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INTRODUZIONE La questione relativa alla natura fonetica ed alla funzione degli elementi tradizionalmente denominati, nell’ambito degli studi linguistici indoeuropei, occlusive labiovelari oppure, piú semplicemente, labiovelari, costituisce l’oggetto del lavoro di ricerca che sarà esposto qui di seguito. L’esigenza di revisione d’un problema non ancora risolto con argomentazioni esaustive, quantunque ripetutamente affrontato, nell’arco di tempo d’oltre un secolo, da parte dei piú illustri rappresentanti della linguistica storico-comparativa in campo internazionale, sotto molteplici angolazioni e con l’adozione di svaria- ti modelli d’approccio metodologico, ha senz’altro contribuito a destare il no- stro interesse per l’argomento. Il fine della presente indagine è ricercare l’e- satta specificazione fonetica delle entità in oggetto nonché un’adeguata col- locazione funzionale all’interno del sistema fonologico indoeuropeo. È noto che il principale strumento al servizio della ricostruzione linguisti- ca è costituito dalla comparazione e che, quindi, la qualità dei risultati ottenu- ti dipende essenzialmente dal grado di conoscenza degli stati impiegati nel confronto. Il sistema d’espressione ricostruito per l’indoeuropeo (astraendo dalle varianti proposte dai vari studiosi) è in larga misura il prodotto della collazione tra sistemi di cui sono, in genere, ben noti gli elementi funzionali con le relative regole combinatorie; tuttavia le designazioni naturali di tali elementi sono talvolta molto approssimative o incomplete quando non affatto congetturali. Se si considera che le ‘occlusive labiovelari’ indoeuropee si sono confuse con le occlusive dorso-velari nell’esito satm onde è pressoché impossibile ottenere informazioni utili da tutto un insieme di lingue tra cui il sanscrito 1 e che nel gruppo centum, la sola lingua i cui sviluppi fonetici siano documen- tabili, con ragionevole certezza, da un poderoso corpus di monumenti epigra- fici e letterari, nel corso di molti secoli (almeno dal terzo secolo a.C.) è il la- tino, apparirà evidente che la ricostruzione fonetica del sistema indoeuropeo, piú ancora di quella fonologica, non è tanto il risultato palese d’un obiettivo rilievo storico-comparativo, quanto d’una piú o meno arbitraria generalizza- zione per addizione. 1 Naturalmente ciò non significa che le lingue satem non rechino tracce sicure dell’esistenza pre- terita di labiovelari, come d’altronde è stato ben dimostrato da parte di vari studiosi – Burrow, p.133-134; Pisani 1961, p.19-23; Szemerényi 1964 p.401: “This is not the place for discussing the whole problem of labiovelars. But it may be pointed out that their interpretation as a centum innovation breaks down on the fact that the satem-languages, especially Sanskrit, preserve clear traces of the labiovelars”; Bolognesi, p.147-162 - ; tuttavia potendosi rilevare, sia pure in modo sistematico, esclusivamente alcuni riflessi, ad uno stadio relittuale, di primitive classi fonemiche realizzate per mezzo di foni specificati positivamente per il tratto di labialità, è alquanto impro- babile che si possano trarre dati direttamente interessanti per la ricostruzione fonetica delle la- biovelari dalle lingue cosiddette satm.

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  • INTRODUZIONE La questione relativa alla natura fonetica ed alla funzione degli elementi

    tradizionalmente denominati, nell’ambito degli studi linguistici indoeuropei, occlusive labiovelari oppure, piú semplicemente, labiovelari, costituisce l’oggetto del lavoro di ricerca che sarà esposto qui di seguito. L’esigenza di revisione d’un problema non ancora risolto con argomentazioni esaustive, quantunque ripetutamente affrontato, nell’arco di tempo d’oltre un secolo, da parte dei piú illustri rappresentanti della linguistica storico-comparativa in campo internazionale, sotto molteplici angolazioni e con l’adozione di svaria-ti modelli d’approccio metodologico, ha senz’altro contribuito a destare il no-stro interesse per l’argomento. Il fine della presente indagine è ricercare l’e-satta specificazione fonetica delle entità in oggetto nonché un’adeguata col-locazione funzionale all’interno del sistema fonologico indoeuropeo.

    È noto che il principale strumento al servizio della ricostruzione linguisti-ca è costituito dalla comparazione e che, quindi, la qualità dei risultati ottenu-ti dipende essenzialmente dal grado di conoscenza degli stati impiegati nel confronto. Il sistema d’espressione ricostruito per l’indoeuropeo (astraendo dalle varianti proposte dai vari studiosi) è in larga misura il prodotto della collazione tra sistemi di cui sono, in genere, ben noti gli elementi funzionali con le relative regole combinatorie; tuttavia le designazioni naturali di tali elementi sono talvolta molto approssimative o incomplete quando non affatto congetturali.

    Se si considera che le ‘occlusive labiovelari’ indoeuropee si sono confuse con le occlusive dorso-velari nell’esito satm onde è pressoché impossibile ottenere informazioni utili da tutto un insieme di lingue tra cui il sanscrito1 e che nel gruppo centum, la sola lingua i cui sviluppi fonetici siano documen-tabili, con ragionevole certezza, da un poderoso corpus di monumenti epigra-fici e letterari, nel corso di molti secoli (almeno dal terzo secolo a.C.) è il la-tino, apparirà evidente che la ricostruzione fonetica del sistema indoeuropeo, piú ancora di quella fonologica, non è tanto il risultato palese d’un obiettivo rilievo storico-comparativo, quanto d’una piú o meno arbitraria generalizza-zione per addizione.

    1 Naturalmente ciò non significa che le lingue satem non rechino tracce sicure dell’esistenza pre-terita di labiovelari, come d’altronde è stato ben dimostrato da parte di vari studiosi – Burrow, p.133-134; Pisani 1961, p.19-23; Szemerényi 1964 p.401: “This is not the place for discussing the whole problem of labiovelars. But it may be pointed out that their interpretation as a centum innovation breaks down on the fact that the satem-languages, especially Sanskrit, preserve clear traces of the labiovelars”; Bolognesi, p.147-162 - ; tuttavia potendosi rilevare, sia pure in modo sistematico, esclusivamente alcuni riflessi, ad uno stadio relittuale, di primitive classi fonemiche realizzate per mezzo di foni specificati positivamente per il tratto di labialità, è alquanto impro-babile che si possano trarre dati direttamente interessanti per la ricostruzione fonetica delle la-biovelari dalle lingue cosiddette satm.

  • Come abbiamo notato poc’anzi, soltanto per il sistema fonologico del la-tino, tra quelli delle lingue indoeuropee a corpus, sembra si possa ricostruire, con alto grado di attendibilità, per l’intero arco di tempo coperto dalle atte-stazioni, un fonema /kw/ realizzato come sequenza [kw].2

    Nel germanico, fatta eccezione per il gotico, la cui grafia attesta realizza-zioni non sequenziali per quest’ordine fonematico, le ‘labiovelari’ indoeuro-pee non sono continuate da fonemi unitari ma da sequenze di occlusive velari (poi sottoposte, ovviamente, al regolare effetto della Lautverschiebung ger-manica) con approssimante velare-labializzato [w] che realizza un elemento fonemico /w/ (cf. nota 2 celtico del gruppo ). Il goidelico nonché l’ispano-celtico hanno conservato alcune distinzioni: la labiovelare tenue, sembrereb-be realizzata, come nel latino, da una sequenza [kw] (o [kw]). Le antiche iscri-zioni paleoirlandesi in alfabeto ogamico conservano a loro volta, la distinzio-ne fonemica fra /k/ e /kw/. Le iscrizioni celtiberiche, hanno altresí conservato la distinzione: le piú recenti, in alfabeto latino, sembrano testimoniare la con-servazione di /kw/ indoeuropeo, verosimilmente realizzato come in latino. Tuttavia il celtiberico è un idioma ancora poco conosciuto mentre ciò che si può dire, al riguardo delle iscrizioni paleoirlandesi è soltanto che in esse la grafia e, verosimilmente, la realtà fonetica, tiene distinte le continuazioni di /kw/ da quelle di /k/. Nulla di sicuro si conosce tuttavia riguardo alla effettiva caratterizzazione della sostanza fonica.

    Queste circostanze costituiscono un problema assai spinoso che investe, in misura piú o meno ampia, l’insieme delle procedure ricostruttive e si riflet-te inevitabilmente nella tradizionale dicotomia di tendenze: funzionalismo e realismo. Ci sembra obiettivamente innegabile che la tendenza piú o meno marcata al distacco delle forme ricostruite dai correlati empirici della sostan-za sia uno dei fattori precipui delle incongruenze che tuttora si celano dietro designazioni grafiche convenzionali del tipo *kw etc., il cui valore fonetico è deliberatamente trascurato o al massimo immaginato, facendo immancabile, seppure implicito, riferimento al latino.

    Come sopra osservato, l’inconsistenza delle forme ricostruite deriva in parte già dal materiale utilizzato nella comparazione. Quantunque il sistema fonologico indoeuropeo sia il portato d’un confronto tra strutture, il cui in-ventario d’elementi d’espressione, con le relative informazioni distribuzionali

    2 L’interpretazione monofonematica del gruppo “QV” latino riscuote ampi consensi tra i ricerca-tori, benché non siano mancati studi a sostegno dell’interpretazione bifonematica, cf. nota 96; per un’esposizione piú dettagliata della questione e delle relative proposte di interpretazione cf. Zirin; Touratier, p.229-266; Marotta, p.1189-1207; Gamkrelidze - Ivanov p. 75-76: «The recon-structed labiovelars … are best preserved in Latin and Germanic, where they are reflected as single labiovelar phonemes: Goth. kw (written with the special sign q) and hw (written with the special sign Iυ , distinct from h); lat. gw (written gu) and kw (written qu)»; fuori dal gotico tuttavia, l’esito germanico delle ‘labiovelari’ si confonde con quello delle sequenze di dorsale + [w], cf. Ramat, p.50-54.

  • è in genere determinato con sufficiente grado d’approssimazione, tuttavia le realizzazioni di certuni elementi risultano talvolta congetturali, non essendo deducibili dall’esecuzione diretta dei soggetti parlanti e mancando in tutto o in parte altra fonte di informazioni: è il noto inconveniente che grava sulle lingue a corpus di frammentaria attestazione per le quali non è dato disporre d’un adeguato apparato documentario.

