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Perché Calvino? “Ogni volta che rivedo la mia vita fissata e oggettiva sono preso dall’angoscia; soprattutto quando si tratta di notizie che ho fornito io… spero sempre d’aggirare il mio rapporto nevrotico con l’autobiografia”. Il contrario della vita fissata è l’imprevisto, la sorpresa, il dono, la possibilità di rinnovarsi sempre (almeno in letteratura) come in questo brano di Palomar: “Dalla muta distesa delle cose deve partire un segno, un richiamo, un amico: una cosa si stacca dalle altre con l’intenzione di significare qualcosa… Le occasioni di questo genere non sono certo frequenti, ma prima o poi dovranno pur presentarsi: basta aspettare che si verifichi una di quelle fortunate coincidenze in cui il mondo vuole guardare ed essere guardato nel medesimo istante e il signor Palomar si trovi a passare lì in mezzo. Ossia, il signor Palomar non deve nemmeno aspettare, perché queste cose accadono soltanto quando meno ci s’aspetta” Lo scrittore e lo stupore: Dario Buzzolan ricorda il regista televisivo e giornalista letterario Patrizio Barbaro (1958- 1999) Di Patrizio, appena conosciuto, mi colpì immediatamente la capacità di stupirsi.

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Perché Calvino?

“Ogni volta che rivedo la mia vita fissata e oggettiva sono preso

dall’angoscia; soprattutto quando si tratta di notizie che ho

fornito io… spero sempre d’aggirare il mio rapporto nevrotico

con l’autobiografia”.

Il contrario della vita fissata è l’imprevisto, la sorpresa, il dono,

la possibilità di rinnovarsi sempre (almeno in letteratura) come

in questo brano di Palomar:

“Dalla muta distesa delle cose deve partire un segno, un

richiamo, un amico: una cosa si stacca dalle altre con

l’intenzione di significare qualcosa… Le occasioni di questo

genere non sono certo frequenti, ma prima o poi dovranno pur

presentarsi: basta aspettare che si verifichi una di quelle

fortunate coincidenze in cui il mondo vuole guardare ed essere

guardato nel medesimo istante e il signor Palomar si trovi a

passare lì in mezzo. Ossia, il signor Palomar non deve

nemmeno aspettare, perché queste cose accadono soltanto

quando meno ci s’aspetta”

Lo scrittore e lo stupore: Dario Buzzolan ricorda il regista televisivo e giornalista letterario Patrizio Barbaro (1958-1999)

Di Patrizio, appena conosciuto, mi colpì immediatamente la capacità di stupirsi.

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È una delle qualità che più mi toccano nelle persone. Perché lo stupore – non so se sono in grado di spiegarlo, e poi altri lo hanno detto molto meglio di me – lo stupore è come uno sguardo il cui campo visivo sia stato moltiplicato all’indefinito. È l’inatteso a stupire. Per questo credo che la conoscenza, quella vera, passi necessariamente attraverso lo stupore : perché significa apertura, libertà, imprevedibilità. Di questo sguardo era capace Patrizio, me ne accorsi subito persino io che ci metto un po’ a capire gli altri. Patrizio parlava di Campana e di giovani autori semisconosciuti, montava raffinati special tv sugli scrittori e curava regie di programmi assolutamente “di servizio”. Tutto con la stessa classe, e con lo stesso entusiasmo. Apertura era la sua parola. Comincia a vedere i suoi speciali, quegli Scrittori raccontano che troppi, in seguito hanno riproposto come farina del proprio sacco, trovandoseli comodamente confezionati nelle teche Rai. Lo conobbi anche attraverso la sensibilità di quei montaggi, di quelle scelte, di quegli itinerari intellettuali. Nel frattempo era uscito il mio primo romanzo, Dall’altra parte degli occhi. Decisi di farlo leggere a Patrizio. Lo lesse, lo recensì. Con stupore, con entusiasmo. Mi fece avere anche una lettera, bellissima. Era scritta a computer, ma con un’annotazione a penna che voglio riportare: «Perdona un po’ di retorica. Non l’ho fatto apposta. La mano ha camminato da sola sulla tastiera». Stupore, entusiasmo, ancora una volta. Anche della propria scrittura. Gli risposi che ero contento. Perché sapevo che io e lui avevamo molto da dirci. Era vero ma non è stato possibile. A quasi tre anni di distanza, vedere pubblicata gran parte dell’opera scritta da Patrizio – con quel frammento finale di racconto fa rabbia, per la sua incompiutezza – attutisce almeno di un poco lo sgomento di quell’interruzione. Non abbastanza, purtroppo. Il resto si gioca dentro. Per me, per voi che siete qui oggi, Patrizio resta. Come esempio, come stimolo. Per questo vorrei salutare la sua permanenza con le parole con cui Alberto Savinio chiudeva il suo Vita di Enrico Ibsen: «Addio, per ora. Sbrigo queste quattro faccende ancora, poi verrò a

