gr di cipolla tritata, 2 dl di vino bianco secco, 1 l. di brodo leggero, sale e pepe bianco. Preparazione Fare rosolare la cipolla tritata con 20 grammi di burro quindi tostare il riso. Aggiungere 1 dl di vino bianco secco, lasciar evaporare; poi inserire lo zafferano, bagnare con il brodo bollente e portare a cottura mescolando di tanto in tanto. In una piccola casseruola a parte, far sudare la cipolla in 10 grammi di burro. Aggiungere il restante vino, lasciar ridurre per metà il liquido, aggiungere il rimanente burro ridotto a fiocchetti ed emulsionare con la frusta. Filtrare la salsa attraverso un colino. A cottura ultimata regolare di sale e mantecare il riso con la salsa preparata e il parmigiano. Stendere a velo la pietanza su piatti piani. Disporre una spruzzata di grana padano al centro di ogni piatto, prima di servire.

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Cotoletta impanata

(Ricetta milanese dell'Ottocento, citata da C. Steiner ne “Il ghiottone lombardo”). "Prendasi una costoletta di vitello o nodino che abbia il suo osso attaccato, altrimenti sarebbe almeno esagerato e fuori luogo chiamarla costoletta... La si scelga né troppo grassa né troppo magra, ma più sul magro che sul grasso. La si stenda sul tagliere e col pestacarne si cominci a tormentarla dolcemente di modo che le fibrille della carne non si spappolino, ma si rompano. Quando questa operazione che può anche durare una ventina di minuti è finita, la costoletta viene fatta passare in uovo battuto, poi in pane grattugiato. Anche questa operazione va ripetuta almeno due volte per garantire una impanatura perfetta e regolare. Sul fuoco si sarà nel frattempo messo a sciogliere un grosso pezzo di butirro e poco olio di oliva finissimo, in modo da giungere alla bollitura. In esso si faranno passare le costolette che debbono, per essere mangiabili e perfette, risultare dorate in ogni loro parte. Prima di portarle in tavola, le costolette vanno finite, cioè bisogna coprire i 'manici' di ciascuna con un decoro di carta”.

Gnocchi di zucca per Radetzky

Johann Joseph Franz Karl-conte di Radetzky

Ricetta tradizionale lombarda. Mondare una zucca, eliminando la buccia e i semi interni. Cuocerla a vapore fino a farla ammorbidire. Lasciarla poi asciugare su uno strofinaccio. Tritarla e metterla in una terrina, aggiungendo uova, farina, noce moscata e latte. Aggiustare di sale e mescolare con un cucchiaio di legno. Se l'impasto risulterà troppo morbido aggiungere ancora farina, in caso contrario ammorbidire con altro latte. Far bollire abbondante acqua salata e versarvi il composto a cucchiaini. Quando gli gnocchi verranno a galla, toglierli con

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un mestolo forato e versarli direttamente su un piatto da portata caldo. Servire gli gnocchi di zucca, conditi con burro fuso, salvia e abbondante parmigiano grattugiato.

SARDEGNA pastorale

Agricoltura e pastorizia sono stati sempre i fondamenti della Sardegna, e il folclore è tuttora il più ricco d'Italia. La tavola è legata fortemente alla terra, al pastore, e alle feste religiose e pagane che sono ancora sentite. La cucina che vive quasi esclusivamente nelle famiglie, fatta di ingredienti genuini e sapori essenziali, può essere divisa in due parti. La più antica è quella “di terra”, dell'interno dell'isola, fatta dai pastori e dai contadini, ed i suoi cardini sono le carni arrostite (animali selvatici, cacciagione, maiali giovani), il pane, i latticini, il miele, i salumi, le verdure (peperoni). L'altra parte della cucina sarda, molto più recente anche se con alcuni secoli di tradizioni, è quella di mare. Gli isolani non furono mai gente di mare, preferendo insediarsi nell'interno piuttosto che sulle coste infestate dai pirati e povere di porti naturali. Così il ricchissimo mare rimase sconosciuto alle popolazioni locali almeno fino a quando naviganti e marinaigiunsero nell'isola. Spagnoli e genovesi, che dominarono in periodi diversi la Sardegna, lasciarono nella tradizione culinaria la loro impronta; la «cassola», è una zuppa di pesce di chiara derivazione spagnola e così il «mazzamorru», zuppa a base di pane raffermo, un tempo cibo dei galeotti della marineria spagnola. Invece d’origine siciliana sono le ricette per il pesce spada e la «buttariga» (bottarga). Il pane, perno della tradizione alimentare sarda, ha il suo più celebre rappresentante nel carasau. Gli arrosti, dove indispensabile è l'apporto delle erbe

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aromatiche: menta, rosmarino, mirto, alloro, salvia, zafferano (questo in quasi la metà delle ricette), sono identificabili con lo storico «porceddu», mentre fra le specialità festiva eccelle il «malloru de su sabatteri», in cui al posto di un animale se ne mettono vari, l'uno dentro l'altro.

Porceddù allo spiedo

La particolarità di questo piatto sta nella cottura all’aperto; a questo proposito è essenziale una legna fortemente aromatica: di ginepro o d’olivo. Sventrare un porcellino, svuotarlo, lavarlo accuratamente e, dopo averlo salato all’interno e all’esterno, infilzarlo nello spiedo. Durante la cottura, ungete la carne facendo sgocciolare del grasso di fette di lardo, precedentemente scaldate sul fuoco. Ogni tanto potete salare (ma la salatura dovrebbe ridursi solo a due momenti, all'inizio e alla fine della cottura). Potete aggiungere al sale, alloro tritato e mirto o, se preferite, del pepe, ma vi sconsigliamo di farlo perché gli aromi potrebbero coprire il sapore del porcetto. Quando la carne sarà cotta, sfilate lo spiedo e stendetelo sopra le braci, retto da due sostegni, rigirando quando necessario. Il maialino sarà cotto alla perfezione quando avrà preso un color rosso bruno, dovuto all’orrostitura della cotenna esterna. Terminata la ricetta affettare il porceddù, posarlo su un vassoio coperto con foglie di mirto e servirlo caldo.

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PUGLIA pura

Quella pugliese è una cucina semplice legata soprattutto al lavoro della terra, che non conosce gli apporti delle corti, ma che ha elaborato piatti tipici dai molti sapori e profumi. Quattro i cardini di questa gastronomia: olio, grano, verdure e pesce. Dalla fascia costiera adriatica, tutta ammantata di stupendi oliveti, si ricava quell’olio che ha un posto d'onore in cucina e che rappresenta circa un terzo della produzione complessiva italiana. Nella pianura del Tavoliere si coltiva il grano duro, all'origine di innumerevoli tipi di pasta e del celebre pane pugliese, scuro e saporito. Molto diffuse e di qualità pregiata sono le produzioni ortofrutticole, alla base dipiatti originalissimi, elaborati comunque in tutte le provincie senza differenze sostanziali. Federico II che fece della regione la sua patria d’elezione, apprezzava moltissimo questa cucina dagli aromi superbi, dove l'aglio immancabile sul Tavoliere, cede lo scettro alla cipolla scendendo verso sud. Magnifico è il capitolo delle paste fatte a mano, che in quest'area sono condite sopratutto con le verdure: pasta e cime di broccoli, pasta e cavoli, maccheroni e melanzane, pasta e purea di fave, spaghetti e cicoria. In Puglia c’è l'uso di chiudere il pranzo con le verdure crude come: finocchi, rapanelli o sedani. E la carne? Come in tutto il sud, quella bovina è scarsa; di largo impiego invece la selvaggina, i volatili, il maiale, il coniglio selvatico, e soprattutto la carne ovina, dove la regione è al terzo posto nella produzione nazionale, dopo Sardegna e Lazio. Piatto di origine remota e ormai rarissimo è la «quagghiaridde», ventricina di montone ripiena di frattaglie tagliuzzate e unite a scamorza, uova, salame. Su tutta la costa pugliese, adriatica e ionica, il pesce è molto abbondante. Dai polipetti baresi, alle alici che si mangiano crude; dai frutti di mare alle ostriche coltivate secondo un uso che risale a molti secoli fa; dalle cozze di Taranto, che

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vengono cotte spesso "arracanate" cioè coperte con mollica di pane e prezzemolo, con aglio, olio, origano e pomodoro, alle triglie di scoglio di Polignano, dal dorso iridescente che, appena girate sulla brace, si sciolgono in un liquido rosso, offrendo una salsa naturale di squisitezza inarrivabile. Importante è anche il contributo dato alla tavola pugliese dalle numerose specialità di latticini e dolci a base di mandorle.