    In verità un’esatta definizione della base naturale di ciascun sistema im-piegato nella comparazione è assolutamente necessaria non soltanto al fine d’una coerente prassi ricostruttiva bensí anche d’una accurata determinazione degli elementi dei sistemi stessi prima che siano stati sottoposti al confronto (e quindi impiegati nella ricostruzione), con la distinzione dei fonemi dalle varianti e dai gruppi: questa operazione non sempre è semplice da effettuare. Se un’analisi strutturale in linea di principio può – anzi, al limite, dovrebbe – astrarre da considerazioni relative alla sostanza, d'altronde, la conoscenza ne-cessaria ad una puntuale definizione degli elementi costituenti è acquisibile, con esiguo margine d’incertezza, soltanto laddove si disponga dei dati mate-riali attuali cioè inerenti alla designazione naturale.3

    La concezione funzionalista, per cui gli elementi ricostruiti non sono che delle astrazioni, cioè funzioni diacroniche di elementi dell’espressione, tra-scurando deliberatamente l’aspetto fonico in quanto semplice variabile, e-spunge dal campo d’indagine ogni tipo di considerazione relativa a ciò che è pur sempre il mezzo primario dell’espressione e che in quanto tale gode d’una posizione privilegiata rispetto agli altri mezzi espressivi ausiliari. Cosí, ad esempio, possiamo stabilire che due dati foni sono realizzazioni d’un’uni-ca forma in certi contesti, sono cioè due tassofoni rispetto ad un unico fone-ma, soltanto dopo che ne abbiamo esaminato i tratti intrinseci costitutivi, co-muni e non comuni ed abbiamo posto a confronto i singoli fasci di tratti con gli altri del medesimo sistema. Orbene, astraendo da considerazioni di ordine fonetico, tutto l’impianto teorico d’una concezione fonologica, come quella strutturale e binarista, viene infirmato insieme con le nozioni piú notevoli in esso contenute come ad esempio quella di correlazione tra coppie oppositive. In effetti sono proprio nozioni di questo tipo che costituiscono i fondamenti

    3 Cf. p.46; Martinet, 1955, p.33: «C’est Louis Hjelmslev qui a le plus intrépidement dégagé tou-tes les conséquences d’un irréalisme latent chez ses devanciers, et l’on ne s’étonnera pas que ce soit chez ceux qui le suivent que les descriptions marquent le plus d’indépendance vis-à-vis de leur objet. Les phonologues, moins conséquents, ont, en n’excluant point de leurs préoccupations la substance phonique, maintenu un contact plus étroit avec le réel, et c’est sans doute ce qui leur permet d’aborder dans de meilleures conditions que les autres structuralistes les problémes de l’evolution phonique»; Szemerényi, 1990, p.33: «Und nur wenn wir die Realität der verschiede-nen rekonstruierten Formen anerkennen, können wir uns sinnvoll mit der Frage beschäftigen, wie sie sich zueinander verhalten, wie also das System aufgebaut war. Realismus spielt schon bei der Rekonstruktion eine entscheidende Rolle, denn das Rekonstruieren von phonetisch unmögli-chen Lauten oder Lautfolgen (= Wörtern) kann nur als ein müßiges Spiel betrachtet werden».

  • della fonologia diacronica cosí come è concepita nell’opera di Martinet. Non avrebbe alcun senso parlare di economia, equilibrio, pressioni assimilatrici ecc., al di fuori d’una prospettiva fonologica a base naturale; una tale prospet-tiva, possiamo affermare, è il presupposto per qualunque concezione diacro-nica della fonologia: la sostanza l imita l ’arbi trar ie tà del la forma in funzione di condizionamenti d i var ia natura, rendendo pos-sib i le l’adozione di cr i ter i logici e l ’u t i l izzazione di essi nel t ra t tamento dei dat i del la descr iz ione (s incronica e d iacroni-ca) mercé l’ is t i tuzione del pr incipio di causali tà t ra i l mezzo pr imario e la forma di espress ione che esso designa. È questa, indubbiamente, la principale ragione dell’inadeguatezza d’una concezione puramente algebrica, soprattutto in diacronia: ivi si impone invero, una consi-derazione dei fatti a trecentosessanta gradi ovvero eziologicamente orientata. Come già osservato, se da una certa prospettiva, un sistema formale può esse-re sincronicamente descritto in modo abbastanza agevole, in quanto il caratte-re arbitrario, oltre a non costituire un ostacolo, può bensí contribuire, al-l’oc-correnza, a focalizzare i tratti funzionali della struttura, isolando i meri valori dai correlati extrasistemici, peraltro gli sviluppi d’uno stato di lingua (o di piú stati, da intendersi come singole sezioni analitiche funzionalmente autonome integrate in un complesso diasistemico) attraverso il tempo, non potranno di fatto essere indagati adeguatamente qualora non si disponga d’un apparato coerente di osservazioni relative al mezzo d’espressione primario.

    Non possiamo attenderci dal metodo comparativo ciò che esso, in deter-minate circostanze non può obiettivamente dare: è certo che l’insufficienza quantitativa e qualitativa dei dati ne limita significativamente il campo d’applicazione ai fini del presente studio. Delle labiovelari indoeuropee co-nosciamo, in definitiva, soltanto le funzioni e peraltro, bisogna ammetterlo, con considerevoli margini d’incertezza. Resta ciononostante possibile fruire, in maniera piú proficua, delle risorse offerte dalla ricostruzione interna, sen-z’altro praticabile sia pure in assenza parziale o totale di informazioni relative al mezzo. Questa prassi ricostruttiva si avvale, com’è noto, delle funzioni sin-croniche interne potendo in tal modo prescindere, almeno in via preliminare, dalle informazioni relative alle caratteristiche del mezzo espressivo.4 Inoltre il metodo strutturale è vantaggioso poiché consente di risalire piú indietro di quanto non si possa attraverso la comparazione classica.

    Nel nostro caso notiamo che i dati della comparazione sono tutt’altro che concordi nella globalità: c’è tutto quell’insieme di lingue, tradizionalmente classificate con l'etichetta satm, per le quali non esistono distinzioni sistema-

    4 Ne è prova la teoria delle laringali che soltanto molti anni dopo l’enunciazione, sembra aver trovato parziale riscontro nei dati anatolici: cf. nota 177.

  • tiche tra stops velari e labiovelari.5 Se i riflessi, conservati sporadicamente, allo stato relittuale, in alcune lingue satm, possono a giusto titolo conside-rarsi una conferma dell’esistenza, in una fase anteriore, di un’opposizione fo-nologica /k/~/kw/, tali dati non sono tuttavia idonei a sorreggere oggettiva-mente alcuna ipotesi circa il valore fonetico delle labiovelari. A rigore, nep-pure lo statuto monofonematico di /kw/, (/kwh/), /gw/, /gwh/ può essere confer-mato, inequivocamente, da tutte le continuazioni: si è già notato, ad esempio, che l’esito germanico, salvo che in gotico, non è monofonematico ed anche per il latino, ritenuto generalmente un testimone attendibile per le ‘labiovela-ri’ indoeuropee (in verità della sola tenue *kw), non sono mancati autorevoli tentativi d’interpretazione bifonematica.6 Non si dovrebbe trascurare il fatto che la determinazione dello statuto fonematico di ciascun elemento, presup-pone la conoscenza esatta della costituzione globale del sistema, definito in termini puramente formali, ovvero sulla base di criteri distribuzionali, ma al-tresí, con pari esigenza, anzi anteriormente, l’acquisizione di tutte le informa-zioni relative alle caratteristiche articolatorie.

    Talvolta, una semplice ed immediata constatazione d’un fatto fonetico può essere sufficiente ad escludere in maniera categorica la fonematicità d’un fono oppure la monofonematicità d’una sequenza di foni: anche in questo ca-so dunque, appare evidente la centralità del ruolo della dimensione fonetica ai fini della ricostruzione.

    Naturalmente, essendo lo statuto fonematico di un dato elemento un valo-re del sistema, se ne impone senza dubbio una determinazione, sul piano sin-cronico, in relazione agli altri valori cui si oppone e da cui è definito.

    Giova comunque tenere presente che la struttura non è mai direttamente accessibile e che, quindi, essa dovrà essere ricavata, o meglio, ipotizzata, sul-la base dei dati empirici disponibili. Soltanto in un secondo momento, l’i-potesi sarà suscettibile di verifica e potrà essere avallata oppure confutata: tuttavia anche in questa successiva fase operativa, a giocare un ruolo deter-minante è ancora il mezzo fonico, o meglio, quell’insieme delle caratteristi-che del segnale in cui si materializzano le opposizioni.

    Abbiamo rilevato che qualunque operazione fonologica condotta nell’ambito di lingue naturali particolari, richiede la considerazione globale della funzione struttura/uso. Quando la lingua o le lingue oggetto di studio risultino essere prive d’attestazioni o, nel caso migliore, queste non offrano un quadro sufficientemente nitido dei valori fonetici, ovviamente anche l’in- 5 Si possono scorgere qua e là alcuni riflessi non sistematici, come quelli osservabili nel tratta-mento delle liquide ‘sonanti’ lunghe sanscrite il cui esito è ūr; per i riferimenti bibliografici cf. nota 1. 6 Cf. Zirin, op. cit. nota 2; quanto al primato latino nella conservazione del carattere fonetico o-riginario delle ‘labiovelari’ i.e., cf. Szemerényi, 1990, p.63: «Der indogermanischen Lautung scheint das Lateinische am nächsten geblieben zu sein».

  • dividuazione dei rapporti interni alla struttura sarà malagevole. Fortunata-mente, nel caso dell’indoeuropeo, le caratteristiche fonetiche della maggior parte degli elementi sono facilmente determinabili già su base comparativa. Nondimeno il quesito circa la natura delle occlusive dorsali continua ad at-trarre la nostra attenzione su quello che, tradizionalmente, è stato ed è ritenu-to uno degli aspetti problematici piú delicati della ricostruzione indoeuropea.

    Un esame dell’intero sistema nonché delle realizzazioni connesse con i vari fonemi, per i quali non sussistano dubbi, sarà indispensabile al nostro scopo: se non altro perché i rapporti strutturali, di per sé arbitrari, sono de-terminati, attuati, utilizzati e, nel corso del tempo, sostituiti proprio nella di-mensione fisica dell’esecuzione, in cui vigono princípi di naturalezza. È pro-prio da tali princípi che la sostanza fonica è intrinsecamente motivata e pro-prio questi sono responsabili di gran parte degli universali della forma, su cui riflettono la propria inerente motivazione. La struttura al contrario, come è gia stato notato, non è di per sé soggetta ad alcun principio di causalità, onde sarà estremamente improbabile basare una qualsiasi previsione o motivare un esito fonetico esclusivamente sulla forma. D'altronde, anche la concezione teleologicamente orientata delle teorie funzionaliste, non muove da conside-razioni di ordine meramente strutturale ma trova il proprio presupposto nella dimensione psico-articolatoria dell’esecuzione.

    Se ammettiamo che tra la struttura e l’uso viga una relazione cosí intima e quasi inscindibile, governata da princípi di naturalezza (è infatti l’uso che fis-sa la struttura, è l’uso che la cambia), sarà legittimo attenderci, proprio dalle descrizioni fonetiche particolari dei singoli sistemi, le risposte ai quesiti ine-renti sia all’aspetto sincronico che a quello diacronico, come ad esempio, lo statuto fonologico delle ‘labiovelari’ in indoeuropeo, il loro valore fonetico, la sostituzione di quest’ultimo nello spazio e nel tempo.7

    Da quanto detto emergono due concetti sui quali giova polarizzare l’attenzione:

    1) in fonologia, le procedure di rilevamento delle unità minime nonché lo studio della variazione dei rapporti reciproci tra di esse, nello spazio e/o nel tempo, debbono essere condotti tenendo conto costantemente dei correlati fi-sici (concezione realistico-naturale). In caso di lacune o dubbi nella ricostru-zione, sarà buona norma accertarsi, prima di tutto, della plausibilità (tipologi-ca, fonetica, strutturale) delle realizzazioni fonetiche postulate per entità la

    7 Si è fatto riferimento alla sostituzione spazio-temporale del solo valore fonetico, in quanto il valore fonologico d’un dato elemento, determinato dalla solidarietà interna dei rapporti idiosin-cronici, entro una data struttura, varia anche laddove un’alterazione venga a coinvolgere uno o piú altri elementi del medesimo sistema; la manifestazione fonetica, al contrario, può restare i-nalterata, anche qualora il sistema fonologico sia stato profondamente cambiato e persino se le realizzazioni di altri fonemi siano state sostituite.

  • cui caratterizzazione non appaia immediatamente evidente dalla compara zio-ne;

    2) la determinazione dello statuto fonematico è in ogni caso un’opera-zione sincronica: anche qualora i sistemi fonologici delle lingue indoeuropee impiegate nella comparazione concordassero, in modo univoco, sotto ogni a-spetto e ci trovassimo, quindi, nella situazione ideale per restituire il sistema d’origine, il valore degli elementi sarebbe recuperabile soltanto dopo la com-pleta restituzione del quadro strutturale originario. La situazione reale è tutta-via, come ben sappiamo, assai lontano da quella ideale.

