PRIMO PIANO Prospettive Verso un mondo post-antibiotici? · La geografia ha un ruolo...

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PRIMO PIANO 3 Corriere del Ticino MERCOLEDÌ 26 AGOSTO 2015 Sir Alexander Fleming, l’uomo che scoprì la penicillina nel 1928, nell’accettare il Nobel per la medi- cina nel 1943 disse: «Non è difficile rendere i microbi resistenti alla pe- nicillina in laboratorio, se li si espongono a concentrazioni non sufficienti a ucciderli... C’è il rischio che l’uomo ignorante possa facil- mente sottodosare se stesso e ren- dere i propri microbi resistenti alla medicina, esponendoli a quantità non letali della sostanza». Difatti, dagli anni ’60 a oggi, nessuna nuova classe d’antibiotici ha resistito più di due anni alla comparsa di resi- stenze. Oltre sessant’anni fa, quin- di, il mondo scientifico era già co- sciente di un fenomeno ora così preoccupante che Sally Davies, la massima autorità in materia di sa- lute in Inghilterra, l’ha definito pe- ricoloso quanto il terrorismo: un mondo post-antibiotici, in cui que- sti non funzionano più e la medici- na tornerà quella precedente l’in- venzione della penicillina. Ma è un allarme giustificato? PAGINA DI FEDERICO STORNI zxy In parte, nel mondo post-antibiotici, ci siamo già. L’economista britannico Jim O’Neill, in un’analisi commissionata dal Governo inglese, ha stimato in modo pru- denziale le morti annue per resistenza in 700.000 unità (25.000 in Europa, 23.000 in America). Se la situazione non cambierà, O’Neill prevede che i morti annui nel 2050 saranno 10 milioni (più di quanti ne ucci- da oggi il cancro), di cui 390.000 in Europa e 317.000 in Nordamerica, per un tasso di 5 decessi ogni 10.000 abitanti. E nel resto del mondo la percentuale sarà anche peg- giore. Nell’edizione 2015 dell’annuale Re- gistro dei rischi naturali e delle emergenze civili del gabinetto inglese è stato predetto che da qui ai prossimi vent’anni una sin- gola epidemia di microbi resistenti agli antibiotici potrebbe portare alla morte 80.000 britannici su 200.000 contagiati. Potenzialmente graffiarsi in un roseto po- trebbe essere fatale, se la ferita venisse a contatto con il batterio sbagliato. Se davvero gli antibiotici diverranno inef- ficaci su larga scala, si scatenerà un vorti- ce di causa effetto che obbligherebbe a ripensare interamente la pratica medica. Si dovrebbero reinventare gli strumenti per curare influenza, tubercolosi, polmo- nite, HIV, e malaria, per citarne alcune. La chemioterapia diverrebbe pericolosa quanto il cancro che vuol curare, così co- me la dialisi e le operazioni: da quelle a cuore aperto, alla biopsia alla prostata, passando per il parto cesareo e i trapianti. Siamo infatti a un passo dal primo micro- bo resistente a ogni antibiotico esistente: i cosiddetti batteri CRE sono già molto difficili da trattare e relativamente capaci di trasmettersi da uomo a uomo, con il risultato che si stima possano uccidere un paziente infetto su due, e le case far- maceutiche, per vari motivi economici (costi di ricerca, ritorno limitato dal me- dicamento) sono restie a investire negli antibiotici. Una possibile soluzione è convincerle a tornare a produrne tramite incentivi statali, un allungamento dei brevetti sui farmaci o cambiamenti nei test clinici. Questa