Relazione krogh Trust fondo parimoniane riciclaggio

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MARCO KROGH NOTAIO Convegno su Fondi patrimoniali e Trusts Camera Internazionale della Regione Campania con il patrocinio dell'Ordine degli Avvocati di Napoli - sede UIF (Unione Italiana Forense) Palazzo di Giustizia Napoli, piazza Cenni, 19 dicembre 2012 - ore 10,30 - 14,15 MARCO KROGH SOMMARIO: 1. QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO DEI LEGAMI TRA LOTTA AL RICICLAGGIO, LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E TRUSTS, FONDI PATRIMONIALI E PATRIMONI SEPARATI - 2. GLI OBBLIGHI ANTIRICICLAGGIO IN RELAZIONE AI TRUSTS - 2.1. DEFINIZIONE DI TRUST. CRITERI GENERALI PER COMMISURARE L’ADEGUATA VERIFICA AL RISCHIO - 2.2. OBBLIGO DI ADEGUATA VERIFICA - 2.2.1. IL TITOLARE EFFETTIVO - 2.3. OBBLIGO DI OTTENERE INFORMAZIONI SULLA NATURA E LO SCOPO DEL TRUST - 2.4 OBBLIGO DI ASTENSIONE - 2.4. OBBLIGO DI REGISTRAZIONE E SEGNALAZIONE - 3. ATTI SIMULATI E FRAUDOLENTI DIRETTI A SOTTRARRE BENI ALLA RISCOSSIONE - 3.1 IL FONDO PATRIMONIALE - 3.2 EFFETTO SEGREGATIVO E QUALIFICAZIONE “FRAUDOLENTA” DELL’ATTO - 3.3 OPPONIBILITA’ DEL FONDO PATRIMONIALE ALL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA - 3.4 RIFLESSIONI CONCLUSIVE oooO()Oooo 1. QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO DEI LEGAMI TRA LOTTA AL RICICLAGGIO, LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E TRUSTS, FONDI PATRIMONIALI E PATRIMONI SEPARATI Il III sottotema della giornata è dedicato alla tutela penale e civile dei creditori nella comparazione dell’ordinamento italiano con gli altri ordinamenti europei e sollecita un’analisi sia degli strumenti che l’ordinamento assicura ai soggetti che in qualche modo possano subire pregiudizio dall’effetto segregativo proprio dei patrimoni di destinazione sia degli strumenti che l’ordinamento pone a presidio di un utilizzo strumentale dei patrimoni di destinazione per la realizzazione di finalità ulteriori ed illecite rispetto a quelle dichiarate nell’atto di costituzione. Nella prima area vengono in considerazione prevalentemente interessi di natura privatistica; compito dell’interprete è individuare e bilanciare, di volta in volta, questi interessi all’interno di un’ideale scala di valori e verificare se per taluni di essi ci sia un link di rinvio a valori costituzionali che gli assicuri una tutela rinforzata. Nella seconda area vengono in considerazione interessi generali di tutela dell’ordine pubblico;e compito dell’interprete è individuare i limiti che l’ordinamento pone all’autonomia privata. 1

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Convegno su Fondi patrimoniali e Trusts, organizzato dalla Camera Internazionale della Regione Campania con il patrocinio dell'Ordine degli Avvocati di Napoli - sede UIF (Unione Italiana Forense)

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MARCO KROGHNOTAIO

Convegno su Fondi patrimoniali e Trusts

Camera Internazionale della Regione Campania con il patrocinio dell'Ordine degli Avvocati di Napoli - sede UIF (Unione Italiana Forense)

Palazzo di Giustizia Napoli, piazza Cenni, 19 dicembre 2012 - ore 10,30 - 14,15

MARCO KROGH

SOMMARIO: 1. QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO DEI LEGAMI TRA LOTTA AL RICICLAGGIO, LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E TRUSTS, FONDI PATRIMONIALI E PATRIMONI SEPARATI - 2. GLI OBBLIGHI ANTIRICICLAGGIO IN RELAZIONE AI TRUSTS - 2.1. DEFINIZIONE DI TRUST. CRITERI GENERALI PER COMMISURARE L’ADEGUATA VERIFICA AL RISCHIO - 2.2. OBBLIGO DI ADEGUATA VERIFICA - 2.2.1. IL TITOLARE EFFETTIVO - 2.3. OBBLIGO DI OTTENERE INFORMAZIONI SULLA NATURA E LO SCOPO DEL TRUST - 2.4 OBBLIGO DI ASTENSIONE - 2.4. OBBLIGO DI REGISTRAZIONE E SEGNALAZIONE - 3. ATTI SIMULATI E FRAUDOLENTI DIRETTI A SOTTRARRE BENI ALLA RISCOSSIONE - 3.1 IL FONDO PATRIMONIALE - 3.2 EFFETTO SEGREGATIVO E QUALIFICAZIONE “FRAUDOLENTA” DELL’ATTO - 3.3 OPPONIBILITA’ DEL FONDO PATRIMONIALE ALL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA - 3.4 RIFLESSIONI CONCLUSIVE

oooO()Oooo

1. QUADRO NORMATIVO DI RIFERIMENTO DEI LEGAMI TRA LOTTA AL RICICLAGGIO, LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E TRUSTS, FONDI PATRIMONIALI E PATRIMONI SEPARATI

Il III sottotema della giornata è dedicato alla tutela penale e civile dei creditori nella comparazione dell’ordinamento italiano con gli altri ordinamenti europei e sollecita un’analisi sia degli strumenti che l’ordinamento assicura ai soggetti che in qualche modo possano subire pregiudizio dall’effetto segregativo proprio dei patrimoni di destinazione sia degli strumenti che l’ordinamento pone a presidio di un utilizzo strumentale dei patrimoni di destinazione per la realizzazione di finalità ulteriori ed illecite rispetto a quelle dichiarate nell’atto di costituzione.

Nella prima area vengono in considerazione prevalentemente interessi di natura privatistica; compito dell’interprete è individuare e bilanciare, di volta in volta, questi interessi all’interno di un’ideale scala di valori e verificare se per taluni di essi ci sia un link di rinvio a valori costituzionali che gli assicuri una tutela rinforzata. Nella seconda area vengono in considerazione interessi generali di tutela dell’ordine pubblico;e compito dell’interprete è individuare i limiti che l’ordinamento pone all’autonomia privata.

Intendo soffermarmi su questo secondo aspetto ed offrire qualche spunto di riflessione sulle interferenza tra gli istituti fin qui esaminati (trust, fondo patrimoniale, atto di destinazione) e le norme dirette a contrastare il riciclaggio e l’evasione/elusione fiscale.

La particolare attenzione dedicata ai patrimoni di destinazione da parte delle Istituzioni impegnate nella lotta al riciclaggio ed all’evasione fiscale è giustificata da due elementi che caratterizzano in generale i patrimoni di destinazione, uno, sempre presente, è il cd. effetto segregativo proprio di tutti i patrimoni separati, l’altro, eventuale, è il disallineamento tra il soggetto che appare titolare di determinati beni ed il soggetto o i soggetti che traggono utilità o vantaggi da quei beni e che, in buona sostanza, possono definirsi i titolari effettivi secondo la definizione che ritroviamo nella normativa antiriciclaggio.

Il cd. effetto segregativo è di maggior interesse nell’ambito delle norme di contrasto all’evasione fiscale perché, almeno in linea astratta, impedisce all’Amministrazione finanziaria

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di realizzare le proprie pretese tributarie in ragione dell’opponibilità del vincolo di destinazione che deriva dalla separazione dei patrimoni.

Il disallineamento tra intestatario dei beni e titolare effettivo è invece una vicenda che interessa sia l’area dell’antiriciclaggio, sia quella dei presidi antievasione. Invero, laddove il patrimonio separato (si pensi al trust) si pone come mezzo per dissociare titolarità formale e sostanziale al fine di opacizzare il destinatario ultimo delle utilità prodotte da un determinato bene è strumento che può, in astratto, essere utilizzato da chi non può, non vuole o non ha convenienza a comparire come effettivo titolare di determinati beni o attività non solo per scopi leciti ma anche per finalità di evasione/elusione fiscale o per altre finalità illecite.

La non coincidenza tra titolarità formale e titolarità sostanziale tipica del trust rappresenta un aspetto di particolare criticità in considerazione dell’ampia gamma di possibilità offerte da questo schema negoziale per conferire ai rapporti giuridici intercorrenti tra i diversi soggetti partecipi del trust (settlor o disponente, trustee o fiduciario, beneficiario, protector o guardiano) un grado più o meno elevato di segretezza.

Invero, nell’ordinamento italiano sebbene l’atto istitutivo del trust deve rivestire la forma scritta non è soggetto ad alcuna forma di pubblicità; peraltro, è possibile che ad un atto istitutivo di un trust con forma notarile seguano ulteriori atti modificativi o integrativi destinati a restare conosciuti dai soli sottoscrittori. A ben vedere, l’interesse del disponente (cd. settlor), dei beneficiari e del trustee a dare pubblicità al trust è strumentale rispetto all’interesse a rendere opponibile ai terzi il trust stesso e, quindi la separazione dei beni intestati al trustee rispetto al restante patrimonio dello stesso, cosicché realizzato questo scopo non c’è nessun interesse da parte dei medesimi soggetti a dare pubblicità al contenuto delle relazioni giuridiche ed economiche tra loro esistenti.

E’ facile comprendere che all’interno di questo schema negoziale è possibile mascherare, per finalità non solo lecite ma anche illecite o di convenienza fiscale o di pregiudizio verso terzi soggetti, all’ombra di un trustee eventuali posizioni giuridiche soggettive sostanziali e, quindi, i cd. titolari effettivi dei beni e delle attività oggetto del trust. Peraltro, non può non considerarsi che spesso la qualifica di trustee è assegnata a società che hanno sede in aree geografiche non dotate di pubblici registri ed inclini a mantenere la massima segretezza sui rapporti intercorrenti con gli altri attori del trust.