    Nella prassi ricostruttiva occorre comunque mantenere posizioni equili-brate: è opportuno evitare di lasciarsi condizionare, in modo quasi indiscri-minato, da pregiudizi d’ordine tipologico, derivanti dall’osservazione di a-spetti sia d’ordine formale che materiale, piuttosto che da un’obbiettiva valu-tazione, in termini di coerenza strutturale interna, del prodotto della ricostru-zione in se stesso. Nulla potrebbe escludere, ad esempio, che la continuazione d’un fonema /x/ realizzato come sequenza [xy] nel sistema iniziale corri-sponda a due fonemi distinti /xIyI/ realizzati dalla sequenza [xIyI] in quello d’arrivo, a meno che la costituzione globale di quest’ultimo non appaia in-compatibile in rapporto con la struttura considerata nel suo insieme. La varia-zione diacronica non è soggetta a restrizioni tipologiche particolari: le uniche norme a cui si conforma sono, ovviamente, quelle imposte dalla plausibilità tipologica universale (cf. note 173, 174). Non si potrà mai escludere a priori, nell’ambito di considerazioni d’ordine diacronico, che un sistema di partenza fosse costituito di elementi realizzati da foni non piú presenti in nessuno dei sistemi derivati: soltanto sulla base di criteri strutturali è possibile ottenere la conferma oppure la smentita di un’ipotesi prospettata.

    Crediamo che lo statuto fonologico delle labiovelari indoeuropee possa essere oggettivamente determinato soltanto sulla base di dati strutturali, pre-via ricostruzione globale del sistema fonologico e morfologico, per quanto sia possibile con ragionevole approssimazione, su base storico-comparativa.

    Per quanto attiene alla realizzazione fonetica, si dovrà altresí ricorrere ad un’accurata valutazione sincronica interna dei dati strutturali: come già os-servato sarebbe affatto inutile aspettarsi alcunché di nuovo dalle sole tecniche comparative, fermi restando i dati di cui attualmente disponiamo.

    Abbiamo affermato che la prassi ricostruttiva strutturale può, in linea di principio, astrarre da considerazioni inerenti al mezzo, almeno in una fase preliminare: ciò è del tutto ovvio, tenuto conto che questo tipo di approccio si applica ai puri valori, ovvero alle funzioni interne. In una seconda fase tutta-via, la designazione naturale delle entità ricostruite dovrà essere comunque riguadagnata. Giova qui citare alcune osservazioni di R. Jakobson:8 «Se la

    8 Cf. Jakobson, §2.45.

  • sostanza fonica fosse una semplice variabile, allora l’indagine delle invarianti linguistiche esigerebbe effettivamente la sua espunzione. Ma la possibilità di tradurre la stessa forma linguistica da una sostanza fonica ad una sostanza grafica, per esempio in una trascrizione fonetica o in un’ortografia fonemati-camente approssimata, non prova che la sostanza fonica, come altre “sostanze dell’espressione notevolmente diverse”, siano delle semplici variabili … Le lettere non riproducono mai, in modo completo, i diversi tratti distintivi sui quali si basa il sistema fonematico e, immancabilmente trascu-rano i rapporti strutturali fra questi tratti. … Nella società umana non esiste niente di simile alla sostituzione del codice parlato con la sua copia visiva; si ha soltanto un addizione ad esso di codici ausiliari parassitici: il codice parla-to resta in vigore costantemente e senza alterazione. Non è possibile afferma-re che la forma linguistica è espressa per mezzo di due sostanze equivalenti … in fonematica la forma deve essere studiata in rapporto alla sostanza fonica che il codice linguistico seleziona, riorganizza, analizza e classifica secondo i propri criteri».

    Conformemente a quanto dianzi premesso, nelle pagine seguenti daremo una sintetica rassegna dei modelli proposti, nell’arco di circa un secolo, per la ricostruzione dei fonemi indoeuropei con realizzazione occlusivo-dorsale. L’attenzione sarà naturalmente polarizzata sulla questione, tuttora aperta, del-le ‘labiovelari’ e delle ‘palatali’; nondimeno, al fine di minimizzare il rischio di incoerenze, cercheremo di mantenere una prospettiva integrale: ogni con-siderazione inerente ai singoli elementi, sarà riferita, in modo esplicito oppu-re implicito, al complesso della struttura. L’ultima parte del presente lavoro è dedicata, in modo particolare, ad ‘una’ ricostruzione fonetica delle ‘labiove-lari’ indoeuropee: al fine di ridurre il margine di ambiguità che caratterizza le convenzioni grafiche adottate dalla tradizione indoeuropeistica, talora flut-tuanti e avulse dalla realtà del mezzo, utilizzeremo, dove necessario, l’alfa-beto fonetico internazionale (IPA) secondo l’ultima revisione. Ciò perché crediamo che la rappresentazione grafica d’una lingua preistorica, la cui rico-struzione fonologica non può ancora dirsi compiuta, come e ancor piú di quella d’una lingua in uso, debba essere chiara e coerente con la realtà del mezzo. Una grafia incoerente col mezzo fonico è fuorviante: come afferma Saussure, riferendosi all’incoerenza della maggior parte degli alfabeti storici, “la scrittura offusca la visione della lingua: non la veste, ma la traveste”.

  • SOTTOSISTEMA DEGLI STOPS DORSALI IN PROTO-INDOEUROPEO

    Nel corso di oltre centotrenta anni di storia della linguistica indoeuropea,

    le proposte avanzate al riguardo della ricostruzione del sottosistema delle dorsali hanno preso nella debita considerazione le diverse possibilità oggetti-vamente disponibili.9 Proponiamo qui di seguito una sintetica rassegna stori-ca degli sviluppi delle ricerche condotte in questo ambito. Per ovvie ragioni pratiche, ci limiteremo all’esposizione critica di alcune tappe che riteniamo fondamentali, al fine di inquadrare la questione delle occlusive dorsali indo-europee, in un arco di tempo durante il quale la linguistica storica si è radi-calmente rinnovata, con l’affermazione della teoria saussuriana e quindi con l’applicazione del metodo strutturale anche alla prassi ricostruttiva.

    Nel 1861 il problema delle dorsali non è ancora preso nella debita consi-derazione: se invero ad alcuni studiosi, non erano affatto passate inosservate, certe divergenze negli esiti delle velari delle lingue indoeuropee discendenti e ci fu persino chi ravvisò l’esigenza di supporre una serie di articolazioni complesse con un elemento aggiunto ‘w’,10 d’altra parte A. Schleicher11 pone ancora l’unica serie dorsale k, g, gh, all’origine dei diversi esiti attestati, rico-struendo un sottosistema consonantico del seguente tipo:12

    gutturali k g gh palatali j linguali r dentali t d dh s n labiali p b bh v m Primo ad aver proposto tre serie distinte di occlusive velari fu G. I. Asco-

    li.13 Egli, movendo dalla convergenza sistematica nell’esito delle gutturali in- 9 Cf. Tischler, p.67: «Rein rechnerisch sind allerdings 5 verschiedene Lösungen möglich, die be-legten 3 Reihen (A, B, C entsprechend */k ' / , */k/ und */ku/ auf ein Protosystem zurückzuführen: Ursprünglich 3 Reihen A + B + C Ursprünglich 2 Reihen A + B Ursprünglich 2 Reihen A + C Ursprünglich 2 Reihen B + C Ursprünglich 1 Reihe, also quasi polyvalentes ABC». A parte va considerata la proposta di Ben-veniste, 1937, p.139 s., secondo cui si dovrebbe ricostruire una serie ulteriore di dorsali modifi-cate da un’appendice spirante (affricate): questo modello non ha riscosso ampi consensi, cf. Szemerényi, 1990, p.53-55: «...Der Versuch, dem Indogermanischen auch eine Affrikata c (= t s) zuzuschreiben, kann als gescheitert betrachtet werden»; Martinet, 1987, p.168 s.; Bolognesi, 1997, p.151. 10 Cf. Grassmann, p.11 s. 11 Cf. Schleicher, p.137 s. 12 Cf. Schleicher, op. cit., edizione del 1876, p.10. 13 Cf. Ascoli.

  • doeuropee riscontrabile in area satm e negando il carattere fortuito di tali coincidenze, giunge a sostenere che le sibilanti “indo-irane” e “litu-slave” ri-flettono delle primitive gutturali occlusive, sensibilmente modificate da un’articolazione “parassitica” di tipo palatale (“intacco”) risalenti con buona probabilità all’antichità indoeuropea. Lingue come il greco, l’italico, il celtico e il germanico, avrebbero successivamente “risanato” quell’“affezione” che, al contrario, gli idiomi italici hanno ulteriormente sviluppato.14

    Procedendo quindi al confronto del latino con il sanscrito, lo studioso o-pera la distinzione tra υ etimologico (o “organico”) e υ parassitico (o “anor-ganico”): laddove a “qu” latino fa riscontro, in sanscrito, una sequenza con-sonantica del tipo çv, la semivocale “u” latina e la fricativa “v” sanscrita rin-viano ad un elemento “w” etimologico indoeuropeo, come nel caso del latino equos e del sanscrito açva. Altrove tuttavia, al “qu” latino fa riscontro, in sanscrito, un suono semplice, senza traccia alcuna di una successiva articola-zione “v”: ciò si rileva, ad esempio, nel latino -que (gr. te), sscr. ça: in questi casi il suono latino non può essere considerato etimologico ma rappresenterà il riflesso d’una primitiva “affezione” labiale dell’articolazione gutturale risa-lente all’antichità indoeuropea. Anche in questa circostanza si sarà trattato, comunque, di un’alterazione non ancora ben definita o, per dir meglio, non ancora stabilizzata nella fase unitaria, ma che fu determinata soltanto piú tar-di negli stadi linguistici discendenti.15 La ricostruzione ascoliana ebbe indub-

    14 Cf. Ascoli, p.56: «Nasce quindi il quesito del come si abbia a dichiarare questa speciale somi-glianza tra l’indo-irano e il litu-slavo, che affatto ripugna considerar fortuita? E due son le rispo-ste che si presentano. O ci faremo, cioè, a supporre, che l’indo-irano e il litu-slavo abbiano avuto un piú lungo periodo di vita comune che non fosse tra l’indo-irano e il restante degli idiomi aria-ni dell’Europa; oppure dovremo immaginare, che il k originario, leggermente affetto dalla paras-sita, in un determinato numero di esemplari, sin dal periodo proto-ariano, si venisse poi liberan-do, in alcune favelle, di questo intacco, ed in altre, all’incontro, per conforme sviluppo dell’antica affezione, subisse trasmutazioni conformi, le quali rappresenterebbero effetti consimi-li, ma tra di loro indipendenti, di una medesima causa. In questa ipotesi, il vocabolo per dieci, a cagion d’esempio, avrebbe suonato, nel periodo unitario, con leggero intacco del k: dakia; donde, dall’una parte, il tipo daka, quasi il tipo risanato, a cui risalirebbero il greco, l’italico, il celtico, il germanico; e, dall’altra, il tipo dakja, colla parassita invadente, al quale riverrebbero, per la via a suo luogo indicata, le due voci in cui è la sibilante, che son la litu-slava e l’indo-irana». 15 Cf. Ascoli, p.83 s.: «L’elemento υ si appalesa etimologico e quindi originario od organico e non parassitico, negli esemplari che hanno rappresentanti latini: queo ed equus; poiché il υ dello çυi- sanscrito è manifestamente identico al υ radicale di çaυ-, e il υ di aç-υa ecc. è unanimemente riconosciuto qual elemento costitutivo della parte ascitizia, o vogliam dire del suffisso derivatore della parola. … Se all’incontro passiamo a quella serie di esemplari che ha per rappresentanti la-tini: quatuor, sequor, linquo, coquo, quinque, non rinveniamo, dall’un canto, alcuna sicura trac-cia del υ nei termini asiani, né abbiamo, dall’altro, alcuna ragione che ci porti ad affermare o pur ci renda inchinevoli a credere che il υ sia parte etimologica, vale a dire originariamente costituti-va della parola. Qui il υ sarà quindi una parassita, di natura non dissimile dal j parassitico, che a suo luogo vedemmo ugualmente svilupparsi dietro alla tenue gutturale originaria; ma tuttavolta sarà anch’esso un υ di radice assai antica, e basterebbe a persuadercene il concordar che fanno piú favelle europee nel risalire in questi stessi esempj ad un antico kυ. Al che si aggiunge il fatto assai notevole, che essi tutti ritrovino, nella risposta indo-irana, non già il k intatto, né lo ç, che è