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raggiungerti. Dovunque tu sia; anche nell’inesistente. Anzi meglio lì. Quando ci si capisce, che importa esistere?» (Dario Buzzolan) L’occhio guarda per questo è fondamentale. È l’unico che può

accorgersi della bellezza.

“”

La visione può essere simmetrica, lineare o parallela, in perfetto

allineamento con l’orizzonte. Ma può essere anche asimmetrica,

sghemba, capricciosa, non importa, perché la bellezza può

passare per le più strane vie anche quelle codificate dal senso

comune. E dunque la bellezza si vede perché è viva e quindi

reale. Diciamo meglio che può capitare di vederla dipende da

dove si svela. Ma che certe volte si sveli, non c’è dubbio

(Patrizio Barbaro).

La vita finisce dove comincia”, ha scritto Pasolini. È una

speranza. La vita comincia quando vi irrompe una novità bella e

felice, una cosa imprevedibile e inaspettata. Allora la vita

comincia nuova e tutto quello che c’era prima diventa subito

irrimediabilmente vecchio, passato, nostalgia. Finisce. Ecco

perché la vita finisce dove comincia. È un augurio che la vita

cominci. Che accada un inizio (Patrizio Barbaro) L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché

vivere è cominciare, sempre, ad ogni istante. Quando manca

questo senso –prigione, malattia, abitudine, stupidità – si

vorrebbe morire. È per questo che quando una situazione

dolorosa si riproduce identica – appaia identica – nulla ne vince

l’orrore. Il principio suddetto non è poi da viveur. Perché c’è

più abitudine nell’esperienza ad ogni costo (cfr il brutto

“viaggiare ad ogni costo”, che nella rotaia accettata

doverosamente e vissuta con trasporto e intelligenza. Sono

convinto che c’è più abitudine nelle avventure che in un buon

matrimonio. Perché il proprio delle avventura è di serbare una

riserva mentale di difesa; per cui non esistono buone avventure.

È buona quell’avventura cui ci si abbandona: il matrimonio

insomma, magari di quelli fatti in cielo. (Cesare Pavese)

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L’incipit, come esordio narrativo, come struttura letteraria su

cui tanto riflette Calvino, contiene il germe di una sottile utopia:

trovarsi sempre nel punto dell’origine, nel luogo creativo in cui

tutto è ancora possibile, in cui scaturiscono e si raccolgono le

energie. L’”ideale utopico” consisterebbe nella dilatazione

continua di questa energia iniziale a formare un organismo

compatto, coeso, ben definito e nello stesso tempo sempre

nuovo. Sempre più consapevolmente, come attesta il saggio

Cominciare e finire, del febbraio 1985, questa idea attraversa le

scelte stilistiche di Calvino, nei suoi continui cambiamenti di

rotta, nell’orrore di essere classificato in qualsivoglia “gabbia”

intellettuale o di genere letterario.

“Ho paura di ripetermi, nelle mie opere. Per questo motivo ogni

volta devo crearmi una nuova sfida da affrontare. Devo trovare

qualcosa da fare che sembri una novità, e sia un po’ al di sopra

delle mie risorse”1.

Ne La giornata d’uno scrutatore, Calvino, nelle vesti

autobiografiche sello scrutatore comunista Amerigo Ormea si

interroga sul diritto di voto che porta con sé la domanda ben più

radicale sul diritto alla vita (che finisce per coinvolgere lui

stesso quando, al telefono, la fidanzata gli annuncia di aspettare

un bambino e lui pensa immediatamente all’aborto), partendo

da una intelligente constatazione: l’impossibilità a riprodursi di

uno slancio positivo buono capace di generare un movimento,

aggregazioni politiche e sindacali realmente impegnate in un

rinnovamento per la ricostruzione dell’Italia nell’immediato

dopoguerra. Quello slancio stava già, passato nemmeno un

decennio, sparendo in beghe burocratiche di ogni tipo:

1 Italo Calvino, Uno scrittore pomeridiano, intervista sull’arte della narrativa a cura di William

Weaver e Daniel Pettigrew, Roma, Minimum fax, 2003, p. 63. Si tratta proprio della battuta finale

dell’intervista di Weaver.

