Corso di Linguistica Generale - Fonetica e Fonologia

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Appunti di Linguistica Generale. Fonetica e Fonologia. A cura di Enzo Santilli. Info [email protected] Pag. 1 Fonetica Non esistono lingue migliori e peggiori, più belle e più brutte, più primitive e più avanzate. Queste, essendo i mezzi di comunicazione propri delle specie umane sono tutte per definizione equipotenti, hanno tutte la possibilità di parlare allo stesso livello delle stesse cose, solo che non lo fanno tutte nello stesso modo. Per esprimere ciò che una determinata lingua esprime opponendo segni distinti, un’altra lingua che non ha quei segni distinti può definire con mezzi sintagmatici lo stesso contenuto. Anche per il piano dell’espressione c’è una materia che è indipendente da una lingua o dall’altra e che le lingue organizzano in modi diversi. La materia del piano dell’espressione è la totalità dei suoni che sono producibili con il copro umano e percepibili con il corpo umano, quindi la totalità dei foni producibili con l’apparato fonatorio umano e percepibili con l’orecchio umano. Lo studio di questa parte della sostanza dell’espressione è compito della fonetica, che in altre parole tratta lo studio dei suoni che possono essere prodotti dalla voce umana o più tecnicamente lo studio della sostanza dell’espressione. Questi suoni li chiamiamo foni, e sono la realizzazione fisica di quelli che chiamiamo fonemi (forma del piano dell’espressione). L’apparato fonatorio. Il termine apparato nella fisiologia umana è riservato ad una serie di organi che cooperano per svolgere una determinata funzione biologica. È un po’ improprio chiamare quello fonatorio apparato perché prima di tutto non ha una funzione biologica primaria necessaria alla sopravvivenza, seconda cosa perché non ci sono degli organi deputati esclusivamente alla fonazione. Esso è una composizione di organi ciascuno dei quali ha una funzione anche all’interno di altri apparati come quelli respiratorio e digerente.

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Fonetica e Fonologia, corso di Linguistica Generale

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Fonetica

Non esistono lingue migliori e peggiori, più belle e più brutte, più primitive e più

avanzate. Queste, essendo i mezzi di comunicazione propri delle specie umane sono tutte

per definizione equipotenti, hanno tutte la possibilità di parlare allo stesso livello delle

stesse cose, solo che non lo fanno tutte nello stesso modo. Per esprimere ciò che una

determinata lingua esprime opponendo segni distinti, un’altra lingua che non ha quei

segni distinti può definire con mezzi sintagmatici lo stesso contenuto.

Anche per il piano dell’espressione c’è una materia che è indipendente da una lingua o

dall’altra e che le lingue organizzano in modi diversi. La materia del piano

dell’espressione è la totalità dei suoni che sono producibili con il copro umano e

percepibili con il corpo umano, quindi la totalità dei foni producibili con l’apparato

fonatorio umano e percepibili con l’orecchio umano. Lo studio di questa parte della

sostanza dell’espressione è compito della fonetica, che in altre parole tratta lo studio dei

suoni che possono essere prodotti dalla voce umana o più tecnicamente lo studio della

sostanza dell’espressione. Questi suoni li chiamiamo foni, e sono la realizzazione fisica di

quelli che chiamiamo fonemi (forma del piano dell’espressione).

L’apparato fonatorio. Il termine apparato nella fisiologia umana è riservato ad una serie

di organi che cooperano per svolgere una determinata funzione biologica. È un po’

improprio chiamare quello fonatorio apparato perché prima di tutto non ha una funzione

biologica primaria necessaria alla sopravvivenza, seconda cosa perché non ci sono degli

organi deputati esclusivamente alla fonazione. Esso è una composizione di organi

ciascuno dei quali ha una funzione anche all’interno di altri apparati come quelli

respiratorio e digerente.

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L’APPARATO FONATORIO

La cavità nasale e quella orale non sono sempre completamente separate. L’aria entra

dalle narici nella cavità nasale, scende, passa dietro il velo del palato, scende, scende,

scende, e arriva alla laringe, per poi arrivare ai polmoni e tornare indietro. Durante il

rilascio dell’aria questa viene incanalata nella rete dei bronchi fino ad essere convogliata

in un unico canale, la trachea, che collega i polmoni al tratto vocale. C’è un canale di

comunicazione aperto fra cavità orale e cavità nasale, che in altri momenti è invece

chiuso; è il velo del palato che quando si alza o abbassa fa si che nel processo di ritorno

l’aria esca dal naso o dalla bocca. A livello dentale c’è una differenza sostanziale fra i

denti che utilizziamo per mangiare e quelli maggiormente utilizzati per parlare, nel primo

caso si tratta dei molari, nel secondo degli incisivi. Ma l’oggetto fisico che concretamente

dà vita alla voce è l’aria del flusso espiratorio, che prende forma di voce già al livello

della glottide. La laringe è la parte più estrema del tratto vocale ed è composta da un

certo di numero di cartilagini, una delle sue parti è la glottide, appunto quella compresa

fra due piccole estroflessioni della laringe stessa, le pliche (pieghe) vocali, o corde, le

quali si possono accostare o separare. La produzione del suono avviene grazie alla

vibrazione delle corde vocali, e alle rapide sequenze di apertura e chiusura che queste

generano. All’inizio espiriamo, poi se espirando le corde vocali sono chiuse l’aria non

esce, però l’aria vuole uscire altrimenti ci si soffoca, fa pressione e riesce a far sì che le

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pliche si allarghino po’, ma se il mio cervello vuole che esse stiano chiuse esse si

richiudono, e l’aria le riapre, e il mio cervello le fa richiudere. Generiamo così una

vibrazione. Quello che noi chiamiamo voce è ciò che si sente quando vengono messe in

vibrazione le pliche vocali durante la fase di espirazione, secondo quello che viene

chiamato meccanismo laringeo. Fra tutti gli infiniti foni che il nostro apparato fonatorio

può produrre ne utilizziamo solo alcuni, con la caratteristica che alcuni sono presenti e

peculiari solo in alcune lingue mentre possono essere assenti in altre.

Una prima distinzione fra tipi di foni che siamo in grado di produrre sta fra vocali e

consonanti. Le lettere dell’alfabeto sono state inventate per rappresentare i foni che

produciamo. Quello che noi utilizziamo è l’alfabeto latino con il quale scriviamo sia le

lingue romanze, che il tedesco, che il gallese, che quelle nordiche e anche alcune lingue

slave ed è quindi vastamente utilizzato, ma è anche vero che non tutte le lingue utilizzano

gli stessi foni e che alcuni di questi non erano presenti nella lingua latina. L’alfabeto

latino era uno strumento fatto bene per scrivere in latino, perché assecondava il principio

secondo il quale con ogni lettera si doveva rappresentare un particolare suono, ma anche

esso aveva le sue imperfezioni. Ad esempio ha un solo simbolo per ogni vocale

indipendentemente dal fatto che questa sia lunga o breve, differenza non lieve al livello di

significato, problema comunque parzialmente risolto grazie ai segni diacritici. Quando si

decise di utilizzare l’alfabeto latino per scrivere tutte le lingue che oggi lo usano nacque

da subito il problema che non tutte usano lo stesso numero di suoni, mentre bisognava

piegarle tutte sotto quell’alfabeto con le sue limitazioni. Per ovviare a problemi di suoni

presenti in queste lingue ma non presenti nel latino (tipo i suoni palatali dell’italiano) si

sono dovuti creare dei compromessi, l’uso ad esempio dei digrammi dove due lettere mi

rappresentano quel suono (es. ci-ao). Il caso del digramma ci è emblematico perché ci

dimostra come non si abbia una corrispondenza di uno a uno fra lettera e fono.