  • biamente un’ampia eco in campo scientifico, anche al livello internazionale, tanto che l’opera in cui si enunciava la nuova teoria fu presto tradotta in tede-sco: è davvero sorprendente che J. Tischler, nell’articolo avanti citato (cf. no-ta 9), in effetti dedicato al secolo 1890-1990 ma che tuttavia non tralascia di citare in bibliografia la prima edizione del Grundriß (1886), se ne sia dimen-ticato! Anche questa nuova, rivoluzionaria concezione non fu certo accolta all’unanimità e non mancò di suscitare delle accese polemiche: basterà qui ri-cordare A. Fick,16 il quale non condivise quest’idea, ritenendo sufficiente po-stulare soltanto due serie17 e L. Havet’18 che già convinto dell’esistenza di due classi originarie, puntualizzò ulteriormente questa tesi.19

    Nel 1890 A. Bezzenberger20 riformulò la teoria della tripartizione delle serie gutturali che distingueva le velari dalle palatali e dalle labiovelari. Nello

    il piú frequente continuatore indo-irano della tenue gutturale originaria nel quale i continuatori europei s’imbattano, ma bensí il solo ḱ, che è il piú insolito. La quale coincidenza, rinfiancata e-ziandio da altri ragguagli che in questa stessa Lezione saranno ritoccati ed aggiunti, persuade che qui si tratti, come già nella Lezione precedente si ebbe ad accennare, di k originarj che fossero intaccati sin da età indo-europea, ma il fossero per modo indistinto, sí che lo sviluppo dell’affezione si venisse poi, nelle età successive, in varie guise determinando. Se quindi nel considerare la sibilante che in favella indo-irana e in lituslava si ha per succedaneo della tenue gutturale originaria, venimmo a proporre l’esempio-tipo d ak i a (dieci; onde dakja dakža daša daça), ora, per gli esempj a cui siamo, avremmo a raffigurarci un esempio-tipo che si potrebbe scrivere k y a t v a r - (quattro), la cui incerta parassita (quasi un υ greco) riuscisse ad assumere tra gl’Indo-irani, in un’epoca relativamente moderna, la pronuncia palatina (kjatvar-, donde ḱatυar-, ćatυar-), e tra gli Europei, all’incontro, o almeno tra quelli i cui idiomi qui ripercuotono un antico kυ, si fissasse, di regola in pronuncia labiale od in labio-dentale (kuatυar- kυatυar-, onde quatuor e * k bator ecc.). Di questa guisa avremmo in favella indo-irana il pieno sviluppo, ma di certo non coevo, di amendue le affezioni (dakia, daça; kyatvar, ḱatvar), le quali si risolverebbero in un’affezione medesima a doppio effetto; e lo sviluppo kyatvar kjatvar sarebbe venuto a coincide-re collo kj (ḱ da k) surto di sana pianta nel periodo indo-irano (come in ḱ reduplicatore di k, ecc., mentre nella sezione europea avremmo il tipo d a k i a risanato per tutto altrove che in favella litu-slava, e i poco numerosi esemplari del tipo k y a t v a r , all’incontro, risanati appunto in favella li-tu-slava p. e. lit. keturí), come per diversa ragione risanano pur nella ibernia, e a volte, … anco altrove». 16 Cf. Fick, p.3-34. 17 Cf. Pisani, 1961, p.13-14: «Per tutti e tre i casi lo Schleicher ricostruiva una gutturale indeuro-pea k, senza cercare di spiegarsi la diversità di esiti; per primo l’Ascoli propose la ricostruzione di tre serie, e cioè pure velari e velari diversamente “intaccate”, per cui scriveva k, ki, ky: ma la sua teoria era in parte inficiata dal fatto che ancora non si era compreso che una parte degli a sanscriti e iranici continuava degli antichi e, spiegandosi cosí la palatalizzazione davanti a certi a oltreché avanti i. Perciò il Fick, seguendo le orme di lui, ricostruí due serie, una che stava a base delle gutturali centum corrispondenti a sibilanti e spiranti dentali satem, l’altra in cui egli sussu-meva gli altri casi». 18 Havet, p.261 s. 19 Cf. Georgiev, 1966, p.27: «La tesi Fick-Havet, con alcune precisazioni, fu accettata dal Meillet ed essa divenne autorevole per la scuola linguistica francese. Secondo questa teoria le gutturali si dividono in due serie: Prepalatali e postpalatali-labiovelari. L’esistenza di corrispondenze con velari nelle lingue centum e satm é spiegata come depalatalizzazione delle prepalatali». 20 Cf. Bezzenberger, p.234-260.

  • stesso anno altri studiosi21 pubblicarono i risultati delle proprie ricerche, schierandosi a sostegno d’un sistema a tre serie.22

    La ricostruzione di A. Bezzenberger ebbe maggiore successo tanto che fu successivamente accolta da K. Brugmann nella seconda edizione del Grun-driß23 e riconosciuta da vari linguisti di grande notorietà scientifica come un modello teorico altamente attendibile.

    Non si può fare a meno di rilevare che diverse introduzioni alla linguistica indoeuropea24 attualmente in uso nelle università propongono la ricostruzione classica delle tre serie come canonizzata nell’opera di Brugmann.

    Naturalmente anche questa nuova teoria, che postulava una tripartizione originaria delle gutturali, fu duramente avversata, già nei primi anni del seco-lo scorso. E. Hermann25 ad esempio, contestò il modello teorico suddetto in quanto risultato d’una mera ‘addizione’: in nessuna delle lingue storicamente attestate sono state mantenute distinte le tre serie postulate per l’indoeuro-peo.26 In effetti nelle lingue satm, alle velari e alle labiovelari indoeuropee fa riscontro un unico medesimo esito, mentre le palatali restano distinte dalle altre articolazioni gutturali. Nelle lingue centum invece, l’unificazione degli esiti riguarda le velari e le palatali mentre alle labiovelari è riservata una rea-lizzazione differenziata.27

    21 Cf. Osthoff, p.63 n.1; Bradke; Wharton, introduzione p.XXVIII. 22 Cf. Tischler, p.65: «Im Jahre 1890 erschienen nämlich gleichzeitig 5 Arbeiten, die das bereits seit Jahrzehnten virulente Gutturalproblem durch den Ansatz von drei grundsprachlichen Guttu-ralreihen einer Lösung nahebrachten. Das Hauptverdienst kommt dabei zweifellos A. Bezzen-berger zu, der nicht nur die Theorie formuliert, sondern auch das einschlägige Material ausführ-lich diskutiert. Daß die Zeit für diese Erkenntnis reif war, gibt Bezzenberger offen zu: “Die not-wendigkeit einer solchen unterscheidung hat bereits Scherer geahnt, und andere sind ihr so nahe gekommen, daß das nachstehende nur als ein letzter schritt betrachtet werden kann”». 23 Cf. Brugmann. 24 Cf. Ambrosini; Mayrhofer, 1986; Martinet, 1987, p.134, si limita ad esporre il sistema classico con tre ordini di dorsali, precisando che esso rappresenta il modello con cui «si è operato durante tutto il XIX secolo, cui alcuni, ancor oggi, continuano a riferirsi»; Pisani, 1971; Watkins. 25 Cf. Hermann, 1907. 26 Cf. Szemerényi, 1990, p.68: «Es wird gewöhnlich angenommen, daß die Labiovelare in den Satemsprachen mit den Velaren vollkommen zusammengefallen sind, d. h., daß sie von den Ve-laren nicht unterschieden werden können. Es gibt aber einige sichere Hinweise auf das einstige Vorhandensein des labialen Elementes auch innerhalb der Satemsprachen. Im Altindischen ver-rät eine Form wie gūrta- ‘willkommen’, oder guru- ‘schwer’ mit ū bzw. u daß ehemals auf den Guttural ein Labiales Element folgte, denn nur nach Labialen tritt die u-Färbung auf, sonst er-scheint i. Im Armenischen werden die ursprünglichen Labiovelare (mit Ausnahme der M) vor e i palatalisiert, nicht aber die reinen Velare». 27 Cf. Pisani, 1961, p.12: «Come è noto, esaminando una serie di corrispondenze lessicali fra le lingue indeuropee, noi possiamo distinguere tre casi: nel primo una gutturale (o suo succedaneo) appare in tutte le lingue; nel secondo, a una gutturale di certe lingue (le cosiddette centum) corri-sponde una sibilante o spirante dentale nelle altre (le cosiddette satem); nel terzo, a una gutturale (o suo succedaneo) nelle lingue cosiddette satem corrisponde in quelle centum una labiovelare (qu, gu, ghu) o un suono che si può considerare come sorto da una labiovelare (p, b, anche t, ecc.)».

  • Eppure, già sette anni prima della pubblicazione del saggio di Hermann sulla ricostruzione, il danese H. Pedersen28 aveva individuato in una lingua satm, l’albanese, i riflessi d’una distinzione ternaria nell’assibilazione delle sole originarie labiovelari.29 In seguito, anche in altre lingue furono scorte le tracce d’un sistema a tre ordini: il Pisani poté infatti dimostrare che l’Armeno distingue, in determinate condizioni, gli esiti delle labiovelari che possono subire una palatalizzazione, dagli esiti delle velari che invece restano inaltera-te.30 E ciò non è tutto: nel 1948 O. Szemerényi documentò l’esistenza, ad uno stadio non piú che relittuale, d’una primitiva distinzione tra articolazioni la-biovelari e semplici velari persino nel sanscrito,31 tradizionalmente considera-to quale testimone privilegiato, tra le lingue satm ai fini della ricostruzione dell’indoeuropeo. Soltanto nove anni dopo, l’indologo T. Burrow32 pubblicò il saggio in cui documentava dettagliatamente, in modo ufficiale, questa im-portante scoperta. V. Pisani, dal canto suo, ha contribuito all’individuazione di ulteriori indizi d’una distinzione ternaria nelle continuazioni sanscrite delle gutturali indoeuropee.33

