Numero zero nov 11

24

description

Art in Rome. Cultura e Arte a Roma

Transcript of Numero zero nov 11

Page 1: Numero zero nov 11

numero zeronovembre 2011

Page 2: Numero zero nov 11

ELEONORA DUSE ULTIMA NOTTE A PITTSBURGH

L’8 novembre, alle ore 20.45, al Piccolo Eliseo Patroni Griffi, Anna Maria Guarnieri interpreta la grande Eleonora Duse portando in scena lo spettacolo di Ghigo de Chiara “Eleonora - ultima notte a Pittsburgh” per la regia di Maurizio Scapar-ro. Nasce a Vigevano, in una camera d’albergo; muore a Pittsburgh, in una camera d’albergo. È l’inizio e la fine del lungo viaggio, la lunga tournée, intorno al mondo di Eleono-ra Duse, figlia d’arte. Ma l’arte sua, quella costruita con la gioia e la fatica di vivere, con la curiosità e l’ansia di cono-scere, era destinata a resistere nel tempo ed a diventare mi-

to, forse perché era un grido o un canto splendidamente e tragicamente umano (come sa essere talvolta l’arte teatrale). Eleonora Duse recitava in giro per il mondo con coraggio, nel-la sua lingua, giorno dopo giorno, città dopo città, sempre attenta ai mutamenti della scrittu-ra e dell’arte scenica. I primi amori, il cielo di Napoli, Asolo, gli incontri con Gabriele D’An-nunzio e Arrigo Boito, le lettere sparse negli anni e nei viaggi, il grande affetto per la figlia Enrichetta, e poi la guerra, l’amore per l’Italia e per la sua lingua, le vittorie, la solitudine, le delusioni, le rivincite, la Parigi di Sarah Bernhardt e via via i palazzi di Pietroburgo, l’amore per Beethoven, la crudeltà di New York, il sole di San Francisco, la pioggia e le ciminiere di Pittsburgh, ma sempre la volontà, malgrado tutto, di viaggiare, di conoscere e di sperimen-tare il nuovo, per poi tornare sempre al suo vero amore: il teatro. Per questo, “l’ultima notte a Pittsburgh” è rivissuta da Maurizio Scaparro partendo dal testo di Ghigo de Chiara ed affi-dando il ricordo alla sensibilità di una grande attrice italiana come Anna Maria Guarnieri, in un alternarsi febbricitante di ricordi e di sogni, con l’eco dei testi e degli spettacoli a lei più cari, ma soprattutto con il conforto di parole scritte durante tutta la sua vita alle persone amate e a se stessa. Ed è anche un modo per rendere omaggio oggi, a 150 anni dall’Unità d’Italia, ad una donna straordinaria come Eleonora Duse e a quello che ha significato e signi-fica per la diffusione della nostra cultura e del Teatro italiano nel Mondo.

La Divina nasce nel 1858 a Vigevano. Figlia di attori giro-vaghi, varca le scene fin dalla tenera età e a soli ventitré anni è già a capo di una compagnia teatrale. Fin da subi-to dimostrerà di essere una persona piena di grinta e te-nacia. Dopo l’ingresso nel 1879 nella Compagnia Semi-stabile di Torino, giungerà a maturazione la sua poetica, frutto di un abile incrocio tra passato e rottura con la tra-dizione. Eleonora vorrà esprimere dall'inizio della sua carriera la profonda crisi che la separa dalla sua epoca: formerà un suo repertorio che forgerà la sua personalità artistica attraverso un lungo e articolato percorso. Le pièce francesi, nelle sue mani, subiranno variazioni, si arricchiranno di nuova vita abbattendo i vecchi valori borghesi. L’attrice avrà il coraggio di togliere il velo ipo-crita che ricopriva la società borghese, la società dell’ap-parenza governata dal dio-denaro che, regolando ogni rapporto, impedirà il costituirsi di relazioni basate sulla sincerità. I suoi temi preferiti saranno quindi i più irti, quelli più vicini alla realtà. Donna fortissima e fiera por-terà alta come un vessillo la sua voglia di far cadere tutti gli stereotipi di cui si permeava l’epoca a cavallo tra Ot-tocento e Novecento. Da questa lunga carriera emergerà anche la sua interiorità, alienata e nevrotica, che la por-terà quasi a confondersi con le donne da lei recitate, le sue donne. Nella sua vita conobbe