soluzione è già a medio termine dati i lunghi tempi di commercializzazio- ne dei farmaci, eppure è piuttosto urgen- te. O’Neill ha stimato che serviranno in- vestimenti pubblici e privati per 37 mi- liardi di dollari nei prossimi 10 anni per evitare 300 milioni di morti dovuti dalla carenza di antibiotici, da devolvere so- prattutto alle università e a piccole com- pagnie biotech per le ricerche di base. Secondo O’Neill «la somma è comunque modesta se confrontata con il costo eco- nomico del problema», che ha stimato nell’ordine di una contrazione dell’1,4-1,6% del PIL mondiale nel 2050, pari a 300 bilioni di dollari. L’INTERVISTA zxy JEAN CLAUDE PIFFARETTI* «Di questo passo nel 2050 avremo un problema, si morirà di più per i batteri che per il cancro» L’ALLARME Una coltura batterica di E.coli. (Foto Keystone) Prospettive Verso un mondo post-antibiotici? Nel 1943 il Nobel Fleming profetizzò che l’uomo avrebbe reso i propri microbi resistenti alla medicina Oggi siamo ad un passo da quel momento: una panoramica della situazione e le possibili soluzioni IL PROBLEMA DEGLI ANIMALI zxy Secondo un rapporto del Food and Drug Administration del 2011 l’80% degli antibiotici (in peso) negli USA era riservata agli animali e ai pesci d’allevamento, per farli crescere più in fretta, per farli ingrassare e per fare profilassi contro le malattie che rischierebbero di decimare la mandria (In Svizzera la distribu- zione è circa del 50/50, e gli an- tibiotici non possono essere usa- ti per la crescita dell’animale). zxy La carne proveniente da questi animali è fra le principali indizia- te nella trasmissione dei microbi resistenti all’uomo: nel Bolletti- no d’aprile 2015 dell’Organizza- zione mondiale della sanità (OMS) è stimato che oltre 1.500 decessi nell’Unione europea nel 2014 potevano essere ricondot- ti con certezza agli antibiotici usati nel pollame. Le morti reali potrebbe essere molte di più, in quanto dimostrare con certezza la causa-effetto è piuttosto diffi- cile. zxy Ridurre l’uso massiccio degli an- tibiotici negli animali è anche una delle principali soluzioni possibili per evitare un mondo post-antibiotici. In questo senso i Paesi occidentali hanno già pre- so alcune misure, e dei dati sono incoraggianti. In Norvegia, per esempio, si è scoperta una correlazione diretta tra la quanti- tà di antibiotici ingerita dal be- stiame e il numero di microbi resistenti censiti: col calare dell’uno, sono calati anche gli altri. Il motivo è che è genetica- mente «faticoso» per i batteri mantenere la resistenza agli an- tibiotici e se non necessaria questa tende a sparire. zxy Dottor Piffa- retti, su una scala da uno a dieci, quanto è preoccupato dal fenomeno dei batteri resi- stenti? «Direi fra otto e nove. È uno dei principali pro- blemi di salute del secolo. Secondo alcune previsioni, se non si farà qual- cosa, nel 2050 la resistenza batterica agli antibiotici potrebbe fare più morti del cancro al giorno d’oggi. Da almeno 15 anni la comunità scientifica ne è cosciente e tra il 2002 e il 2006 vi è sta- to un Programma Nazionale di Ricer- ca (il PNR 49) al quale sono stati attri- buiti 12 milioni di franchi per studiare la resistenza batterica agli antibiotici». Come valuta la situazione svizzera? «Siamo per il momento fortunati. Ab- biamo