Per comprendere meglio il fenomeno può essere utile dare uno sguardo, a titolo di esempio e per approssimazione, alla legislazione sui trusts del Jersey e di Panama (Fonte: Tipologie di Trust nel diritto inglese - Rapporto sull'attività di ricerca, maggio 1999, Vol. I).

La legge del Jersey che regola il trust, con riguardo alla tutela della segretezza, prevede:

che il settlor non venga mai nominato nel contratto costitutivo;

che la proprietà del trust possa essere di ogni tipologia dovunque situata, di qualsiasi diritto o interesse, compresi quelli soggetti a condizione, annullabili o futuri

E’ frequente l'utilizzo di un settlor, per così dire, fittizio a copertura del settlor reale ed è normalmente inserita nello strumento di trust una clausola che permette il trasferimento di ulteriori beni al fiduciario gestore del trust stesso, quali successivi conferimenti a integrazione del fondo del trust. A un trustee, inoltre, non può essere richiesto di divulgare il contenuto di documenti afferenti al trust se tale divulgazione comporta che vengano rese di pubblico dominio anche le deliberazioni prese dal trustee, nell'esercizio delle proprie funzioni e le motivazioni che hanno indotto il trustee a prendere determinate decisioni, nell'esercizio delle proprie funzioni. In presenza di un’area così estesa di segretezza riservata ai propri trust il Jersey non ha potuto fare a meno di emanare due leggi, la DrugTrafficking Offences (Jersey) Law (1988) e the Prevention Terrorism (Jersey) Law 1996 che obbligano le trust companies e le altre istituzioni finanziarie a segnalare ogni transazione che susciti il sospetto di implicazioni con il traffico della droga o con attività di organizzazioni terroristiche.

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Se ci riferiamo alla legislazione panamense sui trust, i fiduciari, le autorità governative e tutte le altre persone che, in virtù della professione che esercitano, ottengono informazioni riguardanti i trust, non debbono rivelare nessuna di tali informazioni e si devono conformare alle disposizioni in tema di segretezza della Repubblica di Panama. E' prevista, come in Svizzera, la responsabilità penale degli impiegati delle banche che forniscano informazioni senza il consenso del cliente. Neanche la Commissione bancaria, quale organo di vigilanza, ha il potere di esaminare conti bancari, valori in custodia, depositi o operazioni senza che ciò sia autorizzato da un ordine del tribunale. A ciò si aggiunga che le banche che custodiscono conti cifrati sono soggette a doveri di riservatezza aggiuntivi. Informazioni privilegiate devono essere comunicate solo al pubblico ministero, ai giudici ed ai magistrati.

Altri esempi di tutela, più o meno estesa, della riservatezza delle posizioni soggettive tipiche dei trusts sono presenti in altre legislazioni straniere. In Italia, c’è traccia dell’interesse delle Istituzioni verso i rischi riciclaggio ed evasione/elusione che possono derivare da un uso strumentale del trust o, più in generale, dei patrimoni separati in più di un provvedimento normativo. Si pensi al D.M. Giustizia 16 aprile 2010 che tra gli indicatori di anomalia indica la “costituzione e/o impiego di trust, nel caso in cui si applichi una normativa propria di Paesi con regime antiriciclaggio non equivalente a quello dei paesi della Comunità europea”, alla Comunicazione UIF del 23 aprile 2012 in cui si richiama l’attenzione da parte dei professionisti verso quei “soggetti caratterizzati da strutture artificiosamente complesse ed opache, volte a rendere molto difficoltosa l’individuazione del titolare effettivo, quali, a titolo esemplificativo, quelli riconducibili a trust, fondazioni, International business company o società fiduciarie estere, specie se costituiti in Paesi o territori a rischio”.

Particolarmente interessante è la precisazione che troviamo nel Comunicato UIF appena citato relativa ai Paesi a rischio: «Per Paesi o territori a rischio» si intendono quelli rilevanti sotto il profilo della prevenzione del riciclaggio, in analogia a quanto previsto dal Provvedimento della Banca d’Italia del 24 agosto 2010, nonché quelli rilevanti sotto il profilo fiscale, individuati con appositi decreti del Ministero dell’Economia e delle Finanze in attuazione del D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917 (T.U.I.R.)”. In buona sostanza, una perfetta sovrapposizione tra black list antiriciclaggio e black list antievasione che rappresenta un peculiarità del nostro ordinamento se è vero che nel sito ufficiale del GAFI/FATF tra le FAQ volte a chiarire i vari aspetti connessi all’antiriciclaggio alla domanda “Do you have a list of countries that are considered low tax jurisdiction or tax shelters? (Esiste un elenco di paesi che possono essere considerati paradisi fiscali?) la risposta è: No, the FATF does not address at all issues related to low tax jurisdiction or tax competition. The FATF mandate focuses only on the fight against laundering of proceeds of crimes and the financing of terrorism (No, il GAFI non affronta le questioni relative alla giurisdizione fiscale o alla concorrenza fiscale. Il mandato del GAFI si concentra unicamente sulla lotta contro il riciclaggio dei proventi di reato e il finanziamento del terrorismo.) La sovrapposizione presente nel nostro ordinamento è giustificata dallo straordinario interesse che ha assunto in Italia la lotta all’evasione fiscale che, come è a tutti noto, occupa uno dei primi posti nell’agenda del governo.

Sulla stessa lunghezza d’onda troviamo il comma 7 ter dell’art. 28 del d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231 (introdotto dal d.l. 31 maggio 2010, n. 78) che dispone “Gli enti e le persone soggetti al presente decreto di cui agli articoli 10, comma 2, ad esclusione della lettera g), 11, 12, 13 e 14, comma 1, lettere a), b) c) ed f), si astengono dall'instaurare un rapporto continuativo, eseguire operazioni o prestazioni professionali ovvero pongono fine al rapporto continuativo o alla prestazione professionale già in essere di cui siano direttamente o indirettamente parte società fiduciarie, trust, società anonime o controllate attraverso azioni al portatore aventi sede nei Paesi individuati dal decreto di cui al comma 7 bis. Tali misure si applicano anche nei confronti delle ulteriori entità giuridiche altrimenti denominate aventi sede nei Paesi sopra individuati di cui non è possibile identificare il titolare effettivo e verificarne l’identità.” Detta disposizione, che introduce una nuova ipotesi di obbligo di astensione per i destinatari della normativa antiriciclaggio, è ancora priva di effetti in quanto non è stata emanata la lista dei Paesi a rischio dal Ministero dell’Economia e Finanze.

Sul versante, invece, del legame tra effetto segregativo e lotta all’evasione/elusione fiscale troviamo traccia delle maggiori criticità nei repertori di giurisprudenza, laddove

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numerose sentenze della Cassazione (ex multis: 16 ottobre 2012 n. 40561) fanno rientrare i fondi patrimoniali nella fattispecie punita dall’art dall’art. 11 comma 1 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 che espressamente dispone: «1. E' punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Se l'ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni».

Questo, in via di approssimazione, è un primo quadro delle norme di riferimento che l’operatore del diritto deve tener presente per assolvere adeguatamente gli obblighi antiriciclaggio e per non incorrere in responsabilità amministrative e penali, laddove si accinga a prestare consulenza, assistenza o a ricevere un atto che rientra nel generale paradigma dei trusts, fondi patrimoniali, atti di destinazione.

Fatta questa premessa di carattere generale è opportuno separare le problematiche che riguardano l’assolvimento degli obblighi antiriciclaggio, che hanno rilevanza prevalentemente amministrativa/preventiva, dalle problematiche legate all’art. 11 del d.lgs. 74/2000 che hanno rilevanza penale e solo marginalmente possono riguardare la normativa antiriciclaggio.

2. GLI OBBLIGHI ANTIRICICLAGGIO IN RELAZIONE AI TRUSTS

I principali obblighi antiriciclaggio che devono essere assolti dai destinatari della normativa antiriciclaggio sono, come è noto:

1. l’obbligo di adeguata verifica che si scompone nei doveri di identificazione del cliente, di identificazione del titolare effettivo, di assunzione di informazioni sullo scopo e natura della prestazione professionale o del rapporto continuativo, di controllo costante nel corso del rapporto continuativo o della prestazione professionale;

2. l’obbligo di astensione;

3. l’obbligo di registrazione che si scompone nell’obbligo di conservazione dei documenti e di registrazione delle informazioni;

4. l’obbligo di segnalazione delle operazioni sospette.

Non ci soffermiamo su quelli che sono i contenuti di carattere generale dei menzionati obblighi volendo circoscrivere ogni indagine esclusivamente al tema del trust e, quindi individuare le criticità relative a questo istituto, in relazione alla normativa antiriciclaggio e circoscrivere il grado di diligenza che deve osservare l’operatore del diritto nello svolgimento dell’attività consulenziale, di assistenza o di ricevimento di un atto istitutivo di un trust .

2.1. DEFINIZIONE DI TRUST. CRITERI GENERALI PER COMMISURARE L’ADEGUATA VERIFICA AL RISCHIO

Va ricordato che il riferimento al trust comprende due negozi giuridici distinti: l’atto istitutivo del trust e l’atto di dotazione del trust. I due negozi, collegati tra loro, possono essere contenuti in un unico documento o in due documenti e possono perfezionarsi in tempio diversi. L’atto istitutivo del trust è normalmente unilaterale ed è posto in essere dal cd. disponente (settlor) che dopo aver individuato lo scopo del trust e, quindi, l’interesse giuridicamente rilevante e meritevole di tutela che legittima la nascita “giuridica” del trust, detta un programma per la realizzazione dello scopo, nominando un trustee che assume la veste di soggetto che fiduciariamente deve porre in essere gli atti e le attività per la realizzazione dello

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scopo ed individua i beneficiari o la categoria di persone che trarranno vantaggio dalla realizzazione dello scopo perseguito dal trust. Soggetto eventuale del trust è il cd. guardiano (protector) con funzioni di controllo e di vigilanza sull’operato del trustee.

