Rassegna stampa 17 ottobre 2019...La crisi e i conti Pag 1 La notte del sì, ma “salvo intese”...

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 17 ottobre 2019 SOMMARIO “Da anni diciamo, gridiamo in ogni modo che in Italia c’è una emergenza educativa - scrive oggi su Avvenire Davide Rondoni -. Insomma, siamo seduti su una bomba. Che non è il debito pubblico, è un debito ben maggiore. È la fatica, la difficoltà, il fallimento educativo che investe il nostro Paese, e di cui sembra ci si ricordi solo all’emergere di notizie orrende come la esistenza di chat (l’ambiente social di conversazione di gruppo) su cui adolescenti si scambiano tra l’incosciente e il perverso contenuti terribili a proposito dell’immenso crimine della Shoah, lo sterminio degli ebrei, cuore di tenebra della guerra nazista e razzista a ogni diversità. Fallimento educativo, sì. Lo gridiamo da anni, perché girando scuole e città vediamo una malattia che ha tre caratteristiche principali. La prima è la carenza di adulti, ovvero di persone che si pongano dinanzi ai più giovani con la consapevolezza di un compito educativo importante. Si è voluto ridurre gli insegnanti a trasmettitori di competenze, ma un adulto dinanzi a un giovane è innanzitutto, volente o nolente, un trasmettitore di senso, di ideale, di prospettiva. Molti insegnanti lo sanno e si sentono mortificati in una gabbia burocratica e un paradigma di istruzione che succhia energie e distrae dal compito educativo. La società in cui viviamo inoltre non prevede che i giovani, al di là della scuola, passino del tempo con gli adulti. A casa è raro, e si sa che a un certo punto l’influenza dei genitori è fragile. Ma tranne che per quella fascia di ragazzi che partecipano ad attività sportive o artistiche o religiose, il rapporto con adulti è minimo. E così molti tendono e fanno branco, ovviamente, tra loro, lontano da adulti (visti quasi solo con il registro in mano) e spesso nutriti da mode musicali che riversano fango sulla vita, mode non lanciate da ragazzini, ma da adulti che li usano. Non botteghe, non sezioni di partito, sempre meno oratori, non circoli culturali. Eppure là dove qualche adulto ha il coraggio di porsi come guida e accompagnamento, i giovani riconoscono il valore della cosa. Ma è sempre più difficile, anche per motivi di burocrazia, di norme, di sospetti. Il secondo elemento di tale malattia è la presunzione che riversando quintali di retorica su temi importanti (dalla ecologia alla fratellanza) si ottenga qualche risultato. Ma la retorica non ha mai educato nessuno. Occorre la vicinanza nel rischio della scoperta della vita. Il terzo elemento della malattia educativa è la paura di farsi domande, quelle domande che un giovane invece si trova naturalmente ad affrontare nel momento in cui rischiosamente incontra le esperienze importanti, dall’amore alla morte, dalla scoperta del corpo e dei limiti. Cosa è la vera libertà? la vita è una fregatura? c’è un senso a questo viaggio? Quanti adulti davvero discutono di queste cose tra loro e con i nostri ragazzi? e cosa hanno da dire? Si copre tutto con la richiesta di buone maniere, di politicamente corretto, di controcorrente artefatto e, ovviamente, con la retorica. Mesi fa in una scuola un ragazzo lesse un testo che finiva con «E io sono all’inferno». Applausi dell’assemblea composta da ragazzi e insegnanti. Al che blocco l’applauso e chiedo: che fate? applaudite uno che dice di stare all’inferno? o state scherzando, o sta scherzando lui, oppure, vi sentite tutti all’inferno. Silenzio, anche degli insegnanti. Non accuso nessuno, ma non mi stupisco che se un giovane crede di essere in una specie di inferno abbia poi un atteggiamento distruttivo, anche banalmente offensivo o dispregiativo. Ma perché ha maturato questa idea? da quali autori? da quale clima, da quale noia, da che organizzazione della sua vita? da che cinismo respirato intorno? Basta commenti banali dinanzi a fatti gravi. Il problema dei ragazzi siamo noi adulti” (a.p.) 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Il cibo che sprechiamo è tolto ai poveri Nel messaggio per la Giornata mondiale dell’alimentazione il Papa rilancia l’obiettivo

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RASSEGNA STAMPA di giovedì 17 ottobre 2019

SOMMARIO

“Da anni diciamo, gridiamo in ogni modo che in Italia c’è una emergenza educativa - scrive oggi su Avvenire Davide Rondoni -. Insomma, siamo seduti su una bomba. Che

non è il debito pubblico, è un debito ben maggiore. È la fatica, la difficoltà, il fallimento educativo che investe il nostro Paese, e di cui sembra ci si ricordi solo

all’emergere di notizie orrende come la esistenza di chat (l’ambiente social di conversazione di gruppo) su cui adolescenti si scambiano tra l’incosciente e il perverso contenuti terribili a proposito dell’immenso crimine della Shoah, lo

sterminio degli ebrei, cuore di tenebra della guerra nazista e razzista a ogni diversità. Fallimento educativo, sì. Lo gridiamo da anni, perché girando scuole e città vediamo

una malattia che ha tre caratteristiche principali. La prima è la carenza di adulti, ovvero di persone che si pongano dinanzi ai più giovani con la consapevolezza di un compito educativo importante. Si è voluto ridurre gli insegnanti a trasmettitori di

competenze, ma un adulto dinanzi a un giovane è innanzitutto, volente o nolente, un trasmettitore di senso, di ideale, di prospettiva. Molti insegnanti lo sanno e si sentono mortificati in una gabbia burocratica e un paradigma di istruzione che succhia energie

e distrae dal compito educativo. La società in cui viviamo inoltre non prevede che i giovani, al di là della scuola, passino del tempo con gli adulti. A casa è raro, e si sa che a un certo punto l’influenza dei genitori è fragile. Ma tranne che per quella fascia di ragazzi che partecipano ad attività sportive o artistiche o religiose, il rapporto con

adulti è minimo. E così molti tendono e fanno branco, ovviamente, tra loro, lontano da adulti (visti quasi solo con il registro in mano) e spesso nutriti da mode musicali che riversano fango sulla vita, mode non lanciate da ragazzini, ma da adulti che li usano.

Non botteghe, non sezioni di partito, sempre meno oratori, non circoli culturali. Eppure là dove qualche adulto ha il coraggio di porsi come guida e accompagnamento, i giovani riconoscono il valore della cosa. Ma è sempre più difficile, anche per motivi

di burocrazia, di norme, di sospetti. Il secondo elemento di tale malattia è la presunzione che riversando quintali di retorica su temi importanti (dalla ecologia alla fratellanza) si ottenga qualche risultato. Ma la retorica non ha mai educato nessuno.

Occorre la vicinanza nel rischio della scoperta della vita. Il terzo elemento della malattia educativa è la paura di farsi domande, quelle domande che un giovane invece

si trova naturalmente ad affrontare nel momento in cui rischiosamente incontra le esperienze importanti, dall’amore alla morte, dalla scoperta del corpo e dei limiti. Cosa è la vera libertà? la vita è una fregatura? c’è un senso a questo viaggio? Quanti adulti davvero discutono di queste cose tra loro e con i nostri ragazzi? e cosa hanno

da dire? Si copre tutto con la richiesta di buone maniere, di politicamente corretto, di controcorrente artefatto e, ovviamente, con la retorica. Mesi fa in una scuola un

ragazzo lesse un testo che finiva con «E io sono all’inferno». Applausi dell’assemblea composta da ragazzi e insegnanti. Al che blocco l’applauso e chiedo: che fate?

applaudite uno che dice di stare all’inferno? o state scherzando, o sta scherzando lui, oppure, vi sentite tutti all’inferno. Silenzio, anche degli insegnanti. Non accuso nessuno, ma non mi stupisco che se un giovane crede di essere in una specie di inferno abbia poi un atteggiamento distruttivo, anche banalmente offensivo o

dispregiativo. Ma perché ha maturato questa idea? da quali autori? da quale clima, da quale noia, da che organizzazione della sua vita? da che cinismo respirato intorno?

Basta commenti banali dinanzi a fatti gravi. Il problema dei ragazzi siamo noi adulti” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Il cibo che sprechiamo è tolto ai poveri Nel messaggio per la Giornata mondiale dell’alimentazione il Papa rilancia l’obiettivo

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“famezero” Il mondo, un luogo dove scoprire una presenza «Nostra Madre Terra», una lettura cristiana della sfida dell’ambiente Serve uno scatto in avanti Sinodo dei vescovi: i lavori della dodicesima congregazione generale Chi evangelizza non ostacoli l’opera creativa di Dio All’udienza generale il Papa prosegue le catechesi sugli Atti degli apostoli LA REPUBBLICA Pag 11 Svolta della Chiesa: “Peccato ecologico nel diritto canonico” di Paolo Rodari IL FOGLIO Pag 2 Va bene la cittadinanza ecologica, ma a infiammare il Sindoo è il celibato di Matteo Matzuzzi Parole nuove e slogan anni ’70. Il Papa fa mediare a Schönborn Pag III Trasparenza addio di La Gran Sottana Guerre violente in Vaticano. A rimetterci è il capo dei gendarmi e il suo addio fa parecchio male 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Un milione di 40enni in meno. L’economia rischia il blocco di Francesco Riccardi Inizia a pesare il declino demografico. Uno studio di Altimari e Rosina dell’Istituto Toniolo evidenzia i pericoli per il nostro sistema – Paese Pag 3 Il problema dei ragazzi siamo proprio noi adulti di Davide Rondoni La terribile chat sulla Shoah e l’emergenza educativa 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 17 Il Tar non ferma l’Uomo vitruviano: “Sì al prestito” di Pierluigi Panza Bocciato il ricorso, il Louvre avrà leonardo IL GAZZETTINO Pag 12 L’Uomo vitruviano vola in Francia di Roberta Brunetti L’ultima sentenza del Tar del Veneto respinge il ricorso di Italia Nostra contro il prestito del celebra disegno al Louvre 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 9 “Nordest, nelle aziende troppa omertà. Nessuno era disposto a collaborare” di Nicola Munaro Intervista al procuratore capo Bruno Cherchi 10 – GENTE VENETA Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 37 di Gente Veneta in uscita venerdì 18 ottobre 2019:

Pagg 1, 11 La Chiesa? Dialoghi con l’oggi di Alessandro Polet

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Don Luca Peyron, in questi giorni a Venezia, invita il mondo ecclesiale a confrontarsi con il presente. Giovani, social e segni dei tempi: tre snodi irrinunciabili Pag 1 Restauri a Venezia: che non serva un crollo... di Giorgio Malavasi Pag 3 Più che la Turchia, preoccupano gli Usa: mai come ora le politiche americane si mostrano contraddittorie e antidemocratiche di Gianni Bonvicini Pag 4 Una Giornata per abbattere i muri che ci chiudono di Serena Spinazzi Lucchesi Domenica 20 ottobre si celebra la 93a Giornata missionaria mondiale nell’ambito del mese missionario straordinario indetto dal Papa. L’obiettivo, scrive il Pontefice, «è ritrovare il senso missionario della nostra adesione di fede a Cristo». Come fare? Si devono buttare giù tre muri, risponde don Paolo Ferrazzo, responsabile dell’Ufficio missionario diocesano Pag 5 A Ol Moran si punta sull’azione pastorale dei laici di Giovanni Carnio «Lavoriamo sulla formazione, cercando di dare una seria motivazione spirituale e una competenza pratica», dice il sacerdote. Dopo l’inaugurazione di un nuovo pozzo, a breve partiranno i lavori per realizzare due dormitori della scuola primaria. Anna Pistilli: dal mio periodo a Ol Moran ho imparato la gratitudine Pag 6 Al Marcianum l’ecologia di Francesco di Giorgio Malavasi Tra novità e conferme il nuovo cda della Fondazione del Patriarcato, ora si programma il prossimo triennio. Rinnovato l’incarico al presidente Roberto Crosta: «Ripercorreremo con interesse la Laudato si’». Nel consiglio entrano Maria Francesca Guiso, don Longoni e don Marchesi Pag 7 Clima, la costa? «Arretrerà fino a Mira» di Carlotta Venuda Esperti a confronto al Circolo Nardi della Giudecca. L’allarme del ricercatore del Cnr-Ismar veneziano. enetazzo: «Entro il 2050 il Mediterraneo potrebbe innalzarsi di 50 cm e di un metro nel 2100. L’Adriatico, anche nello scenario migliore, salirà di 20-30 centimetri. Servono interventi globali» Pag 9 Consultorio diocesano, più richieste delle possibilità d’accesso di Valentina Pinton Più di 360 le persone che, l’anno scorso, hanno trovato ascolto e aiuto. Ma nonostante le numerose domande, non è possibile accrescere l’offerta. Luca Donadello, presidente del Centro S. Maria Mater Domini: «L’ente pubblico destina le risorse alla sanità. Così ai consultori restano le briciole» Pagg 13 – 15 Dorsoduro, la Visita tocca una Collaborazione di Collaborazioni di Serena Spinazzi Lucchesi, Giorgio Malavasi e Marta Gasparon Da sabato 19 il Patriarca incontra le realtà ecclesiali e il territorio delle parrocchie di San Nicolò dei Mendicoli, Angelo Raffaele, Gesuati, Carmini e San Trovaso. Don Paolo Bellio: «Superata la prima paura, si comprende che collaborare è una ricchezza, un’aggiunta non una perdita». Don Andrea Longhini: «La parrocchia accoglie tutti: chi accende una candela, chi viene a messa e chi sa poco o niente di Chiesa, ma si ferma a parlare con il parroco» Pag 27 Un libro sulla piccola “Salute” di Mestre di Marco Monaco L’opera, a più mani, ripercorre il cammino dell‘Istituzione dell’Antica Scuola dei Battuti e del suo luogo di culto. Da oratorio a parrocchia, fino all’istituzione del santuario diocesano: 700 anni di storia e comunità. La presentazione del volume avverrà venerdì 15 novembre al Laurentianum di Mestre, alle ore 18 Pag 30 Scommettere sull’appartenenza per costruire i politici e i cristiani di domani di Alessandro Polet Il card. Angelo Scola all’M9 di Mestre, presentando il libro della sua biografia, discute sui

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temi di oggi. Presenti Ferruccio de Bortoli, Giuliano Segre, Cesare Mirabelli e Luigi Geninazzi … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’illusione della spesa pubblica di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi La crisi e i conti Pag 1 La notte del sì, ma “salvo intese” di Enrico Marro Pag 3 Due leader agli antipodi, ma il Quirinale tiene il punto e chiede più collaborazione di Marzio Breda Pag 5 “Io mi aspetto lealtà. Questa è una manovra che ci spinge nel futuro” di Massimo Franco Intervista al capo del governo Giuseppe Conte: i partiti non si intestino una misura o l’altra Pag 27 “Io, agnostico, dal Papa. La nostra sfida comune per cibo e ambiente” di Virginia Piccolillo Carlo Petrini:con Francesco un libro-dialogo sull’Enciclica Pag 27 L’attentato anti-semita di Halle è un attacco ai nostri valori di Bruno Forte LA REPUBBLICA Pag 29 M5S-Pd, il futuro salvo intese di Stefano Folli AVVENIRE Pag 1 Buon assegno (post-datato) di Leonardo Becchetti Caute premesse, esigenti promesse Pag 3 Per non assassinare più il futuro (non solo) in Siria di Andrea Ranieri L’esecuzione di Hevrin Khalaf, il gioco dei cinici, i doveri d’Italia e d’Europa IL GAZZETTINO Pag 1 Nella sfida tv le ragioni del partito che non c’è di Luca Ricolfi LA NUOVA Pag 7 Così Zelig maneggia i soldi dei cittadini, “salvo intese” di Luigi Vicinanza Pag 8 Manovra, manca ancora una risposta alla crisi dell’Italia di Francesco Morosini

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Il cibo che sprechiamo è tolto ai poveri Nel messaggio per la Giornata mondiale dell’alimentazione il Papa rilancia l’obiettivo “famezero” In occasione della Giornata mondiale dell’alimentazione - che quest’anno si celebra mercoledì 16 ottobre e ha per tema «Le nostre azioni sono il nostro futuro. Un’alimentazione sana per un mondo #FameZero» - il Papa ha inviato al direttore generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (Fao),