risorse, capacità e una classe medica ben formata e sempre più sensibilizzata. Fino a poco tempo fa pensavamo che il problema fosse mi- nore di quello che abbiamo ora, ma la situazione sta cambiando. Ma i dati di monitoraggio indicano che, per quan- to riguarda le resistenze, siamo più vi- cini al nord e al centro-Europa che al sud: questo è un bene. Infatti, si osser- va un gradiente di resistenza crescen- te andando dal nord al sud Europa». La geografia ha un ruolo nell’appa- rire delle resistenze? «C’è una correlazione tra il consumo di antibiotici e le resistenze. In alcuni Paesi del Sud-Europa, dell’Asia o dell’Africa, dove il controllo del consu- mo in antibiotici è carente o inesisten- te, le resistenze sono elevate. E in Eu- ropa più si scende a sud, più il consu- mo si innalza, più sono presenti batte- ri resistenti. È una questione culturale e socio-economica e un cambio d’abi- tudini è necessario. Allo stato attuale, tuttavia, essere ospedalizzati nei Paesi dove le resistenze sono più alte, può comportare dei pericoli; in caso di successivo ricovero in ospedale in Svizzera è importante informarne il medico perché possa prendere le mi- sure di prevenzione necessarie ad evi- tare la possibile diffusione dei micro- organismi resistenti. Se non facciamo attenzione, i nostri livelli di resistenza tenderanno ad aumentare. Le nostre sacche di resistenza provengono spesso dall’esterno. È per esempio un problema potenziale il turismo della chirurgia estetica: persone che si reca- no in India o in Pakistan, dove queste operazioni costano molto meno, e tornano portando ceppi di batteri re- sistenti a loro insaputa. Anche turisti o lavoratori che subiscono trattamenti ospedalieri per incidenti, per esempio stradali, costituiscono un pericolo po- tenziale al loro ritorno in Svizzera». Cosa rende i nostri dati relativa- mente migliori? «In generale i Paesi più benestanti consumano meno antibiotici, e quin- di hanno meno episodi di resistenza. Inoltre la nostra ricchezza ci permette per ora di contenere il fenomeno, lad- dove in Paesi più poveri non è possi- bile. Per esempio, un caso di resisten- za in ospedale comporta più giorni di degenza per il paziente, l’utilizzo di antibiotici più performanti e più cari, e misure supplementari da parte del personale medico per non trasmette- re i batteri nell’ospedale. Contenere un’infezione richiede molte ore di la- voro, che gonfiano inevitabilmente i costi. Per ora questo è sostenibile in Svizzera, ma col diminuire della spo- radicità del fenomeno, e i dati mostra- no incrementi nelle resistenze anche da noi, il costo economico potrebbe diventare intollerabile, come già lo è in altre parti del mondo». Come se ne esce? «Lo sforzo dev’essere mondiale, altri- menti le misure nazionali saranno meno proficue. L’Occidente si sta muovendo in questa direzione. Un primo stop alle resistenze però è il paziente. Sarebbe altamente oppor- tuno educare la popolazione ad assu- mere antibiotici solo quando indi- spensabile ma per tutta la durata ne- cessaria – cioè non interrompendo la cura appena ci si sente meglio – e, particolarmente in alcuni Paesi po- veri, non assumere copie non con- trollate dell’antibiotico, che potreb- bero avere quantità insufficienti di principio attivo. È stato dimostrato