Rappresentare i foni del nostro apparato fonatorio, avere dei simboli con un carattere di

unicità suono-simbolo è pressoché impossibile quindi tutte le lingue si sono dovute

adattare a trovare dei compromessi. Quando si creava il problema di rappresentare un

fono di cui nell’alfabeto latino non esistesse corrispondenza specifica si è pensato di

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creare digrammi e trigrammi oppure utilizzare dei segni diacritici (la č negli alfabeti

slavi).

L’alfabeto fonetico internazionale permette di rappresentare tutti i foni in modo non

ambiguo e affinché ognuno possa capire di quale suono si tratti, indipendentemente delle

pronunce inapprendibili dall’ortografia. E’ stato costituito seguendo per quanto possibile il

principio ideale per cui ci dovrebbe essere un simbolo per ogni suono.

La fonetica viene divisa in tre sotto branche: la fonetica articolatoria, acustica e

uditiva. La fonetica articolatoria è quella che si occupa di quali attività fisiologiche e

motorie facciamo con il nostro corpo per produrre questi suoni. La fonetica uditiva ne

studia la percezione, la fonetica acustica li studia per le loro proprietà fisiche. Le lingue

umane sono prioritariamente sistemi fatti per essere usati parlando, l’uso scritto è

secondario sia a livello filogenetico che ontogenetico perché la scrittura è nata in un

secondo momento, sulla linea della storia dell’umanità, rispetto al parlato, per non parlare

del fatto che arrivi dopo anche nella crescita del singolo uomo rispetto all’apprendimento

orale. L’uomo come animale ha imparato prima a parlare che a scrivere così come ogni

uomo singolo impara prima a parlare e poi a scrivere.

Assodata la differenza fra suono, quindi fono, e silenzio, i foni che noi possiamo produrre

vengono fatti utilizzando gli organi dell’apparato fonatorio, muovendoli nei loro limiti e

combinandoli in determinati modi. Una prima distinzione fra foni è quella che li vede

divisi in suoni vocalici e suoni consonantici.

Le vocali sono quei tipi di foni in cui il flusso d’aria espiratorio non incontra ostacoli a

livello supralaringeo. Esse sono suoni sempre sonori. “Essere sempre sonori” richiede una

piccola parentesi: rispetto a quello che fanno le pliche vocali possiamo classificare i foni

in base a due categorie: quelli prodotti con vibrazione delle corde vocali sono detti sonori

(o voiced), quelli prodotti senza vibrazione delle corde vocali sono detti sordi (o voiceless).

Dunque quando creiamo una vocale il meccanismo laringeo c’è sempre. I parametri

responsabili utilizzati per produrre le vocali sono la lingua che può spostarsi lungo l’asse

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verticale (si sente bene pronunciando i – a – i – a) o sull’asse orizzontale (i – u – i – u ) e le

labbra che possono essere distese o arrotondate.

Quindi i parametri di formazione sono: l’altezza della lingua, il grado di anteriorità della

lingua e la posizione di arrotondamento delle labbra che quando sono arrotondate e

protratte verso l’avanti vengono dette in posizione di procheilia (quindi avremo vocali

arrotondate o procheile e non arrotondate o aprocheile).

ANTERIORI CENTRALI POSTERIORI

CHIUSE / ALTE

SEMI-CHIUSE MEDIO-ALTE

SEMI-APERTE MEDIO-BASSE

APERTE / BASSE

Per convenzione i suoni non arrotondati sono posti a sinistra della riga di corrispondenza,

quelli arrotondati a destra. Il trapezio ha la sua forma caratteristica perché rispecchia in

qualche modo una rappresentazione geometrica dell’interno della cavità orale.

Alcune vocali sono nasalizzate perché l’aria passa non solo dalle labbra ma anche dalle

narici, un esempio è la o di movete (ɔ in IPA). Durante la pronunciazione di una parola e

ancor più all’interno di una frase i foni non sono prodotti singolarmente ma uno di

seguito all’altro e può succedere che i nostri organi non facciano in tempo a cambiare

posizione completamente nella transizione da un fono al successivo, quindi capita che

alcune caratteristiche del fono precedente rimangano anche nel successivo. Ad esempio

quando una vocale è preceduta da un suono nasale o addirittura incastrata fra due suoni

nasali (es. mamma) il velo non ce la fa ad abbassarsi per favorire il passaggio del suono

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nasale per la m, rialzarsi subito per la a e riabbassarsi di nuovo per la m. Questo accade

perché il cervello manda istruzione agli organi con un certo anticipo, evitando il

passaggio brusco fra la produzione di due foni, gli organi quindi anticipano le posizioni

ancor prima di produrre la parola (in struscio a differenza di strano le labbra partono in

posizione arrotondata, non ci arrivano al momento della u).

Quando si vuole trascrivere con estrema precisione se una vocale è nasale o non nasale lo

dobbiamo indicare, e qui l’IPA presenta una piccola falla perché viola la regola del singolo

suono per il singolo simbolo. Per rappresentare vocali nasali si è deciso quindi di

aggiungere un diacritico, in questo caso la tilde. [ɔ]͂

L’arrotondamento fa capire meglio se un suono è posteriore.

La schwa [ə] non è ne alta, ne bassa, ne anteriore ne posteriore e non ha una definizione

di arrotondamento. È chiamata pertanto vocale indistinta.

Ci sono alcune anteriori arrotondate, ad esempio [y] e suona come una iu.

Le consonanti. L’IPA è l’alfabeto che usiamo per trascrivere i suoni di ogni lingua. Le

vocali vengono classificate in base ai gradi di altezza, anteriorità e arrotondamento

labiale; in più possono essere eventualmente nasalizzate. Come ogni fono linguistico

anche le consonanti vengono prodotte sfruttando il flusso d’aria espiratorio, ma mentre le

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vocali vengono prodotte senza un vero ostacolo al flusso d’aria le consonanti

differentemente si creano opponendo una qualche forma di ostacolo al flusso d’aria che

può essere di diversa natura, entità e importanza. In alcuni casi ci può essere un ostacolo

totale (come nei casi delle lettere p e b, in cui accostando le labbra generiamo un suono

solo nel momento in cui vengono rilasciate). Per classificare le consonanti ci basiamo su

questi parametri:

- Modo di articolazione: è la forza dell’opposizione che si crea la flusso dell’aria.