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signor Qu Dongyu, il messaggio che pubblichiamo di seguito in una traduzione dall’originale in spagnolo. A Sua Eccellenza il Signor Qu Dongyu Direttore Generale della FAO La Giornata Mondiale dell’Alimentazione fa eco ogni anno al grido di tanti nostri fratelli che continuano a subire le tragedie della fame e della malnutrizione. Di fatto, nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi decenni, l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile rimane un programma da realizzare in molte parti del mondo. Per rispondere a questo grido dell’umanità, il tema proposto quest’anno dalla FAO: «Le nostre azioni sono il nostro futuro. Un’alimentazione sana per un mondo #FameZero», evidenzia la distorsione del binomio cibo-nutrizione. Vediamo come il cibo cessa di essere un mezzo di sussistenza per diventare un canale di distruzione personale. Quindi, a fronte degli 820 milioni di persone affamate, abbiamo sull’altro piatto della bilancia quasi 700 milioni di persone in sovrappeso, vittime di abitudini alimentari sbagliate. Costoro non sono più semplicemente emblematici della dieta dei “popoli dell’opulenza” (cfr. Paolo VI, Enc. Populorum progressio, 3), ma iniziano ad abitare anche in Paesi a basso reddito, dove si continua a mangiare poco e male, copiando modelli alimentari delle aree sviluppate. A causa della malnutrizione, le patologie legate all’opulenza possono derivare sia da uno squilibrio “per eccesso”, i cui effetti sono spesso diabete, malattie cardiovascolari e altre forme di malattie degenerative, sia da uno squilibrio “per difetto”, documentato dal numero crescente di morti per anoressia e bulimia. È quindi necessaria una conversione del nostro modo di agire, e la nutrizione è un importante punto di partenza. Viviamo grazie ai frutti del creato (cfr. Sal 65, 10-14; 104, 27-28) e questi non possono essere ridotti a mero oggetto di uso e di dominio. Per questo motivo, i disturbi alimentari si possono combattere solo coltivando stili di vita ispirati ad una visione riconoscente di ciò che ci viene dato, cercando la temperanza, la moderazione, l’astinenza, il dominio di sé e la solidarietà: virtù che hanno accompagnato la storia dell’uomo. Si tratta di ritornare alla semplicità e alla sobrietà e di vivere ogni momento dell’esistenza con uno spirito attento ai bisogni dell’altro. Così potremo consolidare i nostri legami in una fraternità che miri al bene comune ed eviti l’individualismo e l’egocentrismo, che producono solo fame e disuguaglianza sociale. Uno stile di vita che ci permetterà di coltivare un rapporto sano con noi stessi, con i nostri fratelli e con l’ambiente in cui viviamo. Per assimilare tale forma di vita, la famiglia ha un posto principale, e per questo la FAO ha dedicato particolare attenzione alla tutela della famiglia rurale e alla promozione dell’agricoltura familiare. Nell’ambito familiare, e grazie alla sensibilità femminile e materna, si impara a godere dei frutti della terra senza abusarne e si scoprono gli strumenti migliori per diffondere stili di vita rispettosi del bene personale e collettivo. D’altra parte, l’attuale interdipendenza tra le nazioni può aiutare a mettere da parte gli interessi particolari e favorire la fiducia e la relazione di amicizia tra i popoli (cfr. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 482). Auspico che il tema di quest’anno ci aiuti a non dimenticare che c’è chi si nutre ancora in modo poco salutare. È crudele, ingiusto e paradossale che, al giorno d’oggi, ci sia cibo per tutti e, tuttavia, non tutti possano accedervi; o che vi siano regioni del mondo in cui il cibo viene sprecato, si butta via, si consuma in eccesso o viene destinato ad altri scopi che non sono alimentari. Per uscire da questa spirale, occorre promuovere «istituzioni economiche e programmi sociali che permettano ai più poveri di accedere in modo regolare alle risorse di base» (Enc. Laudato si’, 109). La lotta contro la fame e la malnutrizione non cesserà finché prevarrà esclusivamente la logica del mercato e si cercherà solo il profitto a tutti i costi, riducendo il cibo a mero prodotto di commercio, soggetto alla speculazione finanziaria e distorcendone il valore culturale, sociale e fortemente simbolico. La prima preoccupazione dev’essere sempre la persona umana, specialmente coloro che mancano di cibo quotidiano e che a malapena riescono a occuparsi delle relazioni familiari e sociali (cfr. ibid., 112-113). Quando la persona umana sarà collocata nel posto che le spetta, allora le operazioni di aiuto umanitario e i programmi di sviluppo avranno un impatto maggiore e daranno i risultati sperati. Non possiamo dimenticare che ciò che accumuliamo e sprechiamo è il pane dei poveri. Signor Direttore Generale, queste sono alcune riflessioni che desidero condividere con Lei in occasione di questa Giornata, mentre chiedo a Dio di benedire ognuno di voi e rendere

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fruttuoso il vostro lavoro, in modo che cresca costantemente la pace al servizio del progresso autentico e integrale di tutta la famiglia umana. Vaticano, 16 ottobre 2019 Francesco Il mondo, un luogo dove scoprire una presenza «Nostra Madre Terra», una lettura cristiana della sfida dell’ambiente Pubblichiamo stralci di «Una grande speranza», il saggio inedito di Papa Francesco che conclude il libro «Nostra Madre Terra. Una lettura cristiana della sfida dell’ambiente» che uscirà il 24 ottobre (Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, euro 15). «Nostra Madre Terra» raccoglie frasi, testi, discorsi e omelie di Papa Bergoglio sul tema della custodia del creato e della promozione di una vita degna per ogni uomo. Introduce il libro una prefazione del patriarca ecumenico Bartolomeo, che sottolinea l’intesa tra ortodossi e cattolici nella tutela - alla luce della fede in Cristo - del dono della creazione e della vita umana. La Sacra Scrittura ci insegna che Dio ha creato il mondo. La liturgia della Chiesa poi ci confida che egli lo ha fatto «per effondere il suo amore» (Messale romano. Prefazio della Preghiera eucaristica IV) su tutto ciò che dal nulla veniva alla vita. Quanto esiste porta dunque con sé un’impronta, una traccia, una memoria - oserei quasi dire genetica - che rinvia al Padre. Ciò significa che, in tutto quanto esiste, il Padre si dona, e dunque lo possiamo incontrare, possiamo avere una qualche esperienza del suo amore, percepire una scintilla della sua paternità. Non esiste niente di così piccolo o povero che non porti in sé questa origine o che la possa perdere del tutto. Possiamo così prendere a prestito le parole dell’autore del Libro della Sapienza, che si rivolge a Dio, dicendo: «Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza? Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita (Sapienza 11, 24-26)». Esiste, dunque, un collegamento continuo, radicale tra tutto ciò che esiste: il mondo proviene da un Dio amore che nel mondo si dona e ci chiama a condividere questo suo modo di esistenza. La creazione tuttavia non è, come spesso si pensa, semplicemente natura e ambiente. Noi siamo creature, anche il tempo che passa è creatura. Ciò vuol dire che non esiste nessuna situazione, nessuna prova o crisi, nessuna gioia o successo, in cui non si possa fare esperienza del Signore, compiere un passo verso di Lui per crescere nell’amicizia con Lui e per poter a nostra volta amare, in quanto follemente amati. Tutto ciò che esiste, esiste dunque per poter “vivere” come Dio, cioè come dono, come amore accolto e consegnato. Ma la creazione può vivere questo solo tramite l’uomo. Solo nell’uomo, microcosmo che condensa in sé l’universo, ma che vive del soffio che il Dio personale ha direttamente insufflato sul suo volto, il mondo può corrispondere alla sua segreta sacramentalità, cioè essere visto come dono. Un dono è sempre una realtà personale: in qualche modo contiene chi lo ha donato e chiede a colui a cui viene offerto proprio di vederlo così, come una realtà trasparente del volto del donatore, un dono fatto per conoscere chi si ama e fare della vita dell’altro una comunione con sé. È compito dell’uomo decifrare in modo libero e creatore la rivelazione di questo dono. Ed è altrettanto compito dell’uomo prendere il mondo nella sua comunione con Dio. La creazione è dunque un luogo in cui siamo invitati a scoprire una presenza. Ma ciò significa che è la capacità di comunione dell’uomo a condizionare lo stato della creazione. Questa è la nostra grande responsabilità. Quando non riusciamo a decifrare la presenza che abita le cose, tutto diventa banale e opaco, smette di essere un mezzo di comunione e diventa un’occasione di tentazione e di inciampo. Tutto questo comincia nel cuore di ciascuno di noi e si diffonde attraverso pensieri, intenzioni, comportamenti, abitudini, sia a livello di singoli che di gruppi sociali. Per essere parte di questa catena che banalizza o deturpa il dono della creazione non è necessario allora essere dei criminali: è “sufficiente” non riconoscere il dono che l’altro — chiunque altro — è, dal familiare al vicino di casa, dal collega di lavoro al povero che incontro per strada, dall’amico al migrante che cerca lavoro o un appartamento dove vivere... Ciò che accade nel cuore dell’uomo ha un

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significato universale e si imprime sul mondo. È dunque il destino dell’uomo a determinare il destino dell’universo. Proprio perché tutto è connesso (cfr. Laudato si’ 42; 56) nel bene, nell’amore, proprio per questo ogni mancanza di amore ha ripercussione su tutto. La crisi ecologica che stiamo vivendo è così anzitutto uno degli effetti di questo sguardo malato su di noi, sugli altri, sul mondo, sul tempo che scorre; uno sguardo malato che non ci fa percepire tutto come un dono offerto per scoprirci amati. È questo amore autentico, che a volte ci raggiunge in maniera inimmaginabile e inaspettata, che ci chiede di rivedere i nostri stili di vita, i nostri criteri di giudizio, i valori su cui fondiamo le nostre scelte. In effetti, è ormai noto che inquinamento, cambiamenti climatici, desertificazione, migrazioni ambientali, consumo insostenibile delle risorse del pianeta, acidificazione degli oceani, riduzione della biodiversità sono aspetti inseparabili dall’inequità sociale (cfr. Evangelii gaudium 52-53; 59-60; 202): della crescente concentrazione del potere e della ricchezza nelle mani di pochissimi e delle cosiddette società del benessere, delle folli spese militari, della cultura dello scarto e di una mancata considerazione del mondo dal punto di vista delle periferie, della mancata tutela dei bambini e dei minori, degli anziani vulnerabili, dei bambini non ancora nati (...) L’ecologia è ecologia dell’uomo e della creazione tutta intera, non solo di una parte. Come in una grave malattia non basta la sola medicina, ma occorre guardare al malato e capire le cause che hanno portato all’insorgere del male, così analogamente la crisi del nostro tempo va affrontata nelle sue radici. Il cammino proposto consiste allora nel ripensare il nostro futuro a partire dalle relazioni: gli uomini e le donne del nostro tempo hanno tanta sete di autenticità, di rivedere sinceramente i criteri della vita, di ripuntare su ciò che vale, ristrutturando l’esistenza e la cultura. Al di là dell’impegno personale e comunitario nella conversione della mentalità - prima ancora che dei comportamenti - un contributo che possiamo offrire come credenti è allora proprio quello della visione. E questa visione la possiamo imparare giorno dopo giorno dalla liturgia, che è l’esperienza quotidiana di trovarci al cospetto del Signore risorto e vittorioso, per partecipare con Lui alla salvezza della creazione tutta intera. Questo è particolarmente evidente proprio nella Messa, che è il ringraziamento a Dio per eccellenza: in essa noi offriamo al Padre ciò che viene da Lui (il grano e l’uva) trasformati dalla sapiente opera dell’uomo per essere il nostro cibo, la nostra bevanda, cioè quegli elementi di cui ci nutriamo per vivere e vivere al meglio delle nostre capacità. Da un lato, infatti, noi tutti lavoriamo per poter mangiare e il nostro cibo è ciò che ci permette di condurre la nostra esistenza quotidiana, di immergerci nelle relazioni importanti, di lottare per le cose che contano, di dare il nostro piccolo o grande contributo alla vita del mondo. Pane e vino sono proprio due simboli per eccellenza, perché mostrano l’unità tra il dono di Dio e il nostro impegno, tra il nostro lavoro e quello altrui, tra la fatica quotidiana e la gioia delle relazioni e della festa. Ora nella Messa noi offriamo al Padre tutto il nostro lavoro e la nostra fatica e tutta la nostra speranza e la nostra gioia; glieli offriamo non perché Lui ne abbia bisogno o li pretenda da noi, ma perché chi ama dona, anzi si dona. Facendo questa offerta, ammettiamo che le cose, trattate semplicemente come tali, sono un mondo che muore e la comunione con questo mondo non ci salva. Solo collegandole a Dio riceviamo da Lui il dono della vita. E infatti, cosa avviene nella Messa? Noi offriamo tutto e mentre offriamo supplichiamo il Padre che mandi lo Spirito Santo, affinché unisca la nostra povertà all’offerta di Cristo, il Suo Figlio, che è venuto affinché ciascuno di noi, in Lui, divenga figlio del Padre. In questo modo il nostro pane e il nostro vino diventano Cristo, il dono per eccellenza del Padre, il nostro vero fratello, nel quale tutti finalmente siamo e ci scopriamo fratelli. Noi crediamo che il mondo è per l’uomo, perché è dono di colui che ci ama ed è a servizio della vita dei figli di Dio, così come ciascuno di noi è a servizio degli altri. E come nell’Eucaristia il pane e il vino diventano Cristo perché sono bagnati dallo Spirito, l’amore personale del Padre, così la creazione tutta (persone, cose, animali, piante, tempo e spazio) diventa una parola personale di Dio quando è usata per amore, per il bene dell’altro, soprattutto di chi ne ha bisogno. Dono, pentimento, offerta, fraternità. Ecco quattro parole che dicono una visione della realtà, della creazione, ma che indicano anche un cammino di guarigione dal bisogno del possesso, del potere, dell’abuso verso la condivisione, la collaborazione e il rispetto. Verso una fraternità universale - come quella che ci ha mostrato san Francesco d’Assisi - patrono di chi lavora per l’ecologia, vera ecologia umana, perché ha il sapore del modo in cui Dio salva il mondo. Ecco la mia grande speranza per il nostro tempo.

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Serve uno scatto in avanti Sinodo dei vescovi: i lavori della dodicesima congregazione generale Per la terza volta il Papa è intervenuto al dibattito nell’aula del Sinodo, dove martedì pomeriggio, 15 ottobre, si è svolta la dodicesima congregazione generale, alla presenza di 173 padri. Come già aveva fatto mercoledì 9 e lunedì 14, il Pontefice ha preso la parola durante la seconda parte della sessione, dedicata alla discussione libera. Subito dopo, all’assemblea è stato proiettato un breve video sull’iniziativa dell’imbarcazione ospedale “Papa Francesco”, inaugurata lo scorso mese di agosto e ideata allo scopo di portare il Vangelo e l’assistenza sanitaria alle centinaia di migliaia di abitanti dello Stato brasiliano del Pará che vivono lungo il Rio delle Amazzoni e sono raggiungibili solo per via fluviale. Moderata dal presidente delegato di turno, il cardinale brasiliano Braz de Aviz, la congregazione è stata l’ultima dedicata al dibattito generale. Da mercoledì mattina, infatti, i padri sono tornati a riunirsi nei circoli minori, che proseguiranno fino a giovedì mattina. Nel pomeriggio poi le relazioni di ciascun gruppo saranno presentate all’assemblea. Dagli ultimi interventi in aula - alcuni dei quali hanno invocato esplicitamente uno scatto in avanti che lasci spazio alla sovrabbondanza dello Spirito senza rinchiudersi in soluzioni funzionalistiche - è emerso ancora una volta, nelle sue mille sfaccettature, il volto del mondo amazzonico, con il suo desiderio di avere una Chiesa che gli sia alleata. Non si può parlare di poveri dimenticando il popolo crocifisso. Si commetterebbe un peccato di indifferenza o di omissione. La comunità ecclesiale non deve smettere, perciò, di denunciare il grido della gente e della terra, partendo dal Vangelo: solo così assumerà un volto samaritano e missionario, a difesa degli ultimi, senza aver paura della dimensione del martirio, perché è meglio «morire per la vita, che vivere per la morte», come diceva Gabriel Maire, un sacerdote francese fidei donum ucciso in Brasile nel 1989. In alcune regioni più vulnerabili dell’Amazzonia il popolo si sente spesso abbandonato. Il pensiero dei padri è andato, ad esempio, ai ragazzi di strada. La Chiesa è chiamata ad aiutarli, a rafforzare la loro autostima, evitando che cadano nel vittimismo, un atteggiamento che non risolve i problemi. È innegabile che la popolazione sia vittima di soprusi e attacchi, ma occorre aiutare le persone a sentirsi corresponsabili della costruzione del proprio destino, attraverso la legittima pretesa di diritti e la conseguente assunzione di doveri. In ogni caso, la richiesta di aiuto da parte del popolo e della terra interpella tutti. I fedeli sono chiamati quindi a riconoscere il valore di ogni creatura. Dalla vocazione cristiana infatti scaturisce la preoccupazione per la cura della casa comune. Si deve agire a più livelli, individualmente, comunitariamente e globalmente. Non è possibile disinteressarsi del futuro delle prossime generazioni. Proteggere l’Amazzonia dalla distruzione operata dagli esseri umani è una responsabilità dell’umanità intera. In proposito l’assemblea ha invocato una risposta globale di fronte ai rischi derivanti dai cambiamenti climatici, suggerendo tra l’altro la creazione di un coordinamento di scienziati e studiosi a livello mondiale che includa anche il contributo della Pontificia accademia delle scienze. È stato auspicato inoltre un lavoro più intenso nell’ambito educativo. E da uno dei padri è venuta la proposta di inserire un nuovo canone all’interno del Codice di diritto canonico: un canone ecologico relativo ai doveri dei cristiani nei confronti dell’ambiente. L’appello alla Chiesa è soprattutto quello di prendere il largo, accogliendo la chiamata a una profonda conversione ecologica, sinodale, integrale a Cristo e al suo Vangelo. L’invito è a camminare uniti come una famiglia universale, nella convinzione che l’Amazzonia non appartiene ai singoli Stati o ai governi. Questi ne sono amministratori e dovranno perciò rendere conto del loro operato. Una vera Chiesa amazzonica “sacramento” della presenza di Cristo in questa regione può prendere forma soltanto attraverso la testimonianza di laici, consacrati e sposati che donano se stessi nel quotidiano. Si avverte l’esigenza di una spiritualità e di una teologia dei sacramenti che si lascino interpellare da ciò che le comunità vivono e riconoscano i doni che esse hanno ricevuto. A tale riguardo è stato incoraggiato un maggiore coordinamento tra le Chiese locali, sull’esempio del lavoro svolto dalla Repam. Evidenziata anche l’esigenza di un dialogo interculturale ispirato dallo Spirito di Pentecoste. L’invito è quello a uscire da un atteggiamento impositivo o di appropriazione, abbracciando una “simmetria delle relazioni”. Occorre che l’umiltà diventi attitudine a un dialogo fondato sulla comune convinzione di essere