La divina

Page 3: Numero zero nov 11

personaggi molto importanti, quali Boito con cui ebbe una lunga relazione amorosa e carta-cea. Dalle lettere che si scambiavano, affiora il profondo amore per l’arte e il teatro, lo stu-dio e la cultura. Boito per lei scrisse un adattamento di Antonio e Cleopatra che favorì l’av-vicinamento a Shakespeare e alle sue opere. Non ritenendo sufficienti le sue naturali doti artistiche, si applicherà in una continua ricerca, che la porterà a un livello artistico superio-re. Venne in contatto anche con D’Annunzio, che incontrò dapprima in maniera sfuggevole al Teatro Valle a Roma e definitivamente a Venezia. Anche con lo scrittore ebbe un’intensa storia d'amore e un sodalizio artistico. Finanziò ed esportò le sue opere fuori dal confine ita-liano assicurandone il successo. Ma la Duse non si fermerà solo a questi contatti: si recherà in Spagna, Germania, America e in Gran Bretagna, dove porterà la bandiera della cultura italiana recitando una “Signora delle camelie” in italiano. Nel 1909 abbandonò il teatro per tornare poi in scena nel 1921. Donna anche un po’ capricciosa, amava indossare gli abiti di scena anche fuori, forse perché la sua vita era un enorme palcoscenico o forse perché ama-va talmente il teatro da volerselo portare dietro anche nella quotidianità. In fondo il teatro era la sua casa, la sua famiglia, era lì che era nata e lì che morirà: di polmonite proprio du-rante la sua ultima tournée a Pittsburgh. Così si conclude il suo cammino che, dalle botte dietro le quinte per far uscire quelle lacrime sul palco, la porterà ad essere un’attrice sensi-bile, naturale e amata fin dai suoi tempi e che continuerà a far parlare di sé nei secoli. Sarà lei il simbolo indiscusso del teatro moderno, lei a stravolgere i canoni del “come si sta sul palco” non preoccupandosi di recitare con le mani sui fianchi, lei a portare il viola in teatro e sempre lei a rifiutare il trucco, come se non volesse celarsi dietro una maschera.

Tra la metà del XIX secolo e i primi venti anni del XX secolo si assiste ad un delicato pas-saggio di generazioni attoriali che segna una svolta fondamentale in Italia. La prima gene-razione è cosiddetta del “grande attore”, atti-va dagli anni '40 agli anni '80 dell'Ottocento circa, che vede i suoi rappresentanti più illu-stri in Adelaide Ristori (1822-1906), Ernesto Rossi (1827-96) e Tommaso Salvini (1829-1915); il secondo gruppo è quello del “mattatore”, attivo più o meno tra gli ultimi venti anni dell'Ottocento e i primi venti del Novecento, le cui principali personalità furono Ermete Novelli (1851-1919), Ermete Zacconi (1857-1948), ed Eleonora Duse (1858-1924).

Per la prima generazione lo spettacolo girava esclusivamente attorno al grande attore: il primo attore/ la prima attrice, spesso coinci-dente con il capocomico, disponeva arbitra-riamente del testo per metterne in luce solo le componenti che ne esaltassero il suo per-sonaggio, rimaneggiandolo, ove necessario, per far brillare la sua persona a scapito dell'intera compagnia. La cura per la messa in scena, per la scenografia, per i costumi e per l'illuminazione erano secondari: tutto era in-centrato solo sul nome di spicco che richia-mava pubblico. Il grande attore dava vita al personaggio mettendo la sua persona da par-te: da qui una recitazione assolutamente en-

fatica e ammaliante, che emozionasse lo spettatore e lo catturasse con gesti ridon-danti e una voce piena e vibrante, per certi aspetti simile ai cantanti d'opera.

Durante il corso dell'Ottocento in tutta Europa si inizia a sentire una doppia esi-genza: da una parte un maggior realismo che investisse tutti gli aspetti del teatro, e dall'altra una figura unica che riuscisse a raccordare tutti gli elementi che compo-nevano la messa in scena, in funzione non più dell'attore ma del testo. Nasce il ruolo del regista come tutore dell'autore drammatico.