    28 Cf. Pedersen, 1900, p.292 s. 29 Cf. Pisani, 1961, p.20: «Ora, molti anni fa il Pedersen mostrò che in albanese, una lingua sa-tem, in cui le antiche palatali appaiono come sibilanti o come spiranti dentali, le cosiddette velari avanti vocale palatale sono soltanto palatalizzate in q (kj) e gj, come le gutturali negli imprestiti dal latino, p. es., qeth ‘rado’= sanscr. kártati ‘taglia’, ecc., gjëmp ‘spina’=lit. gémbė ‘chiodo’, come qint da centum, gjel con e metafonetico dall’a di gallī; invece le labiovelari nella stessa po-sizione sono divenute sibilanti, e cioè: pesë ‘cinque’ – sanscr. pánca, gr. pevnte sy ‘occhio’ – lit. akís, gr. o[mma da *ojp-ma s ‘non’ – arm. oč, č, gr. oujkiv da *(o)qui ziarm ‘calore’ – gr. qermov", arm. je r m ecc.; cfr. anche messap. -qi = gr. -te, lat. -que». 30 Cf. Pisani, 1946, p. 32; 1948, p.15; 1950, p.193; 1961, p. 20: «Qualche tempo fa ho sottoposto il materiale armeno a un attento esame, e ho concluso che questa lingua palatalizza le labiovelari avanti e ed i, ma conserva intatte le velari in questa posizione: laddove è da osservare che quan-do una vocale è scomparsa in fine di parola, la palatalizzazione ha luogo se questa vocale era i, non ha luogo se questa era e, che quindi dovrebbe essere scomparsa prima di palatalizzare la la-biovelare precedente». 31 Cf. Szemerényi, 1964, p.401, n.3: «I first proved this in a paper given to the Hungarian Acad-emy in April 1948, and in this country in a paper read before the Philological Society on 8 Fbr. 1952. My thesis and some of my examples now appear in a paper by T. Burrow (“BSOAS” 20, 1957, 140 f.), oddly enough without acknowledgement, although in a subsequent letter (of 13 June 1958) he stated: ‘I remember very well that you maintained that the IE labio-velars had left traces in Indo-Aryan, and that your attitude to the īr/ūr problem in this respect was more or less the same as mine. But I could not remember the details of it, and it is a pity that your treatment of the subject did not get printed so that I could quote it’(!). Unhappily, the situation is still much the same and I cannot promise to take up the subject once again in the near future». 32 Cf. Burrow, 1957, p.133 s. 33 Cf. Pisani, 1961, p. 23: «A me pare che in qualche altro caso sia possibile scorgere le tracce di una labiovelare in sanscrito: e precisamente in tre radici che in sanscrito cominciano con v- cor-rispondente a unks y greco, ove è lecito scorgere le continuazioni di un antico qus-. Si tratta di: vídyateks ‘essuda’ – gr. yivzei = potivzei

  • Questi eventi ebbero un ruolo determinante nella diffusione e nell’affer-mazione di quella che poi divenne la ricostruzione classica, invalidando le critiche mosse da Hermann: non è un caso che ancor oggi, gran parte degli indoeuropeisti sia del parere che il modello a tre ordini rappresenti la sola proposta teorica accettabile al fine di descrivere i fatti nella loro reale com-plessità.34

    Tra i sistemi proposti che contemplano due ordini di occlusive dorsali, quello che postula l’esistenza d’una serie di velari ed una di palatali, adottato da Brugmann nella prima edizione del Grundriß, non ha riscosso ampi con-sensi oltre gli anni ‘20 dello scorso secolo: l’unico strenuo sostenitore di que-sta ipotesi, ancora in epoca relativamente recente, è stato J. Kuryłowicz.35 Pe-raltro, anche la proposta d’un sistema costituito di palatali e labiovelari, già avanzata da A. Fick e da L. Havet (cf. note 15, 17, 18) poi riformulata, circa venti anni dopo, da A. Meillet, ha avuto un modesto successo, limitatamente all’ambito della scuola linguistica francese. Meillet mostra come tutta la que-stione delle gutturali indoeuropee possa essere formalizzata, in maniera molto semplice, per mezzo di formule capaci di riassumere le relazioni fonetiche ri-cavate dalla comparazione. Basandosi sull’assunto che in nessuna lingua in-doeuropea è dato constatare l’opposizione fra tre ordini di dorsali, egli fissa due tipologie fondamentali di sistemi a

    due ordini: uno per il ‘gruppo orientale’ (satm), α + β, ed uno per il ‘gruppo occidentale’ (centum), α′ + β′. Facendo corrispondere α, α′ ad una classe fonematica k1 e β, β′ ad una classe fonematica k2 di quota indoeuropea (k1 designa la serie ‘prepalatale’ mentre k2 designa la serie ‘postpalatale-la-biovelare’) si ottiene un quadro esplicativo essenziale ed inequivoco. Ora, se prendiamo quale rappresentante per una lingua satm l’antico indiano e per una lingua centum il latino, rileveremo per il primo le corrispondenze α = ç e β = k, (c), mentre per il secondo α′= k e β′ = qu. Stabilito ciò risulterà chiara

    védati ‘susurra, mormora’ks – gr. yiqurivzei id. (nota d - q; ma cfr.

    yidovne", diavboloi, yivqure Hes.) vélati ‘salta, gioca’ks – gr. yileuv" ‘chi sta a capo (?) del coro’;

    Yivlax epiteto di Bacco ad Ami-cle»;

    cf. anche Tischler, 1990, p.79: «Pisani hat schließlich noch weitere Reflexe von Labiovelaren im Altindischen nachzuweisen v- anlautenden Verben, die griechischen Formen versucht, nämlich in drei mit ks mit y entsprechen und also auf idg. *˚us - weisen sollen; die betreffenden Etymolo-gien sind indes nicht überzeugend, da in den meisten Fällen Elementarverwandtschaftvorliegen kann». 34 Cf. Bolognesi, p.160-161: «Nel corso di questo secolo si è quindi passati da tre serie di guttu-rali indeuropee a due, a una, a quattro, per ritornare alla fine a tre. … Se i futuri glottologi si do-vessero trovare nella condizione di scrivere la storia della linguistica nel nostro secolo, dispo-nendo solo del Grundriß di K. Brugmann e delle opere appena citate di O. Szemerényi e di Th. Gamkrelidze e V. Ivanov, concluderebbero che per le serie delle gutturali indeuropee nulla è cambiato nel corso di tutto il secolo!». 35 Cf. Kuryłowicz, 1935, p.1 s.; 1977, p.190.

  • la corrispondenza tra sscr. çatám, lat. centum, gr. eJkatovn ecc.: appare cosí del tutto regolare il trattamento delle dorsali secondo l’equazione k1 = α, α′. Altrettanto regolare risulta, in tal modo, la corrispondenza tra il sscr. sácate, il lat. sequitur e il gr. e{petai,36 (i.e. *seku-), conformemente all’equazione k2 = β, β′. Orbene, se le corrispondenze tra il gruppo orientale e il gruppo oc-cidentale fossero sempre senz’altro riconducibili alle relazioni α : α′ e β : β′, l’intera questione delle dorsali indoeuropee potrebbe considerarsi definitiva-mente risolta. Invero si riscontra frequentemente una terza corrispondenza, cui è possibile dar conto solo postulando una terza relazione, α′ : β. Data una situazione del genere, secondo Meillet, si possono immaginare due soluzioni alternative: la prima, per la quale egli stesso opta, si fonda sul postulato che gli ordini dorsali siano soltanto due e che la relazione α′ : β vada quindi ri-condotta a regole speciali, ascrivibili ad una datazione seriore rispetto al-l’ul-tima fase indoeuropea unitaria, il cui ambito d’azione apparirebbe, peraltro, diatopicamente limitato ad una determinata frazione dell’area eurasiatica; la seconda,37 prende in considerazione l’eventualità d’una terza serie k3. Si con-sideri ad esempio il sscr. kapanā, ‘bruco’ (*kmpenā) , kampate , ‘trema’ accanto al lat. campus e al gr. kamphv, ‘curva’, kavmph, ‘bruco’, kavmptein, ‘in-curvare’ ecc;38 oppure il sscr. īkapat, ‘due pugni’, gr. kapevti", (una misura di capacità, cf. kapivqh, ‘capíta’), lat. capio, captus, capax ecc.39 Qualora si intenda operare con due ordini di dorsali, sarà necessario supporre un tratta-mento di tipo β, al posto del regolare α corrispondente a k1, per l’azione di leggi fonetiche particolari (cf. nota 37) vigenti nel solo gruppo orientale: in tal caso apparirebbe del tutto regolare l’esito occidentale, secondo l’equazione k1 = α′ ( [k]) . L’alternativa a questa ammissione sarà un trattamento di tipo α′ in luogo del regolare β′ corrispondente a k2 in conseguenza all’azione di leggi fonetiche speciali nel gruppo occidentale: regolare quindi, sarebbe non già l’esito occidentale, bensí quello orientale, conformemente all’equazione k2 = β ([k]). Ovviamente, la scelta dell’una o dell’altra fra queste opzioni teoriche

    36 Cf. Pok. Idg. et. Wb., I, 896. 37 Cf. Meillet, 1894, p. 277 s.: «Le phonème supposé par αα′ est k1, celui supposé par ββ′ est k2. Reste une troisième correspondance fréquente, βα′. Deux hypothèses en peuvent rendre compte: 1° L’indo-européen n’aurait possédé que deux gutturales k1 et k2; des lois particulières auraient amené le traitement β au lieu de α en Orient, ou le traitement α′ au lieu de β′ en Occident; 2° on poserait, dans les cas où α′ et β se correspondent, une troisième sorte indo-européenne de k, soit k3». La seconda ipotesi ha poi avuto un ampio successo, essendo stata adottata da vari eminenti linguisti (v. infra): «elle donne en effet de la difficulté une solution très simple. D’ailleurs, tandis que le traitement oriental indique pour le k1 un point de prononciation très voisin des dents, le traitement occidental suppose que k2 était une vélaire: il y a place entre les deux pour un troisiè-me k»; cf. anche Meillet, 1934, p.93: «On a souvent conclu de là que l’indo-européen avait une série de médio-palatales intermédiaire entre les deux séries établies cidessus. Mais dans aucune langue indo-européenne ces trois types ne coexistent». 38 Cf. Pok. Idg. et. Wb., I, 525. 39 Cf. Pok. Idg. et. Wb., I, 527.

  • dipenderebbe cosí, in modo esclusivo, dall’individuazione delle ‘lois particu-lières’ nel gruppo satm oppure nel gruppo centum. Secondo Meillet tali par-ticolari sviluppi si pongono nel gruppo orientale, in quanto i fonemi indoeu-ropei appartenenti alla serie k1, ivi ricevono un trattamento β per α, con una certa regolarità, in alcune condizioni tipiche,40 come ad esempio dinanzi alla vocale ‘a’. È pur vero che si registrano casi in apparente contraddizione con questa ipotesi, come il trattamento sanscrito di tipo β per α, ad esempio in ka-láyati, ‘spinge’, gr. kevllein, ‘spingere’, lat. celer, ecc.,41 irregolare dinanzi a vocale palatale. Tuttavia Meillet ritiene senza dubbio piú dimostrativi gli ar-gomenti contrari ad una ricostruzione a tre serie, ribadendo con assoluta fermezza la propria posizione teorica.42 Ovviamente, dal nostro punto di vi-sta, una concezione di questo tipo non può essere accolta in quanto il

    carattere ‘palatale’ costituisce un’isoglossa palesemente riferibile a modi-ficazioni secondarie (v. infra), prodottesi e diffusesi in un area centrale del continente eurasiatico: le aree marginali hanno infatti conservato la distinzio-ne primitiva tra velari e labiovelari senza produrre improbabili fonologizza-zioni di tassofoni intrinseci prevelari, quali dovevano presumibilmente essere le varianti di *k in una fase tarda dell’indoeuropeo comune. Inoltre, come os-serva il Kuryłowicz, un sottosistema di dorsali come quello ipotizzato dal Meillet, risulta essere ‘artificiale’, vale a dire scarsamente plausibile sul piano tipologico.43

    40 Le condizioni particolari, descritte da Meillet, 1934, p.93, sono le seguenti: «…le type de cor-respondance lat. c = sskr. k apparaît surtout dans certaines conditions particulières, notamment:

    devant *a : lat. cacūmen, skr. kakúd “sommet”; et alors on ne trouve pas le type skr. ç = lat. c;

    devant *r : skr. kravíh “viande crue”, v. sl. krŭvĭ “sang”, lit. kraũjas “sang”, en regard de gr. krev(Û)a" “viande”, lat. cruor, gall. crau “sang”, v. isl. hrár, valant all. roh (“qui n’est pas cuit”);

    après *s : lit. skiriú “je sépare”, en regard de v. h. a. sceran “couper, tondre” et de gr. keivrw “je tonds”;

    à la fin des racines, surtout après *u : sscr. rócate “il brille”, av. raočah- “lu-mière”, lit. laũkas “qui a une tache blanche”, v. sl. lučǐ “lumière”; en regard de gr. leukov", lat. lūcēre, got. liuhaþ “lumière”; il y a souvent, dans le groupe oriental, alternance entre les raprésentants de i.-e. *k1 et ceux de i.-e. *kw, ainsi skr. rúçant- “brillant”, arm. loys “lumière” à côtè des mots cités.