Orecchiette alla pugliese

Tagliate dei peperoni a fettine sottili e fateli rosolare per dieci minuti in una padella con olio d'oliva. Aggiungete quindi della salsa di pomodoro, basilico, sale, pepe, peperoncino, e cuocete per circa cinque minuti. Bollite delle orecchiette in abbondante acqua salata, scolatele al dente e versatevi sopra il condimento. Prima di servire spolverate le orecchiette alla pugliese con pecorino tritato.

VALLE D'AOSTA casearia

Gli antichi menù che si possono reperire negli archivi appartenevano alla gastronomia dei ceti più alti e non rispecchiano quindi le abitudini del popolo legate agli ortaggi, al cavolo, al pane di segale e ad alcuni formaggi. La cucina dei ricchi è sempre stata molto varia, avendo accolto elementi della gastronomia Romana, Sabauda (dall' XI sec.), Francese e Svizzera. Le legioni romane che s’istallarono nel territorio della Valle d'Aosta portarono le loro tradizioni alimentari

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legate prevalentemente alla caccia e all'uso dell'orzo nelle zuppe, e sempre a quell’epoca risale l'introduzione della coltivazione della vite. Il vino in Valle d’Aosta è sempre stato abbondante, e perciò ha accompagnato piatti dalle usanze provenienti d’Oltralpe, come le trote di torrente fatte friggere nel burro con l'aggiunta di erbe aromatiche, oppure consumate in carpione, cioè conservate sotto aceto. Il popolo valdostano, vivendo dei propri prodotti, ha imparato a consumare gli ortaggi, soprattutto il cavolo, nelle zuppe e nelle minestre. In Valle d’Aosta nei tempi più remoti il pane si distingueva in bianco e nero, mentre la carne fresca è stata a lungo un alimento raro. Qui si è sempre macellato il maiale per ricavarne salami, salsicce, lardo e sanguinacci indispensabili a superare l'inverno. Per tradizione in Valle d’Aosta è importante anche la selvaggina preparata in "civet", cotta con il vino rosso aromatizzato da molte spezie e erbe. Terra di allevamento del bestiame e di produzione di latte, dal Medioevo questa regione è famosa per i formaggi, e simbolo di questi è certamente la fontina. Anche la noce è un prezioso frutto che i valdostani hanno saputo utilizzare al meglio, soprattutto per produrre l'olio di noci. Per dolcificare soprattutto nel passato si ricorreva al miele, che colato sulle castagne bollite formava il più semplice dei dessert. I rigori invernali hanno anche imposto una tradizionale bevanda, il vin brulé alla gressonara: vino cotto con dadini di pane nero, burro, zucchero, cannella, chiodi di garofano e noce moscata, e poi passato al colino. Un’altra bevanda importante per le sue qualità digestive è il caffè alla valdostana, miscela bollente composta da caffè e grappa.

Fonduta Valdostana

Tagliate della fontina a pezzetti e mettetela in un recipiente di terracotta, ricopritela con del latte e lasciatela macerare per un giorno; la fontina al momento di essere usata dovrà

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essere quasi del tutto sciolta. Ponete il recipiente di terracotta in un bagnomaria pieno d’acqua fredda, e a fiamma bassa portate l'acqua ad ebollizione. Mescolando con un cucchiaio di legno, fate fondere il formaggio fino ad ottenere una crema densa e omogenea. Unite soltanto allora dei tuorli d’uovo mescolando vigorosamente. Servite la fonduta immediatamente, cospargendola con della noce moscata, e accompagnandola con pane nero caldo e patate lesse tagliate a pezzi.

Frittelle di fontina Valdostane

Fontina

Ingredienti: Abbondante fontina, uova, latte, pane grattugiato, una pugno di carne di manzo macinata, basilico, prezzemolo, rosmarino e olio di semi. Tagliare la fontina a dadini molto piccoli, mettere il tutto in una terrina unire il pangrattato, la carne, le uova, il trito di erbe e il latte. Lavorare bene fino ad ottenere un composto omogeneo e aggiustare di sale e pepe. Far scaldare l'olio nellapadella per friggere, quando sarà ben caldo distribuire a cucchiaiate il preparato e far dorare le frittelle da tutti i lati. Servire ben calde.

Fettuccine di castagne con verza e costine valdostane

Pulire il cavolo verza. Cuocere in una casseruola con un fondo d’odori delle costine di maiale, e bagnare con del vino bianco e del brodo di verdura. A cottura ultimata, unire la verza. Disossare le costine e tagliarle a tocchetti. Mescolare farina di castagne e farina di frumento nel rapporto di tre a due, unire delle uova intere ed un tuorlo, salare a piacere. Se l’impasto risulterà un po’ asciutto aggiungervi un cucchiaio d’acqua tiepida. Tirare una sfoglia molto sottile e tagliare le fettuccine; cuocerle, scolarle e condirle con la verza e la carne di costine.

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È consigliata una grattatine di pepe nero.

LAZIO popolaresca

La cucina laziale è rappresentata in gran parte da quella romana nella quale sono convogliate tutte le specialità delle tradizioni culinarie della regione. Perduti i fasti dell'Antica Roma, dove era possibile mangiare qualunque prelibatezza del mondo civilizzato, questa è una cucina che ha perso in gran parte il suo filone aristocratico (famosa eccezione il timballo di Bonifacio VIII). Nella gastronomia romana hanno solidamente prevalso tre componenti popolaresche: 1)ebraica (detta “giudia”), la più raffinata, ingegnosa e colta, cui si devono celebri piatti come i “carciofi alla giudia” o “l’invidia con le alici”; 2)burina, di derivazione abruzzese, che ha portato fra l’altro i “bucatini all’amatriciana”, la “pasta alla carbonara”, l’abbacchio e in genere i piatti di carne di maiale; 3)macellara, nata intorno ai mattatoi con protagonista il “quinto” quarto, cioè interiora, zampe, guancia, alla quale appartengono i “rigatoni con la paiata” o la “coda alla vaccinara”. I sapori del Lazio provengono dalla cultura delle aree circostanti: fra gli ortaggi dominano i carciofi e le insalatine, mentre nei dolci si evidenzia la ricotta, come nel famoso “budino”. Per il pesce segnaliamo le rinomate anguille del lago di Bolsena, tanto apprezzate anche dai Papi, e le "mazzancolle" dell’area di Gaeta che nel dialetto laziale indicano i gamberoni pescati in estate. Ricette dell’antica gastronomia romana è possibile rintracciarle anche nella letteratura storica. Maestro Martino (XV sec.) ci presenta una ricetta che può ricordare i

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famosi saltimbocca di antica tradizione: “Per fare coppiette al modo romano” (pezzetti di carne che rimangono attaccati l'uno all'altro), e Messisbugo (XVI sec.) propone “A fare dieci piatti di maccheroni romaneschi” e “cavoli a la romanesca” (cavoli rifatti con lardo e brodo grasso). Inoltrandoci nel tardo Rinascimento incontriamo lo Scappi con “Per far polpettoni alla romanesca di lombolo di bove o di vaccina”. Anche Francesco Leonardi (XVIII sec.) fra le tante squisitezze e raffinatezze proposte nel suo libro, per la cucina romana fornisce la ricetta della “Trippa di manzo alla romana” che per quanto elaborata rimane sempre un alimento della cucina povera. Possiamo allora desumere che la gustosa semplicità della cucina popolare della festa ha in parte coinciso con la cucina quotidiana papalina e aristocratica, e daquesto legame nacquero proverbi e adagi popolari: «Chi se vò imparà a magnà, da li preti bisogna che va». Nella seconda metà del ‘900 il cinema italiano ha poi esportato questa cucina popolaresca imponendola come culto “turistico” al pari del Colosseo o della cattedrale di San Pietro.