che dosaggi sub-ottimali di questi medicamenti sono fattori importanti per lo sviluppo delle resistenze. Inol- tre gli antibiotici sono utilizzati an- che in campo veterinario e in agricol- tura. L’approccio giusto è quindi quello “one health” , vale a dire una collaborazione in vari campi che ten- ga conto anche dell’ambito veterina- rio e ambientale. I batteri sono infatti abili a scambiarsi i geni di resistenza, ed è importante riuscire di volta in volta a interrompere la catena di tra- smissione, cosa impossibile senza una collaborazione multidisciplina- re». Oppure grazie a una nuova classe di antibiotici. «Sì, ma è una strada difficoltosa. È complicato trovare nuovi target mo- lecolari, e per le case farmaceutiche non è al momento una priorità per i costi elevati della ricerca e i ritorni economici risicati. Negli ultimi anni sono state create nuove tecniche mo- lecolari per trovare nuovi target e a livello accademico si è avuto qualche risultato promettente, anche fra gli studi fuoriusciti dal PNR 49. Ma è difficile passare dalla scoperta della molecola agli studi pre-clinici. Questi studi sono cari e attualmente la Sviz- zera non ha sviluppato le disponibili- tà finanziarie per coprirli. Cè qualche startup che si occupa di questa fase, ma l’apporto finanziario è ancora in- sufficiente. Il risultato è che alcune ricerche interessanti sono ferme». Quali batteri preoccupano di più? «In principio sono stati monitorati attentamente gli stafilococchi e da qualche anno le resistenze sembrano in calo in diversi Paesi. Quando si prendono misure incisive di preven- zione e di sorveglianza qualcosa si può fare, e la speranza è di andare nella stessa direzione con i batteri cosiddetti gram negativi che tanto preoccupano attualmente, come le Klebsielle o gli Escherichia coli, che possono anche diventare resistenti a praticamente tutti gli antibiotici. In Svizzera questi batteri stanno emer- gendo nella popolazione e saranno particolarmente difficili da debellare se si installeranno in modo perma- nente. In ogni caso anche a diminui- re il consumo degli antibiotici le resi- stenze non spariranno mai del tutto, bisogna cercare di contenere la loro percentuale quanto più possibile». A livello politico la Svizzera che co- sa fa? «Per affrontare il problema della resi- stenza agli antibiotici, la Confedera- zione sta sviluppando il programma nazionale StAR (Strategie Antibioti- karesistenzen). Il suo approccio è multidisciplinare (‘‘one health’’): la strategia è il frutto di una collabora- zione tra l’Ufficio federale della sani- tà pubblica (UFSP, in qualità di capo- fila), gli Uffici federali della sicurezza alimentare e di veterinaria (USAV), dell’agricoltura (UFAG), dell’ambien- te (UFAM), i Cantoni e altri attori im- portanti nell’area tematica delle resi- stenze agli antibiotici. Inoltre, il Con- siglio Federale ha accettato a luglio un nuovo PNR che faccia da comple- mento a livello di ricerca accademica a quello precedente (il PNR 49) e lo continui. L’approccio di questo nuo- vo PNR è pure quello ’’one health’’ , e il CF gli ha attribuito una somma di 20 milioni di franchi per i prossimi cin- que anni». *presidente della Federazione europea delle società di microbiologia e già presidente del Comitato direttivo del PNR 49