La legge italiana non disciplina il trust che ha avuto riconoscimento nel nostro ordinamento in forza della Convenzione dell’Aja del primo luglio 1985, ratificata dallo Stato italiano con la legge n. 364 del 9 ottobre 1989 entrata in vigore il 1 gennaio 1992 che impone il riconoscimento del trust e disciplina la legge applicabile. Nell’atto istitutivo, pertanto è necessario indicare qual è la legge straniera (o le leggi straniere) di riferimento diretta a regolamentare il trust stesso, ad integrazione delle clausole fissate nell’atto istitutivo ed in coerenza con le stesse.

Collegato con l’atto istitutivo del trust è il negozio di dotazione mediante il quale determinati beni e/o attività vengono intestati fiduciariamente al trustee per la realizzazione dello scopo; il collegamento tra i due negozi dà giustificazione causale al trasferimento del bene o dell’attività e realizza il cd. effetto segregativo ossia la separazione dei beni vincolati al trust rispetto agli altri beni del trustee, cosicché le vicende degli uni sono separate dalle vicende degli altri.

Va ricordato, altresì, che il ruolo di trustee può essere affidato sia ad una persona fisica che ad una società che svolge professionalmente la suddetta attività, in questo secondo caso è certamente rilevante l’area geografica di riferimento della società per valutare il grado di trasparenza dei rapporti intercorrenti tra i vari soggetti che partecipano al trust ed ai fini dell’individuazione del o dei cd. titolari effettivi.

L’area geografica di riferimento del cliente o dell’operazione economica da compiere è ritenuta di particolare rilevanza al fine di un corretto approccio basato sul rischio, nell’assolvimento dell’obbligo di adeguata verifica, come prescritto dall’art. 20 del d.lgs. 231 del 2007 che impone di assolvere gli obblighi di adeguata verifica della clientela commisurandoli al rischio associato al tipo di cliente, rapporto continuativo, prestazione professionale, operazione in base ai criteri generali indicati nella norma stessa tra i quali spicca proprio l’area geografica riferibile al cliente o all’operazione da compiere.

L’importanza del criterio dell’area geografica nell’economia della normativa antiriciclaggio è data dal fatto che nella realizzazione di operazioni di riciclaggio potersi avvantaggiare di ordinamenti di Paesi black list che in qualche modo consentono l’opacizzazione di elementi significativi di una transazione finanziaria offre al riciclatore, di fatto, ampie probabilità di successo a dispetto di qualunque rigore normativo prescritto dall’ordinamento interno e dalla comunità internazionale. Il riciclaggio è attività criminale transnazionale per eccellenza che per essere contrastato efficacemente richiede uno sforzo congiunto di tutta la comunità internazionale e la condivisione di uno standard normativo minimo da parte tutti gli Stati membri; l’esistenza di zone geografiche franche rischia di vanificare i migliori propositi di tutti gli altri Stati. Nell’era della globalizzazione è giocoforza che il riciclatore tenderà a sfruttare tutte le opportunità che gli offre il cd. villaggio globale.

Oltre al criterio di riferimento all’area geografica, il destinatario della normativa antiriciclaggio per graduare il grado di diligenza richiesto nell’assolvimento dell’obbligo di adeguata verifica del cliente dovrà tener presente anche la struttura del trust, prestando particolare attenzione ai trust che presentano una struttura complessa tale da rendere difficoltosa l’individuazione del titolare effettivo (cfr. Comunicazione UIF del 23 aprile 2012, per prevenire frodi internazionali).

2.2. OBBLIGO DI ADEGUATA VERIFICA

Individuato il grado diligenza richiesto per assolvere in modo corretto gli obblighi antiriciclaggio, esaminiamo nel dettaglio il contenuto dei singoli obblighi da assolvere.

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Il primo dei doveri antiriciclaggio riguarda l’identificazione del cliente. Tale obbligo non presenta particolarità in relazione al trust, con la precisazione che essendo l’atto istitutivo del trust atto unilaterale l’identificazione sarà effettuata con riguardo al solo disponente (cd. “settlor”); se, al contrario, la prestazione da eseguire riguarderà anche l’atto di dotazione (rectius: trasferimento di beni o attività al trustee) o, comunque, ci si troverà in presenza anche di obblighi che dovranno essere assunti dal trustee, si dovrà procedere ad identificare anche il trustee, in qualità di cliente.

E’ evidente che anche ne casso in cui sia identificato il solo disponente lo stesso dovrà fornire tutte le informazioni utili sul trustee, sui beneficiari e sulle relazioni intercorrenti tra i vari soggetti, allo scopo di consentire l’identificazione del titolare effettivo ed una valutazione, in termini di assenza di finalità illecite, del trust.

2.2.1. IL TITOLARE EFFETTIVO

L’identificazione del cliente costituisce solo il primo step dell’adeguata verifica, il secondo step prevede l’identificazione del titolare effettivo.

L’art. 2, lett. b) dell’allegato tecnico al d.lgs. 231 del 2007 detta disposizioni espresse per individuare il titolare effettivo nel trust (e negli enti o soggetti assimilabili) e prevede:

“Per titolare effettivo s'intende: (…)

b) in caso di entità giuridiche quali le fondazioni e di istituti giuridici quali i trust, che amministrano e distribuiscono fondi:

    1) se i futuri beneficiari sono già stati determinati, la persona fisica o le persone fisiche beneficiarie del 25 per cento o più del patrimonio di un'entità giuridica;

    2) se le persone che beneficiano dell'entità giuridica non sono ancora state determinate, la categoria di persone nel cui interesse principale è istituita o agisce l'entità giuridica;

    3) la persona fisica o le persone fisiche che esercitano un controllo sul 25 per cento o più del patrimonio di un'entità giuridica.”

Dalle suddette disposizioni si evince, innanzitutto, che titolare effettivo dovrà essere necessariamente una persona fisica (salvo, quanto previsto dal n. 2 lett. b), che è possibile che ci siano più titolari effettivi, alcuni che ricoprono la posizione soggettiva di beneficiari, altri quella di controllori del trust.

Le percentuali del 25% fissate nella suddetta disposizione creano una presunzione assoluta di qualifica di “titolare effettivo” cosicché, ad esempio, in presenza di un soggetto al quale spetta quale futuro beneficiario il 25% o più del patrimonio del trust lo stesso sarà da ritenere tout court titolare effettivo.

A differenza di quanto previsto per le società nella lett. a) del medesimo art. 3, per i trusts non sono previsti criteri di ricerca del titolare effettivo, rimessi alla discrezionalità del destinatario della normativa antiriciclaggio, diversi da quello relativo alle percentuali sopra indicate. Invero per le società è previsto che “titolare effettivo è la persona fisica o le persone fisiche che, in ultima istanza, possiedano o controllino un'entità giuridica, attraverso il possesso o il controllo diretto o indiretto di una percentuale sufficiente delle partecipazioni al capitale sociale o dei diritti di voto in seno a tale entità giuridica, anche tramite azioni al portatore, purché non si tratti di una società ammessa alla quotazione su un mercato regolamentato e sottoposta a obblighi di comunicazione conformi alla normativa comunitaria o a standard internazionali equivalenti; tale criterio si ritiene soddisfatto ove la percentuale corrisponda al 25 per cento più uno di partecipazione al capitale sociale”, cosicché la percentuale del 25% si pone come criterio sussidiario fondante una presunzione assoluta di qualificazione della persona fisica che detiene tale percentuale, fermo restando che titolare effettivo potrà essere

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anche soggetto che pur non detenendo detta percentuale di fatto ed in forza di altri rapporti giuridici o economici sia da considerare titolare effettivo; nei trusts, invece, le percentuali normativamente fissate si presentano quale unico criterio ai fini dell’attribuzione della qualifica di titolare effettivo.

La disposizione contenuta nel numero 2 lett. b) del cit. art. 3 appare, come accennato, disomogenea rispetto alla definizione di titolare effettivo. Invero, detta disposizione prevede che “se le persone che beneficiano dell'entità giuridica non sono ancora state determinate, la categoria di persone nel cui interesse principale è istituita o agisce l'entità giuridica”, di conseguenza titolare effettivo, in questo caso non è una o più persone fisiche ma una categoria di soggetti i quali non essendo determinati non potranno che essere identificati genericamente (ad esempio, figli di Tizio, i dieci studenti con i voti più alti studenti nell’anno accademico…, etc).

A norma dell’art. 19 lett. b) del d.lgs. 231 del 2007, l'identificazione del titolare effettivo è effettuata contestualmente all'identificazione del cliente e impone, per le persone giuridiche, i trust e soggetti giuridici analoghi, l'adozione di misure adeguate e commisurate alla situazione di rischio per comprendere la struttura di proprietà e di controllo del cliente. Per identificare e verificare l'identità del titolare effettivo i soggetti destinatari di tale obbligo possono decidere di fare ricorso a pubblici registri, elenchi, atti o documenti conoscibili da chiunque contenenti informazioni sui titolari effettivi, chiedere ai propri clienti i dati pertinenti ovvero ottenere le informazioni in altro modo.

E’ da sottolineare che il riferimento ai registri, elenchi, atti o documenti non è generico ma riguarda esclusivamente quelli pubblici e conoscibili da chiunque, cosicché non potranno essere utilizzate banche dati private o documenti che non hanno le caratteristiche richieste dalla legge. La maggiore criticità è data dai trust che, relativamente ai soggetti potenzialmente qualificabili come titolari effettivi, hanno il loro riferimento in aree geografiche sprovviste di pubblici registri e che consentono di opacizzare i rapporti intercorrenti tra i vari soggetti interessati al trust.

Laddove non sia possibile consultare pubblici registri, ed in tutti i casi in cui il destinatario della normativa antiriciclaggio lo ritenga opportuno, il nominativo del titolare effettivo dovrà essere fornito dal cliente per iscritto, sotto la propria responsabilità, tutte le informazioni necessarie e aggiornate delle quali siano a conoscenza (art. 21, d.lgs. 231/2007).

E’ da sottolineare la precisazione contenuta nella cit. lett. b) dell’art. 19 che impone al destinatario della normativa antiriciclaggio non solo di identificare il titolare effettivo ma anche di adottare misure adeguate e commisurate alla situazione di rischio per comprendere la struttura di proprietà e controllo del cliente: l’uno è strumentale all’altro, eventuali aspetti opaci nella struttura di proprietà o controllo precludono di individuare in modo adeguato il titolare effettivo.