La seconda generazione di attori italiani, quella dei mattatori, si confronta con que-ste problematiche: Zacconi, Novelli e la Duse tentano di ridimensionare in parte i ruoli principali, e di lavorare maggiormen-te sul testo, accostandosi di più alle inten-zioni dell'autore. Concepiscono il dramma nella sua totalità di opera d'arte e si pon-gono come tramite tra lo scrittore e il pubblico: il mattatore interpreta l'autore e non il personaggio. Da qui un tipo di reci-tazione meno maestosa e più naturalisti-ca: il nuovo repertorio del teatro europeo (Ibsen, Strindberg, Čechov) arriva anche in Italia grazie ai mattatori, i quali si fan-

L’evoluzione della recitazione

Page 4: Numero zero nov 11

no carico di portare sulla scena i nuovi anti-eroi. Viene fuori un nuovo approccio alla recita-zione: non più annullando se stessi per far vivere i protagonisti, ma fare propri i personaggi di volta in volta interpretati, sempre trasfondendo in loro una componente intima dell'atto-re.

La Duse in modo particolare incarnò più di tutti questo delicato passaggio. L'intenzione di rinnovare il repertorio fu il primo segnale di presa di coscienza: al suo nome si legarono la prima di “Cavalleria rusticana” e de “La moglie ideale” di Marco Praga, e, oltre a riportare in auge alcuni drammi caduti alla prima (“In portineria” e “Tristi amori”) fondamentale furono i testi di Ibsen e di D'annunzio. Inoltre la sua attività capocomicale presupponeva un tipo di organizzazione che non andasse oltre il semplicistico assestamento dell'impianto scenico. Esemplare la messa in scena de “La città morta” di D'Annunzio nel 1901, interpretata dalla compagnia co-fondata con Ermete Novelli (compagnia che i critici assursero alla pari delle migliori compagnie europee): nel dramma non ci sono personaggi che primeggiano sugli al-tri e l'impianto scenico venne curato minuziosamente per servire il testo e non l'attore. La Duse scelse di amalgamarsi nel disegno d'insieme e di recitare nella parte retrostante del palcoscenico (una cosa inaudita per il grande attore). Con la “Francesca da Rimini” fu spo-destata dal suo ruolo di capocomica, e si mise completamente al servizio del regista-autore D'Annunzio. In questo periodo venne in contatto con molti intellettuali innovatori e si mise con passione a studiare i drammi di Ibsen, giungendo nel 1906 ad allestire “Rosmersholm” a Firenze con l'importante contributo di Gordon Craig.

Tuttavia Eleonora Duse è forse quella che tra i mattatori incarna meglio la contraddittorietà di uno slancio verso il futuro, che resta poi per molti aspetti fermo su se stesso. Anche la sua recitazione mette in evidenza questo doppio aspetto: fu una grandissima prima attrice, senza averne le caratteristiche (sicuramente non aveva quelle della Ristori); c'era in lei una sostanziale incoerenza tra la dizione e la voce, i suoi gesti e la sua mimica sembrarono ai contemporanei eccentrici e inconsueti, ma allo stesso tempo straordinari. Il suo stile recita-tivo segnò una netta rottura con il passato: mai dritta e stabile, ma sempre curva e sbilan-ciata rispetto all'asse corporeo, arricchendo la sue interpretazioni con la casualità di gesti spontanei ed autentici. La sua grande modernità, e lo scarto con la generazione del grande attore, fu la capacità di instaurare un rapporto con il personaggio, non scomparendo dietro di esso, bensì creando con esso una nuova identità. La Duse utilizzava il palcoscenico e l'ar-te attorica come mezzo per esprimere la propria nevrosi, le proprie crisi interiori e il delicato equilibrio tra una vecchia tradizione che non riusciva a scrollarsi, e nuove prospettive di re-spiro internazionale che non poteva abbracciare pienamente.

sara iacobitti

Page 5: Numero zero nov 11

Giovedì 10 novembre inaugura a Roma, presso la Fondazione Pastificio Cerere, la prima mostra personale in Italia dell’arti-sta spagnola Lara Almarcegui (Saragozza, 1972). Aperta al pubblico con ingresso gratuito fino al 7 gennaio 2012, l’esposi-zione fa parte di un ciclo annuale di attivi-tà proposto da Vincenzo de Bellis, curator in residence della Fondazione per il 2011.