Rispetto al modo di articolazione riconosciamo diverse classi di consonanti, le

prime in alto a sinistra vengono chiamate occlusive (in virtù dell’occlusione creata

dalle labbra) o plosive (chiamate così per causa dell’effetto che da la piccola

esplosione che si crea quando pronunciamo la consonante, la parola deriva

dall’inglese stops) . Sono anche dette momentanee, perché si sentono solo nel

momento specifico successivo all’occlusione.

Nella tabella IPA in verticale abbiamo dunque le consonanti classificate per modo di

articolazione, partendo dall’alto verso il basso notiamo che si va dalla maggiore

occlusione alla minore occlusione. Da sinistra verso destra invece è organizzata in base al

luogo d’articolazione.

- Luogo di articolazione: è il punto in cui avviene la creazione della consonante.

Intersecando MODO: plosive, LUOGO: bilabiali, otteniamo infatti [p] e [b].

Da sinistra verso destra la tabella è organizzata non solo in base al luogo

d’articolazione, ma vediamo che in qualche modo rispetta anche l’ipotetico tragitto

che va dalla parte più esterna a quella più interna della cavità orale. Quando per uno

stesso modo e luogo di organizzazione è possibile avere sia un fono sordo che uno

sonoro, nello stesso quadratino mettiamo a sinistra il suono sordo e a destra quello

sonoro. La casella grigia significa che si ritiene che un fono che si trovi all’intersezione

di quelle caratteristiche non è fisicamente possibile, le caselle vuote ma bianche

vogliono dire che per ora un fono con quelle caratteristiche non è mai stato trovato in

nessuna lingua ma risulta fisicamente possibile da realizzare.

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Le occlusive potrebbero essere anche labiodentali ad esempio, ma non le abbiamo per

un semplice fatto storico. Gran parte dell’umanità nella gran parte della propria storia

ha vissuto in condizioni igieniche precarie, era molto comune perdere i denti e quindi

non è stato possibile lo sviluppo di un’occlusione labiodentale, perché sarebbe stata

imperfetta. In riferimento alle occlusive dentali, alveolari e postalveolari possiamo

dire che in nessuna lingua finora descritta si è trovato che siano presenti

contemporaneamente in tutti e tre i casi; ognuna, se c’è, in ogni una lingua esclude le

altre. Per l’italiano le occlusive [t] e [d] sono dentali, inglese sono alveolari essendo

un po’ più arretrate quindi ecco perché c’è quella casellona che le racchiude per tutti e

tre i modi. Nel caso in cui sia essenziale trascrivere ad empio in un testo se le

occlusive sono dentali e alveolari utilizziamo i diacritici: [t]̪. In questo caso le

parentesi quadre indicano che stiamo scrivendo il suono così come si pronuncia e quel

diacritico ̪ determina che esso è dentale, quindi è inconfondibile che sia la t

pronunciata da un italiano anziché da un inglese. Retroflesse: flesse all’indietro. È la

parte anteriore della lingua che quando pronuncia la consonante si retroflette appunto

all’indietro. Le palatali sono poco usate nelle lingue romanze e in inglese. Velari: un

esempio può essere la [k] che usiamo per pronunciare che. Glottidali: è presente solo

quella sorda, e l’occlusione avviene al livello della glottide. Sono le pliche vocali a fare

l’occlusione ed è utile notare come facendo il lavoro di occlusione sulle pliche non si

può avere allo stesso tempo il meccanismo laringeo, cioè significa che l’occlusiva

glottidale sonora è fisicamente impossibile. Un esempio di occlusiva glottidale sorda si

trova nella frase Nel 2013 ci sono le lezioni dove, per non far confondere le lezioni con le

elezioni interrompiamo per un attimo il meccanismo laringeo e poniamo enfasi sulla l-

di lezioni.

Nell’articolazione di una consonante possiamo riconoscere tre momenti: un momento

di impostazione in cui faccio l’attività motoria che serve per portare gli organi nella

posizione di creare quel particolare fono, un momento della tenuta, cioè l’attimo in cui

gli organi sono in contatto (nel caso di un’occlusiva il momento della tenuta è quello

in cui non si sente niente) e un momento di rilascio o soluzione quando stacco o

allontano quello che era andato a toccarsi o avvicinarsi.

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Nasali. Tutte le lingue hanno almeno un fono nasale, i cui suoni vengono creati

quando il velo è abbassato e l’aria esce dal naso. Le nasali sono parzialmente

occlusive, o meglio occlusive in forma non piena. Sicuramente abbiamo un’occlusiva

bilabiale, ad esempio nel caso della [m] di mamma il suono di -ma è definitivamente

diverso da [p] e [b]. L’occlusiva vera non posso tenerla per molto tempo, cosa che

invece posso fare per le nasali. Le nasali a differenza delle occlusive non sono

momentanee, sono dunque sì occlusive ma non plosive o stops. Anche per questo

motivo per l’italiano si preferisce definire le occlusive come plosive. I punti di

articolazione delle nasali sono un po’ gli stessi delle plosive, ma vediamo ad esempio

una nasale labiodentale [ɱ]. Da notare come graficamente si tenda ad allungare

simboli identici per indicare come il punto di articolazione si sposti verso l’interno. La

nasale labiodentale è quella che si sente “bloccando” la pronuncia della parola invece

sulla -n, quando il punto di articolazione è fra il labbro inferiore e l’arcata dentale

superiore. La nasale palatale [ɲ] ci fa capire benissimo qual è il punto di articolazione

palatale, è quella che si pronuncia con la gn- di gnocco o ragno. La nasale velare [ŋ] si

sente bene bloccando la pronuncia sulla -n di angolo, si percepisce bene come la

lingua sia ulteriormente arretrata rispetto a gnocco. In italiano le nasali si realizzano in

base alle vocali o al punto di articolazione delle fricative dalle quali sono seguite, più

precisamente.

Fricative sono il modo di articolazione più utile di studiare la fonetica perché ce ne sono

sia di sorde che sonore in ogni punto di articolazione. Per ottenerle non occorre effettuare

un’ostruzione completa all’uscita del flusso d’aria espiratorio, quindi anche questi sono

BILABIALE LABIODENTALE ALVEOLARE PALATALE VELARE

NASALE [m] [ɱ] [n] [ɲ] [ŋ] SI VERIFICA

CON FRICATIVE

Bilabiali [p], [b]

Labiodentali [f], [v]

Dent. Alv. Post.

[θ], [s], [z], [ʃ], [ʒ]

“gn” Velari [k], [g]

VOCALI

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suoni continui, l’aria può uscire completamente durante la tenuta dell’articolazione del

fono però c’è una forte restrizione del canale, gli organi si avvicinano tantissimo pur non

occludendosi completamente. L’aria crea un rumore di frizione, di sfregamento, dovendo

passate all’interno di una strettoia. Le bilabiali non sono usate nell’italiano, ma molto

nello spagnolo, molto comuni sono invece le labiodentali. Nell’aria dentale, alveolare,

postalveolare ci sono tutti i suoni, e l’inglese li conosce tutti. Le fricative (inter)dentali si

realizzano ponendo la lingua al disotto dei denti superiori e fra quelli inferiori. Il pasticcio

dell’alfabeto inglese sta nel fatto che si usa un digramma (th) sia per le fricative dentali

sorde che per quelle sonore. Think è sorda, the è sonora. Le fricative alveolari ce le

abbiamo in italiano in molte parole, le postalveolari sono presenti in alcuni casi ovunque

(es. la sorda di scemo) o in alcune varietà (pagina che in fiorentino diventa pronunciata

con la fricativa postalveolare sonora). La fricativa velare sorda l’abbiamo in tedesco

(‘ach’) quella sonora pare che sia presente nel teramano, la fricativa glottidale sorda è la

pronuncia della h presa da sola. Avviene con le pliche vocali leggermente avvicinate ma

non in occlusione e la frizione avviene proprio in quel punto.