Va segnalato che nella revisione delle Raccomandazioni GAFI del febbraio 2012 e nella Relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio sull’applicazione della direttiva 2005/60/CE (relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo) nel prendere atto della difficoltà di individuare il titolare effettivo in alcune fattispecie c’è un invito agli Stati aderenti ad adottare un sistema normativo che assicuri, da un lato, la pubblicità delle informazioni sul titolare effettivo in pubblici registri, da altro lato, che preveda l’istituzione, per le persone giuridiche ed istituiti assimilati, della figura del cd. fiduciario con il ruolo di detentore delle informazioni sul titolare effettivo da mettere a disposizione dei destinatari della normativa antiriciclaggio.

2.3. OBBLIGO DI OTTENERE INFORMAZIONI SULLA NATURA E LO SCOPO DEL TRUST

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Il terzo step per completare l’adeguata verifica del cliente riguarda l’acquisizione di dati ed informazioni sullo scopo e la natura della prestazione professionale. La disposizione va letta in modo ragionevole e, quindi, nel senso che il destinatario della normativa antiriciclaggio dovrà verificare che il trust non abbia scopi di riciclaggio e che la sua natura (rectius: struttura) non sia congegnata in modo da opacizzare i rapporti economici/finanziari tra i soggetti interessati al trust significativi, come si è detto, nell’economia delle norme antiriciclaggio ed antievasione/antielusione fiscale.

L’attività larvatamente istruttoria chiesta al destinatario della normativa antiriciclaggio non potrà assolutamente assimilarsi ad attività di polizia giudiziaria, dovrà essere limitata, secondo il disposto dell’art. 21 del d.lgs. 231 del 2007, all’acquisizione di informazioni dal cliente e, in ossequio ai principi generali che sorreggono la normativa antiriciclaggio (art. 3 del d.lgs. 231 del 2007), dovrà svolgersi nell’ambito del normale svolgimento della prestazione professionale, secondo i canoni della proporzionalità e della ragionevolezza ed escludendo qualunque attività d’indagine esterna alla prestazione stessa.

2.4 OBBLIGO DI ASTENSIONE

I limiti all’attività istruttoria che i destinatari della normativa antiriciclaggio sono tenuti ad osservare si legano in modo coerente con il disposto dell’art. 23 del d.lgs. 231 del 2007 che disciplina l’obbligo di astensione a carico dei destinatari della normativa antiriciclaggio e dispone: “Quando gli enti o le persone soggetti al presente decreto non sono in grado di rispettare gli obblighi di adeguata verifica della clientela stabiliti dall'articolo 18, comma 1, lettere a), b) e c), non possono instaurare il rapporto continuativo né eseguire operazioni o prestazioni professionali ovvero pongono fine al rapporto continuativo o alla prestazione professionale già in essere e valutano se effettuare una segnalazione alla UIF, a norma del Titolo II, Capo III”.

Orbene, all’esito dell’adeguata verifica laddove non si sia riusciti a raggiungere una ragionevole certezza sull’identità del cliente e del titolare effettivo e sull’assenza di sospetti su un utilizzo strumentale della prestazione professionale per la realizzazione del riciclaggio o del finanziamento del terrorismo, sussisterà l’obbligo di astenersi dall’eseguire la prestazione professionale. Il destinatario della normativa antiriciclaggio valuterà, poi, se effettuare segnalazione all’UIF, che sarà obbligatoria laddove emergano sospetti che la prestazione professionale non eseguita era finalizzata al riciclaggio o al finanziamento del terrorismo.

Per il notaio è prevista una disposizione speciale, contenuta nel 3° comma del cit. art. 23 che prevede “ Nei casi in cui l'astensione non sia possibile in quanto sussiste un obbligo di legge di ricevere l'atto ovvero l'esecuzione dell'operazione per sua natura non possa essere rinviata o l'astensione possa ostacolare le indagini, gli enti e le persone soggetti al presente decreto informano la UIF immediatamente dopo aver eseguito l'operazione”. Il notaio, pertanto, sarà obbligato a ricevere il relativo atto fermo restando l’obbligo di segnalazione dell’operazione all’UIF laddove sussista il sospetto di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo, secondo il paradigma dell’art. 41 del d.lgs. 231 del 2007.

Va sottolineato che la segnalazione all’UIF, in caso di mancato completamento dell’adeguata verifica, non dovrà essere effettuata automaticamente ma, secondo il disposto del 1° comma del cit. art. 23, sarà il destinatario della normativa antiriciclaggio a dover valutare se sussitono i presupposti (rectius: il sospetto di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo) per la segnalazione.

Come già detto in precedenza, la disposizione contenuta nel comma 7 ter dell’art. 28 del d.lgs. 231 del 2007, che prevede l’astensione obbligatoria per le prestazioni professionali di cui siano direttamente o indirettamente parte società fiduciarie, trust, società anonime o controllate attraverso azioni al portatore aventi sede nei Paesi individuati dal decreto di cui al comma 7 bis, allo stato, è ancora priva di effetti in quanto non è stata emanata la lista dei Paesi a rischio dal Ministero dell’Economia e Finanze.

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2.4. OBBLIGO DI REGISTRAZIONE E SEGNALAZIONE

Gli obblighi di registrazione e conservazione non presentano aspetti particolari relativamente all’istituzione di trusts e, quindi, le prestazione professionali di consulenza, di assistenza e di ricevimento dell’atto seguiranno le normali regole generali, come qualunque altra prestazione professionale.

Può essere utile conservare, unitamente ai documenti di rito, traccia scritta dell’iter logico seguito nel valutare l’operazione irrilevante ai fini di una segnalazione all’UIF in tutti i casi in cui è presente una delle anomalie elencate nel D.M. Giustizia 16 aprile 2010.

E’ utile, al riguardo riportare alcuni passi del protocollo operativo n. 6 allegato alla circolare Comando Generale GDF n. 83607 del 19 marzo 2012  (reperibile sul sito: http://www.odcec.mi.it/ordine/iscritti/News/DettaglioNews/12-04-27/2bf1163d-e8b6-4803-b00e-cd67ef18b286.aspx) relativamente all’attività che dovrà essere svolta dall’unità operativa della Guardia di Finanza in caso di ispezione:

“- per l’accertamento dei casi di responsabilità di “primo livello” (omessa segnalazione da parte del professionista direttamente all’UIF o ordine professionale, ovvero da parte del dipendente e/o collaboratore incaricato al titolare), tiene conto delle procedure interne istituite, del contenuto del fascicolo del cliente e delle motivazioni addotte dal soggetto obbligato. In questo senso:

a) viene ricostruito a posteriori, con l’ausilio del professionista, l’iter logico che sottostà alla decisione di inoltrare la segnalazione o di archiviarla, valutandone la coerenza logica; a tal fine, è importante verificare se il soggetto obbligato abbia o meno effettuato nel momento iniziale dell’iter della segnalazione un esame approfondito

- oltre che del profilo oggettivo dell’operazione/prestazione professionale/rapporto continuativo (caratteristiche, entità e natura)

- anche del profilo soggettivo del cliente, sulla sua attività professionale e sulla capacità economica, sul suo consueto “modus operandi”, e quindi se abbia valutato adeguatamente il fattore “conoscenza del cliente”;

• vengono esaminate attentamente le motivazioni eventualmente formalizzate dall’operatore di primo livello rispetto alle operazioni per le quali si è deciso di procedere all’archiviazione;

• viene riscontrato l’utilizzo appropriato degli indicatori di anomalia rispetto al caso esaminato;

- per l’accertamento delle responsabilità di secondo livello (omessa trasmissione da parte del professionista), provvede ad appurare l’esistenza di eventuali profili di omissione colpevole, che sono alla base della commissione dell’illecito in argomento; in particolare, si procede ad accertare:

• la fondatezza degli elementi di anomalia dell’operazione già individuati dal primo livello (dipendente e/o collaboratore);

• la corretta circolazione delle informazioni tra chi propone di segnalare l’operazione come sospetta e chi assume la decisione di non trasmetterla all’Unità di Informazione Finanziaria;

• l’adeguatezza e la completezza dell’istruttoria interna svolta dal professionista quale responsabile di secondo livello, verificando la formalizzazione delle motivazioni poste a base della decisione di non inoltrare la segnalazione all’UIF e l’esistenza di documentazione di supporto. Qualora esistenti, tali motivazioni devono essere riportate nel verbale di ispezione”.

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Il richiamo al D.M. Giustizia 16 aprile 2010 ed alla circolare GdF ci introduce l’ultimo dei principali obblighi antiriciclaggio: l’obbligo di segnalazione disciplinato dall’art. 41 del d.lgs. 231 del 2007 il cui 1° comma dispone: “I soggetti indicati negli articoli 10, comma 2, 11, 12, 13 e 14 inviano alla UIF, una segnalazione di operazione sospetta quando sanno, sospettano o hanno motivi ragionevoli per sospettare che siano in corso o che siano state compiute o tentate operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. Il sospetto è desunto dalle caratteristiche, entità, natura dell'operazione o da qualsivoglia altra circostanza conosciuta in ragione delle funzioni esercitate, tenuto conto anche della capacità economica e dell'attività svolta dal soggetto cui è riferita, in base agli elementi a disposizione dei segnalanti, acquisiti nell'ambito dell'attività svolta ovvero a seguito del conferimento di un incarico.”

Il 2° comma dell’art. 41 dispone che “al fine di agevolare l'individuazione delle operazioni sospette, su proposta della UIF sono emanati e periodicamente aggiornati indicatori di anomalia: (…)

b) per i professionisti di cui all'articolo 12 e per i revisori contabili indicati all'articolo 13, comma 1, lettera b), con decreto del Ministro della giustizia, sentiti gli ordini professionali (…).

Il citato DM Giustizia 16 aprile 2010 è stato emanato in forza della suddetta disposizione e, come già accennato, in tema di trust prevede:

“D. Indicatori di anomalia relativi alla costituzione e alla amministrazione di imprese, società, trust ed enti analoghi:

(…) 15.2. Costituzione e/o impiego di trust, nel caso in cui si applichi una normativa propria di Paesi con regime antiriciclaggio non equivalente a quello dei paesi della Comunità europea.