Bucatini all’amatriciana

Il modo di cucinare la pasta all’amatriciana deriva dalla città di Amatrice (RI). È un saporitissimo equivoco della cucina romana, sia perché le sue origini non sono affatto laziali ma abruzzesi (un tempo Amatrice era in provincia dell’Aquila), sia perché la versione primitiva, quella dei poveri pastori, non prevedeva il pomodoro. Guanciale, pomodoro, cipolla e un’abbondante pioggia di pecorino sono gli ingredienti del sugo all’amatricina, che accompagnato ai bucatini (grossi spaghetti bucati) rappresenta una delle preparazioni più note dell’intera gastronomia italiana. Preparazione Tagliare del guanciale (o pancetta) a fette e poi a rettangolini, metterlo in una casseruola e, con pochissima acqua, sciogliere il grasso. Togliere il guanciale dal tegame,

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unire nel grasso pomodori maturi spellati, privati dei loro semi e tagliati a pezzi, insaporire con del peperoncino sbriciolato, salare poco e pepare. Cuocere per dieci minuti; poi rimettere il guanciale nel sugo, facendolo appena riscaldare. Cucinare dei bucatini al dente, in acqua salata, scolarli e condirli con il sugo, spolverandoli di formaggio pecorino romano; mescolare bene e servire i bucatini all’amatriciana caldi.

I carciofi alla romana di Caravaggio

Caravaggio (1571-1610)

Carciofi – acqua – succo di limone – prezzemolo – mentuccia – aglio – olio d’oliva – sale – pepe Preparazione Pulite dei carciofi togliendo le foglie esterne e lasciando un pezzetto di gambo, che priverete della parte dura; immergete quindi la verdura in acqua e succo di limone. Scolate i carciofi, apritene leggermente le foglie, farcitele con un trito di prezzemolo, mentuccia e aglio, salate e richiudete i carciofi. Sistemateli capovolti in un tegame dai bordi piuttosto alti, ricoprendoli d’acqua e abbondante olio, salate, incoperchiate e passate la pietanza in forno. I carciofi potranno essere serviti quando il liquido di cottura sarà completamente evaporato.

Polpe alla romana di Domenico Romoli (Panunto)

Pigliate della coscia di vitella da latte, fatene pezzi di due libbre l’uno, stropicciategli con vino e aceto, pigliate della pianterina, pepe, finocchio e sale, pistate ogni cosa assieme e con essa stropicciate e imbrattate i pezzi della carne, mettansi insieme stretti, mettasi di sopra e di sotto il restante della polvere, pongasi di sopra una tavoletta o un tagliere polito, con un sasso o gravezza di altro peso che la

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tenga in soppressa un’ora; e serbate quell’acqua che di esse uscirà, mettasi per ogni mezzo qualche lardello, poi mettasi allo spiedo, dandogli il fuoco adagio e saran presto colorite, ma non però saran cotte. Allora pigliate mezzo bicchiere di vino bianco, mezzo di aceto, mezzo di mosto cotto, e mettete ogni cosa in quell’acqua uscita dalle polpe con un cocchiaro di brodo grasso in una cazzuola e farete bollire ogni cosa con un pezzetto di pepe, cannella e garofoli con poco sale. Cavare le polpe in un piatto cupo e così calde mettere sopra lo adobbo. Dopo cuopransi di sopra con un altro piatto, e così stufate mandasi in tavola.

TOSCANA essenziale

Il più antico nome latino usato per indicare il territorio del popolo Etrusco fu quello di “Etruria”, e con questo termine venne chiamata dall’imperatore Augusto la settima delle undici regioni nelle quali divise l’Italia. Nel basso impero prevalse il nome di Tuscia e soltanto dal X sec. si può trovare la parola: Toscana. Qui c’è una cucina senza fronzoli, priva d’elaborazioni, nata dal retaggio etrusco e ricca della fantasia culinaria di casa Medici. La storia della gastronomia toscana iniziò verso l’anno mille con l’avvento dei liberi Comuni. Dopo le crociate e fino a tutto il trecento fu una cucina esagerata fatta d’intingoli e spezie, ideale a soddisfare le gozzoviglie dei guerrieri e dei signorotti. Nel quattrocento, epoca del Magnifico, il gusto culinario cominciò lentamente ad alleggerirsi grazie a delle ricette che per misura, ordine e armonia, nel cinquecento si diffusero anche in Francia con Caterina de Medici. Ma fu dopo la Rivoluzione francese, con l’affermarsi delle classi borghesi, che la cucina Toscana affondò le sue radici nella

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campagna, generando ricette semplici, strettamente legate ai prodotti stagionali e arricchite con sobrietà. “Una cucina da poveri che può stare sulla tavola di un re”, esclamò un insigne uomo di stato al seguito di Vittorio Emanuele II, descrivendo la scoperta di questa gastronomia che aveva come scenario il camino scoppiettante con arrosti profumati. Verdure, castagne, farro, fagioli e cacciagione sono presenti in molte ricette toscane, ma l’alimento che più identifica questa terra è senza dubbio il pane. Qui è insipido, cioè senzasale, e perciò si sposa bene con gli ingredienti delle ricette più svariate, dagli antipasti ai dolci. Un tempo in Toscana il pane sostituiva addirittura la pasta, scarsamente usata nell’ambito regionale, fatta eccezione per i “pici” senesi o le “pappardelle alla lepre” d’origine aretina. Formaggi pecorini, preparazioni a base di maiale e l’olio d’oliva, per le decine di confini che attraversavano la regione, vengono utilizzati nei piatti tipici in maniera diversa da campanile a campanile. Ogni ricettta toscana, anche se è composta da pochi ingredienti, viene esaltatata con l'uso dell’aglio e della cipolla accostati a rosmarino, salvia, basilico, alloro, prezzemolo, noce moscata, coriandolo, chiodi di garofano, cannella e pepe. Nascono così la ribollita o la panzanella, il cibreo (rigaglie pollo) e la scottiglia (umido carni miste). Esaminando la cucina delle città toscane rintracciamo che: Firenze è famosissima per la bistecca di carne chianina, la ribollita, il lampredotto e la schiacciata con l'uva; Pistoia và ricordata per la minestra di rigaglie del “carcerato”; Lucca per il buccellato (dolce); Livorno primeggia con il cacciucco e il baccalà; mentre Pisa domina per il tartufo e lo stoccafisso. Nella Maremma il simbolo è la famosissima acquacotta, piatto unico fatto di niente, nato per sfamare butteri e carbonai, poi arricchitosi fino a diventare una gustosa minestra.