C’è un tipo di articolazione consonantica che chiamiamo delle consonanti affricate. Esse

non sono presenti nello schema perché una consonante affricata ha l’impostazione e la

tenuta come quelle di un’occlusiva ma il rilascio non è istantaneo, bensì ritardato. È un

tipo di fono che inizia con un occlusiva ma viene rilasciata come una fricativa. L’esempio

è la pronuncia di [ʦ] (Lazio, Pizza). Sono articolazioni complesse perché composte da

componenti di articolazione appartenenti a diversi modi, perciò l’IPA decide di

rappresentarli con più simboli, quelli dei modi di articolazione. Capiamo che stiamo

pronunciando una zeta e non “ts” mettendo un semicerchio sopra il digramma, così: [ts͡] .

In italiano per rappresentare le affricate è stato scelto di usare digrammi come

<c> ʧ <ci> cielo

<g> ʤ <gi> già.

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Altre volte, in presenza delle stesse lettere, non vengono usati digrammi invece

[k] casa, cono

<c> cena, Cina

<g> gelo, Gino

Dove nel latino c’erano delle assimilazioni ‘azione’ ACTIONEM che nell’italiano

standard hanno creato parole con l’affricata lunga si è verificato che a volte questa <z>

si scrivesse doppia, a volte da sola. La <z> infatti può rappresentarmi affricate sia brevi

che lunghe, sia sorde che sonore: /tts/ ‘azione’, /ts/ ‘zio’, /dz/ ‘zaino’, /ddz/ ‘azoto’,

<zz> ‘mazzo’ quindi l’ortografia decide arbitrariamente come rappresentare quelle

parole. Le affricate ci danno quindi un bell’esempio di come le ortografie storiche non

soddisfino la realtà fonologica di quello che si ha in una lingua perché sono di solito

frutto adattamenti di un’ortografia che proviene da una lingua diversa.

Le vibranti. Sono tipi di foni articolati ponendo in vibrazione qualche organo della cavità

orale: l’apice della lingua, l’ugola (parte terminale del velo del palato) e labbra. Quella

che conosciamo meglio è [r], la vibrante apico-alveolare con l’apice della lingua che vibra

all’altezza degli alveoli. Anche se ci sono delle rapidissime occlusioni il flusso d’aria non è

veramente ostruito. È molto comune che alcune persone non siano in grado di produrre

questa vibrante, è il fenomeno della erre moscia, e accade quando il nostro copro non è in

grado di produrre rrrrrrrrrrr. Non tutti quando hanno la erre moscia però producono lo

stesso tipo di suono, una possibile realizzazione è la vibrante uvulare [R] (la erre dei

francesi). Un'altra vibrante è quella che si ottiene facendo la pernacchia (viene utilizzata

infatti per obiettivi paralinguistici), detta vibrante bilabiale.

Le monovibranti. Sono vibranti ma hanno una sola vibrazione, ad esempio al <r> di

quando pronunciamo ‘arà’. La monovibrante labiodentale è stata una delle ultime ad

essere scoperta.

Le approssimanti. Sono una specie di anello di congiunzione fra vocali e consonanti nel

senso che sono foni in cui l’ostacolo al flusso dell’aria è minimo, quasi inesistente ma c’è

una tensione muscolare che si realizza nel momento in cui poniamo gli organi per

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realizzare la consonante che è superiore a quella utilizzata per produrre le vocali.

L’approssimante labiodentale (sonora) [ʋ] viene fatta avvicinando un po’ labbro inferiore

e denti superiori ed è uno dei foni che può sostituire la <r> per chi ha la erre moscia, es.

caro caVo. L’approssimante palatale [j] è quella che troviamo ad esempio in piano

[ˈpja.no] dove il trattino dritto ci indica dove sta l’accento e il puntino la divisione

sillabica. Un'altra approssimante presente in italiano è la [w] che si pronuncia “uw”.

Capire qual è il punto di articolazione in questo caso non è facilissimo, perché c’è sia

labialità che velarità, infatti è chiamata approssimante labiovelare, è pertanto fuori dallo

schema IPA.

Le laterali. Sono laterali perché realizzate in modo che ci sia in qualche punto al centro

della cavità orale una ostruzione che possa arrivare anche all’occlusione lingua-palato ma

i lati della lingua sono abbassati. In italiano che ne sono un paio, la più comune è la elle.

In comune con le approssimanti hanno la scarsissima opposizione alla fuoriuscita

dell’aria. Poi c’è la laterale palatale [ʎ] che è anche comune, la “gl” di giglio ad esempio.

Anch’essa ha il problema che nell’ortografia storica dell’italiano non c’è un unico simbolo

per rappresentarla ed è dunque sempre rappresentata da un digramma o da un digramma.

Gli [ʎi] con il simbolo IPA a rappresentare il digramma <gl>, mentre in aglio [aʎːo] il

simbolo rappresenta il trigramma <gli> e i due triangolini che si guardano

rappresentano il fatto che la pronuncia è lievemente più lunga. A volte al posto dei due

puntini si raddoppia il simbolo; in genere con le vocali si rappresenta la lunghezza con i

due punti, con le consonanti il raddoppio.

Ogni lingua ha foni più lunghi e foni più brevi

ˈp aː n e

ˈp a n iː n o

Possiamo avere una differenza di realizzazione delle parole in termini di lunghezza anche

se sul piano del contenuto non c’è differenza. La differenza di durata delle vocali, per

l’italiano, non comporta una differenza nel contenuto come capita per le consonanti

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papa p a p a

pappa p a p ː a.

In inglese è esattamente l’opposto: pronunce diverse delle stesse vocali danno luogo a

significati diversi.

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Fonologia Dalla sostanza (foni concretamente prodotti e percepiti) passiamo alla forma (i fonemi)

del piano dell’espressione. Il rapporto fra materia e forma non esiste solo sul piano del

contenuto (vedi spostarsi in aereo, in macchina e a piedi in italiano e tedesco) ma anche

sul piano dell’espressione. La materia del piano dell’espressione è uguale per tutta la

specie, tutti possono produrre i foni presenti nella tabella IPA, ma può essere formata in

modo diverso in lingue diverse. Di alcune differenze fisicamente sussistenti ci possiamo

rendere conto con l’udito.

Ci sono dei segni linguistici, detti minimi: quando scomponiamo una parola ad un livello

in cui ogni pezzo ha significante e significato, andando a scomporre ancora perderemmo

biplanarità, cioè rapporto fra significante e significato.