Va ricordato che, come ribadito nel suddetto D.M., la mera ricorrenza di operazioni o comportamenti descritti in uno o più indicatori di anomalia non è motivo di per sé sufficiente per l'individuazione e la segnalazione di operazioni sospette, per le quali è necessario valutare in concreto la rilevanza dei comportamenti della clientela.

In buona sostanza anomalia non equivale a sospetto. Anomalia è un elemento che, secondo l’id quod plerumque accidit, non ricorre normalmente nello schema astratto della prestazione professionale da eseguire. Il sospetto, invece, presuppone un giudizio diagnostico in ordine alla strumentalizzazione della prestazione professionale da svolgere per finalità di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo. Il sospetto dovrà, in altri termini, essere apprezzato sulla base di una valutazione probabilistica da parte del destinatario della normativa antiriciclaggio delle finalità illecite che il cliente intende perseguire.

Coerentemente con le finalità della normativa antiriciclaggio la percentuale di probabilità sarà tanto più alta quanto più elevato sarà il grado di opacità dei rapporti intercorrenti tra i vari soggetti interessati al trust (disponente, trustee, beneficiari, protector) e delle transazioni finanziarie intercorrenti tra gli stessi.

Il riferimento contenuto nel citato D.M. relativo al rinvio a normativa propria di Paesi con regime antiriciclaggio non equivalente è di dubbia utilità, tenuto conto che l’elemento di rischio non può essere determinato dall’essere la normativa di rinvio del trust dettata da un Paese black list, ma eventualmente dall’essere le posizioni soggettive significative del trust riferibili a Paesi black list. Un trust interno (legittimo secondo la prevalente giurisprudenza, cfr.: Corte di Cassazione, sezione VI penale, sentenza 18 dicembre 2004) in cui tutti i soggetti sono residenti in Italia ed i beni ed attività sono in Italia non sarà certamente anomalo per il solo che per la sua regolamentazione il disponente abbia fatto riferimento ad una legislazione emanata da un paese black list.

Diversa valutazione andrà compiuta qualora la normativa di rinvio consenta in qualche modo di opacizzare i rapporti giuridici o finanziari tra i vari soggetti interessati dal trust in una fase successiva all’istituzione del trust stesso.

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Sebbene non rientri nell’area delle problematiche antiriciclaggio, un cenno merita infine la circolare 61/E del 27 dicembre 2010 dell’Agenzia delle Entrate che sancisce l’inesistenza ai fini fiscali di determinati trust in quanto per presunzione assoluta fittizi (come anche precisato nella circolare n. 43/E del 10 ottobre 2009) e, precisamente le seguenti tipologie di trust:

trust che il disponente (o il beneficiario) può far cessare liberamente in ogni momento, generalmente a proprio vantaggio o anche a vantaggio di terzi;

trust in cui il disponente è titolare del potere di designare in qualsiasi momento sé stesso come beneficiario;

trust in cui il disponente (o il beneficiario) risulti, dall’atto istitutivo ovvero da altri elementi di fatto, titolare di poteri in forza dell’atto istitutivo, in conseguenza dei quali il trustee, pur dotato di poteri discrezionali nella gestione ed amministrazione del trust, non può esercitarli senza il suo consenso;

trust in cui il disponente è titolare del potere di porre termine anticipatamente al trust, designando sé stesso e/o altri come beneficiari (cosiddetto “trust a termine”);

trust in cui il beneficiario ha diritto di ricevere attribuzioni di patrimonio dal trustee;

trust in cui è previsto che il trustee debba tener conto delle indicazioni fornite dal disponente in relazione alla gestione del patrimonio e del reddito da questo generato;

trust in cui il disponente può modificare nel corso della vita del trust i beneficiari;

trust in cui il disponente ha la facoltà di attribuire redditi e beni del trust o concedere prestiti a soggetti dallo stesso individuati;

ogni altra ipotesi in cui potere gestionale e dispositivo del trustee, così come individuato dal regolamento del trust o dalla legge, risulti in qualche modo limitato o anche semplicemente condizionato dalla volontà del disponente e/o dei beneficiari.

L’elemento comune alle fattispecie individuate dall’Amministrazione Finanziaria per ritenere i trust “tam quam non esset” ai fini fiscali è la conservazione di un qualunque potere di controllo da parte del disponente sul trustee, ritenendo che anche un sia pur minimo potere diretto o indiretto di controllo che permanga al disponente sul trustee rende, ai fini fiscali, il trust elusivo e, quindi, fittizio. Una posizione così tranchant non poteva non suscitare più di un dubbio da parte degli studiosi del trust (cfr. D. Muritano, Le condizioni dell’Agenzia delle Entrate per la rilevanza fiscale dei trust interni: osservazioni critiche, Trust e Attività Fiduciarie, Saggi, Maggio 2011, pag. 263 e segg) Come osservato (D. Muritano cit.) “la circolare tuttavia, nell’indicare gli elementi distintivi del trust oblitera completamente (consapevolmente?) – e tale scelta si rivela del tutto funzionale rispetto alle affermazioni successive – il terzo comma dell’art. 2 Convenzione dell’Aja, il quale afferma, significativamente, che “Il fatto che il costituente conservi alcune prerogative o che il trustee stesso possieda alcuni diritti in qualità di beneficiario non è necessariamente incompatibile con l’esistenza di un trust”.

L’elenco, con le precisazione appena svolte, anche se privo di riferimenti alla normativa antiriciclaggio potrà essere tenuto presente dall’operatore del diritto per valutare il rischio che il trust istituito possa in qualche modo essere utilizzato per finalità ulteriori legate al riciclaggio ed al finanziamento del terrorismo, tenendo presente che nella nozione di riciclaggio, rilevante ai fini dell’assolvimento degli obblighi di cui al d.lgs. 231 del 2007, rientra anche l’autoriciclaggio che consiste nella dissimulazione dei proventi illeciti derivanti da una propria attività criminosa che può riguardare anche un reato tributario (tax crimes) e, di conseguenza i proventi derivanti da evasione fiscale, nei limiti in cui quest’ultima configuri non una mera infrazione amministrativa ma un reato.

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3. ATTI SIMULATI E FRAUDOLENTI DIRETTI A SOTTRARRE BENI ALLA RISCOSSIONE

La problematica degli aspetti “patologici” degli atti diretti a costituire trust, fondi patrimoniali e patrimoni destinati non si esaurisce all’interno delle norme antiriciclaggio ma, come accennato nella prima parte della relazione, coinvolge anche aspetti puniti con sanzioni penali.

La principale norma di riferimento è costituita dal cit. art. 11 del d.lgs. 74 del 2000 che espressamente dispone: «1. E' punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Se l'ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni».

Gli atti simulati e fraudolenti nella communis opinio evocano un disvalore sociale, per il giurista, invece, rappresentano categorie giuridiche da definire ed analizzare allo scopo di verificare il grado di rilevanza giuridica assegnata dal Legislatore agli atti appartenenti, in via generale, alla categoria di riferimento e per verificare se, a tutela di determinati beni giuridici, in casi specifici, individuati dal Legislatore e nel concorso di determinati fatti e circostanze, ad un atto definibile “simulato” o “fraudolento” siano riconducibili effetti e conseguenze diverse rispetto a quelle normalmente derivanti dall’appartenenza alla categoria generale. Gli effetti e le conseguenze riconducibili astrattamente ad un atto simulato o fraudolento possono essere, di volta in volta, di natura meramente privatistica ovvero di tipo amministrativo o penale.

La simulazione costituisce, in via generale, esplicazione dell’autonomia privata con rilevanza meramente civilistica ed il codice si limita a regolamentare:

i) gli effetti che derivano dalla simulazione;

ii) i rapporti tra le parti e nei confronti dei terzi;

iii) i limiti alla prova dell’atto simulato (artt. 1414 e segg. c. c.).

Può avere rilevanza penale o amministrativa nei limiti in cui determinate norme penali, amministrative o tributarie sanzionano espressamente l’attività simulata in quanto finalizzata a ledere o mettere in pericolo determinati beni giuridici di volta in volta individuati e, quindi in quanto posta in essere per la realizzazione di finalità ritenute illecite, ovvero qualora l’attività simulata integri una condotta penalmente o amministrativamente rilevante all’interno di categorie più generali (artifizi, raggiri, etc.).

Nel codice civile l’atto fraudolento non è definito, quale categoria generale, ma è previsto dall’art. 1344 per sanzionare di illiceità la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa (contratto in frode alla legge) ed è presupposto dagli art. 2901 e segg. in tema di azione revocatoria a garanzia della tutela del credito contro atti posti in essere allo scopo di pregiudicare le ragioni creditorie di terzi e, principalmente, a tutela della conservazione della generica garanzia patrimoniale sui beni del debitore.

La rilevanza civilistica dell’atto fraudolento è limitata alle ipotesi espressamente previste, invero, come affermato dalla S.C. nella recente sentenza del 20 marzo 2008, n. 7485, «nell'ordinamento vigente non esiste alcuna norma che sancisca la nullità del contratto in frode ai terzi, essendo prevista espressamente la sola nullità del contratto in frode alla legge (art. 1344 c.c.). Qualora, pertanto, debba escludersi che il contratto costituisca un mezzo per eludere una norma imperativa, i diritti dei terzi sono tutelati da specifiche norme in relazione a specifiche situazioni, le quali consentono loro di reagire contro l'apparenza contrattuale e farne

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valere la nullità (per simulazione o contrasto con norme imperative) o di far dichiarare l'inefficacia del negozio a loro danno (azioni revocatorie o pauliane)»

Queste prime indicazioni ci consentono, pertanto, di escludere la rilevanza penale o amministrativa di qualunque atto che astrattamente appaia simulato o in frode ai terzi, salvo le fattispecie penali esattamente individuate in cui gli atti simulati o fraudolenti costituiscano elemento costitutivo della condotta antigiuridica (oltre alla fattispecie in esame, si pensi, ad esempio, alla bancarotta, artt. 216 ss. l. fall.).