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corresponsabili nella cura della casa comune. Ciò che da soli è impossibile, è stato affermato, si può fare insieme. Urgente diventa così la costruzione di un “noi” inclusivo in cui tutte le persone, pur nella differenza, sono necessarie. È stata incoraggiata, a questo scopo, la creazione di processi di formazione per un dialogo interculturale in cui gli apporti teorici siano corroborati dalla pratica e dalla riflessione. Non va perso di vista, comunque, il dramma delle tante comunità - secondo i padri il 70 per cento di quelle che vivono in Amazzonia - che vengono visitate da un sacerdote solo una o due volte l’anno. Sono private dei sacramenti e delle celebrazioni centrali per i cristiani, come la Pasqua, la Pentecoste, il Natale. Ci sono addirittura fedeli che aderiscono ad altre confessioni pur di non rimanere nella condizione di pecore senza pastore. Di fronte a ciò la Chiesa universale non può restare indifferente. Si sono invocate scelte coraggiose, aperte alla voce dello Spirito, senza però dimenticare che resta fondamentale la preghiera al Signore perché mandi operai per la sua messe. La cura del gregge, infatti, appartiene prioritariamente a Dio. Ed è a Lui che vanno chieste le soluzioni. Va riscontrato, peraltro, che oggi la passione per la missione nelle zone più remote sembra essersi affievolita. In varie regioni l’estrattivismo predatorio ha conseguenze devastanti, con grandi progetti minerari non sostenibili che provocano malattie, narcotraffico, perdita di identità. Occorre esortare la comunità internazionale a disimpegnarsi da progetti industriali nocivi alla salute della regione. L’Amazzonia ha più che mai bisogno di missionari, gli unici ai quali i popoli continuano ancora a dare piena fiducia. Prezioso, dunque, è il contributo offerto dalle equipe missionarie itineranti, ispirate dallo stile di Gesù che portava la sua parola di villaggio in villaggio, senza fermarsi e senza trovare dimora. Da parte sua la Chiesa deve passare da una pastorale di conservazione a una pastorale creativa: ci sono infatti strutture ormai superate, che necessitano di aggiornamenti, soprattutto in chiave ecologica. Tutto ciò apre a nuove forme ministeriali in cui il servizio di donne e giovani è fondamentale. All’attenzione dell’assemblea è stato posto ancora una volta il tema dei migranti, sradicati dai contesti originari e trapiantati nelle città, luoghi di contrasti politici, sociali, economici, di vuoto esistenziale e di individualismo esasperato. Qui l’indigeno è un vero e proprio sopravvissuto. Essere presenti con il Vangelo diventa perciò un dovere. Così il tessuto urbano si fa luogo di missione e di santificazione. La raccomandazione è stata quella di promuovere una pastorale specifica che consideri gli indigeni protagonisti. Va tenuto conto, poi, dell’importanza data alla terra nella Bibbia: in questa luce appare chiaramente la gravità dello sradicamento di un popolo dal proprio territorio, la cui difesa è una pietra miliare per la tutela del bioma dell’Amazzonia e degli stili di vita dei popoli tradizionali. È stata raccomandata in tal senso un’azione intransigente a favore degli indigeni. Il diritto alla loro cultura, alla loro teologia e alla loro religione è infatti una ricchezza da salvaguardare nell’interesse di tutta l’umanità. Negli interventi dei padri ha trovato ancora spazio la questione del cibo. È stato osservato che, con il suo patrimonio idrico, l’Amazzonia potrebbe contribuire a ridurre la fame nel mondo: il 26 per cento dell’acqua del pianeta proviene infatti da questa regione. Da qui l’invito a incoraggiare progetti sostenibili che non mettano a rischio questa enorme ricchezza. Nella tarda mattinata di mercoledì 16 si è tenuto il consueto briefing nella Sala stampa della Santa Sede. Vi hanno partecipato il vescovo italiano Ambrogio Spreafico, di Frosinone-Veroli-Ferentino, e i presuli brasiliani Wellington Tadeu de Queiroz Vieira, di Cristalândia, e Pedro José Conti, di Macapá, insieme a Yesica Patiachi Tayori, docente bilingue del popolo indigeno Harakbut e membro della pastorale indigena del vicariato apostolico di Puerto Maldonado in Perú. Chi evangelizza non ostacoli l’opera creativa di Dio All’udienza generale il Papa prosegue le catechesi sugli Atti degli apostoli Con un invito a mettersi alla scuola del Principe degli Apostoli per imparare «che un evangelizzatore non può essere un impedimento all’opera creativa di Dio» il Pontefice si è rivolto ai fedeli presenti mercoledì mattina, 16 ottobre, in piazza San Pietro per l’udienza generale. Proseguendo le catechesi sugli Atti degli apostoli, Papa Francesco ha sottolineato l’importanza di «superare i particolarismi ed aprirsi all’universalità della salvezza», perché il Signore «vuole salvare tutti».

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Cari fratelli e sorelle, buongiorno! Il viaggio del Vangelo nel mondo, che San Luca racconta negli Atti degli Apostoli, è accompagnato dalla somma creatività di Dio che si manifesta in maniera sorprendente. Dio vuole che i suoi figli superino ogni particolarismo per aprirsi all’universalità della salvezza. Questo è lo scopo: superare i particolarismi ed aprirsi all’universalità della salvezza, perché Dio vuole salvare tutti. Quanti sono rinati dall’acqua e dallo Spirito - i battezzati - sono chiamati a uscire da sé stessi e aprirsi agli altri, a vivere la prossimità, lo stile del vivere insieme, che trasforma ogni relazione interpersonale in un’esperienza di fraternità (cfr. Esort. ap. Evangelii gaudium, 87). Testimone di questo processo di “fraternizzazione” che lo Spirito vuole innescare nella storia è Pietro, protagonista negli Atti degli Apostoli insieme a Paolo. Pietro vive un evento che segna una svolta decisiva per la sua esistenza. Mentre sta pregando, riceve una visione che funge da “provocazione” divina, per suscitare in lui un cambiamento di mentalità. Vede una grande tovaglia che scende dall’alto, contenente vari animali: quadrupedi, rettili e uccelli, e sente una voce che lo invita a cibarsi di quelle carni. Egli, da buon ebreo, reagisce sostenendo di non aver mai mangiato nulla di impuro, come richiesto dalla Legge del Signore (cfr. Lv 11). Allora la voce ribatte con forza: «Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo profano» (At 10, 15). Con questo fatto il Signore vuole che Pietro non valuti più gli eventi e le persone secondo le categorie del puro e dell’impuro, ma che impari ad andare oltre, per guardare alla persona e alle intenzioni del suo cuore. Ciò che rende impuro l’uomo, infatti, non viene da fuori ma solo da dentro, dal cuore (cfr. Mc 7, 21). Gesù lo ha detto chiaramente. Dopo quella visione, Dio invia Pietro a casa di uno straniero non circonciso, Cornelio, «centurione della coorte detta Italica, [...] religioso e timorato di Dio», che fa molte elemosine al popolo e prega sempre Dio (cfr. At 10, 1-2), ma non era ebreo. In quella casa di pagani, Pietro predica Cristo crocifisso e risorto e il perdono dei peccati a chiunque crede in Lui. E mentre Pietro parla, sopra Cornelio e i suoi familiari si effonde lo Spirito Santo. E Pietro li battezza nel nome di Gesù Cristo (cfr. At 10, 48). Questo fatto straordinario - è la prima volta che succede una cosa del genere - viene risaputo a Gerusalemme, dove i fratelli, scandalizzati dal comportamento di Pietro, lo rimproverano aspramente (cfr. At 11, 1-3). Pietro ha fatto una cosa che andava al di là della consuetudine, al di là della legge, e per questo lo rimproverano. Ma dopo l’incontro con Cornelio, Pietro è più libero da sé stesso e più in comunione con Dio e con gli altri, perché ha visto la volontà di Dio nell’azione dello Spirito Santo. Può dunque comprendere che l’elezione di Israele non è la ricompensa per dei meriti, ma il segno della chiamata gratuita ad essere mediazione della benedizione divina tra i popoli pagani. Cari fratelli, dal principe degli Apostoli impariamo che un evangelizzatore non può essere un impedimento all’opera creativa di Dio, il quale «vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1Tm 2, 4), ma uno che favorisce l’incontro dei cuori con il Signore. E noi, come ci comportiamo con i nostri fratelli, specie con coloro che non sono cristiani? Siamo impedimento per l’incontro con Dio? Ostacoliamo il loro incontro con il Padre o lo agevoliamo? Chiediamo oggi la grazia di lasciarci stupire dalle sorprese di Dio, di non ostacolare la sua creatività, ma di riconoscere e favorire le vie sempre nuove attraverso cui il Risorto effonde il suo Spirito nel mondo e attira i cuori facendosi conoscere come il «Signore di tutti» (At 10, 36). Grazie. LA REPUBBLICA Pag 11 Svolta della Chiesa: “Peccato ecologico nel diritto canonico” di Paolo Rodari Città del Vaticano - I peccati ecologici all'interno del Codice di diritto canonico. I padri sinodali riuniti in Vaticano per l'assise sull'Amazzonia chiedono che la Chiesa riconosca in modo anche formale che è peccato, per chi ha fede, tradire l'ambiente, bistrattarlo, non averne rispetto. Così anche Vatican News, il portale d'informazione vaticana, parla esplicitamente della richiesta di un «canone ecologico». Si tratta di una proposta che segue un cambio di mentalità non da poco. Per una Chiesa che per secoli si è fissata principalmente sul sesso e sui peccati della carne, infatti, non è poca cosa mostrare una sensibilità differente: tradire l'ambiente è peccato grave quanto disattendere le norme del decalogo. Francesco già lo scorso settembre in Africa aveva chiarito come a causa del clericalismo «ci si concentra sul sesso e poi non si dà peso all' ingiustizia sociale, alla

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calunnia, ai pettegolezzi, alle menzogne». E aveva ricordato come «i peccati più gravi sono quelli che hanno una maggiore "angelicità": orgoglio, arroganza, dominio. E i meno gravi sono quelli che hanno minore angelicità, quali la gola e la lussuria». Mentre del peccato ecologico aveva parlato già nel messaggio per il creato del 2016, dove aveva ricordato come il patriarca Bartolomeo e il suo predecessore Dimitrios per molti anni «si sono pronunciati costantemente contro il peccato di procurare danni al creato, attirando l'attenzione sulla crisi morale e spirituale che sta alla base dei problemi ambientali e del degrado». E aveva detto che di fronte a quello che è «un crimine contro la natura è un crimine contro noi stessi e un peccato contro Dio», occorre né più né meno che un «esame di coscienza» e «pentimento». Dice in proposito monsignor Erwin Krautler, vescovo emerito di Xingu, che «la radice dei peccati ecologici è nella Genesi: "e Dio vide che era cosa buona", recita la Bibbia nel primo libro». In sostanza, l'auspicio è per «una conversione ecologica che faccia percepire la gravità del peccato contro l'ambiente alla stregua di un peccato contro Dio, contro il prossimo e le future generazioni». Di qui la proposta inedita di approfondire e divulgare una letteratura teologica che includa, insieme ai peccati tradizionalmente noti, i «peccati ecologici». Più volte diversi esponenti delle gerarchie ecclesiastiche si sono espressi contro chi sfrutta l'ambiente, direttamente anche contro le lobby del petrolio, ree di lucrare a discapito delle popolazioni più inermi. La scelta di Francesco, ma prima di lui così fecero anche Wojtyla e Ratzinger, è di denunciare senza paura: chi abusa dell'ambiente deve risponderne davanti a Dio. Certo, il Papa in "Laudato Si'" prende le distanze da versioni puramente spiritualistiche dell' ecologia quando afferma che «non possiamo sostenere una spiritualità che dimentichi Dio onnipotente e creatore». Ma nello stesso tempo la condanna, durissima, resta: inquinare, contribuire al riscaldamento globale, alla deforestazione è un peccato. IL FOGLIO Pag 2 Va bene la cittadinanza ecologica, ma a infiammare il Sindoo è il celibato di Matteo Matzuzzi Parole nuove e slogan anni ’70. Il Papa fa mediare a Schönborn Roma. Il Sinodo è giunto al giro di boa, i circoli minori sono di nuovo riuniti, all'inizio della prossima settimana sarà presentata la bozza provvisoria del documento finale. E' già possibile fare un primo bilancio. Il cardinale peruviano Pedro Barreto dice ad Avvenire che "questo Sinodo è come il Rio delle Amazzoni. Nasce come un rigagnolo sulle Ande e chilometro dopo chilometro aumenta di capienza grazie all'acqua che gli regalano gli oltre 1.100 affluenti". In effetti, stando alle sintesi bigiornaliere fornite da Vatican News, la mole degli argomenti all'attenzione di padri, uditori ed esperti, è sempre più ampia. Si parla di tutto: dal dovere della chiesa di "confessare i peccati ecologici" alla medicina tradizionale "valida alternativa" a quella occidentale, dal "fondamentale contributo della scienza per la tutela del Creato" allo "sfruttamento irresponsabile" e alla necessità di pensare a una "cittadinanza ecologica". E fin qui si potrebbe essere davanti alla brochure di programma di una qualche assemblea onusiana o di qualche raduno di movimenti popolari in una località a scelta dell'America latina. Ma è su quello che fin dall' inizio è stato a ragione identificato come il punto del contendere, capace di sfasciare l'assemblea come accaduto nel drammatico doppio Sinodo sulla famiglia, che la goccia continua a scavare lentamente la roccia. C'è sempre un paragrafetto, nel rendiconto ufficiale, dedicato al ministero sacerdotale. C'è chi vorrebbe i viri probati per sopperire numericamente alla carenza di preti nei villaggi dell'Amazzonia, c'è chi invoca il sì alle diaconesse sostenendo di avere avuto il via libera papale - anche se il Papa di recente ha detto che la commissione creata ad hoc sul tema non è approdata a nulla, non riuscendo a trovare tracce concrete dell' esistenza delle signore diacono nei tempi antichi, nonostante le prove addotte dal cardinale Walter Kasper - e ci sono vescovi che addirittura hanno detto di avere già in mente qualche uomo sposato cui affidare eucaristia, confessioni e tutte le altre cose che oggi sono prerogativa assoluta del sacerdote. C'è stata un'evoluzione della discussione sinodale: se nei primi giorni si segnalava che "una necessità legittima non può condizionare un ripensamento sostanziale della natura del sacerdozio e del suo rapporto con il celibato", con il passare delle riunioni la posizione novatrice - che poi novatrice non è, sono teorie e slogan da anni Sessanta-Settanta - s'è fatta più forte, come peraltro profetizzato