Alcuni esempi

[ˈp aː n] + e

[ˈp a n] + iː n + o

Il segno linguistico minimo si chiama morfema. Vediamo che sia in pane che panino

all’inizio della parola ho lo stesso morfema /pan/ (alimento fatto di farina, cotto al forno

ecc…), nel secondo caso abbiamo /in/ che è un suffisso che ci da l’idea di diminutivo e

poi abbiamo /e/ e /o/ che ci danno l’idea di singolarità della cosa. Sappiamo che il pan-

di pane e il pan- di panino sono la stessa cosa. il significato è “l’alimento fatto con la farina

ecc…” e il significante appare ancora identico. Possiamo però realizzare lo stesso

significante in maniera diversa, come nel caso della [a] lunga di pane, molto più lunga

della stessa [a] di panino.

L’utilizzo delle parentesi: per indicare che stò descrivendo un’entità con caratteristiche

concrete, entità fonetiche del livello concreto fisico, utilizzo parentesi quadre mentre per

indicare le entità di livello astratto, entità della fonologia del livello mentale, utilizziamo

le barre oblique o forward slash /pan/.

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Tutte le entità del livello astratto si realizzano infinite volte nella dimensione concreta, a

livello astratto si tratta sempre delle stesse entità, a livello concreto è quasi impossibile

che si verifichino in maniera completamente identica. Le entità di livello concreto che

studiamo nell’ambito concreto della fonetica sono detti foni, le entità del livello astratto

sono invece i fonemi e fanno parte di quella branca della linguistica chiamata fonologia.

Nell’area fonologica non si indica la lunghezza delle vocali perché in italiano la lunghezza

delle vocali non è pertinentizzata per distinguere i significanti.

Trascrizione fonetica e fonologica di ‘pane’

Fonetica: [ˈp aː n e]

Fonologica: / ˈpane /

Livello astratto Livello concreto / fisico /pan/ [ˈp a ː n] + e (oppure i)

[pa ˈn] + iː n + o (oppure i) Fonologia Fonetica Langue – gli elementi sono dotati di significante e significato Parole – tratta unità dotate di significante ma prive di

significato La durata delle vocali. Elementi omofoni sono elementi uguali nel significante (/pan/ in

pane e panna) quindi costituiti degli stessi fonemi, ma non nel significato. Un esempio più

lampante è / r a i t / che in inglese indica sia wright che right. Ciononostante nel caso di

pane una [a] si allunga mentre in panino no. La realizzazione di vocali lunghe e bervi in

italiano è regolata dal fatto che in italiano una vocale si allunga quando è presente in

sillabe (δ) accentate, dette anche toniche. La sillaba è l’unità fonetica minima che il

nostro organismo è in grado di produrre e di percepire. Nel caso della parola panna

notiamo che la [a] non è lunga, questo perché in italiano le vocali si allungano anche

quando sono in sillabe aperte, sillabe cioè che terminano per vocale. Le chiuse si

dividono nei casi in cui dopo la vocale troviamo delle consonanti lunghe (il caso di panna,

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è quando in ortografia si va a capo per dividere le parole: pan -> A CAPO - > na). Le

vocali si allungano inoltre quando sono nella non ultima sillaba, ecco perché la sillaba

finale di papà, nonostante sia tonica e aperta non ha una a lunga. Studi dimostrano che

quando la vocale è in sillaba aperta e accentata in penultima è sempre più lunga di quella

che è in terzultima (la [a] di [p a ˈt aː t a] è più lunga della [a] di [ˈp a ː ʤ i n a]) che però

a sua volta è sempre più lunga di quella presente nella finale della parola.

In italiano l’opposizione di lunghezza vocalica non ha valore distintivo, non si possono

distinguere morfemi o parole solo per il fatto che uno abbia la vocale più lunga o più

breve. Fonologicamente il discorso è opposto per il latino, una lingua che dà alla

lunghezza delle vocali carattere distintivo.

[m a . l u + m] male /malu/

[m a ː . l u + m] mela /maːlu/

In latino si riconoscono due diverse entità astratte e mettendone una al posto dell’altra

potenzialmente mi può cambiare il significato della parola.

Qui ci si introduce il concetto di coppia minima, in cui la differenza di un solo suono è

sufficiente ad individuare significati diversi. In italiano abbiamo /pane/ e /pone/. Capire

se ci troviamo di fronte ad una coppia minima è molto importante per capire se due foni

appartengono o meno allo stesso fonema; in quanto se così fosse, due foni costituenti

coppia minima ci darebbero l’idea che esistono almeno altrettanti fonemi.

Es. la parola [ p̍ a s. t o]

Decidiamo di commutare l’elemento [p] con [b]. Abbiamo dunque [ _̍ a s. t o] che può

essere sia [ p̍ a s. t o] che [ b̍ a s. t o]. I suoni [p] e [b] sono dunque in opposizione fra

loro dopo aver eseguito la prova di commutazione perché se sostituiti danno luogo a

due parole dal significato diverso. Saranno pertanto foni di almeno altri due fonemi /p/ ̴

/b/, dove “ ̴” indicherà “in opposizione con”.

In latino l’opposizione delle parole malum - mela e malum - male non è nell’opposizione

segmentale di due vocali, ma di quei fattori chiamati soprasegmentali (cioè al di là di foni

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e fonemi, modi e luoghi di articolazione delle vocali e consonanti, anteriorità delle vocali

ecc…). In latino la differenza di durata delle vocali ha valore distintivo perché può

distinguere i significati. Morale della favola: la stessa realtà fisica (vocale lunga, vocale

breve) viene formata in modo diverso in lingue diverse, in italiano questa differenza non è

pertinentizzata, in latino dove si oppongono avendo valore distintivo anche vocali aventi

differente lunghezza, è invece una differenza pertinentizzata.

In italiano ogni fonema vocale ha almeno due allofoni, uno breve e uno lungo. /a/ [a]

breve e [aː] lungo

[ˈp a ː n e]

[ˈp a n. n i]

Notiamo che la /a/ può essere sia lunga che breve, ma allo stesso tempo, a seconda della

varietà regionale, potrebbe essere pronunciata [ɑ], [a], o [æ]. In ogni caso realizzare un

diverso fono non cambia il senso della parola, in quanto ogni diversa realizzazione

rimanda alla stessa unità del significante linguistico. Questi suoni non stabiliscono fra loro

opposizioni distintive, distinguendo quindi diversi elementi del lessico; pertanto sono

allofoni, cioè diverse realizzazioni fonetiche dello stesso fonema. Un fonema è un’unità

esclusivamente formale, non è un suono fisico ma una classe di elementi che svolgono

tutti la medesima funzione nella distinzione tra le diverse unità del lessico.