Il notaio, in base all’art. 27 l. 16 febbraio 1913, n. 89, non potrà rifiutare di prestare il suo ministero per il sol fatto che l’atto possa potenzialmente pregiudicare le ragioni di terzi ovvero perché sussistono elementi che possano far supporre che l’atto sia simulato. Peraltro, anche in relazione agli obblighi di adeguata verifica della clientela, previsti dal d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231, in materia antiriciclaggio, il notaio sarà obbligato a segnalare un’operazione simulata o in frode ai terzi nei soli casi in cui sussistano sospetti che l’atto sia strumentale alla realizzazione di finalità di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo.

Tornando all’esame degli elementi qualificanti gli atti simulati e fraudolenti, può affermarsi, in via di prima approssimazione, che con gli atti fraudolenti, diversamente dagli atti simulati, le parti intendono effettivamente conseguire gli effetti prodotti dall’atto stesso e, questi effetti, sono voluti per eludere precetti imperativi ovvero per ledere diritti o aspettative o, più in generale, posizioni soggettive di terzi soggetti.

Nell’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000 il legislatore ha ritenuto di sussumere sotto la medesima fattispecie penale le alienazioni simulate e gli atti fraudolenti ponendo l’accento sulle finalità perseguite dal contribuente. Ciò tuttavia non ci consente di non distinguere gli uni dagli altri ai fini dell’accertamento della responsabilità penale. Richiedendo la norma che la finalità illecita sia il prodotto di un’alienazione simulata o di un atto fraudolento andrà dimostrato, di volta in volta, se l’atto posto in essere appartenga all’una o all’altra categoria.

Sviluppando quest’ultima considerazione è necessario interrogarsi se, nell’atto fraudolento, l’elemento caratterizzante risieda nella mera intenzione di cagionare un depauperamento del proprio patrimonio mettendo a rischio il buon esito della pretesa tributaria ovvero se l’atto posto in essere debba presentare un quid ulteriore rispetto allo “schema tipico” che, in qualche modo, gli dia una connotazione “fraudolenta”.

E’ preferibile ritenere che non sia sufficiente a tipizzare la fattispecie la mera intenzione “inespressa“ del contribuente e ciò perché la finalità perseguita dal contribuente stesso, come si evince dalla lettura della norma, si aggiunge quale elemento ulteriore all’atto fraudolento, sicché la finalità perseguita è conseguenza e non elemento dell’atto stesso che, pertanto, per essere qualificato fraudolento dovrà avere al suo interno elementi in grado di qualificarlo oggettivamente come tale.

Tale conclusione, oltre che dalla chiara lettera della norma, ci sembra confortata anche dai risultati cui sono pervenuti dottrina e giurisprudenza in tema di causa concreta del contratto, tendente a valorizzare gli interessi oggettivamente emergenti e non l’astratto schema legale tipico adottato dalle parti, interessi che, tuttavia, devono essere dedotti in modo oggettivo dal regolamento contrattuale posto in essere ovvero dal collegamento di più atti posti in essere per la realizzazione di scopi ulteriori rispetto a quelli più limitati realizzabili da un singolo atto .

La necessità di un quid ulteriore rispetto allo schema legale tipico dell’atto posto in essere è di particolare rilevanza nella valutazione, ad esempio, di una costituzione di fondo patrimoniale quale atto di per sé idoneo ad integrare una atto fraudolento.

Nella sentenza in data 7 ottobre 2009, n. 38925, la Suprema Corte, in tema di costituzione di un fondo patrimoniale, riteneva lo stesso sospetto non in quanto tale ma perché nell’atto di costituzione «non erano state indicate le ragioni della costituzione del fondo patrimoniale».

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La motivazione addotta, come meglio vedremo tra poco, sebbene non sia convincente sul piano dell’argomentazione, in quanto gli atti di costituzione non riportano in nessun caso le ragioni della loro costituzione in quanto queste sono espressamente previste dalla legge (art. 167 c.c. «per far fronte ai bisogni della famiglia») e non possono essere modificate dall’autonomia privata, è interessante sotto il profilo della ricerca da parte dei giudici di un quid ulteriore rispetto ad un “normale” atto di costituzione del fondo patrimoniale a giustificazione della sua qualifica come “fraudolento”. Con la sentenza più recente datata 16 ottobre 2012 n. 40561, la Suprema Corte sembra correggere il tiro laddove individua la fraudolenza del fondo patrimoniale in elementi ulteriori, anche esterni all’atto costitutivo del fondo patrimoniale, e quindi, nella tempistica degli atti, nella peculiare tipologia dei beni assoggettati a vincolo (tra gli altri un’imbarcazione e sette auto d’epoca), le cui caratteristiche risultano all’evidenza come estranee alle finalità di soddisfacimento delle esigenze familiari e nella concatenazione cronologica degli eventi (accertamenti fiscali ed atti di perquisizione, matrimonio, costituzione del fondo patrimoniale, conoscenza di essere dominus di società cartiere, richiesta di condono tombale).

Tornando all’esame degli elementi costitutivi della fattispecie in esame, va evidenziato che ciò che rende gli atti simulati o fraudolenti penalmente rilevanti sono le finalità per cui gli atti stessi sono posti in essere e, precisamente, l’intento del contribuente di «sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila».

La soglia di rilevanza è stata abbassata da euro 51.645,69 (somma così risultante dalla conversione in euro dell’originario importo di lire 100 milioni) ad euro 50 mila, in forza del d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (conv. dalla l. 30 luglio 2010, n. 122), di cui si è fatto cenno in precedenza, e fa riferimento esclusivamente alle imposte sui redditi e sul valore aggiunto nonché agli interessi e sanzioni amministrative per dette imposte, cosicché la finalità sottrattiva di rilevanza penale non riguarderà genericamente qualunque rapporto debitorio nei confronti dello Stato o di altro ente pubblico, ma esclusivamente i rapporti debitori con l’Amministrazione finanziaria relativi alle imposte sul reddito (ad es., l’IRPEF, l’IRES, l’IRAP) o sull’IVA, ma non anche quelli che riguardano altre tipologie di obblighi tributari (ad es., le imposte di registro, la TARSU, le sanzioni amministrative, i debiti previdenziali, etc).

Il riferimento alla finalità di sottrarsi al pagamento delle imposte richiede una riflessione ulteriore su quale sia il bene giuridico tutelato dalla norma, potendo in astratto ritenersi oggetto di tutela:

1. l’obbligazione tributaria;

2. la generica garanzia patrimoniale a tutela della riscossione dei tributi de quibus;

3. la procedura di riscossione coattiva.

L’esatta individuazione del bene giuridico tutelato è essenziale al fine di delimitare l’estensione più o meno ampia della fattispecie criminosa e l’inclusione o l’esclusione di determinate condotte nel perimetro applicativo della norma. Invero, uno dei principi cardine del diritto penale è quello della necessaria lesività o offensività: la condotta per essere considerata antigiuridica deve ledere o mettere in pericolo beni giuridici penalmente protetti.

Vigente l’art. 97 comma 6 D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (come modificato dall’art. 15 comma 4 l. 30 dicembre 1991, n. 413) - che rappresenta l’immediato precedente della disposizione in esame - non vi era alcun dubbio che l’interesse protetto dalla norma era l’esecuzione esattoriale e la punibilità del contribuente presupponeva, per espressa previsione normativa, che l’amministrazione tributaria avesse già compiuto:

accessi, ispezioni e verifiche; avesse notificati gli inviti e le richieste previsti dalle singole leggi di imposta;

avesse notificati atti di accertamento o iscrizioni a ruolo;

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quale ulteriore elemento essenziale, ai fini della configurabilità del reato, richiedeva la sussistenza di una procedura di riscossione in atto e la effettiva vanificazione, per effetto dell’atto posto in essere, della riscossione tributaria coattiva.

Un quadro complesso che dava rilevanza penale esclusivamente a quelle condotte che, in una fase avanzata della procedura di riscossione, erano idonee a vanificare la effettiva realizzazione del credito tributario da parte dell’Erario: dunque, un reato di danno e non di pericolo.

La nuova disposizione, diversamente, non richiede che siano iniziate o siano in corso attività di verifica o di accertamento, né tanto meno che sia pendente una procedura di riscossione, ma anticipa la tutela dei diritti dell’amministrazione finanziaria ad un momento che precede l’inizio dell’azione di riscossione, concentra l’antigiuridicità della condotta nell’idoneità degli atti simulati o fraudolenti a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva.

La disposizione attualmente vigente, pertanto fissa una tutela avanzata delle potenziali ragioni dell’Erario, dacché la fattispecie incriminante si è trasformata da reato di danno in reato di pericolo; il bene giuridico protetto non è più l’effettivo danno che subirebbe l’Erario per gli atti posti in essere dal contribuente, ma il mero rischio per l’Erario di non poter realizzare la pretesa tributaria per effetto di alienazioni simulate o altri atti fraudolenti poste in essere dal contribuente stesso e, quindi, in buona sostanza oggetto di tutela è l’interesse dello Stato a mantenere integra la garanzia patrimoniale generica del contribuente, di cui fa menzione l’art. 2740 c.c.

Cosicché mentre, in via ordinaria, ai creditori il Titolo III, Capo V del codice civile attribuisce mezzi di tutela della garanzia patrimoniale di tipo civilistico (azione revocatoria, sequestro conservativo) escludendo la rilevanza penale di eventuali atti potenzialmente pregiudizievoli posti in essere dal debitore, nel caso in cui: creditore sia l’Erario; il debito tributario riguardi le imposte dei redditi o l’IVA; il loro ammontare superi determinate soglie, la condotta del debitore che ponga in essere atti simulati o fraudolenti entra in un’area di rilevanza penale.

L’idoneità della condotta, non implicando lesione effettiva, presuppone un giudizio ex ante, previsionale dell’effetto che può produrre rispetto alla riscossione del tributo.

Questione ulteriore, di sicuro interesse, è poi la qualifica dell’atto simulato o fraudolento posto in essere: se debba considerarsi illecito perché contrario a norma imperativa ovvero lecito ma inopponibile all’Amministrazione della Stato, ritenendo che la norma de qua punisca la condotta dell’Autore e non l’atto. La differenza è di non poco conto soprattutto per i riflessi che ne scaturiscono rispetto ai terzi.