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Perché Calvino, alcuni spunti.

“L’ambizione giovanile da cui ho preso le mosse è stata quella

del progetto di costruzione di una nuova letteratura che a sua

volta servisse alla costruzione di una nuova società […] Certo

che il mondo che ho oggi sotto gli occhi non potrebbe essere più

opposto all’immagine che quelle buone intenzioni costruttive

proiettavano nel futuro” (Italo Calvino, Una pietra sopra,

Torino, Einaudi, 1980, p. VII. La prefazione risale al marzo

1980)

“Tutta la sua opera a ben vedere dovrebbe essere interpretata

alla luce di questo fondamentale dato storico: la necessità, una

volta consumate le attese e le speranze di rigenerazione dopo il

1945, di operare un cambiamento di scala. La storia aveva

smentito le previsioni, prendendo un corso assai diverso da

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quello previsto. Occorreva rimescolare le carte, cambiare

modelli e protocolli, inventare nuovi schemi, scomporre e

ricomporre” Mario Barenghi, Italo Calvino, le linee i margini,

Bologna, Il Mulino, 2007, p.9. (Il critico, tra i più fedeli di

Calvino, lo indica come uno degli scrittori più importanti del

Novecento europeo proprio perché ha rimescolato quelle carte,

è stato capace di rigenerarsi nel rinnovamento)

“ In ogni poesia vera esiste un midollo di leone, un nutrimento

per una morale rigorosa, per una padronanza della storia” (Italo

Calvino, Una pietra sopra, p. 17. L’articolo, Il midollo del

leone, risale al 1955).

“Non darò più fiato alle trombe” (Italo Calvino, Una pietra

sopra, p. 114. È il titolo di un articolo del 1965).

“La luna sarebbe un buon punto di osservazione per guardare la

terra da una certa distanza giusta per essere presente e insieme

distaccato: era questo il problema del Barone rampante”

(intervista a Ferdinando Camon, ora in Saggi, Milano,

Mondadori, 1995, vol.II p.2777)

L’opera e la personalità di Calvino si prestano ad un discorso

complessivo sulla narrativa del secondo dopoguerra e, più in

generale, su una idea di letteratura come valore, con qualità

specifiche. Di notevole interesse in questo senso i saggi, la

maggior parte raccolti in tre libri, la cui successione cronologica

offre l’idea di un grande romanzo di formazione nella società

del suo tempo: Una pietra sopra, Collezione di sabbia, Lezioni

americane (i titolo sono molto azzeccati ed eloquenti). In

particolare, nel corso si discuteranno i seguenti punti:

1) L’incipit e l’explicit come strutture narrative che

contengono un punto di vista sulla realtà molto esplicito

che si offre a illustrare il metodo di analisi della stilistica.

2) Calvino, con il suo orrore verso la ripetizione, con

l’ossessione di non essere incasellato in nessuna gabbia di

genere letterario o intellettuale, sperimenta varie modi di

scrittura. Si presta dunque perfettamente a rilievi di

analisi testuale e ad un discorso complessivo sulle qualità

della letteratura e sui modi di esprimerle: leggerezza,

espressionismo, molteplicità, realismo, fantastico, la

tradizione del romanzo europeo e la tendenza italiana al

lirismo narrativo e alle forme del racconto o della shorts

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stories, rapporto tra biografia e trasfigurazione

romanzesca, l’opposizione alla tradizione dialettale.

3) Per le ragioni di cui al 2 la sua opera si inserisce in un

discorso sul romanzo della sue epoca (1945-1985) dal

neorealismo, alla avanguardia, al romanzo impegnato, al

romanzo lirico, al fantastico, al romanzo “post moderno e

alla letteratura di “finzioni” e combinatoria.

4) Si inserisce, non meccanicamente, nel suo tempo, almeno

in alcune vicende fondamentali della nostra storia: la

Resistenza e il dopoguerra con i dibattiti politici, la

guerra fredda, il trauma dell’invasione russa della

Cecoslovacchia e della Polonia, 1956-7, il boom

economico con il conseguente massiccio fenomeno di

abbandono delle campagne per le città industrializzate del

Nord e la speculazione edilizia, il ’68 e le rivolte

studentesche, gli anni di piombo, il così detto riflusso. Un

episodio emblematico, un mese prima della morte di

Pasolini, l’eccidio del Circeo. I due scrittore ne parlano in

modi diversi.