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PRIMO PIANO 3Corriere del TicinoMERCOLEDÌ 26 AGOSTO 2015

Sir Alexander Fleming, l’uomo che scoprì la penicillina nel 1928, nell’accettare il Nobel per la medi-cina nel 1943 disse: «Non è difficile rendere i microbi resistenti alla pe-nicillina in laboratorio, se li si espongono a concentrazioni non sufficienti a ucciderli... C’è il rischio che l’uomo ignorante possa facil-mente sottodosare se stesso e ren-dere i propri microbi resistenti alla medicina, esponendoli a quantità non letali della sostanza». Difatti, dagli anni ’60 a oggi, nessuna nuova classe d’antibiotici ha resistito più di due anni alla comparsa di resi-stenze. Oltre sessant’anni fa, quin-di, il mondo scientifico era già co-sciente di un fenomeno ora così preoccupante che Sally Davies, la massima autorità in materia di sa-lute in Inghilterra, l’ha definito pe-ricoloso quanto il terrorismo: un mondo post-antibiotici, in cui que-sti non funzionano più e la medici-na tornerà quella precedente l’in-venzione della penicillina. Ma è un allarme giustificato?

PAGINA DIFEDERICO STORNI

zxy In parte, nel mondo post-antibiotici, ci siamo già. L’economista britannico Jim O’Neill, in un’analisi commissionata dal Governo inglese, ha stimato in modo pru-denziale le morti annue per resistenza in 700.000 unità (25.000 in Europa, 23.000 in America). Se la situazione non cambierà, O’Neill prevede che i morti annui nel 2050 saranno 10 milioni (più di quanti ne ucci-da oggi il cancro), di cui 390.000 in Europa e 317.000 in Nordamerica, per un tasso di 5 decessi ogni 10.000 abitanti. E nel resto del mondo la percentuale sarà anche peg-giore. Nell’edizione 2015 dell’annuale Re-gistro dei rischi naturali e delle emergenze civili del gabinetto inglese è stato predetto che da qui ai prossimi vent’anni una sin-gola epidemia di microbi resistenti agli antibiotici potrebbe portare alla morte 80.000 britannici su 200.000 contagiati. Potenzialmente graffiarsi in un roseto po-trebbe essere fatale, se la ferita venisse a contatto con il batterio sbagliato.Se davvero gli antibiotici diverranno inef-ficaci su larga scala, si scatenerà un vorti-ce di causa effetto che obbligherebbe a ripensare interamente la pratica medica. Si dovrebbero reinventare gli strumenti per curare influenza, tubercolosi, polmo-nite, HIV, e malaria, per citarne alcune. La chemioterapia diverrebbe pericolosa quanto il cancro che vuol curare, così co-me la dialisi e le operazioni: da quelle a cuore aperto, alla biopsia alla prostata, passando per il parto cesareo e i trapianti. Siamo infatti a un passo dal primo micro-bo resistente a ogni antibiotico esistente: i cosiddetti batteri CRE sono già molto difficili da trattare e relativamente capaci di trasmettersi da uomo a uomo, con il risultato che si stima possano uccidere un paziente infetto su due, e le case far-maceutiche, per vari motivi economici (costi di ricerca, ritorno limitato dal me-dicamento) sono restie a investire negli antibiotici. Una possibile soluzione è convincerle a tornare a produrne tramite incentivi statali, un allungamento dei brevetti sui farmaci o cambiamenti nei test clinici. Questa soluzione è già a medio termine dati i lunghi tempi di commercializzazio-ne dei farmaci, eppure è piuttosto urgen-te. O’Neill ha stimato che serviranno in-vestimenti pubblici e privati per 37 mi-liardi di dollari nei prossimi 10 anni per evitare 300 milioni di morti dovuti dalla carenza di antibiotici, da devolvere so-prattutto alle università e a piccole com-pagnie biotech per le ricerche di base. Secondo O’Neill «la somma è comunque modesta se confrontata con il costo eco-nomico del problema», che ha stimato nell’ordine di una contrazione dell’1,4-1,6% del PIL mondiale nel 2050, pari a 300 bilioni di dollari.

L’INTERVISTA zxy JEAN CLAUDE PIFFARETTI*

«Di questo passo nel 2050 avremo un problema, si morirà di più per i batteri che per il cancro»

L’ALLARME Una coltura batterica di E.coli. (Foto Keystone)

ProspettiveVerso un mondo post-antibiotici?Nel 1943 il Nobel Fleming profetizzò che l’uomo avrebbe reso i propri microbi resistenti alla medicina Oggi siamo ad un passo da quel momento: una panoramica della situazione e le possibili soluzioni

IL PROBLEMA DEGLI ANIMALI

zxy Secondo un rapporto del Food and Drug Administration del 2011 l’80% degli antibiotici (in peso) negli USA era riservata agli animali e ai pesci d’allevamento, per farli crescere più in fretta, per farli ingrassare e per fare profilassi contro le malattie che rischierebbero di decimare la mandria (In Svizzera la distribu-zione è circa del 50/50, e gli an-tibiotici non possono essere usa-ti per la crescita dell’animale).

zxy La carne proveniente da questi animali è fra le principali indizia-te nella trasmissione dei microbi resistenti all’uomo: nel Bolletti-no d’aprile 2015 dell’Organizza-zione mondiale della sanità (OMS) è stimato che oltre 1.500 decessi nell’Unione europea nel 2014 potevano essere ricondot-ti con certezza agli antibiotici usati nel pollame. Le morti reali potrebbe essere molte di più, in quanto dimostrare con certezza la causa-effetto è piuttosto diffi-cile.