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Pinci (pici) del condottiero Etrusco

Si tratta di una pasta fatta a mano "appicciando" farina ed acqua, ed albume d'uovo, tipica della Val di Chiana. Il verbo appicciare in italiano significa sposarsi, fare l'amore, unirsi, ma anche "fare il picio" ossia un lungo spaghetto più grosso di quelli normali, strisciando la pasta tra pollice ed indice. E' la prima pasta asciutta conosciuta dalla gastronomia italiana e la si trova dipinta in una "patera" (scodella dell'epoca) di un servo, che li porta in tavola al padrone in una tomba etrusca di Tarquinia. Ingredienti: 450 gr pici (pinci) - 30 gr foglie di menta -20 gr basilico - 4 spicchi d'aglio prezzemolo - 1 uovo bollito 10 minuti - 50 gr olio d'oliva - sale - pepe -50 gr pecorino Preparazione: tritare fini le erbe, l'aglio e l'uovo. Il tutto deve amalgamarsi molto bene fino a diventare una crema a cui verrà aggiunto l'olio e in seguito il pecorino. Bollire i pinci e condirli.

Bistecca di Chianina - Gabriele D'Annunzio

Bistecca di Chinina – olio d’oliva – sale – pepe Preparazione Si pone la bistecca su una gratella che sovrasti una brace ardente, ottenuta da tizzoni di quercia e da altri legni profumati della macchia mediterranea. Si rigiri la carne su se stessa prima di arrivare ad un arrostimento vero e proprio perché, se cotta a puntino, dovràrisultare rosa al taglio ed il grasso croccante. Il sale, il pepe franto e l’olio, vanno messi sopra la bistecca a cottura ultimata.

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Zuppa alla Ricasoli

Bettino Ricasoli

Un ricettario dell’800 del cuoco fiorentino Ferdinando Grandi ci parla di una zuppa rustica di fagioli cavolo e pane, graditissima al Barone Bettino Ricasoli. Ingredienti Cavolo bianco – olio d’oliva – fagioli – pancetta di maiale – salsiccia – brodo – sale – pepe – pane raffermo Preparazione Tagliate a strisce sottili un cavolo bianco, fatelo insaporire inolio d’oliva e tiratelo con dell’acqua fino a metà cottura. Aggiungete alla verdura dei fagioli precedentemente lessati, pezzetti di pancetta, salsiccia spellata, e terminate la cottura aiutandovi con del brodo. Aggiustate di sale e di pepe. Quando la zuppa sarà pronta, versatela in una zuppiera in cui avrete adagiato delle fette di pane abbrustolito

VENETO mercantile

L'alimentazione veneta è dominata da quattro elementi: riso, polenta, fagioli e baccalà, ai quali possiamo aggiungere le patate e gli ortaggi. Il riso arrivò dal mondo arabo in seguito ai commerci, e dalla prima metà del ‘500 venne coltivato nelle vaste pianure (dove oggi si produce il vialone nano) generando circa quaranta piatti diversi come i "risi e bisi". Con la scoperta dell’America si conobbero la farina di mais e i fagioli. Dai mari del Nord, lungo le rotte del Baltico, giunse invece il baccalà (stoccafisso), forse l’alimento “unificatore" della cucina veneta. Attorno a questa base troviamo un ricco assortimento di prodotti che l'abilità dell'uomo ha messo a disposizione di

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massaie e cuochi: salumi, formaggi e prodotti dell'orto, primi fra tutti radicchio e cipolle, tanto è vero che molte preparazioni dove l’ingrediente principale è la cipolla si dicono “alla veneziana”. Largamente superata dalla onnipresente polenta e dagli gnocchi, la pasta veneta si identifica con i “bigoli”. Andando a guardare nelle ricette delle sette province, pur legate ciascuna ai prodotti del territorio, si nota la presenza del pepe, della cannella, dei chiodi di garofano e dell'uvetta di Corinto. Qui non solo si commerciarono le spezie ma si sfruttarono anche per creare pietanze eccelse come le sarde in saor. Fu nel Cinquecento, che sulle tavole dei signori di alcune città arrivarono le carni dei grandi volatili, ed oggi sopravvive l'uso della “Oca in onto” (oca sotto grasso), alla quale ricorrevano le famiglie per conservare sufficienti scorte di carne e di grasso per l'inverno. Fra i trattati di cucina che codificano la gastronomia veneta, ricordiamo Anonimo Veneziano nel ‘300, Mastro Martino nel ‘400 con tante ricette di mostarda pestata, e Bartolomeo Scappi (fine ‘500) con salse e mostarde che ricalcano preparazioni orientali ricche di spezie. In questo percorso nella letteratura gastronomica non possiamo dimenticare il famosissimo Francesco Leonardi (seconda metà ‘700), con la "zuppa di riso alla veneziana", alimento d’origine turca, e il “fegato alle cipolle”. Altre specialità locali rinomate sono il cicchetto di Venezia o il pandoro di Verona le cui radici affondano nell’arte di lavorare lo zucchero della Serenissima.

Insalata di patate all’erba cipollina

Lessate delle patate in acqua bollente salata. Quando saranno ben fredde pelatele e tagliatele a fette. Preparate un condimento emulsionando olio, succo di limone e aggiungendo sale e pepe. Versate le patate in un’insalatiera e conditela con la salsina. In una padella rosolate della pancetta affinché diventi ben croccante, toglietela e friggete nel suo grasso del pane

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tagliato a dadini, facendolo ben dorare. Poco prima di servire, aggiungete all’insalata di patate il pane e la pancetta, mescolate bene e cospargete il piatto con abbondante erba cipollina.

SICILIA sontuosa

Questa è una gastronomia tipicamente mediterranea, basata su olio, pasta, pesce, frutta, ortaggi, erbe aromatiche. Qui, c’è un repertorio di prodotti caratteristici così ricco, che i cuochi siciliani, celebri fin dall’antichità, hanno creato una cucina così fantasiosa e fastosa da non farla paragonare a quella di nessun'altra regione. La gastronomia sicula è probabilmente la più antica d'Italia, ed ogni cultura vi ha lasciato qualche eredità di sapori. Ricotta, miele, vino e olive conciate risalgono alla Magna Grecia; macco di fave e seppie farcite sono contemporanei della Roma antica; cuscus, zafferano, agrumi, zucchero e riso furono portati dagli arabi;“pescestocco” e “baccalaru” sarebbero stati introdotti da Normanni. Il “farsumagru” (rotolone arrosto di carne bovina, uova sode, formaggio, lardo, salsiccia) venne scoperto al tempo degli Angioini, mentre “tortillas” e “caponata” coincisero con il dominio Spagnolo. Fra i capitoli celebri di questa cucina c’è anche quello delle sontuose dimore baronali dei “Gattopardi” del ‘700 e ‘800. Antiche ricette siciliane sono indicate da famosi autori di gastronomia, da M° Martino al Messisbugo, per continuare con il Leonardi. In questa regione ogni preparazione diventa qualcosa di speciale, come ad esempio il cous cous di Trapani e Palermo, o gli arancini di riso (ispirati agli agrumi nell'aspetto e nel nome) felicissima sintesi di varie influenze.

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Dell'infinita serie di altre specialità, emergono quelle a base di pesce, i messinesi sono maestri nel cucinare il pescespada, i trapanesi il tonno. Se i piatti di carne sono quasi sempre a base di carne tritata (poca disponibilità di bovini), le preparazioni dolci rappresentano il paradiso della gastronomia dell'area. Vorremo terminare con una notazione: caratteristica della cucina siciliana è che lo stesso piatto può essere preparato, a seconda delle disponibilità di ingredienti, in una versione più modesta e una più ricca.