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davanti alla stampa da uno dei grandi padri di questo Sinodo, l'austrobrasiliano Erwin Kräutler, teologo della liberazione e per trent'anni vescovoprelato di Xingu, secondo il quale due terzi dei padri sono favorevoli a rivedere le norme che regolano il celibato, anche perché "gli indigeni non comprendono il celibato". Considerato poi che - come sostenuto dai vescovi tedeschi - la mancanza delle vocazioni non è un problema solo amazzonico, qualche partecipante all'assemblea s'è chiesto: "Perché fare eccezioni esclusivamente per questa ragione?". E' qui che si giocherà l'esito del Sinodo: assodato che la maggioranza dei padri è a favore dei viri probati - si vedrà se lo è anche per l'apertura al ministero ordinato per le donne - la soluzione varrà solo per le comunità amazzoniche o sarà subito ripresa altrove, magari in occidente? Il Papa, prevedendo forse i rischi di una spaccatura non indolore, ha chiamato il cardinale Christoph Schönborn a far parte della commissione incaricata di scrivere il documento finale. Proprio come nel 2015, quando proprio l'arcivescovo di Vienna fece saltare fuori dal cappello la formula che rese possibile una maggioranza sul via libera al riaccostamento dei divorziati risposati alla comunione. Pag III Trasparenza addio di La Gran Sottana Guerre violente in Vaticano. A rimetterci è il capo dei gendarmi e il suo addio fa parecchio male C'è da avere paura ad avvicinarsi in Vaticano con tutte queste epurazioni. L'ultimo della serie - che è bella lunga - è il dottor Domenico Giani, da tredici anni capo della Gendarmeria (l'angelo custode del Papa), dimessosi per circostanze non del tutto chiare. Motivazione ufficiale: sarebbe "oggettivamente" responsabile della divulgazione non autorizzata di foto segnaletiche di gentiluomini indagati per affari immobiliari sospetti in quel di Londra. Chiedo al vescovo un parere sul caso. "C'è poco da dire, mi sembra chiaro che non si attendeva altro che dare il benservito al comandante. Costretto alle dimissioni per non aver fatto nulla". Però la foto finita sull'Espresso è uscita dal suo ufficio. "E allora? Anziché scoprire chi è che spedisce ai giornali documenti riservati, si caccia chi da vent'anni ha dimostrato serietà e assoluta fedeltà alla Sede apostolica?". Il Papa ha però mostrato affetto nei confronti di Giani, martedì sera è andato a trovare la famiglia. "Intanto ha accettato subito le dimissioni, il che ha indebolito anche il ruolo della Gendarmeria e la volontà di rendere trasparente la curia e questi palazzi. All'esterno tutto ciò può dar l'idea che ci sia qualcosa da nascondere". E' così? "Io penso che non sia altro che l'ennesima guerra di potere curiale, tra organismi che si contendono spazi e margini operativi. Nella storia della chiesa, anche quella più recente, se ne sono viste parecchie di battaglie così. Certo, fa specie che questi scontri avvengano dopo che negli ultimi anni si è inneggiato alla volontà di trasformare il Vaticano in una casa di vetro". Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 3 Un milione di 40enni in meno. L’economia rischia il blocco di Francesco Riccardi Inizia a pesare il declino demografico. Uno studio di Altimari e Rosina dell’Istituto Toniolo evidenzia i pericoli per il nostro sistema – Paese Un grande vuoto nel mondo del lavoro, un blocco nel motore dello sviluppo del Paese. È il 'buco nero nella forza lavoro' che rischia di crearsi da qui a meno di 10 anni per la combinazione di tre fattori: il declino demografico, anzitutto, con la generazione attuale dei 3034enni italiani che sono 1 milione in meno rispetto ai 40-44enni, la fascia centrale del sistema produttivo, di cui i più giovani dovrebbero prendere il posto. E poi due difetti quasi congeniti del nostro sistema: la difficoltà a far incontrare domanda e offerta di lavoro con un’adeguata formazione e quella di permettere una buona conciliazione tra impegni familiari e professionali. A guardare avanti e mettere sull’avviso del possibile implodere del nostro sistema economico soprattutto per la mancanza di persone è una

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ricerca dell’Istituto Toniolo curata dal demografo Alessandro Rosina, coordinatore scientifico dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo, e Mirko Altimari, docente di Diritto del lavoro della facoltà di Economia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. I dati di partenza in effetti sono chiari e impietosi. L’Italia sconta più di altri gli effetti congiunti dell’invecchiamento della popolazione, della forte riduzione delle nascite, assieme a un minore tasso di occupazione dei giovani e a una loro più scarsa istruzione e formazione. Se infatti nell’Unione europea si registra una diminuzione del 7% della popolazione dei 'giovani adulti' (30-34 anni) rispetto alla classe oggi all’apice della vita lavorativa (40-44 anni), nel nostro Paese il calo è pari al 26%. In termini assoluti i giovani adulti sono 1,1 milioni in meno rispetto alla generazione precedente. Si potrebbe pensare però che essendo relativamente pochi siano in una posizione di vantaggio nel mercato del lavoro. E invece è il contrario: sono meno occupati di quanto non fosse la generazione precedente 10 anni prima – gli attuali 40enni infatti quando erano 30enni avevano un tasso di occupazione del 74,8% contro l’attuale 67,9% – e se si guarda alla media europea il confronto appare impietoso con quasi 12 punti di distacco (67,9% contro 79,1%). Da qui l’allarme dei ricercatori: «In assenza di politiche di rafforzamento demografico e potenziamento del tasso di occupazione (portandolo su livelli però che non hanno precedenti in Italia) è molto verosimile che nei prossimi dieci anni possa ridursi drasticamente il numero di persone nella fascia di età più rilevante per i processi di crescita del Paese». L o studio allora prende in esame tre ipotesi: lo scenario zero in cui non intervengono fattori esterni come una con- sistente immigrazione nella fascia d’età indicata e che il tasso di occupazione resti sui livelli attuali. L’esito in questo caso sarebbe piuttosto drammatico per il nostro sistema- Paese perché già nel 2027 gli occupati nella fascia d’età 40-44 sarebbero appunto 1 milione in meno, il 30% in meno rispetto agli attuali. Un vero 'buco nero' negli uffici e nelle fabbriche d’Italia, un motore produttivo con un cilindro in meno. Lo scenario 1, invece, è più ottimistico e prevede da un lato l’arrivo di un certo numero giovani da altri Paesi e una crescita del livello occupazionale almeno al tasso della generazione precedente. Anche in questo caso, però, il calo prevedibile di lavoratori sarebbe problematico: meno 600mila in termini assoluti pari a un meno 20%. Lo scenario 2 preso in esame è quasi 'fantascientifico', perché calcola che per mantenere lo stesso numero di lavoratori tra una generazione e l’altra il tasso di occupazione degli attuali 30-34enni dovrebbe schizzare fino al 95% cioè la piena occupazione, condizione che non si verifica in nessuno degli altri Paesi europei e che necessiterebbe di azioni forti sia sul sistema dell’istruzione-formazione sia su quello delle politiche attive del lavoro. Tutto questo evidenzia come le possibilità di crescita economica (di produzione di benessere più generale, compresa la sostenibilità del sistema sociale) siamo messe a rischio, in modo sensibilmente maggiore che in passato, dalla riduzione demografica della popolazione in età centrale lavorativa e dagli attuali bassi tassi di occupazione della generazione che sta entrando in tale fase della vita – sottolineano Rosina e Altimari –. In un Paese che già mostra da tempo bassa capacità di crescita, bassa competitività internazionale, bassa produttività e alto debito pubblico». E qui si tocca un altro paradosso fondamentale. Non solo i giovani sono pochi, ma c’è uno «scarso investimento qualitativo sulle nuove generazioni» fra cui il tasso di Neet (non al lavoro né a scuola né in formazione) raggiunge il record europeo del 29%; c’è una bassa incidenza di laureati (26,9% rispetto alla media europea del 39,9%) e per paradosso questi ultimi sono poco valorizzati dal sistema produttivo. Tanto che serpeggia l’incertezza: ben il «T 34,9% dei 30-34enni indagati dal Rapporto giovani dell’Istituto Toniolo pensa che a 45 anni non avrà un lavoro. Se questi sono i dati strutturali negativi siamo condannati o è possibile uscirne? E come? Come è ovvio la questione demografica non è suscettibile di cambiamento significativo anche al netto della possibile immigrazione. La ricerca dunque indica tre piste di intervento tra loro interconnesse. La prima riguarda il miglioramento delle politiche attive del lavoro per far incontrare meglio domanda e offerta, accompagnando realmente i giovani in un percorso di riqualificazione e valorizzazione. La seconda tiene conto del forte impatto delle nuove tecnologie cercando «di mettere in connessione antropologia delle nuove generazioni e tecnologia avanzata nei processi di produzione e innovazione, compensando così la riduzione della forza lavoro con un aumento della produttività e creazione di nuova buona occupazione più che distruzione di vecchia occupazione », spiegano Altimari e Rosina. La terza, non meno importante, a che ha che fare infine con una migliore conciliazione tra tempi di

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cura familiare e di lavoro. In questo caso, sono necessari da un lato un forte investimento nei servizi alla famiglia (asili, baby sitter) ma anche in un approccio culturale più aperto (concessione a richiesta di part-time reversibile, maggiori congedi di paternità) da parte delle imprese e di tutti gli attori sociali per determinare un risultato immediato in termini di maggiore occupazione, in particolare femmini-le, e maggiore sicurezza economica delle famiglie. In prospettiva, ciò può determinare una riduzione degli squilibri demografici attraverso una ripresa della natalità. L’inverno demografico comincia a 'congelare' l’intero sistema-Paese – l’apparato produttivo, il welfare, l’innovazione e l’intrapresa imprenditoriale – e rischia di bloccarne lo sviluppo già nei prossimi 10 anni. E in progressione, i dati delle nascite delle generazioni successive sono ancora peggiori. Occorre cominciare a intervenire da subito per evitare che l’inverno del Paese diventi una vera e propria glaciazione. Pag 3 Il problema dei ragazzi siamo proprio noi adulti di Davide Rondoni La terribile chat sulla Shoah e l’emergenza educativa Da anni diciamo, gridiamo in ogni modo che in Italia c’è una emergenza educativa. Insomma, siamo seduti su una bomba. Che non è il debito pubblico, è un debito ben maggiore. È la fatica, la difficoltà, il fallimento educativo che investe il nostro Paese, e di cui sembra ci si ricordi solo all’emergere di notizie orrende come la esistenza di chat (l’ambiente social di conversazione di gruppo) su cui adolescenti si scambiano tra l’incosciente e il perverso contenuti terribili a proposito dell’immenso crimine della Shoah, lo sterminio degli ebrei, cuore di tenebra della guerra nazista e razzista a ogni diversità. Fallimento educativo, sì. Lo gridiamo da anni, perché girando scuole e città vediamo una malattia che ha tre caratteristiche principali. La prima è la carenza di adulti, ovvero di persone che si pongano dinanzi ai più giovani con la consapevolezza di un compito educativo importante. Si è voluto ridurre gli insegnanti a trasmettitori di competenze, ma un adulto dinanzi a un giovane è innanzitutto, volente o nolente, un trasmettitore di senso, di ideale, di prospettiva. Molti insegnanti lo sanno e si sentono mortificati in una gabbia burocratica e un paradigma di istruzione che succhia energie e distrae dal compito educativo. La società in cui viviamo inoltre non prevede che i giovani, al di là della scuola, passino del tempo con gli adulti. A casa è raro, e si sa che a un certo punto l’influenza dei genitori è fragile. Ma tranne che per quella fascia di ragazzi che partecipano ad attività sportive o artistiche o religiose, il rapporto con adulti è minimo. E così molti tendono e fanno branco, ovviamente, tra loro, lontano da adulti (visti quasi solo con il registro in mano) e spesso nutriti da mode musicali che riversano fango sulla vita, mode non lanciate da ragazzini, ma da adulti che li usano. Non botteghe, non sezioni di partito, sempre meno oratori, non circoli culturali. Eppure là dove qualche adulto ha il coraggio di porsi come guida e accompagnamento, i giovani riconoscono il valore della cosa. Ma è sempre più difficile, anche per motivi di burocrazia, di norme, di sospetti. Il secondo elemento di tale malattia è la presunzione che riversando quintali di retorica su temi importanti (dalla ecologia alla fratellanza) si ottenga qualche risultato. Ma la retorica non ha mai educato nessuno. Occorre la vicinanza nel rischio della scoperta della vita. Il terzo elemento della malattia educativa è la paura di farsi domande, quelle domande che un giovane invece si trova naturalmente ad affrontare nel momento in cui rischiosamente incontra le esperienze importanti, dall’amore alla morte, dalla scoperta del corpo e dei limiti. Cosa è la vera libertà? la vita è una fregatura? c’è un senso a questo viaggio? Quanti adulti davvero discutono di queste cose tra loro e con i nostri ragazzi? e cosa hanno da dire? Si copre tutto con la richiesta di buone maniere, di politicamente corretto, di controcorrente artefatto e, ovviamente, con la retorica. Mesi fa in una scuola un ragazzo lesse un testo che finiva con «E io sono all’inferno». Applausi dell’assemblea composta da ragazzi e insegnanti. Al che blocco l’applauso e chiedo: che fate? applaudite uno che dice di stare all’inferno? o state scherzando, o sta scherzando lui, oppure, vi sentite tutti all’inferno. Silenzio, anche degli insegnanti. Non accuso nessuno, ma non mi stupisco che se un giovane crede di essere in una specie di inferno abbia poi un atteggiamento distruttivo, anche banalmente offensivo o dispregiativo. Ma perché ha maturato questa idea? da quali autori? da quale clima, da quale noia, da che organizzazione della sua vita? da che

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cinismo respirato intorno? Basta commenti banali dinanzi a fatti gravi. Il problema dei ragazzi siamo noi adulti. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 17 Il Tar non ferma l’Uomo vitruviano: “Sì al prestito” di Pierluigi Panza Bocciato il ricorso, il Louvre avrà leonardo Milano. «C’è un giudice a Venezia» twittavano, trionfalmente, cinque giorni fa gli oppositori del prestito dell’«Uomo vitruviano» di Leonardo al Louvre alla notizia della sospensione della partenza chiesta dal Tar. E questo giudice c’è davvero: si chiama Alberto Pasi, è il presidente della Seconda sezione del Tar del Veneto che ieri ha però respinto il ricorso di Italia Nostra contro la partenza del disegno di Leonardo e contro il memorandum firmato il 14 settembre tra il ministro per i Beni culturali Dario Franceschini e il suo omologo francese. Nella grande mostra che aprirà il 24 ottobre al Louvre su Leonardo, dunque, il celebre disegno custodito alle Gallerie dell’Accademia ci sarà. Il ricorso, scrive il Tar nell’ordinanza, «non presenta sufficienti elementi di fondatezza» e il Mibact non è incompetente perché intervenuto «in un momento in cui le attività istruttorie da parte degli organi competenti si erano già concluse». Inoltre, il memorandum tra i ministeri di Italia e Francia «non costituisce di per sé un vincolo per l’azione amministrativa». L’ordinanza offre anche interpretazioni su nodi scoperti nelle controversie sui prestiti. Il «carattere identitario» dell’«Uomo vitruviano» nelle Gallerie dell’Accademia «non esclude tassativamente l’opera dal prestito», che viene ricondotta tra quelle prestabili «in attuazione di accordi culturali con istituzioni museali straniere in regime di reciprocità» come, in passato, «La Tempesta di Giorgione» e il disegno di Michelangelo «La caduta di Fetonte». Le criticità conservative, conclude l’ordinanza, «possono considerarsi risolvibili con precise cautele sulla movimentazione, sulla riduzione del numero di giorni di esposizione» e, soprattutto, con un lungo «riposo al buio» al rientro dell’opera il 14 dicembre. Per il ministro Franceschini, «il Tar dichiara pienamente legittimo l’operato del Mibact e ora può partire la grande operazione culturale italo-francese delle due mostre su Leonardo a Parigi e Raffaello a Roma». Aggiunge il ministero in una nota: «Il Tar riconosce che l’amministrazione dei beni culturali ha agito in modo corretto e trasparente». Punta su altro il giudizio della ricorrente sconfitta, Italia Nostra: «Se l’essere inseriti nella lista dei beni che appartengono al fondo principale di un museo non riesce a impedire l’espatrio e le indicazioni dei conservatori sono tutte opinabili, oggi non è un bel giorno per la tutela. Italia Nostra non si arrende e non si ferma perché considera una vittoria aver sollevato con determinazione e coraggio la questione irrisolta da tanti, troppi anni, dei prestiti». Secondo il presidente del Codacons Veneto, Franco Conte, l’ordinanza «ha ribadito che l’arte è importante se è usufruibile, un punto che è stato espresso in udienza anche dall’Avvocatura di Stato». Ancora un po’ diviso il mondo della cultura. Per Vittorio Sgarbi è «una vittoria per l’Italia e l’Europa»; per Tomaso Montanari «il potere politico ha deciso estromettendo il sapere scientifico». IL GAZZETTINO Pag 12 L’Uomo vitruviano vola in Francia di Roberta Brunetti L’ultima sentenza del Tar del Veneto respinge il ricorso di Italia Nostra contro il prestito del celebre disegno al Louvre Venezia. L'Uomo Vitruviano volerà in Francia per essere esposto al Louvre nella grande mostra dedicata a Leonardo Da Vinci. Alla fine il Tar del Veneto ha respinto la richiesta di Italia Nostra di sospendere il contestato scambio tra sette disegni leonardeschi (con l'Uomo, altri sei) conservati nel caveau delle Gallerie dell'Accademia di Venezia, che ora potranno essere ammirati fino al 14 dicembre a Parigi, e una serie di dipinti di Raffaello Sanzio, da esporre nella mostra che le Scuderie del Quirinale dedicheranno, il prossimo anno, all'altro genio del Rinascimento italiano. Tira un sospiro di sollievo Dario