    Le fait que l’on a, devant *a, skr. k = lat. c, mais devant *o, skr. ç = lat. c, est décisif. … la voyelle *o est en indo-européen un degré d’une alternance *e/*o, et l’on peut dès lors admettre comme possible que *o est en indo-européen un ancien * io, de même que, en russe, ë (c’est-à-dire io) est une forme prise par un ancien *e». 41 Cf. Pok. Idg. et. Wb., I, 548. 42 Cf. Meillet, 1934, p.94: «ceci posé, on n’a pas le droit d’admettre une troisième série de gut-turales en indo-européen, bien que tous les faits ne soient pas assez exactement expliqués». 43 Cf. Kuryłowicz, 1956, p. 356 s.: «C’est évidemment l’état satem où l’état centum qui reflète d’une manière directe l’état indo-européen, l’autre en représente une transformation». In effetti, prescindendo dai vari indizi d’una primitiva tripartizione come ad esempio quelli rilevati dal Pe-dersen nell’albanese ecc., nelle lingue indoeuropee, prese isolatamente sono attestate esclusiva-mente velari e labiovelari oppure velari e palatali. Pertanto, cf. op. cit. nota 1, «La troisième

  • Anche i tentativi di unificare la tripartizione delle gutturali, allo stato at-tuale delle ricerche, sono da considerare praticamente falliti: si tratterebbe, in verità, d’un anacronistico ritorno alle posizioni pre-ascoliane.44 Primo, in or-dine cronologico, nel ‘riproporre’ il modello con un solo ordine di dorsali è stato F. Ribezzo:45 questi sostiene che le differenze riscontrabili nei sistemi delle lingue storiche sono dovute a semplice influenza del contesto fonetico e quindi non svolgono, potremmo dire, alcun ruolo strutturale. Altri studiosi,46 dopo il Ribezzo, hanno proposto ulteriori varianti del modello ‘monoordine’, ma i loro lavori non hanno avuto un’ampia divulgazione e sono per lo piú passati sotto silenzio nelle trattazioni sull’argomento.

    Diversamente, la ricostruzione d’un fonematismo a due ordini, velare e labiovelare, è stata accolta da vari ricercatori e riscuote tutt’oggi ampi con-sensi.47

    Sullo scorcio del XIX secolo H. Hirt, pur condividendo sostanzialmente la partizione operata da A. Bezzemberger, ipotizza per una fase indoeuropea primitiva soltanto una serie (II) velare k ed una (III) labiovelare k u . I suoni k ' sarebbero sorti in area satm per palatalizzazione, ovvero spirantizzazione “vor hellen vokalen” delle originarie velari in una fase indoeuropea comun-que anteriore alla “trennung der völker”.48

    hypothèse, l’existence en indo-européen des palatales et des labiovélaires à l’exclusion des vélai-res, est trop artificielle pour arrêter l’attention. Sans la contre-partie d’une série vélaire k on ne conçoit ni le caractére phonologique de l’appendice labiovélaire de qu ni celui de la palatalité de k '»;cf. anche Tischler, 1990, p.69, «Für die Lösung 3 vom Typus A + C, also für die vom Stan-dpunkt der allgemeinen Phonologie äußerst unwahrscheinliche Kombination von Palatal */k'/ + Labiovelar */ku / hat sich v. a. Meillet erklärt» e in particolare la nota n°.28. 44 Assai dura la critica di Pisani, 1961, p. 14: «E dirò subito che, in funzione di simboli per la va-rietà dei fenomeni monoglottici, queste tre serie sono comodissime, e trovo inutili e anacronistici i tentativi (p. es. del Meillet) di ricondurle a due allontanando anziché affrontarlo il problema, per non dire delle fantasie “glottogoniche” (p. es. di Ribezzo e di Hirt) tendenti a ridurre tutto ad una serie primordiale unica». 45 Ribezzo, p.37 s. 46 Mladenov, p.189 s.; Safarewicz, p.37; Otrębski, p.7 s. 47 Cf. Hirt 1899, p. 218-291; Georgiev, 1937, p.104-126; 1966, p.21-48; Lehmann, 1952, p. 100-102; 1999, p. 168-170; O. Szemerényi, 1990, op. cit. p.153-156. 48 Cf. Hirt, 1899, p. 224, 10: «Dagegen verdient die noch nicht aufgeworfene frage näher unter-sucht zu werden, ob sich nicht bei selbständigem vorhandensein der velare reihe II und I aus ei-ner einzigen herleiten liessen, ob sich nicht eine idg. k-reihe in den satem-sprachen in eine k- und eine ç-reihe gespalten hat. Wenn in den klassischen sprachen thatsächlich die labialisierung vor a so häufig fehlt, so lässt sich diese thatsache doch auch dahin deuten, dass das folgende a der grund ist, aus dem in den satem-sprachen aus den ursprünglichen verschlusslauten keine spiran-ten geworden sint. Ich meine also, um meine ansicht gleich voranzustellen, dass in einer frühen entwicklungsstufe der idg. ursprache nur zwei k-reihen, k-laute mit und ohne labialisierung be-standen, also ku - und k-laute, dass sich aber aus diesen, nämlich dem k, kh, g, gh, schon in idg. zeit lange vor der trennung der völker, auf dem gebiet der satem-sprachen vor hellen vokalen spiranten entwickelten, während vor dunklen die verschlusslaute blieben. Dann wurde weiter auf dem gebiete der satem-sprachen die labialisierung aufgegeben, sodass die alten ku - und k-laute,

  • In effetti, come è stato ampiamente dimostrato, quantunque sia ormai un fatto certo che in nessuna lingua indoeuropea storicamente attestata, risulti operante l’opposizione fonologica tra gli elementi dorsali di piú di due ordini, è altrettanto vero che esistono irrefutabili prove d’una primitiva distinzione tra le classi fonemiche velare e labiovelare nelle lingue satm,49 mentre sono praticamente assenti qualsiansi tracce sicure d’una opposizione fonematica tra velari e palatali, operante in una fase preistorica nelle lingue centum.50

    W. P. Lehmann, fermo sostenitore d’un sistema con due ordini di dorsali, uno velare ed uno labiovelare, prende le mosse, come egli stesso non manca di dichiarare esplicitamente, dall’ipotesi del Meillet. Tuttavia, al di là d’ogni possibile equivoco, occorre precisare che la proposta teorica di Lehmann è fondamentalmente diversa da quella dello studioso francese e non ne rappre-senta una mera variante aggiornata. In verità, come si è già avuto modo di ri-levare, il Meillet assume come originarie due serie di dorsali, una con punto d’articolazione piú avanzato che egli denomina ‘prepalatale’ ed una con pun-to d’articolazione arretrato, costituita da articolazioni complesse “accompa-gnées d’une émission labio-vélaire qui en faisait partie intégrante”, *kw, *gw, *gwh, che egli denomina ‘postpalatali labio-velari’. Dunque l’opposizione primaria non è, come affermato in Lehmann, tra velari e labiovelari, bensí tra ‘prepalatali’ da un lato, suscettibili di una realizzazione sensibilmente arretra-ta in alcune condizioni tipiche, vale a dire dinanzi ai foni ‘a’, ‘r’, dopo ‘s’ e in finale di radice dopo ‘u’ (cf. nota 40), e postpalatali labializzate dall’altro. Pertanto si dovrà intendere che nel sistema proposto da Meillet, delle artico-lazioni fondamentalmente ‘prepalatali’, avessero, in determinate circostanze, una realizzazione meno avanzata o, in ultima analisi, depalatalizzata.51 Al di die sich im westen getrennt erhielten, hier zusammengefallen sind. Wir müssten im osten eigent-lich drei reihen finden, wärend im westen nie mehr als zwei vorhanden waren». 49 Cf. p. 18-20. 50 Evangelisti 1949, p. 139-148, ritenne di aver individuato un residuo di distinzione della palata-le sonora espirata indoeuropea nel tocarico A tsar, B śar = gr. ceivr < i.e.*g 'hesr-, ‘mano’; la sua scoperta non ha tuttavia incontrato ampie condivisioni. Per quanto attiene alla complessa situa-zione delle lingue anatoliche e le connesse dispute relative alla questione dell’appartenenza stes-sa al gruppo satm oppure al gruppo centum del licio e del luvio geroglifico, cf.. Melchert, p.182 s.: «An early suggestion by Meriggi, FsHirt 2 (1936) 257 ff., that Lycian was a satem language met with indifference or rejection. Examples such as Lyc. esbe ‘horse’, sñta ‘hundred’ and ni siye have to this day either been rejected, taken as borrowings, or explained by a conditioned sound change … The question was renewed with the suggestion of Gelb, HH 3 (1942) 19 ff., that the Hluv. sign 4481 should be read śu with a palatal sibilant. This sign appears in Hluv. aśuva- ‘horse’, śuvana/i- ‘dog’ and śurni ‘horns’, patently derived from *ek'wo-, k'(u)won-, and k'rno- re-spectively. Gelb and bonfante, JAOS 64 (1944) 169 ff., pursued the implications of this proposal in extenso, concluding that lycian and HLuvian were ‘satem’ languages, while Cluvian and Hit-tite belonged to the ‘centum’ group. Such a claim naturally aroused considerable controversy. Opponents, who far outnumbered supporters (see Gusmani’s discussion), explained away the HLuwian examples by the same means as the Lycian: borrowing or conditioned sound change». 51 Cf. Georgiev, 1966, p. 27: «La tesi Fick-Havet, con alcune precisazioni, fu accettata dal Meil-let ed essa divenne autorevole per la scuola linguistica francese. Secondo questa teoria le guttura-

  • là di questa divergenza, benchè non ci sembra appropriato scorgere una sorta di filiazione Meillet-Lehmann, è comunque innegabile che le due formula-zioni presentino alcuni punti di convergenza, specie nelle argomentazioni ad-dotte a sostegno.

    Secondo Lehmann la classe fonemica degli stops dorsali non labializzati indoeuropei era suscettibile di esecuzioni tassofoniche con punto d’articola-zione leggermente avanzato, –ma non certo propriamente ‘palatale’ come co-munemente si ritiene, onde crediamo sarebbe opportuno definirlo piuttosto come prevelare– dinanzi a vocali palatali; peraltro, laddove erano assenti queste condizioni il punto d’articolazione doveva essere meno avanzato, cioè medio-velare (“neutral”) dinanzi a vocale prevelare bassa, e affatto arretrato, dinanzi a vocale posteriore.52 In conseguenza alle alternanze apofoniche e/o nell’ambito morfologico della flessione nominale e verbale, gli allofoni pala-tali e velari si sarebbero scambiati entro le forme tratte da una medesima ra-dice. Allorché nelle lingue del gruppo satm il vocalismo fu alterato, avrebbe avuto luogo la fonologizzazione delle varianti: palatali e velari sarebbero cosí venute ad opporsi distintivamente.

    L’acquisizione dello status fonematico da parte delle ‘palatali’, venute ad opporsi con le originarie velari, avrebbe poi causato la perdita, entro i para-digmi morfologici, di una delle due realizzazioni, già complementari, a tutto vantaggio dell’altra la quale sarebbe poi stata generalizzata ed estesa, per conguaglio analogico, in tutti quei contesti d’occorrenza dapprima riservati alla rispettiva partner distribuzionale.