5) Importanza del paesaggio e della geografia in Calvino

(tema del viaggio e della identità)

6) Il confronto con altri intellettuali, Pasolini tra tutti, su

come intervenire sulla realtà

7) L’interesse scientifico e per l’evoluzione di quello che

oggi è la Rete.

8) Il dibattito critico sulla sua opera, salutata da una

vastissima risonanza europea ed americana, e da un

numero costante di lettori, ma anche con importanti

detrattori. Si veda, in particolare, una linea critica

innescata da un celebre saggio di Alfonso Berardinelli

riportato in dispensa: Calvino considerato un bambino

che non vuole crescere.

9) Il rapporto molto forte con la tradizione, verso il futuro.

Perché leggere i classici?

10) La ricerca della guida (il Cugino e altre figure) e il

conflitto con il padre, il confronto gioventù/maturità

(Marco Polo e il Kublai delle Città invisibili)

. “Sono cresciuto in una cittadina che era

piuttosto diversa dal resto d’Italia, ai

tempi in cui ero bambino: Sanremo, a quel

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tempo ancora popolata di vecchi inglesi,

granduchi russi, gente eccentrica e

cosmopolita”.

Il futuro scrittore passò quasi

ininterrottamente i primi venti anni della

sua vita a Sanremo, alla villa Meridiana,

che a quel tempo ospitava la direzione

della stazione di floricoltura di cui il

padre era direttore, dopo aver esercitato

il mestiere d’agronomo in America Latina.

Italo nacque alla vigilia del ritorno in

Italia.

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La “Punta di Francia”, a Sanremo, è la zona

dove era situata Villa Meridiana, residenza

dei Calvino, a cui lo scrittore dedica il

racconto autobiografico, in prima persona

La strada di San Giovanni, dall’emblematico

inizio:

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“Una spiegazione generale del mondo e della

storia deve innanzitutto tenere conto di

com’era situata casa nostra, nella regione

un tempo detta «punta di Francia», a mezza

costa sotto la collina di San Pietro, come

a frontiera tra i due continenti.

In giù, appena fuori del nostro cancello e

della via privata, cominciava la città coi

marciapiedi le vetrine i cartelloni del

cinema e le edicole, e Piazza Colombo lì a

un passo, e la marina; in su bastava uscire

dalla porta di cucina nel beudo che passava

dietro la casa (sapete i beudi, che

derivano le acque dei torrenti per irrigare

i terreni della costa: un canaletto a

ridosso d’un muro, fiancheggiato da uno

stretto marciapiede di lastre di pietra,

tutto in piano) e subito si era in

campagna, su per le mulattiere

acciottolate, tra muri a secco e pali di

vigne e il verde. Era sempre da lì che

usciva mio padre, vestito alla cacciatora,

coi gambali e si sentiva il passo delle sue

scarpe chiodate per il beudo, e lo

scampanellio d’ottone del cane, e il

cigolare del cancelletto che dava sulla

strada di San Pietro. Per mio padre il

mondo era di là che cominciava, e l’altra

parte del mondo, quella di giù, era solo

un’appendice, talvolta necessaria per cose

da sbrigare, ma estranea e insignificante,

da attraversare a lunghi passi quasi in

fuga, senza girare gli occhi intorno.

Io no, tutto il contrario: per me il mondo,

la carta del pianeta, andava da casa nostra

in giù, il resto era spazio bianco, senza

significati; i segni del futuro mi

aspettavo di decifrarli laggiù da quelle

vie, da quelle luci notturne che non erano

solo le vie e le luci della nostra piccola

città appartata, ma la città, uno spiraglio

di tutte le città possibili, come il suo

porto erano già i porti per tutti i

continenti.

La strada di San Giovanni, cit., pag. 16.

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La nostra proprietà si interrompeva sulla

piazza della chiesa di San Giovanni…

comprendendo tutta una valletta… più in su

tutta a verdura e frutta col casolare detto

Cason Bianco (dove tenemmo per un certo

tempo le pecore), e una sorgente nascosta

tra rocce verdi di capelvenere, e una

caverna di tufo, e una grotta di roccia, e

una peschiera, e altre meraviglie che non

erano più per me meraviglie, e ora lo sono

ritornate…”.