zxy Ridurre l’uso massiccio degli an-tibiotici negli animali è anche una delle principali soluzioni possibili per evitare un mondo post-antibiotici. In questo senso i Paesi occidentali hanno già pre-so alcune misure, e dei dati sono incoraggianti. In Norvegia, per esempio, si è scoperta una correlazione diretta tra la quanti-tà di antibiotici ingerita dal be-stiame e il numero di microbi resistenti censiti: col calare dell’uno, sono calati anche gli altri. Il motivo è che è genetica-mente «faticoso» per i batteri mantenere la resistenza agli an-tibiotici e se non necessaria questa tende a sparire.

zxy Dottor Piffa-retti, su una scala da uno a dieci, quanto è pre o c cupato dal fenomeno dei batteri resi-stenti?«Direi fra otto e nove. È uno dei principali pro-

blemi di salute del secolo. Secondo alcune previsioni, se non si farà qual-cosa, nel 2050 la resistenza batterica agli antibiotici potrebbe fare più morti del cancro al giorno d’oggi. Da almeno 15 anni la comunità scientifica ne è cosciente e tra il 2002 e il 2006 vi è sta-to un Programma Nazionale di Ricer-ca (il PNR 49) al quale sono stati attri-buiti 12 milioni di franchi per studiare la resistenza batterica agli antibiotici». Come valuta la situazione svizzera?«Siamo per il momento fortunati. Ab-biamo risorse, capacità e una classe medica ben formata e sempre più sensibilizzata. Fino a poco tempo fa pensavamo che il problema fosse mi-nore di quello che abbiamo ora, ma la situazione sta cambiando. Ma i dati di monitoraggio indicano che, per quan-to riguarda le resistenze, siamo più vi-cini al nord e al centro-Europa che al sud: questo è un bene. Infatti, si osser-va un gradiente di resistenza crescen-te andando dal nord al sud Europa».La geografia ha un ruolo nell’appa-rire delle resistenze?«C’è una correlazione tra il consumo di antibiotici e le resistenze. In alcuni Paesi del Sud-Europa, dell’Asia o dell’Africa, dove il controllo del consu-mo in antibiotici è carente o inesisten-te, le resistenze sono elevate. E in Eu-ropa più si scende a sud, più il consu-mo si innalza, più sono presenti batte-ri resistenti. È una questione culturale e socio-economica e un cambio d’abi-tudini è necessario. Allo stato attuale, tuttavia, essere ospedalizzati nei Paesi dove le resistenze sono più alte, può comportare dei pericoli; in caso di successivo ricovero in ospedale in

Svizzera è importante informarne il medico perché possa prendere le mi-sure di prevenzione necessarie ad evi-tare la possibile diffusione dei micro-organismi resistenti. Se non facciamo attenzione, i nostri livelli di resistenza tenderanno ad aumentare. Le nostre sacche di resistenza provengono spesso dall’esterno. È per esempio un problema potenziale il turismo della chirurgia estetica: persone che si reca-no in India o in Pakistan, dove queste operazioni costano molto meno, e tornano portando ceppi di batteri re-sistenti a loro insaputa. Anche turisti o lavoratori che subiscono trattamenti ospedalieri per incidenti, per esempio stradali, costituiscono un pericolo po-tenziale al loro ritorno in Svizzera».Cosa rende i nostri dati relativa-mente migliori?«In generale i Paesi più benestanti consumano meno antibiotici, e quin-di hanno meno episodi di resistenza. Inoltre la nostra ricchezza ci permette per ora di contenere il fenomeno, lad-dove in Paesi più poveri non è possi-bile. Per esempio, un caso di resisten-za in ospedale comporta più giorni di degenza per il paziente, l’utilizzo di antibiotici più performanti e più cari, e misure supplementari da parte del personale medico per non trasmette-re i batteri nell’ospedale. Contenere un’infezione richiede molte ore di la-voro, che gonfiano inevitabilmente i costi. Per ora questo è sostenibile in Svizzera, ma col diminuire della spo-radicità del fenomeno, e i dati mostra-no incrementi nelle resistenze anche da noi, il costo economico potrebbe diventare intollerabile, come già lo è in altre parti del mondo».Come se ne esce?«Lo sforzo dev’essere mondiale, altri-menti le misure nazionali saranno meno proficue. L’Occidente si sta muovendo in questa direzione. Un primo stop alle resistenze però è il paziente. Sarebbe altamente oppor-tuno educare la popolazione ad assu-mere antibiotici solo quando indi-spensabile ma per tutta la durata ne-