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Franceschini, il ministro dei Beni culturali che a fine settembre aveva firmato con il collega francese il memorandum che sanciva lo scambio. Per i giudici non c'è «vizio di incompetenza del ministro», che non ha scavalcato i competenti dirigenti. Delusione tra le fila di Italia Nostra che avevano puntato sul «carattere identitario» dell'opera, che per i giudici «non è assoluto». E sulle precarie condizioni del foglio, fragilissimo e con un inchiostro che scolora. Ma in questo caso, per i giudici, fanno fede gli ultimi pareri dell'Opificio delle pietre dure e dell'Istituto centrale di restauro, che superano quelli «maggiormente cautelativi» che avevano dato gli esperti delle Gallerie dell'Accademia. L'UDIENZA - Un'udienza attesissima, quella di ieri. Con la mostra parigina alle porte - l'inaugurazione è il 24, il vernissage domani - il Tar, che inizialmente aveva fissato la discussione della sospensiva proprio il 24, l'aveva poi anticipato per sentire il contraddittorio tra le parti ed eventualmente bloccare la partenza. Per circa tre quarti d'ora i giudici della seconda sezione - il presidente Alberto Pasi, con Stefano Mielli e Maria Giovanna Amorizzo - hanno ascoltato le varie ragioni. L'avvocato Alessandro Sartore Caleca, per Italia Nostra, ha insistito sui limiti degli ultimi pareri favorevoli al trasferimento, emessi senza nemmeno aprire la teca dove è conservato un disegno già fessurato che «potrebbe tornare da Parigi a metà». «Non c'è rischio, lo dicono i pareri dei massimi esperti» ha ribattuto il capo dell'Avvocatura distrettuale dello Stato, Stefano Maria Cerillo, costituitosi per il Mibact con l'avvocato Antonella Daneluzzi. «L'importanza di questa causa è sulla valorizzazione del bene culturale - ha spiegato - che è finalizzata alla fruizione, non proprietaria». Tesi sostenuta anche dagli avvocati del Codacons, Franco Conte e Marina Volpato. «Un bene artistico è tale se è fruibile. E la cultura non può costruire muri» ha commentato Conte. L'ORDINANZA - I giudici del Tar si sono ritirati all'una e mezza. Tre ore dopo avevano già depositata la loro ordinanza. Sette pagine scarse per respingere la sospensiva di un ricorso che «non presenta sufficienti elementi di fondatezza». I giudici promuovono il memorandum in quanto siglato da Franceschini il 24 settembre, il giorno dopo il parere positivo inviato via mail dal direttore delle Gallerie dell'Accademia. E smontano l'obiezione legata al fatto che l'Uomo fosse stato inserito, nel 2018, nell'elenco delle opere identitarie dell'Accademia, «generalmente escluse dal prestito». Un elenco che, per i giudici, «non ha individuato delle opere che in modo assoluto ed inderogabile non possono uscire». Tanto che in passato altri pezzi in quell'elenco sono stati prestati: da La tempesta di Giorgione, alle Visioni dell'Aldilà di Bosch, al disegno di Michelangelo La caduta di Fetonte. Quanto ai possibili danni che potrebbe patire l'opera per una nuova esposizione, dopo quella di quest'estate a Venezia, i giudici rimandano agli ultimi pareri tecnici per cui «le criticità possono considerasi risolvibili con precise cautele sulla movimentazione, sulla riduzione dei giorni di esposizione e con condizioni di illuminamento limitate». Il fatto, infine, che questa doppia mostra nel giro di pochi mesi possa comportare, per l'Uomo Vitruviano, un riposo al buio più lungo è una scelta dell'amministrazione «non sindacabile dal giudice». Nessun vizio, insomma, per un prestito che «valorizza al massimo il patrimonio», nell'ambito di uno scambio tra Paesi. LE REAZIONI - «Il Tar ha riconosciuto la piena legittimità dell'operato dell'amministrazione che ha agito in modo corretto e trasparente» ha commentato, a caldo, il Ministero. Mentre Franceschini ha twittato soddisfatto: «Ora può partire le grande operazione culturale italo-francese delle due mostre su Leonardo a Parigi e Raffaello a Roma». Delusi ma anche battaglieri da Italia Nostra. «Questa è una sconfitta per la tutela» hanno commentato, senza escludere un ulteriore ricorso per un «precedente pericoloso» sulla «questione irrisolta da tanti, troppi anni, dei prestiti e dei viaggi delle opere d'arte di inestimabile valore custoditi nei nostri musei». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 9 “Nordest, nelle aziende troppa omertà. Nessuno era disposto a collaborare” di Nicola Munaro Intervista al procuratore capo Bruno Cherchi

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Ciò che più preoccupa il procuratore capo antimafia di Venezia, Bruno Cherchi, è «la cortina di omertà» che si respira in Veneto e che adesso emerge prepotente. Procuratore Cherchi, perché questo silenzio degli imprenditori? «Pensiamo possa derivare da un'errata valutazione della situazione da parte di questi imprenditori. C'è una sottovalutazione culturale nel pensare di poter trattare a pari rapporti con criminali». In che senso? «Pensavano all'inizio di poter gestire in prima persona questo tipo di rapporti non rendendosi conto che non è possibile. La criminalità organizzata ha forme di intervento che non è possibile arginare da soli. Rapporti creati su finte amicizie e finti interessi, ma una volta che si entra in difficoltà quest'amicizia si trasforma in minacce e interventi protervi». Di fronte, persone senza scrupoli... «E che non si fanno problemi a dire Io sono un affiliato, un calabrese e queste cose le risolviamo in maniera diversa. Quando poi qualcuno dice Vado a denunciare, ecco innestarsi un intervento per spiegare che queste cose non si fanno. Invece quello che diciamo è di denunciare sempre tutto». Dietro a un simile comportamento delle vittime, soltanto la mancata valutazione di chi avevano di fronte? «No, abbiamo constatato anche una preoccupazione di non ricevere la necessaria tutela da parte della procura distrettuale e delle forze di polizia. Che invece ci sono e sono in grado di assicurare quanto serve. Chi non denuncia ha paura di persone che possono diventare minacciose improvvisamente. È vero, può creare una certa apprensione ma deve essere superata. Va rotto questo sistema: il loro unico interesse è riciclare denaro sporco e acquisire il controllo delle società per usarle come lavatrici. Vero che il denaro immediato fa gola, ma uscirne da questa rete è impossibile». Così vi siete scontrati con un muro. Nessuno delle vittime voleva collaborare. «Sì, e non è giusto. Non vorremmo trovarci di fronte a una situazione che richiama vecchie conoscenze di altri ambiti territoriali del paese. Ma non è giusto non solo per il dato penalmente rilevante, ma perché come Distrettuale siamo in grado di tutelare tutti coloro che hanno subito usura e vogliono denunciare». Per questo le perquisizioni? «C'è un dato che allarma, il fatto di essere costretti a fare le perquisizioni per rintracciare la documentazione necessaria ad approfondire i rapporti della cosca con le imprese». In più, la presenza di notaio tra gli indagati. Forse il segno che qualcosa sta cambiando? «In Veneto non si deve più parlare di penetrazione, ma di radicamento delle cosche mafiose. Che si siano rivolte a un notaio e ci sia un atto ufficiale, dà la cifra di come ormai sia tutto innervato nella società». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 L’illusione della spesa pubblica di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi La crisi e i conti Dopo la crisi del 2008 le banche centrali hanno fatto il possibile per evitare che si ripetesse il disastro degli anni Trenta e la crescita è ripresa, quasi ovunque. Oggi per sostenerla ed evitare la recessione, che alcuni ritengono si stia avvicinando, occorrono però altri strumenti. Una teoria assai diffusa fra gli economisti è che nel mondo vi sia troppo risparmio, poca spesa, pochi investimenti, quindi scarsa domanda e crescita insufficiente. La scarsità di domanda a livello globale dipende in gran parte dalla straordinaria quantità di risparmio delle famiglie cinesi. Mentre in Europa e negli Stati Uniti le famiglie risparmiano il 10 per cento circa del loro reddito disponibile (un po’ più in Europa, un po’ meno negli Stati Uniti), il tasso di risparmio delle famiglie cinesi è il 50 per cento. Il motivo è che in Cina non esiste, o quasi, una rete di sicurezza pubblica: in molte province non vi è un sistema sanitario pubblico, né scuole pubbliche, né pensioni

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pubbliche. Il risultato è che le famiglie risparmiano per mandare i figli a scuola, per far fronte all’eventualità di una malattia o semplicemente per la loro vecchiaia. Basterebbe che la Cina, che rappresenta poco meno di un quinto dell’economia mondiale, introducesse una rete di sicurezza pubblica, per far scomparire, o quasi, il problema dell’eccesso di risparmio al mondo. Prima o poi ci si arriverà ma finora non è accaduto. Una guerra commerciale con la Cina, che ostacolerebbe il consumo dei nostri prodotti da parte delle famiglie cinesi, non farebbe che peggiorare la situazione. Anziché affrontare il macigno, il consumo cinese, si discute del sassolino che potrebbe compensarlo. Si dice cioè che sono i Paesi occidentali che devono risparmiare di meno. Una conclusione che normalmente si traduce in: bisogna aumentare la spesa pubblica. Non è così. Il Giappone inse gna: in trent’anni la spesa pubblica è cresciuta di dieci punti, in percentuale del Pil: dal 30 al 40 per cento, senza apprezzabili effetti sulla crescita che rimane prossima a zero. Il problema è che spesa pubblica significa per lo più infrastrutture (gli investimenti pubblici in Giappone rappresentano circa il 20 per cento del totale della spesa pubblica) e spesa sociale, due componenti che spesso non aiutano la crescita nel lungo periodo. La spesa sociale (che è necessaria per sostenere la solidarietà) perché spesso crea incentivi a uscire dal mercato del lavoro relativamente presto, mentre l’aspettativa di vita aumenta, perché riduce gli incentivi a trovare un posto di lavoro quando lo si è perso. Le infrastrutture perché oltre a un certo livello, necessario per eliminare colli di bottiglia che effettivamente ostacolano la crescita, il contributo delle opere pubbliche alla crescita diminuisce rapidamente. Lo stesso accade in molti Paesi europei dove la spesa pubblica si aggira intorno al 50 per cento del Pil. Ma aumentare la spesa pubblica non è il solo modo per ridurre il risparmio di un Paese. L’alternativa è abbassare le tasse, cioè aumentare la capacità di spesa delle famiglie e delle imprese, anziché dello Stato. L’obiezione è che molte famiglie, invece di spendere di più, deciderebbero di risparmiare il maggior reddito di cui disporrebbero grazie al taglio delle tasse. È possibile che alcune lo facciano, soprattutto in un mondo in cui l’incertezza è aumentata. Ma non tutte. Gli «80 euro» del governo Renzi furono in gran parte spesi e contribuirono all’aumento dei consumi (come hanno dimostrato Andrea Neri, Concetta Rondinelli e Filippo Scoccianti in un lavoro di ricerca della Banca d’Italia). Il modo per far sì che un taglio delle tasse si traduca in maggiori consumi è concentrarlo sui redditi più bassi, cioè sulle famiglie che risparmiano meno (lo studio della Banca d’Italia mostra che l’effetto positivo sui consumi è stato maggiore per le famiglie con minore ricchezza liquida o con redditi più bassi: queste hanno dedicato ai consumi circa l’80 per cento del bonus). Lo stesso vale per le imprese. Le grandi aziende oggi sono piene di liquidità e se non ne hanno a sufficienza possono emettere obbligazioni e scontarle alla Bce in cambio di liquidità. Non è automatico che per queste imprese meno tasse significhino più investimenti. Ma le imprese più piccole, anche quelle più produttive che diventeranno grandi perché efficienti in futuro, non possono emettere obbligazioni e devono portare in banca garanzie reali per ottenere un allargamento della loro linea di credito. Per queste aziende, meno tasse significano più investimenti. Ma sia che si usi la politica fiscale aumentando la spesa (un errore) sia che la si usi riducendo le tasse (giusto), il vincolo di bilancio dello Stato rimane. Sono pochi i Paesi che possono permettersi di lasciar aumentare il debito. Sono quelli con poco debito pubblico e grande credibilità accumulata in passato che possono permettersi di lasciar crescere il debito per qualche anno. Altri, come il nostro, no. In questi Paesi un ulteriore aumento del debito può scatenare una crisi che vanificherebbe il tentativo di aumentare la domanda e renderebbe necessario il contrario: aumenti di tasse o tagli draconiani alla spesa. In Paesi come il nostro meno tasse significa meno spesa. Fortunatamente l’evidenza empirica suggerisce che una simile manovra - tagli di spesa accompagnati da riduzioni delle tasse - sarebbe anch’essa espansiva. Pag 1 La notte del sì, ma “salvo intese” di Enrico Marro Il modo in cui il governo, l’altra notte, ha approvato la manovra non promette niente di buono. Lo stesso verbo approvare è ottimistico. Infatti, il disegno di legge di Bilancio e il decreto legge fiscale che lo accompagna hanno ricevuto l’ok del Consiglio dei ministri «salvo intese», la famigerata formula cui ci aveva abituato il Conte 1 e che sta a significare che l’esecutivo, nonostante la maratona notturna, non è riuscito a trovare