“Ma anch’io, cos’era la strada che cercavo

se non la stessa di mio padre scavata nel

folto di un’altra estraneità, nel

sopramondo (o inferno) umano, cosa cercavo

con lo sguardo negli androni male

illuminati nella notte (l’ombra di una

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donna, a volte, vi spariva) se non la porta

socchiusa, lo schermo del cinematografo da

attraversare, la pagina da voltare che

immette in un mondo dove tutte le parole e

le figure diventassero vere, presenti,

esperienza mia, non più l’eco di un’eco di

un’eco.

Parlarci era difficile. Entrambi di indole

verbosa, posseduti da un mare di parole,

insieme restavamo muti, camminavamo in

silenzio a fianco a fianco per le strade di

San Giovanni. Per mio padre le parole

servivano da conferma alle cose, e da segno

di possesso; per me erano previsioni di

cose intraviste appena, non possedute,

presunte.

Che la vita fosse anche spreco, questo mia

madre non lo ammetteva: cioè che fosse

anche passione […]Senza incertezze,

ordinata, trasformava le passioni in doveri

e ne viveva

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Era un rapporto con la natura che voleva

stabilire, di lotta di dominio; darle

addosso, modificarla, forzarla, ma

sentendola sotto viva e intera.

E io? Io credevo di pensare ad altro.

Cos’era la natura? Erba piante, luoghi

verdi, animali. Ci vivevo in mezzo e volevo

essere altrove. Di fronte alla natura

rimanevo indifferente, riservato, a tratti

ostile. E non sapevo che stavo anch’io

cercando un rapporto, forse più fortunato

di quello di mio padre, un rapporto che

sarebbe stata la letteratura a darmi,

restituendo significato a tutto, e d’un

tratto ogni cosa sarebbe divenuta vera e

tangibile e possibile e perfetta, ogni cosa

di quel mondo ormai perduto”.

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“Ora che lui non c’è mi pare che dovrei pensare a tante cose, la

filosofia, la politica, la storia, seguo le gazzette, leggo i libri, mi

ci rompo la testa, ma le cose che voleva dire lui non sono lì, è

altro che lui intendeva, qualcosa che abbracciasse tutto, e non

poteva dirla con parole ma solo vivendo come visse”.

PREMESSA

“Ogni volta che rivedo la mia vita fissata e oggettiva sono preso

dall’angoscia; soprattutto quando si tratta di notizie che ho

fornito io… spero sempre d’aggirare il mio rapporto nevrotico

con l’autobiografia”.

Italo Calvino non amava parlare di sé. Era difficile superare la

sua ritrosia. Eppure ha lasciato varie tracce. Ha scritto lui stesso

l’autobiografia rispondendo all’invito di Elio Filippo Accrocca

e in forma di Nota Introduttiva a “Gli amori difficili” del 1970,

poi uno spiritoso curriculum per Franco Maria Ricci e ha

lasciato spesso interviste di “memoria”.

Sono usciti postumi “La strada di San Giovanni”, affresco di

ricordi, e “Eremita a Parigi”, che, nonostante i passaggi

mancanti, racconta alcuni tempi della vita dello scrittore.

Avevamo i pezzetti e le combinazioni che Calvino ci aveva

preparato e il volume è stato il lento svelamento del loro ordine.

Abbiamo avuto l’impressione di entrare in una specie di

“giallo”. Le sue fotografie sul tavolino come i suoi amati

tarocchi. Un film con suspense: eccolo camminare accanto al

padre per le strade dell’infanzia, “filosofare” sui lungomari,

evocare battaglie, stupirsi di ragni, alberi e cavalieri, leggere i

libri degli altri, poi improvvisamente sparire con un colpo di

scena e cominciare a ingiallire, e ritornare, cercando invisibili

fili da dipanare e cose da guardare, fino alla fine.

“Dalla muta distesa delle cose deve partire un segno, un

richiamo, un amico: una cosa si stacca dalle altre con

l’intenzione di significare qualcosa… Le occasioni di questo

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genere non sono certo frequenti, ma prima o poi dovranno pur

presentarsi: basta aspettare che si verifichi una di quelle

fortunate coincidenze in cui il mondo vuole guardare ed essere

guardato nel medesimo istante e il signor Palomar si trovi a

passare lì in mezzo. Ossia, il signor Palomar non deve

nemmeno aspettare, perché queste cose accadono soltanto

quando meno ci s’aspetta”.