Richiedendo espressamente la norma incriminatrice che gli atti posti in essere siano idonei a mettere in pericolo la pretesa tributaria, secondo il paradigma fin qui esaminato, vanno considerate eventuali “variabili” che in astratto possono prospettarsi e che possono incidere sul giudizio di idoneità degli atti in relazione alla lesione del bene giuridico protetto; ciò al fine di meglio palettare i confini operativi della norma in oggetto.

Dubbio è, innanzitutto, se un’obbligazione tributaria debba esistere o se sia incriminabile anche il comportamento di colui che compie atti simulati o fraudolenti prima che l’obbligazione tributaria sia sorta, ma in previsione del suo sorgere.

La Suprema Corte in una sua pronuncia, esasperando il concetto di tutela della generica garanzia patrimoniale dovuta dal contribuente all’Erario, ha affermato che è penalmente rilevante «qualsiasi atto che possa porre in concreto pericolo l'adempimento di un'obbligazione tributaria, indipendentemente dalla attualità della stessa», trascurando che la norma prevede quale elemento integrativo della fattispecie la volontà di sottrarsi al pagamento di determinate imposte che superino un determinato ammontare. L’inesistenza di un debito tributario non sembra conciliabile con la necessità che sussista tale dolo specifico.

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Peraltro, come osservato in dottrina l’anticipazione dell’antigiuridicità della condotta in un momento in cui ancora non sussiste l’obbligo tributario evocherebbe il modello del cd. reato prodromico che attestava la linea d’intervento repressivo ad una fase meramente "preparatoria" dell’evasione d’imposta, in un momento, quindi, in cui non sussiste, in concreto, alcuna offesa degli interessi dell’erario (Così Corte Cost. 15 marzo 2002 - 27 febbraio 2002, n. 49, nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 9, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74.

Il giudizio di idoneità degli atti rispetto alla finalità illecita ci porta ad escludere, dall’ambito applicativo della norma, una serie di fattispecie che non sono né in astratto, né in concreto, in grado di ledere il bene così individuato per carenza oggettiva del requisito dell’idoneità, secondo un giudizio prognostico dell’atto posto in essere.

Innanzitutto, il rischio che la pretesa tributaria non trovi capienza nel patrimonio del debitore presuppone che il depauperamento causato dall’atto posto in essere comporti una riduzione significativa della generica garanzia, da valutare in relazione al credito stesso ed al patrimonio del contribuente; dacché se il patrimonio del debitore è comunque oggettivamente sufficiente a soddisfare il debito tributario, non è prospettabile alcuna lesione del bene giuridico protetto. Se così non fosse, qualunque soggetto, per il sol fatto di essere debitore nei confronti dell’erario di una somma superiore ad euro 50 mila, pur titolare di un patrimonio di valore di gran lunga superiore, non potrebbe compiere atti di disposizione del proprio patrimonio se non con il rischio di vedersi contestata la fattispecie in oggetto, con ricadute fortemente negative soprattutto nello svolgimento dei normali rapporti d’impresa e, più in generale, nella circolazione dei beni.

In secondo luogo, l’idoneità dell’atto a ledere la conservazione della generica garanzia patrimoniale implica che non rientrano nel perimetro applicativo della norma gli atti aventi ad oggetto beni sui quali l’erario ha un diritto di prelazione ovvero che sono stati assoggettati a misure cautelari preventive da parte dell’Erario ovvero sono già oggetto di procedura esecutiva da parte dell’erario stesso. Il riferimento è alle ipotesi in cui l’ente riscossore abbia trascritto un pignoramento ovvero al caso in cui sia iscritta sul bene un’ipoteca, ovvero al caso il cui il bene sia soggetto a sequestro conservativo ovvero al caso il bene sia gravato da privilegio speciale ovvero in ogni altro caso in cui la legge preveda l’inopponibilità degli atti posti in essere al creditore.

In caso di pignoramento, mi sembra che ci siano pochi dubbi sull’inidoneità dell’atto in quanto l’art. 2913 c.c. espressamente dispone: «Non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell’esecuzione gli atti di alienazione dei beni sottoposti a pignoramento». Gli art. 2914 ss. c.c. completano il quadro delle inopponibilità di eventuali atti compiuti dal debitore in danno del creditore pignoratizio rendendo, pertanto, ininfluenti e, quindi, inidonei gli eventuali atti posti in essere, siano essi simulati o fraudolenti.

Analogamente deve argomentarsi per quanto riguarda un’eventuale iscrizione di ipoteca a garanzia del credito erariale da parte dell’ente riscossore ovvero la sussistenza di un privilegio speciale (ad es. art. 2780 n. 1 c.c.) ovvero la trascrizione di una misura cautelare idonea a rendere inefficaci gli atti compiuti. Anche in questi casi le regole codicistiche previste per le ipoteche (artt. 2858 ss. c.c.), per i privilegi (artt. 2777 ss. c.c.) ovvero relative alla trascrizione delle misure cautelari rendono eventuali atti posti in essere dal debitore inidonei a pregiudicare il buon esito della riscossione.

Peraltro, dovendo l’idoneità essere valutata secondo un giudizio ex ante, eventuali vicende successive non dovrebbero influire nel giudizio sulla liceità o illiceità della condotta.

Queste conclusioni, peraltro, possono ritenersi contenute implicitamente nelle numerose pronunce della Suprema Corte, che individuando il bene protetto dalla norma, come più volte detto, nella «tutela della generica garanzia patrimoniale offerta al fisco dai beni dell'obbligato», escludono dall’area applicativa della norma tutti i casi in cui le ragioni dell’erario trovano la loro tutela non genericamente «in tutti i beni presenti e futuri del debitore», secondo il paradigma dell’art. 2740 c.c., ma sono concentrate su determinati beni e gli atti posti in essere dal debitore su questi beni siano per legge inidonei a ledere la pretesa tributaria.

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Restando in tema di rilevanza, ai fini dell’idoneità della condotta, dell’esatta individuazione del bene giuridico protetto, va osservato che essendo il reato de quo reato di pericolo a nulla rileva che l’obbligazione tributaria sia in seguito onorata o estinta. Il reato previsto nella disposizione contenuta nell’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000, rispetto all’analoga norma contenuta nell’art. 97 comma 6 d.P.R. n. 602 del 1973, si consuma con il perfezionamento dell’alienazione simulata o dell’atto fraudolento ed a nulla rileva se, in concreto, tale atto abbia realizzato o meno la finalità programmata dal debitore; eventuali ravvedimenti e/o ripensamenti hanno una loro rilevanza come circostanze attenuanti e, quindi, in sede di applicazione della pena, ai sensi dell’art. 13 d.lgs. n. 74 del 2000.

Diversa è invece, l’ipotesi in cui la pretesa tributaria sia inesistente o illegittima. In quest’ultimo caso l’accertamento dell’inesistenza della pretesa tributaria farebbe venir meno uno dei presupposti del reato stesso rendendo lo stesso “impossibile” ai sensi dell’art. 49 comma 2 c.p. che, come noto, esclude la punibilità quando, per la inidoneità dell’azione o per l’inesistenza dell’oggetto di essa, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso.

3.1 IL FONDO PATRIMONIALE

Particolare attenzione meritano gli atti di costituzione del fondo patrimoniale perché in più occasioni sono stati ritenuti dalla giurisprudenza penale atti idonei ad integrare la fattispecie penale de qua.

Il quid che integrerebbe la “fraudolenza”, secondo quanto argomentato dalla Cassazione nella sentenza datata 7 ottobre 2009, n. 38925, sarebbe rappresentato dalla circostanza che nell’atto di costituzione «non erano state indicate le ragioni della costituzione del fondo patrimoniale».

La finalità sottrattiva invece sarebbe ravvisabile, secondo la medesima giurisprudenza, quale conseguenza dell’effetto segregativo derivante dal fondo patrimoniale, opponibile all’Amministrazione finanziaria, in forza dell’art. 170 c.c.

Entrambi gli aspetti meritano qualche riflessione.

3.2 EFFETTO SEGREGATIVO E QUALIFICAZIONE “FRAUDOLENTA” DELL’ATTO

Sul primo punto, relativo all’omessa rappresentazione delle ragioni per le quali i coniugi intendono costituire un fondo patrimoniale, va evidenziato che non si rinviene all’interno del sistema normativo che disciplina il fondo patrimoniale alcun dato positivo da cui far derivare un siffatto onere a carico dei coniugi, ai quali, in caso contrario, verrebbe negata la possibilità di perfezionare un valido fondo patrimoniale laddove non abbiano interessi ulteriori rispetto all’interesse normativamente individuato dall’art. 169 c.c. «di far fronte ai bisogni della famiglia».

Sviluppando l’argomentazione della Corte si dovrebbe ritenere che l’interesse individuato dalla norma sia insufficiente a sorreggere la causa della convenzione che di volta in volta andrebbe integrata da ulteriori elementi a sostegno della scelta effettuata dai coniugi. Al contrario, sembra più aderente al dato positivo ritenere che la scelta dei coniugi di costituire determinati beni in fondo patrimoniale sia un mero atto di attuazione dell’indirizzo familiare, all’interno dell’autonomia contrattuale loro riconosciuta (art 144 c.c.) e lo strumento per rimediare ad eventuali usi fraudolenti in pregiudizio alle ragioni creditorie è dato dalla generale azione revocatoria ovvero dagli strumenti, di volta in volta, previsti dal legislatore in un ragionevole bilanciamento dei diversi interessi coinvolti.

D’altronde, non può trascurarsi la costante prassi operativa di oltre trentacinque anni di vigenza dell’istituto de quo durante i quali non sono noti casi nei quali i coniugi hanno ritenuto

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di premettere a giustificazione della costituzione di un fondo patrimoniale motivi specifici che riguardassero situazioni personali o economiche della famiglia o di componenti della famiglia ad integrazione o sostegno della finalità normativamente prevista di «far fronte ai bisogni della famiglia».