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pieno accordo sui provvedimenti della manovra da 30 miliardi per il 2020. I contrasti fra i ministri, in particolare sulla riduzione del tetto all’uso del contante e sull’inasprimento del carcere per i grandi evasori, evidenziano un alto livello di conflittualità nella risicata maggioranza che sostiene il Conte 2, dove ciascuno dei quattro partiti (M5s, Pd, Leu e Iv) ha potere di vita e di morte sull’esecutivo. E siamo solo all’inizio. Quando i due provvedimenti arriveranno in Parlamento la battaglia si trasferirà lì. Sarà scontro soprattutto tra 5 Stelle e Italia viva, il nuovo partito di Matteo Renzi. E fin d’ora si può affermare che sarà un miracolo se Conte riuscirà, ovviamente ricorrendo al voto di fiducia, a portare a casa la manovra senza stravolgimenti. Una manovra che, comunque vada, resterà di scarso impatto sulla crescita e di corto respiro. Basti dire che, tra un anno, la principale questione che dovrà affrontare il governo, qualunque esso sia, sarà la sterilizzazione delle clausole di salvaguardia. Gli aumenti dell’Iva già programmati dai precedenti governi sono stati infatti cancellati totalmente per il 2020 ma solo parzialmente per gli anni successivi. E così la legge di Bilancio 2021 dovrà trovare circa 18 miliardi per evitare il rincaro delle aliquote Iva. Come dire che siamo punto accapo. Per il resto, la manovra 2020 ha il merito di mettere al centro la lotta all’evasione fiscale, il cui livello anomalo (109 miliardi di euro di mancato gettito all’anno) è uno dei grandi problemi dell’Italia. Più di 3 miliardi di entrate sono già cifrati, grazie a una stretta sulle compensazioni indebite tra crediti e debiti fiscali e previdenziali e alle misure contro le frodi nel settore dei carburanti. Altre risorse potranno arrivare dalla campagna, sostenuta anche dalla lotteria degli scontrini, per la diffusione dei pagamenti elettronici. L’enfasi posta dal governo sulla tracciabilità sembra giustificata dai risultati ottenuti quest’anno con l’obbligo della fatturazione elettronica. Secondo le opposizioni si rischia uno Stato di polizia. Slogan a parte, l’esecutivo farà bene ad aiutare i piccoli esercenti per le commissioni che devono sostenere sulle transazioni elettroniche. Nel frattempo, avrebbe potuto evitare l’introduzione di balzelli vecchia maniera, tipo l’aumento da 50 a 150 euro delle imposte sul trasferimento di immobili tra privati o il bollo di 2,4 euro per ciascun foglio dei certificati penali. Incombe poi il taglio delle detrazioni fiscali sui redditi superiori a 120 mila euro: meno dell’1% dei contribuenti, oltretutto già tartassati. Demagogiche sembrano anche le misure sul carcere per chi evade le tasse. Ci limitiamo a osservare che i grandi evasori, prima di tenerli in prigione fino a 8 anni anziché 6, bisogna prenderli e condannarli. Va invece sostenuta, anche se oggi può sembrare velleitaria, la web tax sulle grandi imprese di servizi digitali. La promessa di tagliare le tasse sul lavoro, il cosiddetto cuneo, è rispettata a metà: la misura partirà il prossimo luglio e in media dovrebbe dare una quarantina di euro al mese a chi sta tra 8 mila e 35 mila euro di reddito, compresi quindi anche quelli che già prendono il bonus Renzi (redditi fino a 26.600 euro). Pochi soldi al ceto medio, mentre resterebbero fuori ancora una volta gli incapienti, quelli con meno di 8 mila euro l’anno, toccati solo marginalmente dal Reddito di cittadinanza che, peraltro, avrebbe bisogno di una messa a punto per restringere sia gli abusi sia la trappola dell’assistenzialismo. Una spinta maggiore alla crescita verrà senz’altro dal bonus fino al 90% sui lavori di rifacimento delle facciate degli edifici, una buona idea. Lodevole anche lo sforzo di un piano di una cinquantina di miliardi in 15 anni per le infrastrutture, ma va detto che serve a poco accumulare piani (come si è fatto in questi ultimi anni) se poi i soldi stanziati non si riescono a spendere. Il quadro, insomma, non è esaltante. Una manovra modesta, costruita in fretta e furia dal governo insediatosi il 5 settembre. Spetta ora alla maggioranza, in Parlamento, farne la base per consolidare il Conte 2 anziché per lanciare la campagna elettorale. Pag 3 Due leader agli antipodi, ma il Quirinale tiene il punto e chiede più collaborazione di Marzio Breda Non potrebbero essere più diversi, per stile e approccio politico ai problemi, i due capi di Stato ieri insieme alla Casa Bianca. Da un lato c’è Sergio Mattarella, con lo sguardo più aggrottato del solito, le spalle chiuse, la voce bassa e tesa, che sollecita «un metodo collaborativo per trovare insieme delle soluzioni» allo scontro sui dazi ed evitare così che si produca una «spirale di ritorsioni da ambo le parti». Dall’altro lato c’è Donald Trump, che fissa con aria spavalda le telecamere, allarga assertivamente le braccia per rafforzare i concetti, parla con toni stentorei, evoca i dazi come «un risarcimento

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dovuto» all’America e accusa semmai l’Europa d’aver «approfittato della debolezza» dei suoi predecessori, e chiude il discorso con un «adesso pari siamo», concedendo una complice strizzatina d’occhio a qualche cronista. Non potrebbero essere più diversi di così, per stile e approccio politico ai problemi, i due capi di Stato che ieri si sono incontrati alla Casa Bianca. A rivelarlo, a conferma degli indizi offerti dal linguaggio del corpo, la sostanza di quanto si sono detti e che è andato oltre lo spinoso dossier della guerra commerciale tra Ue e Usa, dilagando sul blitz turco in Siria, sulla Nato, sugli F-35, sui rapporti con la Cina. Semplici discordanze, le definiscono con diplomatica edulcorazione gli staff presidenziali. Ora, che su alcuni temi Trump andasse all’attacco era scontato, visto che gli Stati Uniti sono già in campagna elettorale. Fatale dunque che nella delegazione del Quirinale nessuno si illudesse che questa fosse una missione facile. Se non altro perché era destinata a mettere a confronto due visioni geopolitiche che devono comunque continuare a sopravvivere. Pena la disgregazione mondiale. Certo, la visita è cominciata con l’elogio del «rapporto speciale» che lega i due Paesi, «mai così vicini». Ma, fin da prima della conferenza stampa, il padrone di casa aveva promesso scintille proprio sui dazi, innescando subito un batti e ribatti con l’ospite. Mattarella, rivelatosi più arcigno di quel che molti si aspetterebbero data la sua mitezza esteriore, ha tenuto il punto. Invocando «un metodo collaborativo» - il suo modo di declinare la moral suasion - in grado di evitare ritorsioni di segno opposto tra pochi mesi, dopo l’atteso pronunciamento del Wto sui finanziamenti Usa alla Boeing. E qui, su questa guerra economica, parlava quasi più per l’Europa che per l’Italia, considerato che i dazi minacciati dagli Stati Uniti valgono solo lo 0,8 per cento delle nostre esportazioni. Alla fine, Trump si è rassegnato con un’apertura: «Accogliamo l’invito dell’Italia a cercare un accordo con la Ue sul tema del deficit commerciale. Potrei risolverlo ora, ma sarebbe troppo pesante. Non voglio essere duro». Altro terreno di scontro, e di forte presa elettorale oltreatlantico, la Nato e la crisi siriana. Con Trump che insisteva sulla necessità di un riarmo e ammodernamento dell’alleanza (il che si traduce in un «versate più soldi»), e con Mattarella che gli dava sulla voce ricordando che «l’Italia è il quinto contributore della Nato e il secondo per quel che concerne le missioni all’estero». Sulla Siria oggi sotto attacco da Erdogan, infine, l’ultimo acuto del presidente americano e l’ultima secca replica del collega giunto da Roma. Spetta a Damasco e Ankara risolvere il problema curdo, dice il primo, «e forse basteranno le sanzioni». « Amicus Plato, sed magis amica veritas», è la risposta del nostro capo dello Stato. Il quale, citando la sentenza latina, non cede: «Platone è mio amico, ma la verità lo è di più. Quello della Turchia resta un grave errore, che l’Italia ha condannato senza esitazioni». Pag 5 “Io mi aspetto lealtà. Questa è una manovra che ci spinge nel futuro” di Massimo Franco Intervista al capo del governo Giuseppe Conte: i partiti non si intestino una misura o l’altra Attenti ai ribaltoni: non portano fortuna. Salvini docet, e Renzi prenda nota. Quanto alla manovra finanziaria, a sentire Giuseppe Conte non è pallida ma splendente di futuro. In questa intervista, la prima dopo l’approvazione del documento da sottoporre alla Commissione Ue, il premier consegna un messaggio iperpositivo, forte dello spread basso e dei buoni rapporti con l’Europa. Si sente dire che la manovra economica è piuttosto pallida. Era inevitabile, o hanno pesato le divisioni nella maggioranza? «È una manovra coraggiosa, nel segno della crescita pur avendo risorse limitate. Solo chi non l’ha letta può definirla pallida. E spinge l’Italia nel futuro. Abbassiamo le tasse e con il cuneo fiscale diamo più soldi in busta paga ai lavoratori, circa 500 euro l’anno a persona. Eliminiamo il super ticket. Ci sono 600 milioni in più per le famiglie, asili nido gratuiti e 100 milioni in più per i disabili. E poi c’è la madre di tutte le battaglie: la lotta all’evasione fiscale, che rappresenta un cambio di passo mai visto prima. E tutto questo senza aumentare l’Iva e non toccando quota 100». Senza aumentarla solo per ora. Avete disinnescato le clausole di salvaguardia per il 2020. Ma per quelli dopo ammontano a 28,8 miliardi di euro. Ne mancano 18. Il problema si riproporrà, no?

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«Non è detto. Contiamo di recuperare 9 miliardi nel prossimo triennio dalle misure di contrasto alla lotta all’evasione. E la cifra può aumentare di molto col piano che premia i contribuenti onesti con un superbonus. Sono risorse che useremo per abbassare le tasse e impedire che l’Iva aumenti negli anni successivi. E la diminuzione dello spread ci permetterà di risparmiare oltre 18 miliardi nel prossimo triennio. La fiducia di cittadini, imprese e mercati è la migliore alleata». Le tensioni con Italia viva su contanti e fisco sono isolate, o teme rientrino in una strategia di logoramento? «Sono certo che convenga a tutte le forze politiche, Italia viva inclusa, partecipare alla battaglia contro l’evasione fiscale, e usare le risorse ricavate per abbassare le tasse. Non accetterei mai che la legge di bilancio diventasse un terreno di scontro tra forze politiche desiderose solo di intestarsi una misura o l’altra». Non c’è un eccesso di aspettative verso le concessioni della Commissione Ue all’Italia? «Abbiamo oltre 14 miliardi di flessibilità, frutto di un rapporto serio ma mai succube con le istituzioni europee, i cui nuovi rappresentanti sono stati designati grazie al contributo essenziale dell’Italia. Abbiamo un credito che possiamo giocare a nostro favore. Faccio notare che all’indomani della manovra lo spread è sceso sotto i 130 punti base: non accadeva da maggio 2018. E i rendimenti sui nostri titoli di stato decennali sono ai minimi storici». La lotta all’evasione fiscale è un messaggio meritorio. Ma non sa più di tentativo di persuasione morale che di azione incisiva? «Non direi. Abbiamo introdotto un meccanismo con cui rimborsiamo sotto forma di bonus tra il 10 e il 19 per cento a chi effettua pagamenti con la carta per una serie di spese. Significa che ogni anno, a gennaio, chi usa la carta riceverà un super bonus che parte da 200 euro ma può essere più sostanzioso. Su questa battaglia ho messo la faccia, e intendo portarla fino in fondo. Serve coraggio, e sono pronto ad andare fino in fondo, altrimenti non serve». Lei ha rivendicato in passato di essere un premier populista. Si sa come è andata col passato governo. Conferma di sentirsi tale? «Ho sempre inteso il populismo nella sua accezione nobile, che si richiama all’articolo 1 della Costituzione per cui la sovranità appartiene al popolo. Significa sapere ascoltare la gente, saperne interpretare le istanze, impegnarsi con determinazione per dare risposte concrete. Questo lo facevo prima e lo faccio ora. Solo negli ultimi giorni sono stato in Molise, in Irpinia, la prossima settimana sarò a Torino. Chi ha responsabilità di governo non deve solleticare la pancia della gente ma ascoltare, confrontarsi con le comunità locali, visitare le nostre imprese per conoscere da vicino eccellenze e situazioni critiche». Come la Whirlpool di Napoli che chiude dopo che avevate esaltato l’accordo? «Quella della Whirlpool è una delle situazioni più critiche. Abbiamo sempre voluto incoraggiare un accordo nell’interesse esclusivo dei lavoratori, ma siamo realisti e ad oggi il piano proposto dall’azienda non ci soddisfa». Il M5S ha capito fino in fondo che si è aperta una nuova fase dopo le Europee? «Il voto del M5S a sostegno di Ursula von der Leyen ha rappresentato un passaggio importante: il segno di un forte senso di responsabilità nell’interesse dell’Italia. Stare in Europa con uno spirito critico ma costruttivo significa contribuire a cambiarla, a renderla più solidale». Come valuta la svolta europeista di Salvini? È presagio di future convergenze? «Il senatore Salvini ci ha abituato a repentini cambi di idea per opportunità politica. Vediamo quanto durerà questa svolta europeista. Ho sempre sostenuto che per cambia re l’Europa e far valere peso e forza dell’Italia bisogna sedere ai tavoli europei e studiare i dossier. La sovranità italiana si difende con l’autorevolezza e il confronto. Battere i pugni funziona solo sui social». Lei va dovunque e sembra bene accolto dovunque. Premier ecumenico o, come accusano gli avversari, trasformista? «Ovunque vada rimango fedele a me stesso e alle mie idee. Ma il confronto e l’ascolto, anche verso coloro i quali non condividono le nostre idee o i nostri principi, sono essenziali per chi ha un’alta responsabilità politica e istituzionale: stare chiusi nelle stanze di un palazzo sarebbe una iattura». Ha chiesto amalgama tra M5S e Pd, ma c’è già stata una scissione. La frantumazione aiuta o destabilizza?

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«Da tutte le forze politiche, vecchie e nuove, mi aspetto lealtà e spirito di collaborazione. Per cambiare l’Italia dobbiamo lavorare tanto nella medesima direzione». Il suo è l’ultimo governo della legislatura, o questa legislatura è condannata ai ribaltoni? «Sono abituato a lavorare con un orizzonte ampio. Abbiamo messo in piedi una serie di riforme che hanno bisogno di tempo per esplicare i propri effetti. I ribaltoni non mi preoccupano. E poi, abbiamo già visto ad agosto che mosse avventate e irresponsabili non pagano». Sull’immigrazione non avete esaltato un po’ troppo l’accordo a Malta? Salvini non smette di attaccarvi. «L’immigrazione è un tema complesso. Noi abbiamo lasciato da parte gli slogan, mettendo al centro dell’agenda europea la costruzione di un sistema efficace e condiviso sia nella redistribuzione sia nei rimpatri. Crediamo che la strada imboccata sia quella giusta, ma sappiamo di dover lavorare perché l’Europa sia più determinata sui rimpatri, evitando fenomeni di “pull factor”. A Malta è stato messo il primo mattone per un meccanismo automatico di redistribuzione dei migranti. Queste sono azioni concrete che nulla hanno a che vedere con le semplici declamazioni». Eppure, a volte si ha l’impressione sgradevole che la ministra Lamorgese sia lasciata un po’ sola. «La ministra Lamorgese sta rispondendo con i fatti a chi ha pensato che la sicurezza nazionale e l’immigrazione fossero solo temi da campagna elettorale. Lavora tanto e comunica meno, come è giusto che faccia chi deve gestire un Ministero così complesso». La crisi turca può rallentare gli accordi? «Al contrario. L’utilizzo strumentale del fenomeno migratorio, agitato dal Presidente Erdogan e trattato alla stregua di una minaccia, dovrebbe spingere l’Ue ad avanzare rapidamente verso la gestione dei flussi in termini strutturali, uscendo da logiche emergenziali». Lei non vuole parlare di incontri tra servizi segreti italiani e Usa prima di essere ascoltato dal Copasir. Teme qualcosa dalla relazione che il ministro della Giustizia William Barr sta redigendo dopo i suoi incontri in Italia? «Assolutamente no». Pag 27 “Io, agnostico, dal Papa. La nostra sfida comune per cibo e ambiente” di Virginia Piccolillo Carlo Petrini:con Francesco un libro-dialogo sull’Enciclica Carlo Petrini, come è nato l’intervento del fondatore di Slow Food al Sinodo? «Mi ha chiamato il Papa. Mi ha detto di andare là». E Lei? «Ho accettato. Ma ho spiegato che sono agnostico». E lui? «E lui ... ha detto che sono un “agnostico pio”. Allora sono andato e ho visto un’umanità straordinaria». Ad esempio? «Gente che lotta accanto ai popoli dell’Amazzonia per difendere la Foresta. Gli indigeni. Donne in prima fila nella tutela dei diritti e della terra. Ho ascoltato interventi bellissimi. Devo dire: non immaginavo». Il Papa lo conosceva. È vero che scrivete un libro? «È già un po’ che ci lavoriamo. Dovrebbe essere pronto entro marzo. È un dialogo. Prioritariamente riflessioni sull’enciclica Laudato sii». Considerazioni sull’ambiente in pericolo? «Ma anche considerazioni legate al proprio vissuto». Di quale genere? «Il Papa ha ricordi molto belli legati alla sua migrazione. È cresciuto in una famiglia di migranti di origini piemontesi in una Buenos Aires degli anni 40-50. E ha conservato il rispetto per il cibo come componente per dimostrare affettività». Cosa c’entra il cibo con l’Enciclica sull’ambiente? «Non è un’enciclica verde. Ma è un’enciclica sociale. Il Papa esprime in maniera molto alta un concetto: tutto è connesso. E non si può parlare dell’ambiente se non si parla di sofferenza, specialmente dei poveri, della sostenibilità e di un doveroso paradigma