Caponata siciliana

La ricetta, partita da una base semplice, a seconda della disponibilità degli ingredienti e la fantasia di chi cucinava, si è arricchita di sapori supplementari. E’ un piatto tipico, dove la tradizione spagnola sembra fondersi con il gusto siciliano per la sontuosità. Oggi la caponata è fatta con le verdure, ma all’origine era un cibo marinaresco. La sua ricetta creata nelle Cauponae dei porti, antico termine con il quale si identificavano le taverne, prevedeva l’uso del pesce. Preparazione Tagliate delle melanzane a dadi senza eliminare la buccia e lasciatele in acqua salata per un pò. Scolatele, asciugatele e friggetele in un tegame con abbondante olio tanto da coprirle. Nel frattempo: sbollire del sedano a pezzetti in acqua salata, mettere in acqua calda delle olive snocciolate e preparare una salsa di pomodori maturi con cipolle piccole e basilico. Passare in un tegame con un po’ d’olio il sedano, le olive ben sgocciolate, una manciata di capperi e amalgamare il tutto. Unitevi la salsa e condite con aceto e zucchero. Versate nel tegame anche le melanzane e lasciatele insaporire nel sugo per qualche minuto a fuoco bassissimo. Servite la caponata fredda.

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CAMPANIA spettacolare

Fertilissima fin dall'antichità, la "Campania felix" era il più vicino e principale fornitore di derrate della Roma imperiale, e le sue complesse vicende storiche giustificano sia piatti ricchi con influenze Angioine e Borboniche, sia preparazioni povere riservate al popolo, dove primeggiavano ortaggi e latticini con la carne quasi assente. Partendo dal Rinascimento la cucina di corte trovò spazio nei testi del Messisbugo, dello Scappi o del Corrado. In queste opere c’è una grande quantità di ricette napoletane come quelle dei maccheroni, dei timballi, dei pesci e della caccia. Solo dall‘800 con le opere dell’Agnoletti e del Cavalcanti s’incominciò a prendere in considerazione la cucina più povera. Esiste poi nella gastronomia napoletana una serie di piatti che, sempre dall’ottocento, fusero la tradizione della corte francese con gli ingredienti e le usanze tipicamente napoletane. Ne vennero fuori invenzioni molto elaborate e spettacolari, dove spiccavano timballi come i maccheroni al ragù, o il “sartù” a base di riso ripieno con fegatini di pollo, salsicce, polpettine di carne, ecc. Nella letteratura contemporanea Matilde Serao, Giuseppe Marotta, Eduardo De Filippo, o poeti come Salvatore Di Giacomo hanno immortalato piatti, invenzioni, protagonisti e caratteri della cucina napoletana (che riassume quella dell'intera regione). Il Principe della cucina campana è il pomodoro, impiegato con arte dal ragù alla pizza, ed è stato detto: “a Napoli il pomodoro è una mezza religione”. Glorie della cucina partenopea per la parte di terra sono la pasta e i latticini, mentre per la gastronomia di mare troviamo: crostacei e molluschi. Indimenticabili anche i piatti a base di ortaggi dell'agro campano, come la parmigiana di melanzane o i peperoni ripieni. La cucina a Napoli è fatta anche di "esterni" e di spettacolo, imperdibili sono i "friggi e mangia", e i vari "passatempi" (frutti di mare, pizzette,

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tartine, frittelle) offerti in chioschi o bancarelle, e consumati in qualunque momento della giornata.

Tonno con pomodori

Prendete dei tranci di tonno e fateli dorare su dell’olio d’olivaben caldo. Scottate dei pomodori in acqua bollente, quindi spellateli, tagliateli in quattro, ed eliminate i semi e l'acqua di vegetazione. Unite al tonno della cipolla sminuzzata e lasciatela appassire. Aggiungete infine i pomodori, sale, un pizzico di paprika (o peperoncino macinato), continuando la cottura affinché gli ingredienti saranno ben amalgamati. Prima di presentare la portata irroratela con succo di limone e cospargetela di prezzemolo.

MOLISE bucolica

Nel Molise, regione autonoma solo dal 1963, gli abitanti fieri della propria identità sanno difendere le più antiche tradizioni culinarie conservando con orgoglio le ricette dei secoli più lontani. Sono sapori decisi, aromi vivi. La cucina dei molisani ha i suoi punti di forza nella semplicità delle preparazioni e nella genuinità degli ingredienti. Netta tuttavia è la differenza tra i piatti che si preparano nelle zone interne, a base di pasta fatta in casa e carni prevalentemente di capretto o agnello, e quelli confezionati lungo la ristretta fascia costiera, dove predomina il pesce. Oltre alle diverse varietà di pasta fresca, fra i primi piatti segnaliamo la polenta, presente in tutto il territorio, condita sopratutto con ricchi sughi di maiale o di agnello. Qui gli ovini signoreggiano tra i piatti di carne (oltre a offrire la

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possibilità di ottimi formaggi). La tradizione bucolica indica l'arrosto come modalità di cottura privilegiata, ma la rustica fantasia dei cuochi locali fornisce tutta una serie di invitanti suggerimenti. Nelle trattorie dell'interno è possibile imbattersi nell'antica ricetta della “pecora alla brigante”, uno spiedo insaporito da molte erbe aromatiche. Altro piatto tipico della società pastorale sono i “torcinelli”, involtini fatti con le budella dell'agnello farcite con fegato, animelle e uova sode. Ancora oggi diverse famiglie molisane allevano almeno un suino, al quale dedicano cure per ricavarne saporiti prosciutti ed eccellenti salumi. Assolutamente originale è la “pamparella”, pancetta di maiale seccata con abbondante peperoncino, fatta rinvenire in vino bianco (o rosso) e tagliata a pezzetti, per poi essere messa nel sugo per insaporirlo. Molti gli ortaggi quasi onnipresenti in questa cucina come il pomodoro, fresco o conservato, i peperoni, i broccoli, i sedani e i finocchi, spesso causa di autentiche lotte di campanile. La polemica più aspra e più antica è quella che divide (e in un certo senso affratella) Boiano e Acquaviva Collecroce: ciascuno di questi due paesi sostiene di avere nei propri orti fertilissimi, i migliori finocchi e i più gustosi e giganteschi sedani bianchi. Fra le feste in onore delle verdure, famosissima è quella di Isernia dedicata alle cipolle e a tutti iprodotti della terra, celebrata in modo pittoresco nel giorno dei santi Pietro e Paolo. La fiera è antichissima, fu il conte Ruggero di Celano a istituirla nel 1254, e c’è credenza popolare che le cipolle acquistate a Isernia in quest’occasione siano più buone e abbiano grandi poteri medicinali.

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Sedano in umido

Tritate una cipolla di Isernia e fatela imbiondire nell’olio di oliva. Pulite un sedano di Boiano o Acquaviva Collecroce, lavatelo, liberatelo dei filamenti più duri e tagliatelo a pezzi lunghi circa un dito. Sbucciate e affettate delle patate. Versate le patate e il sedano nel soffritto di cipolla, salate e unite un pizzico di peperoncino, mescolate e mettete un coperchio al tegame. Fate attenzione che durante la cottura le verdure non asciughino troppo, ed eventualmente bagnatele con un po’ d’acqua. Servite sedano e patate caldi o tiepidi, dopo averli lasciati risposare almeno un’ora per farli insaporire meglio.

Zuppa alla molisana

Dopo aver fatto rinvenire dei fagioli cannellini per una notte in acqua tiepida, scolateli e metteteli a cuocere coperti d'acqua fredda. A parte lessate delle cotiche di maiale tagliate a pezzetti, e a metà cottura scolatele e unitele ai fagioli, aggiustando di sale. Intanto preparate un sughetto soffriggendo in olio una cipolla e uno spicchio d’aglio tritati, aggiungete pomodori tagliati, gambo di sedano a pezzetti, peperoncino, basilico, sale e pepe. Un quarto d'ora prima del termine di cottura dei fagioli, unite il condimento ultimando la preparazione.

Taccozze (o sang’ a taccun’) molisane

taccozze

Fare un impasto piuttosto duro con farina, uova, e sale. Stendere la sfoglia non troppo sottile e tagliarla a rombi di media grandezza (due dita di lato). Cuocere le tacconcelle in acqua salata. Scolarle, e condirle con un buon ragù di carni miste (vitello, agnello, maiale) e formaggio pecorino grattugiato.