CAPITOLO I

SENTIERI, ALBERI, GIARDINI:

UNO SCRITTORE E IL SUO PAESAGGIO

Italo Calvino gioca a nascondino con il suo lettore, lo tiene a

distanza, lo affascina con la fantasia svelando solo a tratti e

mischiati ad altri elementi i luoghi magici della sua infanzia.

Eppure, a ben guardare, non è difficile rilevare che molte delle

scene dei suoi libri sono ambientate in quel piccolo fazzoletto di

terra dove correva da bambino, a Sanremo, in Liguria. Nato a

Santiago di Las Vegas a Cuba, dove il padre dirigeva l’istituto

botanico, arriva presto in quelle stupende colline. Non solo

boschi, ma pietre dure e mare. Dichiara a Maria Corti, in una

intervista ora riportata in Eremita a Parigi (Milano, Mondadori,

1994):

«Come ambiente naturale quello che non si può respingere o

nascondere è il paesaggio natale e familiare; Sanremo

continua a saltar fuori nei miei libri, nei più vari scorci e

prospettive, soprattutto vista dall’alto, ed è soprattutto

presente in molte delle Città invisibili. Naturalmente parlo di

Sanremo qual era fino a trenta o trentacinque anni fa, e

soprattutto come era cinquanta o sessanta anni fa quando

ero bambino. Ogni indagine non può che partire dal quel

nucleo». Come un testardo contadino ligure che su aridi scoscesi brani di

terra costruisce vigneti e colture, lo scrittore dal nulla della

pagina bianche disegna intrighi così complicati da offrirsi

limpidi al lettore. Dal nulla esce la poesia come da un

impossibile terreno un ordine e una vigna. E, a parte rare

eccezioni come ne La strada di San Giovanni, racconto uscito

postumo nell’omonimo volume, Calvino ha nascosto i suoi

luoghi attraverso nomi fantastici. Fin dallo straordinario primo

libro, dove un bambino gira le colline in mezzo alla guerra. Con

una banda scalcagnata di partigiani.

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L’incontro con un luogo straordinario e speciale è il segreto del

libro: Il sentiero dei nidi di ragno. Un posto che solo Pin, il

bambino protagonista conosce.

«Pin va per i sentieri che girano intorno al torrente, posti

scoscesi dove nessuno coltiva. Ci sono strade che solo lui

conosce e che gli altri ragazzi si struggerebbero di sapere: un

posto c’è dove fanno il nido i ragni, e solo Pin lo sa ed è l’unico

di tutta la vallata, forse in tutta la regione: mai nessuno ragazzo

ha saputo di ragni che facciano il nido, tranne Pin… È una

scorciatoia sassosa che scende al torrente tra due pareti di terra e

di erba. Lì, tra l’erba i ragni fanno delle tane, dei tunnel

tappezzati d’un cemento d’erba secca; ma la cosa meravigliosa

è che le tane hanno una porticina, pure di quella poltiglia secca

d’erba, una porticina tonda che si può aprire e chiudere».

Una porticina seminascosta: il brevissimo confine tra la fiaba e

la realtà.

Gli alberi su cui vive il Barone Rampante, il giardino di

Ombrosa, “trasfigurano” quelli della villa La Meridiana evocati

con nostalgia nella pagina finale del secondo racconto della

Trilogia dei nostri antenati. Tutto cambia e si trasforma, muore

per legge naturale o per la mano avida e inconcludente

dell’uomo come nella Speculazione edilizia altro libro

ambientato in Liguria, coevo ai racconti della trilogia.

«Ogni tanto mi interrompo e vado alla finestra. Il cielo è vuoto,

e a noi vecchi d’Ombrosa, abituati a vivere sotto quelli verdi

cupole, fa male agli occhi guardarlo. Si direbbe che gli alberi

non hanno retto… o che gli uomini siano stati presi dalla furia

delle scure… Ombrosa non c’è più. Guardando il cielo

sgombro, mi domando se davvero è esistita…».