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produttivo. Il problema é che e stata poco capita. Da mondo laico ma anche dai cattolici». Ha parlato di questo al Sinodo? «Ho parlato del cibo come valore relazionale. Il cibo, quando è buono, pulito e giusto ha una potenza straordinaria che può tutelare la biodiversità umana e naturale, favorire l’interazione e il meticciato, garantire una buona salute. Ma ho parlato anche delle donne». Perché? «Nella vita di ciascuno c’è una mamma o una nonna che attraverso l’educazione al consumo corretto del cibo ci ha trasmesso quella intelligenza del cuore, alla base della nostra esistenza. Ma anche dell’importanza dell’agricoltura e della raccolta: gli indigeni dell’Amazzonia tutelano la foresta con i loro saperi». Ha lanciato l’allarme su agroindustria e monoculture. Perché? «Un’umanità che cresce e che ha bisogno di cibo non può permettere che venga sfruttato da pochi e non messo a disposizione dei tanti. La minaccia dell’agro-industria, dell’accentramento di potere, delle monoculture e degli allevamenti intensivi, legata alla deforestazione, alla crisi climatica e all’aumento della forbice tra ricchi e poveri, va combattuta». Come considera le politiche per l’ambiente? «Inadeguate. La situazione richiede una mobilitazione più forte. È positivo che i giovani rivendichino risposte perché sentono di non avere futuro. Ma la sofferenza del pianeta la vediamo tutti. Anche da noi. Con le bombe d’acqua. Con i ghiacciai che si sciolgono sotto i nostri occhi. Non si può più stare silenti». Come è arrivato fin qui? «Sono nato nelle langhe L’amore per la buona cucina e i vini è venuto con i piatti di nonna Caterina e mamma Maria. Quando ho capito che era un valore con l’arrivo dei fast-food mi prendevano per pazzo: “Eh tu con questa mortadella, sono cose superate”. Invece? «Invece è venuto fuori che molti prodotti rischiavano di scomparire e sono nati i presidi slow-food e Terra Madre: contadini e pescatori che difendono la biodiversità». E ora? «Bisogna difendere la distribuzione vicina alle comunità. Far rinascere i borghi con botteghe gestite dai giovani. Serve all’agricoltura e al turismo. Ed è il bello dell’Italia». Pag 27 L’attentato anti-semita di Halle è un attacco ai nostri valori di Bruno Forte L’attentato antisemita della settimana scorsa ad Halle mostra ancora una volta come sia sempre necessario richiamare le ragioni per cui ogni forma di antisemitismo sia intolle-rabile e ferisca al cuore tutti noi, debitori come siamo verso l’ebraismo di valori irrinunciabili. Ne ricordo tre: il primo è il valore della persona umana come immagine e somiglianza di Dio. Nella concezione biblica, l’uomo è creato come la più alta fra le creature, perché porta in sé l’impronta della bellezza divi-na. Ecco perché l’anima ebraica trasmette alla civiltà europea il principio del rispetto dovuto a ogni essere umano: «Andare incontro ad altri - afferma il filosofo ebreo Emmanuel Lévinas - significa mettere in questione la mia libertà il mio potere sulle cose, questa libertà della 'forza che può', questa impetuosità sfrenata alla quale tutto è permesso, perfino l’omicidio. Il 'non uccidere' che delinea il volto in cui Altri si produce sottomette la mia libertà al giudizio» (Totalità e infinito, Milano 1980, 312s). A questo valore consegue quello della soli-darietà, fondato sulla coscienza di dover agire in maniera responsabile verso tutti, vedendo nel bene comune uno scopo indispensabile anche alla realizzazione del bene individuale. È ancora Lévinas ad affer-mare: «La responsabilità per altri viene dall’al di qua della mia libertà, da un 'prima-di-ogni-ricordo', da un 'oltre-ogni-compimento'» (14s). Prendersi cura dell’altro è il fondamento etico di ogni convivenza che sia autenticamente civile. Non si sbaglierebbe nel riconoscere in quest’attitudine l’ispirazione più pro-fonda della stessa idea di unione euro-pea: «Tutta la nostra costruzione politico-sociale - affermava il 21 aprile 1954 Alcide De Gasperi alla Conferenza Parlamentare Europea di Parigi - presuppone un regime di moralità internazionale. I popoli che si uniscono, spogliandosi delle scorie egoistiche della loro crescita, debbono elevarsi anche a un più fecondo senso di giustizia verso i deboli e i perseguitati». Infine, è l’idea della

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storia come processo orientato a un fine il terzo grande apporto del pensiero ebraico alla nostra civiltà: rispetto alla concezione arcaica, propria anche del mondo classico, del mito dell’eterno ritorno, dove il valore etico delle azioni è svalutato perché tutto torna nell’eterna ripetizione del ciclo, la visione biblica di un cammino, rivolto a un futuro di pace universale e guidato da un superiore disegno divino, è in grado di motivare l’impegno e sostenere le ore di prova più difficili. Sono stati i profeti ebrei a valorizzare la storia, concependo un tempo lineare, procedente a senso unico verso il futuro: lo sguardo del profeta è rivolto non all'eterno passato dell'inizio, ma in avanti, verso il futuro della promessa di Dio. La speranza prende il posto della nostalgia; la dignità della decisione attiva e responsabile cancella il primato della ripetizione. È offerta all'uomo la prospettiva di un orizzonte ultimo, che dà alle realtà presenti il carattere ineludibile e carico di potenzia-lità e di attese di ciò che è penultimo di fronte all'ultimo. Antisemitismo è negare tutto questo, e proprio così è ferire al cuore quell’identità della coscienza europea che nel mondo globalizzato risulta così importante custodire. Ecco perché l’attentatore di Halle non è solo un volgare assassino, ma anche un pericolo e una minaccia per il futuro di tutti. Condannare il suo gesto è ribadire i valori che ci uniscono, ma è anche un volerci impegnare per essi in maniera rinnovata, nello spirito dell’eredità ebraico-cristiana che ha segnato il pensiero alla base del processo dell’unione europea, nel rispetto della dignità di ogni persona umana e nella consapevolezza della responsabilità che ne consegue per tutti. LA REPUBBLICA Pag 29 M5S-Pd, il futuro salvo intese di Stefano Folli Un futuro salvo intese. Un'Italia forse ancora in piedi, salvo intese. Ironizzare sulla bizzarra precisazione che accompagna l'annuncio della legge di bilancio è fin troppo facile, ma è inevitabile. A Palazzo Chigi non possono meravigliarsi, dopo aver quasi fatto l' alba dell'ultima notte utile per definire i documenti e spedirli a Bruxelles. Non risulta che altri paesi dell'Unione siano arrivati sul traguardo così in affanno né tantomeno che si siano affidati al gergo burocratico-giuridichese per dire che i dossier approvati sono appena una cornice generale. Servono a tacitare l'Unione offrendo un'idea di quel che si vuol fare nel campo dei conti pubblici, del fisco e delle iniziative per non arrendersi alla stagnazione. Ma il resto, la sostanza delle misure che la stampa sta ora analizzando, è ancora un libro aperto. Nel paese del compromesso come precludersi la via di un ulteriore, infinito negoziato su questa o quella tassa, su questo o quel bonus destinato a rassicurare una categoria o ad alleviare una corporazione? Salvo intese, dunque. È quasi un motto nazionale e fotografa alla perfezione l' Italia di oggi. Che poi non è diversa da quella di ieri: chi ha discreta memoria ricorda infatti che il governo Conte 1, quello fondato sul contratto 5S-Lega, ricorse allo stesso stratagemma nella primavera del 2018. Il che equivale a riconoscere gli indizi di continuità tra i due esecutivi peraltro affidati alla garanzia dello stesso uomo. Il Conte 2 si è ispirato senza dubbio al suo predecessore e purtroppo non per gli aspetti migliori. In altre parole, ci si attendeva qualche salutare frattura tra il contratto populista del '18 e il patto progressista del '19. Invece la dizione "salvo intese" significa ammettere che non esiste oggi una vera maggioranza politica - centrosinistra più 5S più renziani riluttanti - in grado di individuare una sintesi alta, ossia non fondata in modo esclusivo sulla semplice sommatoria degli interessi e delle convenienze dell'uno e dell'altro. Il governo dei due populisti era messo sotto accusa, giustamente, proprio a causa di questa tendenza: grillini e leghisti portavano a casa ciascuno la propria fetta della torta, insensibili all'idea che governare insieme significa trovare soluzioni comuni. Ora si rischia di ripetere esattamente gli stessi errori ed è strano che il premier Conte 2 non tema di ricalcare le orme del premier Conte 1. Si dirà che il richiamo alle intese successive esprime proprio la volontà di cercare un compromesso sui punti irrisolti. Purtroppo è qui il problema. L'intesa aveva un senso se si fosse trovata prima del varo del bilancio: avrebbe avuto il sapore di un accordo politico significativo tra forze che si rispecchiano nel patto di maggioranza. Viceversa, ora avremo al massimo un modesto compromesso quasi sottobanco, figlio di opachi scambi nel corso delle sedute parlamentari. Non è quello che serve all'immagine di un governo che sembra giocare con il fuoco senza rendersene conto. E il primo a sapere che i colpi d'ala qualche volta sono necessari è o dovrebbe

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essere il presidente del Consiglio, la cui posizione non si è certo rafforzata nelle ultime settimane. Non solo a causa della legge finanziaria. Nel frattempo ognuno prende nel paniere della manovra quello che gli sembra più positivo. O meno dannoso sul piano elettorale. Così Zingaretti la descrive come un mezzo miracolo per via delle misure di giustizia sociale a favore dei redditi più bassi (tutte da verificare). E i 5S si compiacciono per la faccia feroce del fisco a caccia di evasori. Ma gli scettici vedono l'incapacità di assecondare il mondo produttivo, la rassegnazione alla non-crescita e al declino. Salvo intese. AVVENIRE Pag 1 Buon assegno (post-datato) di Leonardo Becchetti Caute premesse, esigenti promesse Quello presentato ieri all’Unione Europea è un Documento programmatico di bilancio che, non dimentichiamolo, incasserà il dividendo invisibile del buon senso e della cooperazione: 3-4 miliardi di minore costo di spread e 14 miliardi di flessibilità sulle regole del deficit. Nelle guerre dei dazi come nei rapporti tra Stati la cooperazione genera valore (1+1=3) mentre il conflitto lo distrugge. Fatta questa premessa, però, resta la sfida per il secondo governo Conte che questa manovra sia ricordata per qualcosa di importante dai cittadini che vivono difficoltà quotidiane. La legge di bilancio passata è stata quella, nel bene e nel male, caratterizzata da Quota 100 e dal Reddito di cittadinanza. La nuova manovra finanziaria potrebbe e dovrebbe essere ricordata per l’impegno ad aggredire quel tesoro di 100 e più miliardi di evasione fiscale da riconvertire in riduzione di tasse per tutti i cittadini onesti applicando finalmente (e grazie ai nuovi strumenti tecnologici a disposizione) il principio del 'pagare meno, pagare tutti'. Per almeno l’avvio di un’azione strutturata di sostegno alla famiglia e di risposta alla grave crisi demografica del Paese. Per un 'Green New Deal' che acceleri la transizione ecologica aprendo una nuova stagione di investimenti in Italia che riduca la piaga dell’inquinamento e affronti il problema dell’emergenza climatica. Per un impegno a ridurre il cuneo fiscale, prima dal lato dei lavoratori, poi anche da quello delle imprese, con i proventi che arriveranno dalla lotta all’evasione. Infine, per un contributo importante a due beni pubblici essenziali come salute e istruzione. Se veramente il Governo ha un orizzonte triennale c’è la possibilità di spalmare i benefici in queste direzioni su un arco temporale più ampio di quello di questa legge di bilancio, ma già da adesso occorre inviare segnali tangibili e credibili. Si inizia in materia di evasione con gli incentivi all’uso della moneta elettronica mettendo in conto di portare a casa 7 miliardi, con il Fondo per la famiglia che potrebbe avviare sin da ora l’intervento proposto da Delrio e Nannicini della card servizi per i bambini da zero a tre anni, in attesa di poter arrivare a un assegno unico consistente per ogni figlio (di cui parliamo da anni su queste pagine) che è una buona ricetta per sostenere le famiglie e incentivare la natalità. Nel momento attuale sarà fondamentale parlare con chiarezza agli italiani, dimostrare la serietà del proprio impegno evitando però di alzare troppo le aspettative nel breve per non creare poi delusioni. In soldoni, a oggi non ci sembra ci sia uno spazio per interventi maggiore di quello trovato dal Governo, perché il problema non è la sostenibilità economica ma quella 'politica' dei provvedimenti, ovvero la loro capacità di non produrre effetti irreparabili dal punto di vista del consenso sociale e politico. Esistono infatti molte altre cose che si potrebbero fare (economicamente sostenibili), ma che richiedono l’affermazione del principio che sia desiderabile tassare ciò che fa male per ottenere maggiori risorse per finanziare ciò che fa bene alla nostra vita. Gli italiani non scendono in piazza se salgono le tasse sul fumo e sul gioco d’azzardo, perché sono consapevoli del danno personale e sociale che entrambi provocano. Ma non sono ancora altrettanto convinti che lo stesso ragionamento dovrebbe valere per l’inquinamento (che fa altrettante morti quante il fumo) e, in misura ovviamente minore, per prodotti o ingredienti negli alimenti che non fanno bene alla salute. Agire con più forza in queste direzioni potrebbe portare già oggi molte più risorse, ma il rischio dell’insostenibilità politica e delle proteste cavalcate dall’opposizione frena l’azione. In sintesi, il messaggio da mandare agli italiani con questa manovra potrebbe e dovrebbe essere il seguente: portiamo a casa già oggi dei benefici per aver ritrovato la via della cooperazione, non è possibile fare molto di più quest’anno vista la nostra situazione, possiamo però indicare