Peraltro, se l’interesse a far fronte ai bisogni della famiglia non fosse di per sé sufficiente a sorreggere la costituzione di un fondo patrimoniale ma richiedesse l’integrazione ed evidenziazione di ulteriori specifici interessi meritevoli di tutela, di volta in volta individuati dai coniugi, ci si dovrebbe chiedere quale autonomia avrebbe questo istituto rispetto al vincolo di destinazione previsto dall’art. 2645-ter c.c.; né sembra ragionevole ritenere che i coniugi sarebbero tenuti a giustificare un interesse ulteriore nei soli casi in cui è potenzialmente presente un contrapposto interesse dei terzi alla costituzione del fondo patrimoniale. Il bilanciamento tra interessi della famiglia ed interessi dei terzi trova la sua soluzione in una precisa scelta di politica legislativa che si è tradotta sia nell’art. 170 c.c. che ha selezionato i creditori che possono giovarsi dell’effetto segregativo del fondo patrimoniale, sia nei rimedi generali a disposizione dei terzi creditori (azioni pauliane e revocatorie).

Non sembra, quindi, che la fraudolenza possa tout court argomentarsi dalla mancata esplicazione delle ragioni giustificative a sostegno della costituzione del fondo patrimoniale, ma dovrà dedursi dalla presenza di ulteriori elementi atti a qualificare l’atto “fraudolento”.

Ragionando diversamente si perverrebbe ad una presunzione di equivalenza tra effetto segregativo e finalità fraudolenta con un’inversione dell’onere della prova a carico dei coniugi (o del coniuge-contribuente) che dovrebbero dimostrare l’esistenza di interessi ulteriori a giustificazione della costituzione del fondo ogni qual volta ci sia un potenziale terzo contro-interessato all’effetto segregativo prodotto dal fondo.

Nella logica del sistema, al contrario, la presunzione dovrebbe essere a favore della liceità dell’atto in assenza di elementi oggettivi che facciano presumere il contrario e la dimostrazione dell’eventuale illiceità o fraudolenza dovrebbe essere dimostrata da chi intende giovarsene e la invoca, attraverso circostanze, cronologie di eventi, fatti e condotte, anche esterne all’atto, che in modo univoco e concordante siano utili a riqualificare la convenzione in termini di “fraudolenza”.

Il più recente orientamento della Suprema Corte espresso nella recente sentenza della 3° sezione penale datata 16 ottobre 2012 n.40561 sembra correggere parzialmente il tiro, in quanto pur confermando l’astratta idoneità dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale ad integrare la fattispecie de qua, sottolinea l’essenzialità della sussistenza dell’elemento psicologico del dolo specifico nell’autore del reato. Il processo di merito deve individuare quali siano gli aspetti dell’operazione economica che dimostrino la strumentalizzazione della causa tipica o, se si vuole, l’abuso dello strumento giuridico, posto in essere al solo scopo di evitare il pagamento del debito tributario e quindi la sua portata fraudolenta. Non è infatti ipotizzabile l’inversione dell’onere della prova sul presupposto che la creazione del patrimonio separato rappresenti di per sé l’elemento materiale della sottrazione del patrimonio del debitore. La scelta dei coniugi di costituire un fondo patrimoniale rappresenta uno dei modi legittimi di attuazione dell’indirizzo economico familiare ed è atto fraudolento quando sia dimostrata l’idoneità dell’istituzione dello specifico fondo patrimoniale ad ostacolare il soddisfacimento dell’obbligazione tributaria.

Nella fattispecie esaminata si è ritenuto corretto l’operato dei giudici di merito i quali hanno individuato la sussistenza del dolo specifico e, quindi, l’intento fraudolento nella tempistica degli atti, nella peculiare tipologia dei beni assoggettati a vincolo (tra gli altri un’imbarcazione e sette auto d’epoca), le cui caratteristiche risultano all’evidenza come estranee alle finalità di soddisfacimento delle esigenze familiari e nella concatenazione cronologica degli eventi (accertamenti fiscali ed atti di perquisizione, matrimonio, costituzione del fondo patrimoniale, conoscenza di essere dominus di società cartiere, richiesta di condono tombale).

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3.3 OPPONIBILITA’ DEL FONDO PATRIMONIALE ALL’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA

L’esame del secondo aspetto che emerge dalle citate pronunce della Cassazione penale riguarda l’opponibilità del fondo patrimoniale all’Amministrazione finanziaria. La sussistenza o meno di tale elemento riveste una rilevanza decisiva in ordine al giudizio di idoneità di un atto di costituzione di fondo patrimoniale ad integrare la fattispecie di cui all’art. 11 de quo; invero, se il vincolo fosse inopponibile all’Erario l’atto di costituzione sarebbe neutro e, quindi inidoneo, rispetto alla procedura di riscossione.

Il presupposto argomentativo da cui sono partite entrambe le sentenze della S.C. è costituito dalla seguente affermazione: «Con tale fondo alcuni beni immobili o mobili iscritti in pubblici registri vengono destinati a soddisfare i bisogni della famiglia e quindi sono parzialmente sottratti all’espropriabilità. Invero, a norma dell’articolo 170 c.c., l’esecuzione sui beni del fondo sui frutti non può avere luogo per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per scopi estranei alla famiglia; il credito fiscale non ha alcuna attinenza con i bisogni della famiglia ma sorge automaticamente quando si verificano i presupposti che determinano la nascita dell’obbligazione tributaria».

Dunque, seguendo questo ragionamento, in tanto sussiste l’idoneità ad integrare la condotta antigiuridica in quanto i beni del fondo patrimoniale non possono essere aggrediti dall’Erario per la riscossione di crediti tributari perché estranei a soddisfare i bisogni della famiglia.

Tale assunto non sembra condivisibile. Secondo l’orientamento che può definirsi consolidato della Cassazione civile, «sono ricompresi nei bisogni della famiglia anche le esigenze volte al pieno mantenimento ed all’armonico sviluppo della famiglia nonché al potenziamento della sua capacità lavorativa, con esclusione solo delle esigenze di natura voluttuaria o caratterizzate da interessi meramente speculativi. (…) Coerentemente all’opinione dominante in dottrina si ritiene che spetta al debitore provare che il creditore conosceva l’estraneità del credito ai bisogni della famiglia; ciò perché i fatti negativi (in questo caso l’ignoranza) non possono formare oggetto di prova ed ancora perché esiste una presunzione di inerenza dei debiti ai detti bisogni».

In buona sostanza, la giurisprudenza civile è orientata, in modo costante, a ritenere ricompresi tra i “debiti destinati a soddisfare i bisogni della famiglia”, per esclusione, tutti i debiti ad eccezione di quelli voluttuari o determinati da interessi speculativi e ad applicare il principio che l’esclusione dall’esecuzione forzata, a norma dell’art. 170 c.c., vale soltanto se concorra l’elemento psicologico e soggettivo della conoscenza, da parte del creditore, circa l’estraneità del debito ai bisogni della famiglia con onere della prova, relativamente alla “conoscenza” dell’interesse voluttuario” o speculativo” da parte del creditore, a carico del debitore.

Muovendo da tale premessa, non può che dedursi un’oggettiva impossibilità, di fatto e di diritto, da parte del debitore di opporre la costituzione del fondo patrimoniale all’Amministrazione Finanziaria per sottrarsi al pagamento dei debiti tributari, dovendosi escludere, in termini assoluti, sia che l’obbligazione tributaria possa essere considerata “voluttuaria” o “speculativa” sia, a maggior ragione, che l’Amministrazione finanziaria possa essere a conoscenza di tale caratteristica dell’obbligo.

Non è, peraltro, condivisibile la posizione di chi ritiene tout court il debito tributario inidoneo a soddisfare interessi della famiglia, in quanto i debiti fiscali incidono negativamente sui bisogni della famiglia e dunque sono assolutamente confliggenti con questi, nel presupposto che il relativo pagamento comporta la riduzione della ricchezza disponibile per le necessità familiari e pregiudica le disponibilità finanziarie che il singolo contribuente impiega per i suoi bisogni, ivi compresi quelli familiari.

Invero, questa tesi trascura che l’obbligazione tributaria è priva di una sua valenza autonoma essendo strettamente collegata al presupposto impositivo: pertanto, l’indagine circa la rispondenza del debito tributario agli interessi familiari deve investire non il risultato

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“contabile” negativo che si ottiene all’esito del pagamento ma il fatto che ha dato luogo all’imposizione.

Così come non può condividersi l’ulteriore obiezione, riguardante gli illeciti tributari, che ritiene gli stessi per definizione contrari agli interessi della famiglia perché “contra legem”, in quanto essa trascura di considerare che l’inadempimento di obblighi tributari (si pensi all’evasione fiscale) si traduce comunque in arricchimento per il nucleo familiare e la valutazione della sussistenza di un “interesse della famiglia” non può essere condotto in termini etici ma va esclusivamente rispetto alla convenienza economica.

In questa direzione appare anche la recente sentenza Cass., 30 gennaio 2012, n. 1295, dove a fronte della richiesta dei ricorrenti di affermare l’estraneità tout court del debito tributario alla soddisfazione dei bisogni della famiglia, la Cassazione ribadisce che l’opponibilità del vincolo può derivare esclusivamente dalla dimostrazione da parte del debitore dell’estraneità del debito ai bisogni familiari e della conoscenza di tale estraneità in capo al creditore.

3.4 RIFLESSIONI CONCLUSIVE

Il notaio che riceva un’alienazione simulata o un atto fraudolento risponderà a titolo di concorso esclusivamente qualora “sappia e voglia” (art. 43 c.p.) e quindi che abbia la consapevolezza:

che l’atto sia simulato o sia fraudolento;

che sussista un debito tributario a carico del soggetto che aliena simulatamente o dispone fraudolentemente dei propri beni;

che il debito tributario sia riferibile al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte;

che l’ammontare complessivo del debito tributario sia di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila.

Inoltre, deve avere la volontà di contribuire con la propria condotta alla realizzazione dell’evento antigiuridico e, quindi, far proprio il fine illecito dell’autore.

08 dicembre 2012 - Notaio Marco Krogh

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