Quel pezzo di terra è stato distrutto e diventa un luogo della

scrittura, della mente, della nostalgia. Uno spazio, un luogo

circoscritto da cui partire per considerare l’Oltre. Ne La strada

di San Giovanni questa tensione dell’uomo viene rappresentata

nella dialettica di due personaggi, un padre e un figlio, l’uno

tende verso l’alto, la collina e la solitudine, il verde, l’altro

guarda in basso verso la città, con le sue luci smaglianti e

intermittittenti. Il padre simbolo della casa, custode severo del

giardino e il figlio che vive l’inquietudine dell’Oltre, alimentata

dalla passione letteraria. Ma il viaggio ha bisogno del ritorno, e

lo stare ha bisogno della dimensione dell’Oltre:

«E io? Io credevo di pensare ad altro. Cos’era la natura? Erbe,

piante, luoghi verdi, animali. Ci vivevo in mezzo e volevo

essere altrove. Di fronte alla natura restavo indifferente,

riservato, a tratti ostile. E non sapevo che stavo anch’io

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cercando un rapporto,m forse più fortunato di quello di mio

padre, un rapporto che sarebbe stata la letteratura a darmi…

(Ora sì, dall’alto degli anni, vedo ogni fascia, ogni sentiero, ora

potrei indicare la strada a me che corro tra i filari, ma è tardi,

ormai tutti se sono andati)».

Nelle indicazioni avverbiali di tempo una profonda nostalgia,

che cogli il vuoto lasciato da presenze che non sono più e delle

quali solo adesso si riconosce l’importanza: ora, ora potrei, ma è

tardi, ormai.

In un bellissimo racconto Il giardino incantato possiamo

rilevare il medesimo movimento della psicologia umana

rappresentato in altre immagini. Il giardino dell’eden, l’Oltre, in

cui due bambini intenti ai loro giochi si sono trovati per caso

rimane freddo nella sua bellezza.

«Tutto era così bello: volte strette e altissime di foglie ricurve e

ritagli di cielo; restava solo quell’ansia dentro, del giardino che

non era loro e da cui forse dovevano essere cacciati tra un

momento».

I piccoli protagonisti avvertono un disagio via via crescente:

«Ogni cosa in quel giardino era così: bella e impossibile a

gustarsi, con quel disagio dentro e quella paura, che fosse solo

per distrazione del destino…».

È immagine dell’inospitalità della vita ma certamente anche

descrizione di una certa dinamica umana per cui si gode di ciò

che a fondo si conosce, di ciò che si è deciso, di ciò che

appartiene. I giochi che i due protagonisti inventano di nuovo

usciti dal giardino incantato rappresentano il rimanere, o se si

vuole il tornare:

«Zitti zitti Giovannino e Serenella se ne andarono… Tra le

agavi trovarono un sentiero che portava alla spiaggia, breve e

sassosa, con un cumulo di alghe che seguivano la riva del mare.

Allora inventarono un gioco bellissimo: battaglia con le alghe.

Se ne tirarono manciate in faccia l’uno con l’altra fino a sera.

C’era di buono che Serenella non piangeva mai».

Per prolungare e ravvivare il gioco serve un cumulo di alghe

oggetto insignificante e non bello, ma tipico e conosciuto.

Questa dinamica creativa è però del bambino, riservata

all’infanzia. Mentre probabilmente il senso di estraneità e di

angoscia segna la consapevole analisi del pensiero dell’adulto.

Qualcosa di indelebile però si lega al paesaggio dell’infanzia in

cui è scritta «la spiegazione generale del mondo e della storia»,

come nell’incipit de La strada di San Giovanni. Forse proprio

perché quel paesaggio ora, anche se vi si ritorna, non è più

quello che si aspettava, vagheggiato per anni, sembra non

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assorbire quell’emozione a cui si tendeva da lontano. È un

modo tipico del sentire umano, scriveva Cesare Pavese: «E se

ripenso all’intensità con cui allora rimpiangevo i cieli e le strade

del Piemonte, - dove ora vivo tanto inquieto, - non posso

concludere altro che così siamo fatti: solo ciò che è trascorso o

mutato o scomparso ci rivela il suo volto reale». (Terra d’esilio,

in Notte di festa, Torino, Einaudi, 1952).

CAPITOLO II

«SONO FIGLIO DI SCIENZIATI»

Nel libro postumo Eremita a Parigi, curato dalla vedova di

Calvino, Esther, troviamo numerose pagine autobiografiche, tra

le quali quelle già contenute nel volume Ritratti su misura

interviste a scrittori contemporanei a cura di Elio Filippo

Accrocca, e un testo analogo pubblicato invece sul «Caffè», del

gennaio 1956. Lasciamo dunque che Calvino si presenti,

attraverso queste pagine:

«Sono figlio di scienziati: mio padre era un agronomo, mia

madre una botanica; entrambi professori universitari. Tra i miei

familiari sono gli studi scientifici erano in onore; un mio zio

materno era un chimico, professore universitario, sposato ad

una chimica (anzi ho avuto due zii chimici sposati a due zie

chimiche) mio fratello è un geologo, professore universitario. Io

sono la pecora nera, l’unico letterato della famiglia. Mio padre

era ligure, di una vecchia famiglia di Sanremo; mia madre è

sarda. Mio padre visse una ventina d’anni in Messico, direttore

di stazioni sperimentali agronomiche e poi in Cuba; a Cuba

condusse mia madre, conosciuta attraverso uno scambio di

pubblicazioni scientifiche e sposata durante un fulmineo viaggio

in Italia, io nacqui in un villaggio vicino all’Avena, Santiago di

Las Vegas il 15 ottobre 1923.

Di Cuba non ricordo niente, purtroppo, perché a meno di due

anni ero già in Italia, a Sanremo, dove mio padre era rimpatriato

con mia madre a dirigere la stazione sperimentale di

floricoltura. Della mia nascita d’oltremare conservo solo un

complicato dato anagrafico (che nelle brevi note bibliografiche

sostituisco con quello più vero di: nato a Sanremo) un certo

bagaglio di memorie familiari, e il nome di battesimo che mia

madre, prevedendo di farmi crescere in terra straniera, volle

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darmi perché non scordassi la patria degli avi, e che invece in

patria risuona bellicosamente nazionalista».

Il ricordo dei genitori è legato al paesaggio, specialmente quello

della mitica villa «La Meridiana» e della campagna di San

Giovanni Battista, e ad una educazione razionalista, laica di

impronta scientifica, come è documentato anche dalle scuole

che frequenta, prima l’asilo al St. George College e poi le

Scuole Valdesi. Frequenterà poi il liceo G. D. Cassini.

«Ho vissuto con i miei genitori a Sanremo fino a vent’anni in un

giardino pieno di piante rare ed esotiche e per i boschi delle

prealpi liguri con mio padre vecchio cacciatore instancabile».

Il memorabile ritratto del padre si trova ne La strada di San

Giovanni, 1962:

«Era sempre là che usciva mio padre, vestito alla cacciatora, coi

gambali, e si sentiva il suo passo delle scarpe chiodate lungo il

beudo, e lo scampanellio d’ottone del cane, e il cigolare del

cancelletto che dava nella strada di San Pietro. Per mio padre il

mondo era di là in su che cominciava, e l’altra parte del mondo,

quella di giù, era solo un’appendice, talvolta necessaria per cose

da sbrigare, ma estranea e insignificante».

Il padre muore nel 1951 quando Italo Calvino è fuori Italia. Il

racconto è scritto in sua memoria e viene pubblicato sulla rivista

«Questo e altro», nel 1962, ma apparirà in volume solo nel

1990.

Altrettanto vivido il ritratto della madre, anche lei botanica:

«Che la vita fosse anche spreco questo mia madre non

l’ammetteva: cioè che fosse anche passione. Perciò non usciva

mai dal giardino etichettato pianta per pianta… Senza

incertezze, ordinaria, trasformava le passioni in doveri e ne

viveva».

Ancora sui genitori, in una intervista riportata nella cronologia,

nelle edizioni delle Opere di Calvino nei Meridiani e negli

Oscar Mondadori:

«Mia madre era donna molto severa, austera, rigida nelle sue

idee tanto sulle piccole che sulle grandi cose. Anche mio padre

era molto austero e burbero ma la sua severità era più rumorosa,

collerica, intermittente. Mio padre come personaggio narrativo

viene meglio, sia come vecchio ligure molto radicato nel suo

personaggio, sia come uomo che aveva girato il mondo e che

aveva vissuto la rivoluzione americana al tempo di Pancho

Villa. Erano due personalità forti… L’unico modo per un figlio

di non essere schiacciato era di opporre un sistema di difese. Il

che comporta anche delle perdite: tutto il sapere che potrebbe

essere trasmesso dai genitori ai figli viene in parte perduto».

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L’educazione avuta segnerà il rigore di Calvino,l’intensa ricerca

di un nitore etico, di un ordine, ma anche la sua voglia di

evasione: «Mio padre di famiglia mazziniana repubblicana

anticlericale massonica era stato in gioventù anarchico… mia

madre, di famiglia laica, era cresciuta nella religione del dovere

e della scienza, socialista interventista nel ‘15, ma con una

tenace fede pacifista».