Sono state fatte delle misurazioni per vedere le lunghezze di questi due casi in sillaba

penultima accentata aperta e chiusa (una sillaba è aperta quando è priva di coda, chiusa

quando la presenta): nel 1900 con gli strumenti dell’epoca la prima risultava 260 ms, la

seconda 170 ms. nel 1976 le misure erano di 207 ms e 107 ms e nel 1999 avevamo 177

ms e 126 ms. Anche se cambia la durata della pronuncia la differenza fra le due rimane

pressoché immutata, ciò conferma ancora che questa situazione di differenze materiali,

questa differenza fisica, come già detto l’italiano non la pertinentizza. Le due realizzazioni

dell’entità /a/ della lingua italiana sono due realizzazioni che chiamiamo allofoni

(allofono è ciascuna realizzazione che deriva da un fonema) e sono dette in distribuzione

complementare.

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DISTRIBUZIONE COMPLEMENTARE

A B

Ciò significa che ognuno di due o più foni simili appaiono solo in un determinato

contesto, e che in quel contesto possa apparire solo quell’allofono, mai l’altro, dunque la

somma di tutti i contesti possibili mi esaurisce quei due allofoni. In altre parole nei

contesti in cui appare l’elemento A, l’elemento B è escluso e viceversa. Quando due

elementi sono in distribuzione complementare, vanno considerati come due varianti della

stessa unità fonologica in quanto non possono costituire due unità separate.

Tornando alle misurazioni di sopra, notiamo che questa differenza materiale di lunghezze

fisiche magari anche non molto diverse in italiano non è pertinentizzata, dunque

allungare o accorciare la pronuncia di una vocale non cambia il senso della frase. In altre

lingue (es. latino) veniva invece pertinentizzata nel senso che la differenza della

lunghezza della durata di due fonemi diversi indicavano due significati diversi. [a] e [aː]

in latino sono dunque in distribuzione coincidente, e formano una coppia minima.

DISTRRIBUZIONE COINCIDENTE

A,B

Quando due entità sono in distribuzione coincidente possono sia essere che non essere

allofoni dello stesso fonema, pertanto sarà indispensabile trovare le coppie minime per

stabilirlo. D’altro canto, solo elementi che si trovano in distribuzione coincidente o

sovrapposta possono dar vita a coppie minime.

Quello della distribuzione è quindi un altro esame per determinare l’inventario

fonologico di una determinata lingua. Ecco come lo realizziamo graficamente.

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Utilizziamo il simbolo # come simbolo di inizio e fine della parola. Il fono da studiare lo

mettiamo fra parentesi quadre, poi una grossa barra obliqua (più grossa di quella usata

per indicare il fonema) che si legge “nel contesto di”. Poi c’è la lineetta bassa (varie

appiccicate) che è determina la zona in cui quel fono dovrebbe capitare all’interno della

parola.

Es.

[ ] / # ___ - il fono si trova in inizio di parola

/ ___ # - il fono si trova in fine di parola

/ V ___ V – il fono si trova in contesto intervocalico

/ C ___ C – il fono si trova fra due consonanti

In base alla distribuzione di determinati foni possiamo stabilire se essi sono allofoni di

uno stesso fonema o di fonemi diversi anche senza incontrare la coppia minima.

ITALIANO

/a/ fonema [a] [a˙] [aː] allofoni fono fono fono

/__ # in δ aperta in δ atona in δ tonica in δ chiusa in δ penultima

LATINO

/a/ /a/

[a] [aː]

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Vediamo ora se le affricate [d͡z] e [t͡s] sono allofoni della stesso fonema

[dz͡] [ts͡]

zaino zio

/# __ [d͡z a. i. n o] [ˈt͡ s i. o] [ˈd͡z i. o] / __ # / V __ V [ˈr a d. ͡dz o] [ˈp a t. ͡ts o]

Notiamo che in inizio di parole ci sono entrambe, così come in contesto intervocalico. In

posizione intervocalica entrambe si realizzano sempre lunghe. Una coppia come pazzo e

razzo non è una coppia minima perché nonostante <p> e <r> realizzino due foni

diversi anche la doppia zeta è foneticamente indicata da due foni diversi. Potremmo

comunque dire che:

Ca___ o # valga per entrambi.

In conclusione dunque, analizzando la distribuzione delle due affricate notiamo che sono

in distribuzione coincidente e sono allofoni di due fonemi distinti. Dunque se la

distribuzione coincidente può verificare una coppia minima (vedi le realizzazioni di /a/

per il latino) non è detto che quando sono in distribuzione coincidente due allofoni

appartengano allo stesso fonema. Nell’italiano esistono anche casi di distribuzione

coincidente in cui non si generano coppie minime, e gli elementi sono in allofonia. Uno

di questi casi è quello della vibrante [r] che può essere realizzata anche similmente a

quella francese [ʁ] che è un’approssimante uvulare o come la più nota “erre moscia”, o

più tecnicamente approssimanete labiodentale [ʋ]. I tre foni sono in distribuzione

coincidente perché possono cadere nello stesso punto della parola e in rapporto di

allofonia fra di loro perché costituiscono tutte realizzazioni dello stesso fonema, ma non

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danno luogo a coppia minima in quanto preferendo uno piuttosto che un altro non viene

alterato il significato della parola.

La lunghezza delle consonanti in italiano è pertinentizzata, possiamo avere quasi tutte le

consonanti sia lunghe che corte, a parte alcune che sono ad esempio sempre lunghe in

posizione intervocalica, o la <z> sempre breve.

Abbiamo visto come la distribuzione di foni possa essere complementare e coincidente.

Due foni sono in distribuzione coincidente perché possono stare nello stesso insieme di

contesti (inizio di parole, intervocalica, fine di parola, lunghi); e se metto uno al posto

dell’altro potenzialmente potrei avere una coppia minima. Tata tapa (spuntino), tatto

tappo. Qui abbiamo commutato, sostituito un’entità di tipo linguistico con un’altra entità.

Quando abbiamo una distribuzione coincidente, essa è contrastiva. Un terzo caso

possibile è quello della distribuzione sovrapposta. In certi contesti posso trovare solo

l’elemento A, in certi contesti solo l’elemento B, è quindi un’occorrenza parzialmente

coincidente. Anche in questo caso la distribuzione è contrastiva. Due elementi sono in

grado di contrastare se messi nello stesso contesto possono dare vita a due significati

diversi.

DISTRIBUZIONE SOVRAPPOSTA

A B

<m> e <n> sono in posizione sovrapposta ma non coincidente. La distribuzione

sovrapposta ha una sottoparte che è distribuzione coincidente, è quindi parzialmente

contrastiva. La distribuzione contrastiva è la distribuzione che hanno due foni la cui

distribuzione coincide in tutto o in parte.