    Un forte argomento a sostegno dell’ipotesi delle due serie addotto sia da Lehmann che da Meillet, consiste nell’elevato indice di ricorrenza statistica delle realizzazioni arretrate [k], [kw], dinanzi ad /a/ ed /r/,53 che induce a rite-nere antica la sola opposizione /k/~/kw/. Il carattere maggiormente conserva-tivo della classe centum, nei confronti del vocalismo protoindoeuropeo, non avrebbe determinato, peraltro, l’insorgere di condizioni favorevoli alla fone-mizzazione degli allofoni di /k/ che anzi, ebbero uno sviluppo convergente, il cui esito si risolse in una realizzazione pressoché identica.54

    li si dividono in due serie: prepalatali e postpalatali-labiovelari. L’esistenza di corrispondenze con velari nelle lingue centum e satem è spiegata come depalatalizzazione delle prepalatali». 52 Lehmann, 1952, p.101: «We may conclude … that palatal or velar articulation varied with the articulation of the following vowel; before e the stop was fronted, before o it was back, before a it was neutral, but non-palatal». 53 Lehmann, 1952, p.101: «The assumption of a PIE system with only two velars is strongly sup-ported by the distribution before /a/ and /r/. Before these phonemes we find primarily [k] and [kw]. Since we know that at one stage of PIE /e/ and /o/ were members of one phoneme, and have reasonable evidence that /a/ and /r/ never had one palatal, one velar allophone, we may conclude that this distribution before /a/ and /r/ represents a stage of the language older than that of [k ' k kw] before /e/ and /o/». 54 Si deve naturalmente prescindere dalla variazione fisiologica nella realizzazione [k] dovuta ad un fenomeno di ‘allofonia intrinseca’ (cf. Ladefoged, 1965, p.27-42), per cui è impossibile otte-

  • L’ipotesi dell’estensione analogica d’una sola specie di consonante dorsa-le, per le diverse forme di ciascuna radice, è senz’altro altamente plausibile ma non rischiara affatto alcuni casi di coesistenza di occlusive dorsali (o loro sostituti) e spiranti nelle varietà morfologiche di alcune radici, in lingue del gruppo satm.55 Dunque, nel sostenere la propria ipotesi teorica, Lehmann adduce argomenti oggettivamente fondati, riferendosi tuttavia in modo quasi esclusivo ai fatti piú generali, trascurando ovvero lasciando del tutto inspie-gati alcuni tra gli aspetti meno sistematici, non peraltro meno significativi, della morfofonologia indoeuropea. Per quanto riguarda questi casi problema-tici di coesistenza di occlusive velari e sibilanti, nelle forme tratte da radici medesime, Lehmann si toglie d’impaccio rinviando al Grundriß. Purtroppo, anche Brugmann, è a sua volta tutt’altro che esplicito in merito a questo pro-blema: egli confessa la propria incertezza e riserva all’argomento una tratta-zione cursoria, prospettando una generica ipotesi di prestito.56

    Alternanze consonantiche del tipo sopra descritto nonché alcuni altri casi di esiti particolari ricevono una trattazione piú dettagliata da parte di V. I. Georgiev il quale, ricercando argomentazioni probanti, ne propone spiega-zioni differenziate affatto originali,quantunque discutibili.57 Egli dimostra in- nere foni occlusivi dorsali con identico punto d’articolazione dinanzi a vocali anteriori e poste-riori. 55 Cf. Lehmann, 1952, p.101: «Because a consonant interchange was not permitted in the system of forms from one root in PIE while a vowel interchange was possible, either a palatal or a velar phoneme was generalized through a system of forms from one root. For some roots, however, we find some palatal, some velar forms, see Gdr. I.545-7. The velar allophone is found in most forms of the root /lewk-/, e.g. Skt. rócate ‘shines’, roká ‘light’, Lith. laũkas ‘pale’; but in a few forms the palatal allophone was generalized, e.g. Skr. rúśat ‘light’, Oprus. luysis ‘lynx’». 56 Cf. Brugmann, I, p.545 s.: «Von andrer Art sind die folgenden Fälle. Ai. a karkōt-s Bez. eines Schlangendämons : ai. šarkōtá-s Bez. einer Schlangenart. – … – Ai. ca-terō ‘er leuchtet’ av. raočah- ‘Glanz, Licht’, lit. laũka-s ‘blässig’ aksl. lučъ ‘Licht’ : ai. rúšant- ‘lichtfarbig’; arm. lois ‘Licht’ … Wie dieser wechsel aufzufassen ist, ist zweifelhaft. Gewiß ist nicht Alles nach dem-selben Gesichtpunkt zu beurteilen. Man wird aber kaum fehl gehen, wenn man annimt, dass in den meisten Fällen uridg. k ', nicht q zu Grunde lag und der k-Laut im Gebiet der satm-Sprachen auf Entlehnung aus einer centum-Mundart beruht. Solche Entlehnung müsste zum Teil in die Zeit der idg. Urgemeinschaft zurückverlegt werden». 57 Cf. Georgiev, 1966, p.43-44: «I processi di palatalizzazione (e assibilazione) e di unificazione della radice biforcata furono molto piú complessi e molto piú vari nelle singole lingue indeuro-pee. Inoltre essi avvennero per vie diverse in tempi diversi nei singoli gruppi linguistici. Qui ci soffermeremo soltanto su alcuni casi. … Un caso particolare è anche il scr. roka-h m. ‘luce’, rú-kmanta- ‘che brilla’,-, ruks rocate ‘luce, risplende’, rocáyati ‘illumina’, lókate ‘osserva, contem-pla’, rócaná- ‘che illumina’, rúci-h f. ‘luce, splendore’, rocas- ‘lume’ accanto a rúśant- ‘lumino-so, bianco’, lit. laũkas ‘pallido’, paleosl. luča, lučǐ ‘raggio’ accanto a lysǔ, russ. lysyj ‘calvo’, lit. šis lū, lett. lūsis-, ant. pruss. luysis, paleosl. rysǐ (con la r al posto della l su rǔvati) ecc. La radice ide. da cui sono derivate le parole menzionate è *lewk-. Nel sanscrito roka-h = lit. šarkōtá- da *lowko-s, scr. rúkmant-, a ruks- la velare originaria è regolarmente conservata; nel scr. rúśant- da *luk-ent-, lit. šis lū = lett. lūsis-, ant. pruss. luysis = paleosl. rysǐi da *lūk-i-si la velare è regolar-mente palatalizzata e assibilata. L’aggettivo slavo lysǔ è evidentemente una trasformazione del piú antico *lysǐ > ide. lūk-i-s. Il sanscrito lókate, lócate, rócate, rocáyati, rocaná- ecc. sono deri-vazioni secondarie (denominali) sulla base del sostantivo roka-h > ide. *lowko-s come l’ital.

  • vero, l’assoluta regolarità degli scambi consonantici sanscriti che si rilevano nelle forme derivate dalla radice *lewk-. Se si accetta la dimostrazione di Ge-orgiev, appare fuor di luogo postulare per la forma sanscrita rúśant- una “Pa-rallelwurzel *leuk '-” . 58

    Estremamente coerente appare la posizione assunta da O. Szemerényi ri-guardo al problema delle serie dorsali: nella sua Einführung, in un primo mo-mento, sulla base dei dati direttamente ricavabili dalla comparazione,59 egli propone per l’indoeuropeo “als unmittelbare Vorstufe der Einzelsprachen” la ricostruzione d’un sistema di tipo classico con tre ordini di stops dorsali. Quindi, dopo aver preso in considerazione l’esistenza di casi problematici come quello della già citata radice sanscrita ruk-/ruc-/ruś-, con alternanza consonantica (v. infra) ed aver respinto la spiegazione proposta da Brugmann (cf. nota 56) di una “Entlehnung aus einer centum-Mundart”, giunge a consi-derare la palatalizzazione come un’innovazione delle lingue satm, a partire da occlusive velari, avanti a vocali o a glides palatali.60 Non esclude tuttavia, la possibilità teorica di conformare l’ipotesi d’uno sviluppo della palatalizza-zione, come fenomeno indotto dal contesto fonetico, con la ricostruzione tra-dizionale a tre ordini, secondo la quale cioè le palatali sarebbero esistite già nell’indoeuropeo unitario, con un proprio statuto fonematico: in conseguenza di ciò si dovrebbe tuttavia ammettere una successiva defonologizzazione, in area centum, dell’opposizione */k/~*/k ' /, per conguaglio dei due ordini dorsa-li dovuto alla depalatalizzazione delle serie *k ' , *g' ecc. Questa opzione (cf. nota 14) complicherebbe il quadro ricostruttivo senza offrire reali vantaggi teorici e soprattutto non è sostenuta da adeguate motivazioni d’ordine foneti-co: l’ipotesi dell’innovazione in area satm si rivela senz’altro piú plausibi-le.61

    borghese (al posto di *borgese) da borgo. Dagli esempi riportati è chiaro che in alcuni casi parti-colari le velari originarie si mutano conformemente alla seconda palatalizzazione, cosicché nel sanscrito, per esempio, compaiono le corrispondenze k – c – ś dall’ide. k. D’altra parte in alcuni casi particolari, quando la delabializzazione è avvenuta molto presto, le labiovelari originarie possono anche cambiarsi secondo la prima palatalizzazione. Il seguente esempio tratto dalla sto-ria della lingua latina illustra chiaramente questo fenomeno: lat. sequor da *sekw-, ma socius (la-tino tardo ci = tsi) da *sokwyo-s». 58 Cf. Idg. et. Wb., p. 690. 59 Cf. Szemerényi, 1990, p.71; cf. anche Lehmann, 1999, p. 168: «Le tre serie attribuite alla pro-tolingua sono il risultato della applicazione rigorosa del metodo comparativo, secondo l’approccio sistematico di Brugmann». 60 Cf. Szemerényi, 1990, p.155: «Die meisten Forscher sehen sich eher zur Folgerung gedrängt, daß die Palatale sekundär aus vorderen Velaren entstanden sind, etwa so wie die romanischen Spiranten (z.B. franz. cent, it. cento, usw.) aus den lateinischen Velaren (cent aus kentum). Da bei dieser Annahme die Entwicklung der Palatalisierung an gewisse Bedingungen gebunden ist – vor allem an ein folgendes e, i, oder y –, ist auch das Weiterleben von nichtpalatalisierten For-men prinzipiell zu erwarten». 61 Cf. Szemerényi, 1990, p.155: «Auch bei dieser Auffassung wäre es möglich, die Palatalisie-rung selbst als ein gesamtindogermanisches Phänomen zu betrachten und dem Indogermanischen

  • Dovendo necessariamente prendere posizione, a favore di uno tra i possi-bili modelli di ricostruzione, non resta dunque che optare per quello classico tripartito oppure, per un modello semplificato a due ordini, velare + labiove-lare. Si dovranno in ogni modo escludere ricostruzioni che contemplino l’ab-binamento dei due ordini velare + palatale oppure, palatale + labiovelare, per motivi fonetici e fonologici (cf. nota 43). In effetti, la palatalizzazione d’una dorsale è dovuta, per lo piú, a fenomeni assimilatòri, a partire da articolazioni dorso-(pre)velari. Peraltro, se la situazione originaria fosse rappresentata uni-camente da una serie palatale, che nelle lingue centum avrebbe in seguito su-bito un “indurimento” generalizzato, come si potrebbe essere persuasi del-l’affatto inverosimile ipotesi che ad esempio, nelle lingue della classe indo-i-ranica, caratterizzate da una cospicua tendenza alla “Satemisierung”, e che per giunta continuano le dorsali indoeuropee attraverso spiranti, persino in contesti del tutto inidonei alla palatalizzazione (cf. nota 1), alcune palatali o-riginarie sarebbero state depalatalizzate confluendo in una serie velare poi u-nificata allorché vi ricaddero altresí le primitive labiovelari delabializzate?