La mostra di Lara Almarcegui è composta da due distinti e complessi progetti, rea-lizzati appositamente per l’occasione, che rappresentano l’elaborazione di un suo più semplice lavoro esposto nel 2010 a Vienna. Pur diverse fra loro, entrambe le opere indagano la città di Roma, eviden-ziando l’interesse dell’artista nei confronti delle relazioni fra architettura e contesto urbano, fra ciò che accade in strada e ciò che accade negli spazi espositivi.

“Guide to Wastelands of the River Tevere, 12 Empty Spaces Await the 2020 Rome Olympics” (2011) è il titolo del primo la-voro realizzato per la mostra. Il progetto, già sperimentato in diverse capitali, è ba-sato sull’idea di creare una mappa delle aree abbandonate delle città. A Roma, La-ra Almarcegui si concentra soprattutto su una grande area a nord-est del Tevere, inclusa nel piano di sviluppo urbanistico del parco fluviale destinato alla costruzio-ne di infrastrutture per i giochi olimpici del 2020. In Fondazione l’artista presenta il risultato del suo operato: una serie di guide, frutto delle ricerche condotte in lo-co, insieme a dossier e proiezioni di dia-positive.

La seconda opera esposta, dal titolo “Construction Rubble of Pastificio’s exhibi-tion space” (2011), è un’installazione composta da cumuli di macerie di mate-riali da costruzione, corrispondenti a quelli utilizzati anni fa per realizzare l’attuale spazio espositivo nel quartiere San Loren-zo. Con questo lavoro l’artista riflette sul-la storia della sede della Fondazione, così strettamente legata alla città di Roma, e s’interroga sulle potenzialità di tali ele-menti e su di un loro possibile utilizzo fu-turo.

Lara Almarcegui è anche la quarta prota-gonista di “Postcard from…”, il progetto promosso dalla Fondazione Pastificio Ce-rere e ideato dal suo direttore artistico,

Marcello Smarrelli, per portare l’arte nel con-testo urbano. L'iniziativa, realizzata in colla-borazione con A.P.A. - Agenzia Pubblicità Af-fissioni, è curata in questa occasione da Vin-cenzo de Bellis. “Postcard from…” prevede che di volta in volta venga chiesto a un artista di ideare un manifesto di dimensioni 400x300 cm, come quelli usati nella cartellonistica pub-blicitaria. L’immagine scelta dall’artista viene affissa su una struttura installata nel cortile del Pastificio Cerere e contemporaneamente riproposta nei due mesi successivi in dieci im-pianti di Roma gestiti da A.P.A. __ con il turno-ver di quattordici giorni tipico delle affissioni pubblicitarie __ il cui elenco viene aggiornato sul sito internet della Fondazione www.pastificiocerere.it.

Il manifesto ideato da Lara Almarcegui è un ideale proseguimento del progetto “Guide to Wastelands of the River Tevere, 12 Empty Spaces Await the 2020 Rome Olympics” e mostra una delle immagini provenienti da quella ricerca. Esposta temporaneamente nei cartelloni pubblicitari, destinati poi ad altri manifesti, rappresenta un naturale amplifica-mento concettuale della ricerca dell’artista, volta a sottolineare il preservamento e la tu-tela di quegli spazi pubblici in attesa di utiliz-zo.

Lara Almarcegui vive e lavora a Rotterdam. Ha frequentato la facoltà di Belle Arti presso l’Università di Cuenca, proseguendo poi gli studi presso il de Ateliers 63 ad Amsterdam. Ha esposto in numerosi spazi pubblici e privati fra cui: Sala Rekald e, Bilbao (2008); Centro Galego de Arte Contemporánea, Santiago de Compostela (2008); Center of Contemporary Art, Malaga (2007); the FRAC Bourgogne, Di-jon (2004); INDEX, Stoccolma (2003). Tra le sue ultime personali ricordiamo: Secession,

POSTCARD FROM… LARA ALMARCEGUI

Page 6: Numero zero nov 11

Vienna (2010); Ludlow38, New York (2010); Art Basel __ Art Statements con la Gallery Ellen de Bruin Projects (2010).