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MARCHE confederale

Quella della Marche è una confederazione di cucine. Posta al centro della penisola, s’identifica con l’antico territorio Piceno (IX – IV sec. a.C.), presentando ancor oggi una pluralità di dialetti, consuetudini e folclore. Gli usi gastronomici del Pesarese e del Montefeltro sono strettamente imparentati con quelli della confinante Romagna (minestre), così pure i piatti dell’ultimo lembo meridionale sono largamente influenzati da quelli dell’Abruzzo. Due sono gli aspetti della cucina locale corrispondenti alle caratteristiche geografiche della regione:quello dell'entroterra e quello marittimo. L'aspetto contadino della cucina marchigiana è dominato dai funghi, dall'uso delle olive e dal tartufo. Quest'ultimo è il condimento sublime dei taglierini di fattura casalinga, proveniente dalle località del Pesarese, dell’Ascolano e del Maceratese, oggi garantisce un’importante risorsa integrativa all’economia rurale grazie al mercato di Acqualagna, dove si concentra un terzo dell’intera produzione annuale italiana. La gastronomia delle Marche, che possiede un vero e proprio gusto nel campo dei cibi imbottiti, ha una delle pietanze più rappresentative nelle olive all'ascolana, il cui cultivar era già apprezzato dai Romani. I piatti forti dell’entroterra sono a base di carne di maiale, tra i quali spiccano la saporitissima porchetta, e il cotechino della fortezza di San Leo, che si dice mangiò anche Cagliostro quando vi finì rinchiuso. Sulla costa delle Marche invece si può gustare una grande quantità di prodotti ittici. Piatto simbolo è il “brodetto di pesce”, interpretato diversamente in ogni porto, dal rosso (pomodoro) del Pesarese al giallo (zafferano) dell’Ascolano. In uso tra il fiume Conca (confine Romagna) e il Tronto (prima degli Abruzzi) c’è un il “potacchio”, derivante dal francese “potage”, che in quest’area non designa una zuppa bensì un intingolo ristretto maritato a stoccafisso, pollo o

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coniglio. La cucina Anconetana e quella Maceratese esprimono il piatto unificante la regione: i vincisgrassi.

Coniglio (o lepre) in porchetta per Raffaello

Raffaello e la Fornarina

Lepre

Per offrirvi uno spunto culinario legato ai luoghi ed al tempo di Raffaello, eccovi un'antichissima ricetta, rintracciabile nei numerosi banchetti di palazzo offerti dal Duca d’Urbino, ai quali erano invitati conti, marchesi e principi forestieri. Se opterete per degustare una lepre anziché un coniglio, la preparazione si diversificherà per la marinatura che permetterà di togliere il sapore di selvatico alla lepre. Prendete l’animale, lavatelo, pulitelo delle interiora, tenendo da parte il fegato, asciugatelo e massaggiatelo con sale e pepe. Nel frattempo, fate un battuto con pancetta, prosciutto e salame, che passerete in padella con un po’ d’olio. Ultimate il ripieno, unendovi del finocchio selvatico e il fegato tritato finemente. Riprendete l’animale, spalmatelo all’interno con dello strutto e farcitelo con il composto. Per infondere ancor più sapore alla porchetta, introducetevi una fetta di pancetta nella quale avrete racchiuso del finocchio e alcuni spicchi d'aglio. Prima di mettere in forno già caldo, cucite i lembi dell’animale, e ponetelo in una teglia irrorandolo con olio, vino ed acqua. Durante la cottura rigirate l’arrosto e bagnatelo con il suo fondo. Prima di servire la portata, liberatela dello spago e tagliatela in pezzi. P.S. Marinatura della lepre Lavatela, asciugatela e ponetela in una terrina molto capace. Cospargetela con un cucchiaio di sale e versatevi sopra del vino rosso quasi a ricoprirla. Lasciate marinare, se avete tempo, tutta la notte.

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Beccute di Giacomo Leopardi

Giacomo Leopardi

Beccute

Farina gialla – pinoli – uva sultanina – zucchero –olio d’oliva – sale – pepe Preparazione Versate sulla spianatoia della farina gialla e mescolatela con pinoli, uva sultanina ammorbidita in acqua tiepida e strizzata, zucchero, olio d’oliva, sale e pepe. Aggiungete acqua calda versandola poco a poco, fino ad ottenere un composto morbido. Divide la pasta in pagnottelle della forma che preferite (a fuso o rotonda), adagiatele su una teglia unta e passatele in forno.

Vincisgrassi marchigiani

vincisgrassi

I “vincisgrassi”, descritti come “princisgras” per la prima volta da Antonio Nebbia nel “Il Cuoco Maceratese” (1783), secondo una leggenda marchigiana dovrebbero il loro nome al principe Windisch-Graetz che li “sublimò” nel 1799 quando arrivò a capo dell’esercito austriaco per strappare Ancona alle armate napoleoniche. Una ricetta originale è impossibile da definire, perché ogni marchigiano ha introdotto personalissime variazioni, che però non hanno alterato l’armonia dei sapori di questa pasta al forno. Preparazione ragù Fare rosolare nel coccio un battuto di pancetta e prosciutto grasso, addizionare poi un trito di cipolla, aglio, sedano, carota che dovranno appassire lentamente con aggiunta di piccole spruzzate di vino bianco secco. Aggiungere rigaglie di pollo, passato di pomodoro, sale, pepe, e lasciar sobbollire questo sugo per almeno due ore. Preparazione pasta Fare una sfoglia sottile con farina e uova. Tagliare delle larghe lasagne della grandezza di circa un palmo della mano,

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lessarle un pò alla volta in abbondante acqua salata, e a metà cottura scolarle, passarle in acqua fredda, e adagiarle ad asciugare su un canovaccio. Ricetta In una pirofila da forno bagnata con il ragù, adagiare uno strato di pasta alternato ad uno strato di sugo spolverato di parmigiano. Ripetere l’intera operazione più volte, chiudendo con un ultimo strato di ragù abbondante. Coprire la pietanza con una finissima besciamella insaporita. È consigliato preparare i vincisgrassi nel tegame con largo anticipo, perché tutti i sapori si possano ben amalgamare. Per completare la realizzazione e la gratinatura della ricetta, passare la pirofila in forno medio per quarantacinque minuti.

EMILIA ROMAGNA la doppia

L’Emilia Romagna è composta da due regioni confinanti che hanno avuto storie diverse fra loro. Nel 1860 l'Emilia comprendente le città di Modena, Reggio, Parma e Piacenza fu annessa al Regno d'Italia. I confini amministrativi della regione vennero ampliati tanto da comprendere le città di Bologna, Ferrara e l’intera Romagna. Le due zone hanno avuto destini e culture assai diverse, tanto da caratterizzarne anche l'arte della cucina. Emilia La gastronomia emiliana è opulenta, solida, saporita e condita, ed è verosimilmente dalla tradizione cinque-seicentesca che ha ereditato questi caratteri, per i quali tutt'oggi Bologna viene chiamata "la grassa". Nella complessa storia della regione la vita delle corti ha certo avuto molta influenza, e lo dimostra la ricchezza delle ricette proposte a partire da M° Martino per proseguire con Messisbugo e