cessaria – cioè non interrompendo la cura appena ci si sente meglio – e, particolarmente in alcuni Paesi po-veri, non assumere copie non con-trollate dell’antibiotico, che potreb-bero avere quantità insufficienti di principio attivo. È stato dimostrato che dosaggi sub-ottimali di questi medicamenti sono fattori importanti per lo sviluppo delle resistenze. Inol-tre gli antibiotici sono utilizzati an-che in campo veterinario e in agricol-tura. L’approccio giusto è quindi quello “one health”, vale a dire una collaborazione in vari campi che ten-ga conto anche dell’ambito veterina-rio e ambientale. I batteri sono infatti abili a scambiarsi i geni di resistenza, ed è importante riuscire di volta in volta a interrompere la catena di tra-smissione, cosa impossibile senza una collaborazione multidisciplina-re».Oppure grazie a una nuova classe di antibiotici.«Sì, ma è una strada difficoltosa. È complicato trovare nuovi target mo-lecolari, e per le case farmaceutiche non è al momento una priorità per i costi elevati della ricerca e i ritorni economici risicati. Negli ultimi anni sono state create nuove tecniche mo-lecolari per trovare nuovi target e a livello accademico si è avuto qualche risultato promettente, anche fra gli studi fuoriusciti dal PNR 49. Ma è difficile passare dalla scoperta della molecola agli studi pre-clinici. Questi studi sono cari e attualmente la Sviz-zera non ha sviluppato le disponibili-tà finanziarie per coprirli. Cè qualche startup che si occupa di questa fase, ma l’apporto finanziario è ancora in-sufficiente. Il risultato è che alcune ricerche interessanti sono ferme».Quali batteri preoccupano di più?«In principio sono stati monitorati attentamente gli stafilococchi e da qualche anno le resistenze sembrano in calo in diversi Paesi. Quando si prendono misure incisive di preven-zione e di sorveglianza qualcosa si può fare, e la speranza è di andare nella stessa direzione con i batteri cosiddetti gram negativi che tanto preoccupano attualmente, come le Klebsielle o gli Escherichia coli, che possono anche diventare resistenti a praticamente tutti gli antibiotici. In Svizzera questi batteri stanno emer-gendo nella popolazione e saranno particolarmente difficili da debellare se si installeranno in modo perma-nente. In ogni caso anche a diminui-re il consumo degli antibiotici le resi-stenze non spariranno mai del tutto, bisogna cercare di contenere la loro percentuale quanto più possibile».A livello politico la Svizzera che co-sa fa?«Per affrontare il problema della resi-stenza agli antibiotici, la Confedera-zione sta sviluppando il programma nazionale StAR (Strategie Antibioti-karesistenzen). Il suo approccio è multidisciplinare (‘‘one health’’): la strategia è il frutto di una collabora-zione tra l’Ufficio federale della sani-tà pubblica (UFSP, in qualità di capo-fila), gli Uffici federali della sicurezza alimentare e di veterinaria (USAV), dell’agricoltura (UFAG), dell’ambien-te (UFAM), i Cantoni e altri attori im-portanti nell’area tematica delle resi-stenze agli antibiotici. Inoltre, il Con-siglio Federale ha accettato a luglio un nuovo PNR che faccia da comple-mento a livello di ricerca accademica a quello precedente (il PNR 49) e lo continui. L’approccio di questo nuo-vo PNR è pure quello ’’one health’’, e il CF gli ha attribuito una somma di 20 milioni di franchi per i prossimi cin-que anni».

*presidente della Federazione europea delle società di microbiologia e già presidente del

Comitato direttivo del PNR 49