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m n /# __ V mano nano / V __ V amo ano / __ # rum amen / __ / b/, /p/ bambino / */nb/, /np/ zampa / __ / d/, /t/ / / antico */md/, /mt/ andare Dove l’asterisco indica che non sono sequenze possibili

m / # __ n / __ /p, b/ / V __ V / __ / t, d / / __ #

Dato l’esercizio 34 p. 35 notiamo che la distribuzione di [g] (occlusiva velare sonora) è

sempre preceduta dalla nasale velare e seguita da vocale o da un’approssimante (la G

maiuscola indica glide, cioè approssimante). [ɣ] (fricativa velare sonora) lo troviamo

sicuramente in inizio di parola seguito da vocale, in posizione intervocalica e in inizio di

parola seguito da [r] oppure preceduto da [r] e seguita da vocale. I due foni sono i

distribuzione complementare perché non hanno elementi che coincidono. Non esistono

coppie minime fra le due. Potenzialmente non potranno mai contrastare, quindi [g] e [ɣ]

risentono delle restrizioni fonotattiche. Ogni lingua presenta delle cosiddette restrizioni

fonotattiche, restrizioni relative alla disposizione dei foni. In italiano ad esempio non

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possiamo fare ‘psicame’ quindi anche se l’italiano contempla i due foni occlusivo [p] e

fricativo [ʃ] essi non possono essere messi in sequenza.

[g] e [ɣ] sono allofoni dello stesso fonema. Sono due realizzazioni della stessa unità. Sono

entrambe sonore ed entrambe velari, una è occlusiva e una è fricativa, ma probabilmente

in quella lingua c’è un fonema univoco /ɣ/ che viene realizzato in quei due modi. Sono

allofoni di uno stesso fonema in distribuzione complementare. Quasi sempre in casi come

questo avviene la distribuzione complementare. C’è poi il raro caso della variazione

libera, cioè in caso in cui possono scambiarsi nello stesso contesto senza che succeda

niente sul piano del significato. La erre le la erre moscia ne sono un esempio.

Fino ad ora si è notato che due foni in distribuzione coincidente possono dare luogo a

coppie minime, ma non necessariamente ad allofonia. Al contrario due foni in

distribuzione complementare non creano coppie minime ma possono essere allofoni dello

stesso fonema.

Nel caso di [g] e [ɣ] notiamo come un allofono sia condizionato dal contesto postnasale,

l’altro è invece sempre altrove, cioè tutti i contesti tranne il postnasale. I fonemi vengono

chiamati con il simbolo dell’allofono che ha la distribuzione più ampia. Questi due

allofoni sono in distribuzione complementare e vengono detti anche varianti

combinatorie poiché in combinazione con un contesto ne trovo uno, in combinazione

con un altro contesto ne trovo un altro.

/ɣ/

[ɣ] [g] altrove /ŋ __

Questo è il caso più comune, la stragrande maggioranza dei casi di allofonia che sono

nelle lingue sono di variazione combinatoria, saranno cioè condizionati dal contesto che li

circonda. Non bisogna guardare solo al contesto segmentale (i foni che circondano quello

di interesse) ma anche al contesto soprasegmentale, come nel caso in cui due allofoni si

distinguano per lunghezza. Si vedono infatti come sono le sillabe e in che posizioni sono,

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non quali fonemi circondano quello che ci interessa. Soprasegmentale: insieme di fattori

come la durata, l’accento l’organizzazione in sillabe ecc.

Un ulteriore caso combinatorio, seppur meno comune, è quello in cui i due allofoni siano

varianti libere, quindi non sono in distribuzione complementare e non sono condizionati

dal contesto, sono invece come minimo in distribuzione coincidente o sovrapposta (e

contrastiva).

La situazione della /s/ fricativa velare sorda da luogo a diversi fenomeni in tre diverse

varietà della lingua italiana: varietà settentrionale, toscana e meridionale. Nella varietà

romana gli allofoni [s] e [z] di /s/ in posizione intervocalica sono in variazione libera,

non sono in variazione libera ad inizio di parola seguiti da vocali. Quando segue una

consonante sorda avrò l’allofono sordo, quando segue una consonante sonora avrò

l’allofono sonoro, in questo caso sono in distribuzione complementare. In alcuni contesti

allora questi allofoni sono in distribuzione complementare, in altri sono in variazione

libera. Nelle varietà settentrionali, nel contesto iniziale seguito da vocale e in quello

preconsonantico abbiamo la stessa realizzazione, in quello intervocalico invece abbiamo

sempre la sonorizzazione. Quindi abbiamo sempre distribuzione complementare. A

Firenze in contesto intervocalico abbiamo addirittura delle coppie minime: f u s o – f u z o

/ k j ɛ se – k j ɛ z e. participio passato di fondere e fuso della bella addormentata, passato

remoto di chiedere e plurale degli edifici di culto. Ci sono anche singole parole come

‘rosa’ che non ammettono una realizzazione sorda (* r ɔ s a – r ɔ z a). Viene spontaneo

(non solo in fiorentino) sonorizzare in posizione intervocalica perché è proprio l’apparato

fonatorio che nel processo di realizzazione dei singoli foni fa vibrare la laringe in [r], [ɔ]

e nella [a] finale, pertanto le riesce più facile fare tutto come sonoro che bloccarsi solo

per pronunciare una /s/ sorda.

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VARIANTI LIBERE /s/

[s] [z]

/ # __ */ # __ VARIETA’ ROMANA / V __ V / V __ V / __ {p, t, f / __ {b, v, d */ V __ V / V __ V VARIETA’ SETTENTRIONALE VARIETA’ FIORENTINA

Il toscano si differisce veramente in contesto intervocalico e ci offre anche esempio di un

altro fenomeno, e cioè la neutralizzazione. Vuol dire che in altri contesti l’opposizione

viene neutralizzata come prima delle consonanti. La situazione di [s] e [z] in toscano è la

stessa di [d͡z] e [ts͡] nelle altre varietà. Anche questi due allofoni danno luogo a

pochissime coppie minime, anzi una sola riscontrabile nella differenza fra la [r a t t s a]

umana e la [r a d d z a] pesce.

SISTEMA VOCALICO TURCO

anteriori centrale posteriori alte i y [+ROUND] ɨ [-ROUND] u [+ALTO] non arrotondate arrotondate [-ALTO] medio-alte e ø o [-ARRETRATO] [+ARRETRATO] [-BACK] [+BACK] ɑ bassa

Quelli nel trapezio sono i fonemi vocalici del turco (in maiuscolo e tra parentesi quadre i

tratti fonologici). Il modo in cui tutte le lingue danno forma ai suoni concretamente

utilizzati nel loro repertorio è quello organizzarli per tratti distintivi. Questi tratti sono

le proprietà che ogni fonema possiede, ciascuno dei quali consente di differenziare ogni

fonema dagli altri. Il tratto comunque non è un’unità della lingua, in quanto non può

presentarsi singolarmente ma solo combinarsi in fasci simultanei con altri tratti, creando

quindi singoli fonemi. Quelle che già conosciamo sono le caratteristiche articolatorie di

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questi suoni linguistici. Su questa realtà materiale che distingue altezza, anteriorità,

apertura e opposti dobbiamo vedere come la lingua turca dà questa materia fisica fonetica

concreta impone una forma fonologica. Tutte queste otto vocali si oppongono per

opposizione di tre tratti distintivi. Un tratto distintivo è la proprietà che un fono può

avere (un tratto fonologico non è uguale a un tratto fonetico, seppure tratti fonologici e

fonetici sono in rapporto fra loro). Considerando i tratti fonetici, se andiamo a guardare il

trapezio notiamo che abbiamo tre varietà di altezza, e nel caso di questa lingua le spacca

in due: alte e non alte. [+ALTO] raccoglie fonemi che sono effettivamente alti, [-ALTO]

identifica invece un grande range di vocali, le differenze fisiche vengono accorpate, a

livello fonologico, in un unico gruppo. Abbiamo anche foneticamente tre gradi di

anteriorità, spaccate però dal turco in due fra vocali con tratto [+ARRETRATO] e [-

ARRETRATO]. Come terza cosa vediamo l’opposizione fonetica fra vocali arrotondate e

non arrotondate, in questo caso viene mantenuto anche fonologicamente. Nella zona [+

BACK] si può notare come, a livello di altezza e anteriorità le coppiette (ɨ, u / o, a) siano

molto più distanti rispetto a quelle dello spazio [- BACK]. Lo schema ci fa capire come

sulla forma fisica si imponga una forma astratta.