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Vincenzo Tanara. Fra gli autori dell'arte della cucina ricordiamo anche l'Artusi che nel suo “La scienza in cucina…” afferma: «Quando incontrate la cucina emiliana, fate una riverenza, perché se lamerita». Amabili e gaudenti gli emiliani sono da sempre cultori della cucina, mangiano bene e discutono di cibo con formidabile passione. Tre i protagonisti di questa gastronomia: formaggio Parmigiano Reggiano, paste all’uovo ripiene e non, lavorazione dei salumi e gnocco fritto. Leggi news Isabella d'Este Romagna I romagnoli sono da sempre cultori della cucina, anche se negli antichi ricettari il cibo di quest’area quasi non compare, tranne eccezioni come i cappelletti, probabilmente perché mancarono i cuochi delle grandi famiglie nobili qui sostituite dal potere della Chiesa. Un emblema della Romagna, quasi un simbolo conosciuto ormai ovunque è la piadina, che in questa terra non è solo un cibo, con gli oltre mille chioschi sparsi lungo la costa, ma è un vero e proprio fenomeno di costume. La realtà geografica e la storia hanno determinato una gastronomia che qui si può suddividere in tre settori: quello marino, quello delle campagne e quello delle carni. La cucina dimare è legata alla pescosità dell’Adriatico, ricco soprattutto di pesce azzurro (cucinato alla brace o fritto), e nei tratti di costa rocciosa, cozze, vongole e altri molluschi. Ortaggi e frutta si distinguono nelle preparazioni dei condimenti spesso a base di scalogno, zucchini, cipolle, melanzane, pomodori e peperoni (con cui si realizza il caratteristico purè). L'opulenza delle carni ha origine nell'ambito della cucina risalente al dominio bizantino e delle Signorie, ricordiamo soprattutto quelle: di maiale, di bovino (razza romagnola), e da cortile cucinate in forno con abbondante usodi limone e di rosmarino. Dolci regionali I capoluoghi emiliano romagnoli mantengono viva la tradizione delle corti, si pensi al Pan Speziale o Certosino, alla Zuppa

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Inglese e alla Spongata. Nei centri minori risaltano invece i dolci della tradizione contadina: in pianura le ciambelle lievitate e la torta di riso; in montagna i dolci preparati con la farina di castagne e la ricotta.

Brodetto della costa di Romagna

Preparare un trito con aglio, cipolla e prezzemolo, metterlo inuna casseruola con abbondante olio d’oliva, e farlo cuocere a fuoco basso, finche sia ben appassito ma non colorito. Aggiungere sugo di pomodoro, vino bianco secco, sale e pepe, e continuare la cottura incoperchiata per venti minuti. Mettere nel tegame vari pesci a piacere gia puliti (tagliati a pezzetti se di grosse dimensioni) come: seppia, scorfano, triglia, rombo, cefalo, scampo, palombo, nasello, totano, spigola, e razza. Ricoprire e cuocere a fuoco moderato per venti minuti, calcolandoli da quando è stato messo il pesce più morbido. Servire il brodetto accompagnato con pane abbrustolito.

LIGURIA aromatica

Le ricette liguri sono saporite, elaborate e in genere poco dispendiose. Molto diffuso è l'uso delle piante selvatiche che per l'abbondanza delle piogge crescono rigogliose, e la borragine ancora oggi in molte zone sostituisce gli spinaci nel ripieno dei tortelli e della "torta Pasqualina”. Fra le piante aromatiche il basilico è dominante, usato in salse preparate nel mortaio d’influenza saracena, come il pesto alla genovese. I ripieni caratterizzano da sempre questa gastronomia, dove gli ortaggi vengono mescolati a formaggi, uova, pinoli,

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pistacchi ecc. Nella storia Genova città-porto, fu un crocevia di culture, arti e buon mangiare. I commerci attivati dalla Repubblica Marinara introdussero l'uso di alimenti come lo stoccafisso ed il baccalà, prodotti in paesi lontani ma rielaborati per far nascere la zuppa detta "buridda". Il Rinascimento è certamente un periodo di grande splendore per la cucina genovese, nella città si trovavano botteghe d’ogni sorta, ed i suoi cuochi erano tra i più famosi del tempo, contesi dalle varie signorie. Ancora oggi sono tanti gli elementi comuni fra cucina ligure e catalana, provenzale, portoghese, generati proprio in quell'epoca. L'autentica cucina ligure iniziò comunque a svilupparsi dopo il '700: abbastanza priva dalle massicce influenze francesi, riusci a mantenere un suo preciso carattere mediterraneo, e fu allora che fece la sua comparsa il pomodoro. Questa gastronomia è ricordata in molti trattati antichi, come nel “La nuova cucina economica” di Vincenzo Agnoletti, e tante sono le ricette "di terra e di mare" sopravvissute attraverso i secoli, come la farinata, o la trippa alla genovese (più delicata rispetto a quella di altre regioni perché arricchita di funghi e pinoli). Insomma, piatti creati utilizzando elementi molto vari, conditi spesso con olio d'oliva, identificanti la storia e la posizione geografica di questa terra, che grazie ad un microclima umido ed eccezionale per il nord Italia, ha una varietà di ortaggi e frutti tale da racchiudere la quasi totalità del coltivabile.

Preboggion

Lavare bene e tagliare a pezzi del cavolo nero e un mazzo di preboggion, composto di bietole, cavolo cappuccio e prezzemolo. Mettere il tutto a scottare in acqua bollente e salata, avendo cura di non fare una purea delle verdure. Intanto in un mortaio preparare un pesto con aglio, basilico, burro, sale e dell’acqua di cottura.

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Prima di aggiungere il pesto alla zuppa, controllare che abbia una consistenza molto densa. Servire il preboggion ben caldo, eventualmente accompagnato da formaggio grattugiato (che sicuramente non era previsto nel piatto di Goffredo di Buglione).

PIEMONTE preziosa

Se è vero che la cucina piemontese è fra le più varie e raffinate del nostro paese, è anche vero che molte delle sue ricette sono d’ispirazione contadina. I piemontesi, per loro natura sobri ma altresì amanti della buona tavola, hanno menùricchi e articolati. Caratteristiche salienti: l’utilizzo abbondante di burro e lardo (soprattutto nel passato), il consumo di verdure crude, l'uso del sanato (carne di vitello dipochi mesi nutrito con solo latte), la scelta dei formaggi, la presenza estesa dei tartufi, la preparazione dei grissini e l'impiego attento dell'aglio (bagna cauda). Un posto d’onore nell’alimentazione del Piemonte è occupato dal riso, che ha in quest'area la sua zona di maggior produzione europea. Nel Vercellese, la bonifica delle terre paludose fatta dai monaci cistercensi alla fine del medioevo, portò alla coltivazione intensiva del riso, e i conseguenti flussi migratori dei lavoratori ne promossero il consumo in tutta la regione. Pur conservando un’autenticità, la cucina piemontese dovette fare i conti nel ‘700 con l'influenza della confinante Francia. Ne è testimonianza il trattato settecentesco di anonimo: "Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi”. Fondamentale nella pubblicistica culinaria dell'Ottocento è invece il "Trattato di cucina pasticcera" del piemontese

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Giovanni Vialardi. L’opera fornisce un ricco repertorio di ricette italiane e non, tramandandoci alcune preparazioni fondamentali della cucina torinese e piemontese. Nel trattato del Vialardi sono ricordate le "tomatiche" (pomodori) farcite col riso alla novarese, la "carlotte di mele o pere" (dolce di frutta cotta) il cui nome deriva dal francesecharlotte, e le “castagne confettate” (marrons glacés). Diverse sono le preparazioni denominate "alla piemontese". Quella generica identifica una ricetta caratterizzata dalla presenza dei tartufi bianchi, poi c'è la farinata, il "bollito" (carni di manzo e vitello), il fritto (antipasto con pesciolini di fiume, frattaglie, frittelle di mele, semolino dolce e amaretti). Nel Piemonte sono celebri anche i dolci: dal bonet al castagnaccio al gianduiotto. Centro creativo di questa produzione è Torino, con i tanti caffè storici, dove le vetrine traboccano di savoiardi, krumiri, amaretti, praline, marrons glacés, cioccolatini e caramelle che si possono accompagnare ad uno zabaglione o ad un “bicerin” (caffè, latte e cioccolato), definito "indimenticabile" da Dumas nel 1852.