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chiaramente la direzione di marcia e insistere su misure che faranno ripartire il Paese. Nei prossimi anni con più crescita (se l’operazione di rilancio degli investimenti funzionerà) e accresciuti dividendi della rinnovata stabilità politica e finanziaria potremo continuare nell’opera, muovendo con più risorse e maggiore efficacia sui sentieri che già quest’anno abbiamo iniziato a percorrere. Le premesse e soprattutto le promesse di oggi, però, non possono essere deluse, gli assegni 'post-datati' non devono poi rivelarsi scoperti, perché questo governo può durare se, e solo se, continuerà a dimostrare di 'saper fare' con trasparenza per il bene di tutti. Pag 3 Per non assassinare più il futuro (non solo) in Siria di Andrea Ranieri L’esecuzione di Hevrin Khalaf, il gioco dei cinici, i doveri d’Italia e d’Europa Caro direttore, Hevrin Khalaf aveva fondato un partito per costruire la Siria di domani, il Partito del futuro siriano. Si proponeva di essere parte attiva nella costruzione di uno Stato laico, in cui donne e uomini avessero gli stessi diritti e in cui potessero convivere pacificamente i musulmani sunniti e sciiti, gli alauiti, gli ebrei e i cristiani. E chiedeva si sviluppare il processo per la costruzione della democrazia sulla base della risoluzione dell’Onu secondo cui «tutte le fazioni del popolo siriano dovrebbero essere rappresentate nel processo politico, anche nella stesura di una nuova Costituzione». Pensava a una Siria in cui potessero servire da esempio le esperienze compiute in questo senso nel Rojava, dove i curdi hanno governato senza escludere nessuno per motivi di razza, di sesso o di religione. Non un puro e semplice ritorno alla Siria di Assad, dopo la sconfitta del Daesh a cui i curdi avevano contribuito in maniera determinante, ma una Siria nuova, capace di aprire una nuova stagione in tutto il Medio Oriente, di riprendere il filo migliore delle primavere arabe. È questa donna che Erdogan ha fatto uccidere dai fondamentalisti islamici a cui la sua azione militare contro il Kurdistan siriano ha riaperto spazi per la propria azione omicida. E questa donna è una dei 600 'terroristi' che il signore di Ankara si vanta di avere 'neutralizzato'. Non c’è da stupirsi. Per i tiranni che governano in larga parte del Medio Oriente la democrazia e la laicità inclusiva sono un nemico più pericoloso dei tagliagole del Daesh. E non c’è nemmeno da stupirsi che delle sorti del Rojava e della sua straordinaria storia di democrazia costruita sotto le bombe, importi meno che niente al presidente degli Usa Trump, che a dialogare con dittatori e i fondamentalisti al potere si trova benissimo. E nemmeno al leader russo Putin che si preoccupa solo di attirate definitivamente la Turchia nel proprio campo, e del fatto che comunque l’avanzata turca in terra siriana non finisca per indebolire Assad e non rimetta in discussione la sua vittoria nella guerra civile siriana. Per le grandi potenze del mondo e per gli stessi Stati arabi la partita che si gioca ha come sempre per posta il petrolio e gli affari, la cinica geopolitica che si preoccupa delle zone di influenza e ignora i diritti dei popoli. Ora, come i curdi che muoiono, anche tutti noi facciamo il tifo per le truppe di Assad, sperando che riescano a fermare il «secondo esercito della Nato» nella sua azione distruttrice e applaudiamo le 'forze di interposizione' russe che prendono possesso di un buon numero di ex posizioni a stelle e strisce nel nord della Siria. La difficile partita della democrazia e della pace ha bisogno che 'quelli che ci credono', alla fine, almeno restino vivi. Ma questa potrebbe e dovrebbe essere anche la partita dell’Europa. Erdogan ci ricatta minacciando di aprire le porte ai profughi siriani in territorio turco, e intanto con la sua azione ne aumenta il numero e in prospettiva i suoi stessi strumenti di ricatto. L’Europa deve finalmente prendere coscienza che la strada maestra per risolvere la questione dei profughi è costruire la pace, e con la pace le condizioni che quei milioni di donne, di uomini, di bambini possano tornare a vivere nelle loro terre. La pace di cui parlava Hevrin prima di essere uccisa. E dovrebbe dare un segnale in questo senso, rendendo omaggio con la cittadinanza onoraria, o intitolando strade e piazze, a quelli che diffondono il 'terrore' della libertà e della convivenza pacifica. Demirtas ad esempio, il capo del partito curdo che dopo aver portato il suo popolo sul terreno della competizione democratica ed elettorale si trova in prigione in Turchia, o le tante donne che in Rojava dirigono il proprio Paese e lo difendono oggi dai turchi invasori come ieri lo hanno difeso e liberato dal califfato nero jihadista. Per essere credibili in una causa di pace bisognerebbe smettere di vendere armi. L’Europa non ha deciso alcun blocco che impegni tutti gli Stati, e gli Stati come sempre si muovono in ordine sparso attenti a cosa fa il vicino. «Se non le produciamo e le vendiamo noi lo fa

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qualcun altro», è la giustificazione che danno a se stessi i fabbricanti di armi e i Paesi che li ospitano. Ma può reggere questa giustificazione quando quelle armi come in Rojava e nello Yemen distruggono villaggi, uccidono donne e bambini, rendono il territorio un deserto? Quando le armi contribuiscono più di ogni altra cosa al riscaldamento del pianeta e alla tragedia ecologica? Si può dimostrare simpatia per Greta che non prende l’aereo e costruire e far volare dai nostri aeroporti velivoli che portano morte? L’Italia ha bloccato le vendite future, e ha promesso istruttorie sulle vendite in essere. L’imbarazzo è evidente e ha una ragione in scelte sciagurate che abbiamo fatto in passato, quando abbiamo permesso che Finmeccanica, la più importante industria pubblica del nostro Paese, si sbarazzasse di fatto dei rami trasporti ed energia, e si concentrasse sull’aerospazio e sul militare. La nuova Leonardo è questa e il suo fatturato e i suoi livelli di occupazione dipendono in parte prevalente dalla vendita di armi. Bloccarne la vendita alla Turchia e ai Paesi che fanno la guerra avrebbe conseguenze rilevanti. Ma potrebbe essere l’occasione per rivedere scelte sbagliate e affrontare concretamente la riconversione necessaria se vogliamo davvero imboccare la strada di una economia verde, che non è compatibile con l’industria della guerra. IL GAZZETTINO Pag 1 Nella sfida tv le ragioni del partito che non c’è di Luca Ricolfi Ma chi ha vinto il match fra Renzi e Salvini, andato in onda martedì notte a Porta a Porta? Se badiamo solo all'efficacia comunicativa, credo sia solo una questione di gusto, tanto diverse sono state le due prestazioni. Alla dialettica puntigliosa e sferzante di Renzi, Salvini ha risposto nel solito modo un po' grezzo, ma tutto sommato efficace, con cui suole cercare (e ottenere) il consenso dei ceti popolari. Ma se andiamo alla sostanza, alla forza delle argomentazioni dei due contendenti, le cose cambiano notevolmente. Nello scontro fra i due Mattei non è andato in scena un match unico, più o meno dominato da uno dei due contendenti, ma sono andati in scena due match distinti, uno sull'immigrazione, l'altro sulla politica economica (e in particolare su quota cento). Il match sull'immigrazione lo ha nettamente vinto Salvini, quello sulla politica economica l'ha vinto nettamente Renzi. Se pareggio c'è stato, non è perché gli argomenti dei due contendenti si sono equivalsi, ma perché ciascuno di essi ha stravinto sul proprio terreno, e perso rovinosamente sul terreno altrui. Sull'immigrazione, e in particolare sul problema degli sbarchi, Renzi ha tentato invano di far credere che la differenza fra il numero di arrivi quando governava lui (170 mila all'anno) e il numero di arrivi quando al Ministero dell'interno c'era Salvini (meno di 9 mila l'anno) sia attribuibile al cambiamento della situazione in Libia, piuttosto che ai differenti segnali provenienti dai governi italiani in carica. Né gli è riuscito di nascondere che, sotto il nuovo governo giallo-rosso, gli sbarchi sono quasi triplicati, e che nell'ultima tragedia in mare Salvini non c'entra nulla. Così come non gli è stato possibile negare che, con i cattivi al governo, il numero assoluto e morti in mare è diminuito, e tanto meno nascondere che, con i buoni al governo, l'accoglienza sia stata un disastro. Insomma, sull'immigrazione Renzi ha mostrato di non avere idee concrete, ma solo posizioni morali e formule retoriche. Sulla politica economica, tuttavia, le cose si sono capovolte. Specie su quota 100 (la norma che permette di andare in pensione prima) Renzi è stato molto convincente. Le cifre che ha presentato sul costo di quota 100 sono leggermente esagerate (20 miliardi in 3 anni), ma la sostanza del suo discorso è perfettamente corretta: quota 100 non è sbagliata in sé, ma costituisce una incredibile dissipazione di risorse pubbliche a favore di una piccola minoranza di anziani, e nemmeno dei più bisognosi. Con una cifra comparabile (9 miliardi l'anno), Renzi era riuscito a dare sollievo ai bilanci di milioni di famiglie. E, di nuovo con una cifra analoga, Renzi era riuscito grazie alla decontribuzione a dare un po' di ossigeno alle imprese, e per questa via imprimere una spinta all'occupazione. La posizione di Renzi, che considera sprecati 10 o 20 miliardi a favore di poche centinaia di anziani, quando con la medesima cifra si potrebbero fare cose ben più utili, è tanto più giustificata se riflettiamo su una circostanza: tutti gli studi sulla diseguaglianza concordano sul fatto che l'unica vera, macroscopica diseguaglianza fatta esplodere dalla crisi è quella fra anziani (in particolare pensionati) e giovani (in particolare minori). I giovani hanno visto drammaticamente ridotti i redditi, le possibilità di occupazione, le prospettive future, minacciate dal declino generale del Paese, ma anche dall'aumento del

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debito pubblico, che oggi serve (anche) a finanziare quota 100, e domani dovrà essere ripagato innanzitutto dai figli e nipoti dei beneficiari degli attuali pensionamenti anticipati. Su questo Salvini non è stato in grado di replicare alcunché di convincente, esattamente come Renzi nulla di convincente era stato in grado di dire sul contenimento degli sbarchi. Dunque: su quota 100 Renzi batte Salvini 3 a 0. Se devo riassumere, direi: Salvini non ha in tasca la soluzione miracolosa per il problema dell'immigrazione clandestina ma, agli occhi di buona parte degli italiani (compresi molti ex elettori del Pd), ha il merito di non negare il problema, e di aver tentato una strada per risolverlo; Renzi non ha la soluzione in tasca per il problema della condizione giovanile, ma ha il merito di averne capito al centralità, e soprattutto l'assoluta priorità rispetto alle pur comprensibili aspirazioni degli anziani. Un partito non negazionista sul problema dell'immigrazione irregolare, e capace di rompere con l'assistenzialismo pro-pensionati, sarebbe assai utile all'Italia. Perché le preoccupazioni popolari per l'insicurezza delle periferie, o per la concorrenza degli immigrati su salari e accesso al welfare, sono semplicemente sacrosante; e, d'altro canto, la sconfitta dell'assistenzialismo è una precondizione cruciale per non rendere irreversibile il declino economico e sociale del nostro paese. E tuttavia, curiosamente, un tale partito non esiste, né a sinistra né a destra. Renzi e il Pd, dopo la marginalizzazione di Marco Minniti e la demonizzazione di Salvini, hanno dimostrato chiaramente che il problema dell'immigrazione non riescono a vederlo, e tanto meno ad affrontarlo. Lega e Cinque Stelle, d'altro canto, sono stati capaci di governare insieme solo spartendosi i rispettivi assistenzialismi: quota cento per soddisfare le voglie politiche di Salvini, reddito di cittadinanza per soddisfare quelle di Di Maio. E' come se, nello spazio politico, ci fosse posto per tutte le combinazioni, ma non per l'unica che servirebbe. C'è chi vede il problema dell'immigrazione, ma non riesce a rinunciare all'assistenzialismo (Lega e Cinque Stelle). C'è chi vede il pericolo dell'assistenzialismo, ma è cieco di fronte ai problemi dell'immigrazione (Italia viva e +Europa). E c'è, infine, chi non si nega nulla: il Pd e l'estrema sinistra non vedono né il problema dell'immigrazione, né i pericoli dell'assistenzialismo e della spesa in deficit. A quanto pare, nonostante ci siano una decina di partiti, partitini e aspiranti-partito a sinistra, e quasi altrettanti a destra, l'unica cosa che il sistema politico italiano non sembra in grado di partorire è una forza politica che sia anti-assistenziale in politica economica, e non cieca sui problemi dell'immigrazione e della sicurezza. Una stranezza, e un vero peccato. LA NUOVA Pag 7 Così Zelig maneggia i soldi dei cittadini, “salvo intese” di Luigi Vicinanza In un immaginario di vincite milionarie e di giocatori d'azzardo ci voleva la "lotteria degli scontrini" per dare un'impronta popolare - e dunque sotto sotto accettabile - ai provvedimenti per incentivare l'uso delle carte di credito e dei bancomat in un paese refrattario a estrarre dal portafoglio la moneta digitale per i pagamenti personali. Efficace suggestione: pago in modalità tracciabile, contribuisco ad abbattere l'evasione fiscale, vinco qualcosa. Forse.Il Documento programmatico di bilancio, alla base della manovra 2020, approvato quasi all'alba di mercoledì dal consiglio dei ministri rappresenta il faticoso distillato dei compromessi politici ed economici alla base di questo governo delle convenienze concorrenti. Il Documento, dicono gli economisti, non aiuterà il Paese nel suo stentato processo di ripresa economica. Se va bene, alla fine dell'anno prossimo l'Italia incasserà un incremento del Pil dello 0,6 per cento. Poca roba. D'altra parte sono più di dieci anni che le manovre approvate dai vari governi non hanno rappresentato un apprezzabile contributo allo sviluppo. Intanto al dicastero dell'Economia è tornato un ministro "politico", Roberto Gualtieri. L'ultimo prima di lui fu Giulio Tremonti nel Berlusconi IV, dal 2008 al 2011. Un impegno è stato mantenuto: l'anno prossimo non scatterà l'aumento dell'Iva. Bene così; l'Iva maggiorata infatti è ingiusta, colpisce allo stesso modo ricchi e poveri, ceto medio e piccola impresa, chi guadagna 20mila euro lordi all'anno e chi 200mila. È stato rispettato dunque l'impegno preso in agosto quando Renzi e il Pd con una conversione a U si decisero a fare il patto con i Cinquestelle. Parola mantenuta, almeno questo va loro riconosciuto.Il resto della manovra è subordinato alla formula "salvo intese". Due paroline magiche (le abbiamo imparate già nel primo Conte quand'era alleato con Salvini) che lasciano margini di

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ambiguità e di aggiustamenti successivi.È la manovra-zelig come Zelig è il presidente del Consiglio che se l'intesta. Non viene forse definito "uno di noi, un compagno" Conte quando a Roma incontra D'Alema alla festa di Liberi e Uguali? E non raccoglie un'ovazione pubblica, tale da oscurare Di Maio, quando a Napoli celebra i dieci anni del M5S? Poi subito dopo corre ad Avellino, nel feudo dei grandi vecchi della Democrazia Cristiana che fu, capeggiati da De Mita, e provoca un fremito, quasi che quel professore pugliese catapultato sulla scena nazionale possa ricordare Moro. Addirittura. Bravo "Giuseppi" l'americano. Della sua manovra 2020 non resterà memoria quando nei prossimi anni bisognerà tirare un bilancio. Come quelle che portano la firma dei suoi predecessori a Palazzo Chigi. È il segno di un'Italia che vuole cambiare, a parole. Nella pratica resta simile a se stessa. Che si adegua. Buona fortuna dunque per quel che ci aspetta nei prossimi mesi. Pag 8 Manovra, manca ancora una risposta alla crisi dell’Italia di Francesco Morosini Dopo una lunga notte, finalmente il governo ha varato il Disegno di legge di bilancio 2020 e il collegato Decreto fiscale, cioè l'attesa manovra finanziaria. È chiaro, allora, il quadro e le intenzioni del governo giallorosso? Si, "salvo intese", nel senso che vi possono essere modifiche durante l'iter parlamentare Comunque, pur dando queste per scontati, un'idea ce la si può fare. Ed è che c'è più continuità che novità con le linee di politica economica dei governi precedenti; manca tuttavia, ma non da oggi, un'idea di finanza pubblica che sia di risposta alla crisi del Paese. Forse però questo obiettivo è fuori portata dato l'attuale rapporto tra decisione pubblica e produzione del consenso nel Belpaese: difatti le manovre si susseguono al massimo lambendo i problemi. Detto altrimenti: se la finanza pubblica racconta il patto tra politica e società, allora il prevalere di scelte fiscali orientate alla "domanda di protezione" (quota 100 e reddito di cittadinanza) invece che allo sviluppo (riportare l'Italia su quella frontiera tecnologica persa dagli anni '90) potrebbe indicare un'attitudine a chiudersi a riccio esasperata dai due decenni di nostro declino strutturale. Insomma, le diverse manovre si assomigliano adagiandosi sul medesimo equilibrio sociale. Resta che tra esse vi sono accenni di differenze di priorità. Qui la filosofia del governo è di puntare per la crescita sulla riduzione del cuneo fiscale; poi, c'è lotta all'evasione fiscale; infine, la sterilizzazione dell'aumento dell'Iva. Quanto alla prima, si tratta di un mini intervento (3 mld di euro) poco incidente sullo sviluppo. Vero, le risorse sono scarse; ma lo sono per il drenaggio di quota 100 e, meno, del reddito di cittadinanza. Disinnescando queste, ci sarebbero le risorse per una manovra espansiva. Così sarebbe possibile tagliare il cuneo fiscale sia dal lato del lavoro (più domanda di beni) che dal lato delle imprese. La ragione è che così se ne aumenterebbe la competitività che facilmente si tradurrebbe pure in un aumento della domanda di lavoro ed in un disincentivo alla delocalizzazione. Quanto alla questione fiscale, nella manovra nulla si dice della follia che vede redditi uguali ma di fonte diversa (lavoro, autonomi fino a 65. 000 euro, redditi di capitale) subire per discrezionalità politica trattamenti diversi. Quanto all'evasione fiscale, la lotta al contante è un arma valida? Poco se la sua origine è nella frammentazione produttiva; infatti, è qui che si dovrebbe agire. Oltre a ciò, se l'Italia è un "ecosistema del cash" (De Rita), la lotta al contante rischia di finire contro un muro di gomma. Raggiunta, invece, la sterilizzazione dell'Iva, ma, la si è raggiunga, guarda la novità, alzando il deficit. Dunque più continuità, per i motivi detti, che novità. La manovra, ecco il punto, manca di un'idea di Paese. Il suo limite politico è questo; il resto ne è conseguenza. Torna al sommario