[arretrato] - +

[arrot.] [arrot.] - + - +

i y ɨ u - [basso] +

e ø ɑ o

In questo secondo schema, dimostrandoci ancora più sinteticamente quale sia

l’opposizione fra i tre stati, possiamo descrivere in maniera più simmetrica come vengono

distribuiti gli otto foni vocalici del turco.

Ortograficamente le vocali del turco sono rappresentate in questo modo:

i <i> y <ü> ɨ <ı> u <u> e <e> ø <ö> a <a> o <o>

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I fonemi possono essere scomposti in tratti. Questi tratti sono organizzati in maniera tale

da avere valore binario (ad es. l’arrotondamento o c’è o non c’è); questo è uno degli

esempi in cui noi vediamo l’arbitrarietà nel piano dell’espressione.

Nel turco è presente la cosiddetta armonia vocalica. È un fenomeno assente nell’italiano

standard, infatti quando questa manca una parola può contenere qualunque sequenza di

vocali (foneticamente parlando), in turco invece c’è questa legge per cui all’interno di una

parola le vocali devono concordare (tecn. armonizzarsi) avendo tutte lo stesso valore del

tratto più o meno arretrato. Devono essere insomma o tutte arretrate o tutte non arretrate.

Prendiamo le parole ‘adam’ (uomo) e ‘ev’ (casa) che sono al singolare; quando facciamo il

plurale aggiungiamo un suffisso, che inizia con una laterale e termina con una vibrante e

ha in mezzo una vocale che sarà sempre + bassa e – arrotondata. In questa lingua le

vocali che formano i plurali possono essere solo /a/ e /e/ (entrambe basse e non

arrotondate) pertanto la vocale precisa che troveremo in ogni plurale dipenderà dal

valore di arretratezza dell’ultima vocale della parola da pluralizzare. La vocale del suffisso

si armonizza col valore di arretratezza dell’ultima vocale presente nella base.

adam + l V r l a r +bassa -arrotondata ev + l V r l e r +bassa -arrotondata - arretrata [d i ʃ ] + l e r (dente) +bassa -arrotondata +arretrata [k ɨ z ] + l a r (ragazzi) +bassa -arrotondata

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Le rappresentazioni fonologiche attualmente sono concepite come rappresentazioni

multiplanari o multilineari cioè organizzate secondo molteplici piani o linee. C’è un

livello verso il quale tutte le informazioni degli altri piani convergono, il livello della

semplice successione di elementi nel tempo (ci rappresenta la nozione della durata), detto

ossatura o durata o skeleton. È una sequenza di elementi talmente ancora non specificati

da essere rappresentati con delle X. Ogni tratto di quelli che vanno a comporre vocali e

consonanti sostanzialmente è un autonomo piano di rappresentazione, oltre a quelli di

arrotondamento, altezza e arretratezza c’è anche il piano della struttura sillabica, che

potremmo collocare al di sopra dello skeleton e separato da quelli dell’arrotondamento,

dell’altezza e della profondità. Una sillaba è una sequenza di fonemi, e le sillabe hanno

caratteristiche universali per tutte le lingue. La sillaba viene rappresentata con schemini

detti diagrammi ad albero, tale rappresentazione ci spiega meglio come si strutturano le

sillabe e ci aiutano a capire meglio anche l’universalità di queste. Una di queste parti

universali è il nucleo, cioè la parte in cui il picco di sonorità ha luogo. La parte che

precede il nucleo è detto attacco sillabico, mentre quella che lo segue è la coda. La

sillaba può comunque essere costituita anche di un solo elemento. Un esempio di questa

cosa è la prima sillaba della parola adam, costituita dalla sola <a>.

σ

Attacco Rima

Nucleo Coda

I foni possono essere rappresentati anche dal punto di vista della forza che ci vuole per

pronunciarli. Questo piano è stato riconosciuto come una scala di forza (pag. 131).

Andando verso il nucleo il grado di forza deve diminuire, dopo il nucleo deve decrescere.

Un altro parametro è cosa può fare da nucleo ad una sillaba, in italiano sono solo vocali,

in altre lingue anche consonanti sonoranti.

Il giapponese sembrerebbe permettere sillabe costituite di solo nucleo/vocale (okagede),

ma permette anche sillabe costituite da un attacco + nucleo. A differenza dell’italiano

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non troviamo attacchi complessi ha quindi dei metodi di formulazione sillabica più poveri

dell’italiano (quasi tutti vocale e consonante). In giapponese anche le code sono rare, fra

quelle in esempio l’unica è la <n> in honda. Ciò ci fa notare che in giapponese le sillabe

possono avere code solo nel caso in cui si ha una nasale con lo stesso punto di

articolazione della consonante seguente (nasali onorganiche alle consonanti successive) o

la prima metà di una geminata (es. hattori). Una geminata è una consonante lunga

(doppia). Essa è composta da due unità al livello dello skeleton, al livello di tutti i tratti

che mi dicono che tipo di consonante è, essa però è un unico elemento.

Visto che il giapponese non può articolare come l’italiano né come l’inglese tende ad

adattare le parole. Karaoke ad esempio è composta da ‘kara’ (giapponese, vuoto) e

l’adattamento di orchestra in ‘oke’. La coda -r non è permessa in giapponese, quindi è stata

eliminata come segue: orchestra – oche – oke.

La parola inglese per sciopero, strike / s t r a i k / era ancora più difficile da adattare visto

che per ogni consonante dobbiamo avere consonante e vocale. Per scegliere quali vocali

inserire si è scelta la vocale epentetica (vocali che si inseriscono fra le sillabe

arbitrariamente) , sempre la stessa, la [ɰ]. Creando così /s ɰ t ɰ r a i k ɰ/.

Nell’italiano anteguerra si aggiungevano vocali (preferibilmente poco caratterizzate

fonologicamente) alla fine delle parole tram tramme. In altri casi, come per l’inglese

beef steak, si creava il problema che l’italiano non gradisse molto la sequenza “fst”, che

veniva quindi ammazzata e sostituita da una più italianizzante <st>. E’ stata scelta la

forma femminile probabilmente per associazione al genere dato che altri tagli di carne

come braciola e fettina erano già femminili. Abbiamo così /b i s t ɛ k k a/.