Bagna Cauda (o caoda)

1) La Bagna Cauda si mangia collettivamente e fraternamente. E' contenuta in un unico diàn (tegame di coccio) sovrapposto alla scionfetta (scaldino di terracotta ripieno di brace). Tutti devono intingere il loro pezzo di verdura in quell'unico diàn, in allegra confusione e soprattutto senza precedenze o soggezioni di sorta 2) Per la preparazione della Bagna Cauda si devono usare solo acciughe "rosse di Spagna" ben mature e stagionate e olio extravergine. 3) Nella Bagna Cauda si intingono prevalentemente cardi Gobbi di Nizza e peperoni Quadrati d'Asti, freschi. Tutte le altre verdure cotte o crude non sono necessarie, ma rappresentano un semplice "ornamento": foglie di cavolo crudo o di indivia, cipollotti freschi macerati nel Barbera, tuberi di topinambur, barbabietola rossa cotta al forno,

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rape, cimette di cavolfiori e patatine lessate etc. 4) La padrona di casa deve preparare le verdure in modo che il commensale le trovi già pronte da intingere: i cardi privati dei filamenti e tagliati a toccotti, i peperoni presentati in falde etc. 5) Il tragitto della forchetta dal diàn alla bocca del commensale deve essere compiuto con l'ausilio di un bel pezzo di pane che raccolga l'eventuale sgocciolamento. 6) E' usanza comune terminare la Bagna Cauda strapazzando qualche uovo fresco negli ultimi residui di salsa contenuti nel diàn.

Uova alla Bela Rosin per Vittorio Emanuele II

Vittorio Emanuele II e Rosina

Sono molti i piatti della cucina piemontese che portano dei nomi in qualche modo legati alla celebre storia d'amore fra Vittorio Emanuele II e la sua amante, la contessa di Mirafiori. Il più noto è costituito dalle "uova alla Bela Rosin". La preparazione è molto semplice, basta infatti tritare delle uova sode e servirle con prezzemolo ed olio.

Agnolotti alla Cavour

Camillo Benso Conte di Cavour

Per la pasta Preparare una sfoglia con farina, uova, sale e olio d’oliva. Per il ripieno Spellate una salsiccia, sminuzzatela e fatela scottare in un tegame affinché avrà perso il suo grasso. Lavate accuratamente del cervello, liberatelo della pellicola sanguigna che lo ricopre, e fatelo insaporire a pezzettini in una grossa noce di burro. Tritate finemente del vitello arrostito e stufato di manzo;

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trasferite il trito in una terrina, unitevi la salsiccia sminuzzata, il cervello, delle uova, noce moscata grattugiata, sale e grana in quantità sufficiente ad ottenere un impasto compatto. In acqua bollente salata, sbollentate delle foglie di scarola, scolatele, strizzatele e tritatele finemente, unendole al ripieno. Coprite e lasciate riposare. Riprendete la pasta, stendetela con il matterello a sfoglia sottile. Dividete il ripieno in palline che distribuirete su una metà della sfoglia distanziate tre dita le une dalle altre. Ricoprite con l’altra metà della sfoglia premendo con le dita intorno ai ripieni e, utilizzando l’apposita rotella tagliate degli agnolotti quadrati o rotondi.

CALABRIA sacrale

In età storica la Calabria fu centro di fiorente civiltà essendo terra di immigrazione ellenica, tanto da essere denominata Magna Grecia. Il cibo dei calabresi è sostanzialmente quello che era una volta, determinato dagli usi, dalle credenze e dalla storia. Non poche ricette risalgono agli albori della civiltà della tavola mediterranea, ispirata alle usanze di Greci e dei Latini, mentre altre sono state introdotte dagli Arabi, dai Normanni, dagli Spagnoli, dai Francesi. Nella colonia achea di “Sybaris” (Sibari) dove gli abitanti vivevano nel lusso più raffinato, fra i cibi prediletti si ricordano i “laganon”, ovvero larghe tagliatelle, di cui diede più tardi testimonianza Apicio. Probabilmente qui furono introdotti i “makaria”, specie di gnocchetti cilindrici, cibo rituale greco, da cui forse derivano

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i maccheroni. Mentre è sicuramente arabo il nome della “mustica”, appetitosissimo cibo che deriva dalla pratica di mettere le acciughe appena nate sott'olio (dall'epoca moderna si è aggiunto il peperoncino). Si tratta di un cibo conservato, dunque di una risorsa vitale per i borghi dell'Appennino, dove la disponibilità di provviste non deperibili era fino a ieri l'unica ricchezza desiderata. Diceva una vecchia canzone popolare: "Amaru chi lu puorco non ammazza", infelice chi non ha maiali da ammazzare, perchè insaccati, sugna, formaggi, melanzane sott'olio e pomodori seccati erano per la gente del Sud la garanzia di sopravvivere nei periodi, non infrequenti, di carestia. C'è nel modo di alimentarsi dei calabresi qualcosa di sacro e d’antico, l'osservanza di regole di comportamento che vengono dai secoli. Si direbbe che tra la Sila e lo Stretto si avvertisse più che altrove la connessione tra le esigenze della nutrizione e quelle dello spirito: ogni festa religiosa aveva in Calabria il suo cibo di devozione, ogni evento della vita familiare il suo adempimento gastronomico. Era regola che per Natale si dovessero mettere in tavola tredici portate e che lo stesso si dovesse fare per l'Epifania; le feste di Carnevale richiedevano un menù fondato su maccheroni e carne di maiale, la Pasqua non poteva celebrarsi senza i pani rituali e l'arrosto di agnello. Per l'Ascensione erano di rigore i tagliolini al latte, per San Rocco i dolci raffiguranti le parti del corpo che potevano guarire con l'intercessione del taumaturgo. Il rigore di questo calendario si è affievolito col tempo, lasciando però tracce visibili nel repertorio alimentare della regione. Nell'area trovarono un habitat ideale le melanzane (violette lunghe), preparate in molti modi, dall’agrodolce al funghetto. Anche la loro preparazione italiana più celebre, detta «alla parmigiana», nacque nel sud e non a Parma, che diede solamente il nome alla ricetta per l'abbondante dose di formaggio usato (in Calabria il pecorino). Tutti i principali ingredienti che costituiscono la base della cucina dell’antico “Brutium” (nome latino della Calabria) verdure, pasta, derivati del maiale, pesce sulla costa, sono

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personalizzati dal contributo del peperoncino e dell'olio d’oliva, presenti praticamente in quasi tutti i piatti dell'area.

Maccarruni a ra tamarra calabrese

In un tegame di terracotta preparare la salsa soffriggendo con olio d’oliva una cipolla finemente affetta e dell’aglio (da eliminare appena dorato). Unirvi dei pezzetti di pomodori pelati (privi dei semi e del loro succo) e funghi porcini sott’olio, olive nere snocciolate tagliate a metà, peperoncino rosso tagliuzzato, prezzemolo tritato, semi di finocchio, e capocollo a striscioline. Salare e cuocere a fuoco baso con il tegame coperto. Cuocere i maccarruni al dente in acqua salata. Grattugiare sul fondo di un vassoio di portata abbondante formaggio pecorino o ricotta affumicata, versarvi sopra la pasta ben scolata e condire con la salsa.

Mustica calabrese

Si tratta di una specialità tipica della costa ionica calabrese. La materia prima è data dai bianchetti, le alici neonate, che i calabresi trattano con una procedura particolarissima: prima li distendono al sole su tavole di legno, coperti di peperoncino in polvere, e poi quando sono ben secchi, li mettono in conserva in barattoli di vetro coperti d'olio. La mustica, detta anche rosamarina, può essere degustata come antipasto piccante spalmata su fettine di pane tostato.