    Sulla base dei dati a nostra disposizione risulterà comunque piú agevole ricercare paralleli tipologici su cui basare spiegazioni plausibili per la palata-lizzazione di dorso-velari originarie che non per la depalatalizzazione di arti-colazioni predorso-palatali (cf. nota. 167).

    L’ipotesi di due serie primitive di cui una velare ed una palatale appare al-tresí insostenibile in quanto contrastante con gli stessi dati immediati della comparazione: le prove irrefutabili, addotte a sostegno dell’esistenza d’una distinzione ternaria in uno stadio primitivo dello sviluppo di alcune lingue satm, se non valgono a dimostrare l’origine indoeuropea di tale partizione in tre ordini, sono comunque di per sé sufficienti ad escludere l’ipotesi suddetta. A ciò si aggiungono anche gli ostacoli derivanti dalla tipologia delle varia-zioni fonetiche diacroniche;62 che poi le labiovelari siano una creazione serio-re degli idiomi centum dinanzi a [o]63 e che nelle lingue classiche tali guttura-

    drei Gutturalreihen zuzuschreiben (wie oben IV. 7.4.3). Das würde aber bedeuten, daß die Ken-tum-Sprachen diese Palatalisierung nachträglich wieder verloren haben (Ascolis ‚genesener‘ Ty-pus, tipo risanato). Einfacher wäre es schon, die Palatalisierung, d.h. Satemisierung, als ein Merkmal der Satem-Sprachen zu betrachten; sie müßte dann entweder als in allen Satem-Sprachen selbständig vollzogen oder aus einem Zentrum nach verschiedenen Richtungen ausge-strahlt und mit der Entfernung verebbt gelten, wobei eher an das Iranische, oder Arische, als an das Slavische als den Ursprungsherd zu denken wäre». 62 Cf. Georgiev, 1966, p.28: «si conoscono numerosi esempi forniti dalla fonetica storico-comparativa di varie lingue nelle quali le labiovelari (kw) si sono delabializzate, per esempio, lat. qu > franc. k, tuttavia non è attestato nessun caso di passaggio delle velari (k) in labiovelari (kw)». 63 Cf. Hirt, 1899, p.223: «Dass die q-laute durch ein folgendes o bedingt wären, scheinen mir die zahlreiche fälle, in denen sie vor e stehen, sicher zu widerlegen, vgl. lat. que, gr. tevssare", a-nord. hverr, ‘kessel’, ai. čarus, und ebenso wenig kann die zweite reihe durch schwund der labia-lisierung aus der dritten entstanden sein».

  • li labializzate (o loro succedanee) non si trovino dinanzi alla vocale (pre)-ve-lare bassa [a]64 è escluso sulla base dell’evidenza delle attestazioni. In fine, quanto ad una presunta origine secondaria delle labiovelari mediante l’ag-giunta di un ‘w-Nachschlag’ prodottosi ‘accidentalmente’ in circostanze im-precisate (cf. nota 15), non si può fare a meno di ammettere che sono manca-ti, fin dai primi decenni del secolo scorso, oggettivi argomenti a sostegno.65

    Se il carattere indoeuropeo dell’ordine labiovelare viene riconosciuto, con pressoché unanime condivisione, dalla maggior parte delle scuole linguisti-che moderne, quanto al numero di ordini dorsali si osserva ancora una certa fluttuazione nelle proposte: alcuni sono propensi ad ammettere velari pure e labiovelari; altri, nonostante condividano tale opinione, non escludono in maniera cosí categorica, per l’indoeuropeo tardo, la possibilità d’un sistema dorsale tripartito.66

    In generale la linguistica indoeuropea attuale appare tendenzialmente in-cline ad un modello classico con tre ordini: come osserva G. Bolognesi, oggi assistiamo ad un processo circolare, con ritorno alle posizioni prevalenti all’incirca un secolo fa.67

    È noto nel corso degli ultimi decenni, si è verificata una crescente atten-zione per gli aspetti di ordine tipologico: diretta conseguenza di ciò sono maggiore realismo e plausibilità attribuibili ai risultati delle ricostruzioni ba-sate sulle analisi storico-comparative e strutturali, in virtú di riscontri empiri-ci piú ampi e sistematici, quindi piú oggettivi. Da questa tendenza trae origi-ne, ad esempio, la teoria delle glottali, secondo cui le occlusive medie indo-europee dovrebbero essere sostituite con tenui glottalizzate *p’, *t’, *k’ ecc.

    I sostenitori delle ‘glottali’ non si mostrano particolarmente interessati all’assetto distribuzionale ed alla specificazione fonetica degli stops che con-dividono il punto d’articolazione dorsale, sicché la nuova teoria, di per sé, non ha apportato nuova luce sulla dibattuta questione degli ordini dorsali: questi sono stati accolti, senza difficoltà, in numero di due o tre (secondo le

    64 Cf. Saussure, p.119: «… les langues classiques évitent devant a de labialiser la gutturale vélai-re». 65 Cf. Hirt, 1921-1937, I, p.228: «Die Schwierigkeit, diese Laute zu erkennen, lag darin, daß die östlichen Sprachen, darunter das Indische, das w durchweg verloren haben, daß es aber auch im Westen in vielen Fällen unter besondern, nicht leicht zu ermittelnden Bedingungen geschwunden ist. So standen also k und kw oft nebeneinander, und man hielt das w einfach für einen zufällig entstandenen Nachschlag. Davon kann heute keine Rede mehr sein. Das w hat sich nirgends neu entwickelt, sondern ist unter Bedingungen, die man sich für jede Sprache neu zu ermitteln be-müht hat, geschwunden». 66 Cosí Hopper, 1982, p.133, assume una posizione tutt’altro che rigida: «There were at least two “guttural” series, and probably three. Of these “gutturals,” one series was labialized and another was fronted (palatal or palatalized). A third tectal series probably consisted of uvular (postvelar) sounds». 67 Cf. Bolognesi, p.160: «Nel corso di questo secolo si è quindi passati da tre serie di gutturali indeuropee a due, a una, a quattro, per ritornare alla fine a tre»; cf. anche nota 9.

  • diverse proposte) nel nuovo sistema.68 Anche le interpretazioni fonetiche classiche delle labiovelari vengono confermate, ovviamente con la necessaria precisazione che lo stop medio *gw deve essere sostituito con *k’° (stop vela-re glottalizzato labializzato). Per il resto, la nuova proposta si concilia sia con la ricostruzione classica tripartita sia con la versione semplificata a due ordi-ni.69

    La ricostruzione presentata da Gamkrelidze e Ivanov (1995, p.82) com-prende un subsistema a tre ordini dorsali di cui uno velare, non marcato, op-posto ad uno labiovelare e ad uno palatale, entrambi marcati. Come in Hop-per, la serie media del modello classico è sostituita da una serie di eiettive (glottalizzate) onde si profila il seguente paradigma:

    k’ gh kh k’° gh° kh° k ' ’

    g ' h k ' h

    L’organicità della serie palatale è sostenuta con argomentazioni d’ordine storico-comparativo, strutturale e tipologico. L’argomento piú valido consi-sterebbe nella distribuzione delle occlusive dorsali quali elementi del conso-nantismo radicale. Uno dei princípi fondamentali della costituzione fonema-tica della radice indoeuropea può essere enunciato mediante la regola secon-do la quale due consonanti occlusive identiche non possono occorrere in un morfema medesimo.70 Dato che esistono radici di tipo CVC, in cui entrambe le consonanti sono dorsali e non labializzate, qualora si intendesse eliminare l’ordine palatale si infrangerebbe la regola suddetta.71

    68 Cf. Gamkrelidze-Ivanov, p.5 n.2: «The question of how many phonemically distinct dorsal points of articulation there were is an essential one in reconstructing the full system of Indo-European stops and establishing the transformations it went through in the formation of the daughter languages, but it is irrelevant to determining the phonological nature of the three man-ners of articulation. The features that distinguish the three stop series are not directly relevant to the phonology of the dorsal phonemes. For an investigation of the three stop series, it is suffi-cient to have information for only three sets –labial, dental, and velar– without regard to the fur-ther subdivision of the velar set». 69 Cf. Hopper, 1977, p.49; 1982, p.133. 70 Cf. Benveniste, 1935, p.170; Gamkrelidze-Ivanov, 1995, p. 17: «A fundamental restriction imposed on the entire stop subsystem was a constraint against combining identical phonemes within the root. It can be formulated as Rule 1: No two stop phonemes with identical feature val-ues can cooccur in a root of the structure C1VC2-. (Roots of the shape T1ET2, where T1=T2, are impossible)». 71 Cf. Gamkrelidze-Ivanov, p.83-84: «No roots of the form C1VC2- are attested where C1 and C2 are both labials, both dentals, or both labiovelars. The other posterior stops would be in clear contradiction to this rule if they were treated as belonging to a single point of articulation, since there exist CVC- roots with two posterior stops in Indo-European. Describings the various poste-rior stops as belonging to different points of articulation brings these roots into conformity with rule 1».

  • La plausibilità tipologica del sistema a tre ordini è confermata dai dati of-ferti sia da lingue non indoeuropee che indoeuropee, come alcuni idiomi in-doiranici moderni. In fine, l’argomento tradizionalmente addotto contro l’esistenza indoeuropea d’un subsistema dorsale tripartito, secondo cui tre or-dini distinti, quali riflessi diretti d’un sistema preistorico comune, sembra non siano attestati in alcuna lingua discendente, è dichiarato inconsistente in quanto “metodologically incorrect for contemporary diachronic linguistics”.72

    Per quanto attiene alla controversa questione delle palatalizzazioni anato-liche nel geroglifico (cf. nota 50), l’assibilazione di i.e. k ' (sostituito da k ' h nella teoria glottale) dinanzi a *u/w è spiegata come un riflesso differenziato dell’antica ‘palatale’, nel processo di conguaglio centum con l’ordine velare, per dissimilazione preventiva dall’ordine labiovelare.73 Non si tratterebbe dunque d’un fenomeno di assibilazione di natura propriamente fonetica, in-dotto dal contesto, bensí della conseguenza strutturale d’un assestamento del sistema fonologico compensato da un artificio fonetico. Questa ipotesi vanta il pregio di apparire foneticamente coerente in circostanze in cui un’assibilazione risulterebbe affatto atipica, ovvero in contesti tutt’altro che favorevoli al verificarsi di tale fenomeno.74

    Accettando questa spiegazione si avrebbe un’ulteriore conferma dell’antichità indoeuropea delle palatali. In verità, non ci risulta che sia stato trovato alcun argomento serio a sostegno di tale ipotesi, mentre non è affatto arduo muovere obiezioni in proposito. Innanzi tutto, come si è in precedenza osservato, mancano indizi sicuri dell’esistenza di palatali primitive panindo-europee nelle lingue centum, fatta eccezione, naturalmente, per l’assibilazione riscontrata nel riflesso della palatale *k ' in luvio geroglifico, dinanzi a u /w . Il caso del geroglifico, purtroppo, pone molti interrogativi da-ta la frammentarietà delle attestazioni (si tratta di sole tre parole, cf. nota 50):

    72 Cf. Gamkrelidze-Ivanov, p. 99 s.: «for some structure to be reconstructed, it is not necessary that the identical structure be found in one of the daughter languages that directly continue the original system. It would preclude reconstructing typologically plausible structures (i.e. struc-tures that can be verified on the basis of cross-linguistic data) that are reflected in all daughter languages in a transformed shape»; cf. anche nota 175. 73 Cf. Gamkrelidze-Ivanov, p.87: «It can be explained as due to the presence of a labiovelar order contrasting in the system with the plain velar order. As the Anatolian palatovelar order was un-dergoing the centum shift toward the plain velars, sequences of velar (former palatovelar) plus w would hav