Fra le sue recenti mostre collettive: Taipei Biennale (2010); 3a Moscow Biennale of Contem-porary Art (2009); 7a Gwangju Biennale (2008); 5th Lofoten International Art Festival, Svol-vaer (2008); Greenwashing: Environment: Perils, Promises and Perplexities, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino (2008); Sharjah Art Biennial 8 (2007); 27a Biennale di San Paolo (2006); Biacs2, 2a Biennale di Siviglia (2006); Momentum, Nordic Festival of Con-temporary Art, Moss (2006); Offentlig Handling (Public Ac)t, Lunds Konsthall, Lund (2005).

Con:

Francesco Acquaroli: Ministro della polizia

Sebastiano Colla: Lorenzo servitore

David Gallarello: Pietro Missoni carbonaro

Patrizia La Fonte: contessa Caracci

Silvia Salvatori: Giulia Braschi

Ideazione e regia: Roberto Marafante

Passaggi Segreti®, la manifestazione di spet-tacoli teatrali itineranti all’interno dei luoghi e siti storici di Roma, organizzata e prodotta dalla Bilancia Produzioni, è arrivata alla XV Edizione ed è ormai una realtà radicata e ri-conoscibile nel panorama artistico della Capi-tale, un punto di riferimento per i cittadini ro-mani e stranieri che la scelgono quando cer-cano un prodotto di alta qualità che sappia coniugare la cultura con lo svago.

Il progetto Passaggi Segreti® quest’anno propone all’interno di Palazzo Braschi, dall’1 al 18 dicembre 2011, lo spettacolo ideato e diretto da Roberto Marafante dal titolo “Una visita molto privata”. Seguendo le vicende di due innamorati divisi dall’amor di patria, il pubblico ammirerà da vicino le bellezze di un palazzo diventato Museo di Roma, che rac-chiude in sé capolavori artistici e scorci archi-tettonici.

“Una visita molto privata” ci racconta la Sto-ria di Roma dal punto di vista dei protagonisti che l’hanno vissuta e getta uno sguardo su un periodo molto turbolento della Capitale, il passaggio dallo strapotere dei papi agli afflati di indipendenza confluiti nei moti carbonari. Non poteva mancare in un Palazzo così sce-nografico e pieno di grazia una storia d’amore appassionata e ricca di colpi di scena, fedele allo stile di Stendhal a cui si riferiscono alcu-ne ispirazioni del testo dello spettacolo.

Costruito alla fine del diciottesimo secolo, Pa-lazzo Braschi si colloca al centro di una Roma

papalina percorsa dai venti libertari della car-boneria e dell’indipendenza. In quelle sale, dove i ritratti delle grandi famiglie si fondono con le immagini delle magnificenze di una cit-tà rinascimentale e barocca, matura il dram-ma di una storia d’amore e di libertà tra la giovane aristocratica Giulia Braschi __ inter-pretata da Silvia Salvatori__ e un carbonaro fuggitivo __ David Gallarello __ come nella più appassionate tradizione stendhaliana.

Il pubblico, nel corso dello spettacolo teatrale itinerante, viene invitato a partecipare ad una festa della famiglia Braschi ma è dirottato da una sala all’altra da una severa governante __ la Contessa Caracci di Patrizia La Fonte __ e dal servitore di famiglia __ Sebastiano Colla __ ad ammirare le bellezze del palazzo perché un increscioso incidente ha interrotto brusca-mente i festeggiamenti. Difatti la polizia è in fermento, il palazzo è tutto un misterioso an-dare e venire e il Ministro della polizia __ Francesco Acquaroli __ è alla ricerca di un carbonaro fuggitivo.

In questo clima di mistero e di sospetti, il pubblico potrà rivivere quella sensazione di decadenza di uno stato pontificio ormai trop-po occupato a curare gli interessi politici più che a salvare le anime dal peccato. Prenden-do spunto dagli autori italiani e stranieri (Stendhal, Goethe, Belli, De Sade) che in quel momento amarono Roma, affiorerà nel racconto quel sapore agrodolce che rende unico lo spirito romano.

UNA VISITA MOLTO PRIVATA

Page 7: Numero zero nov 11

A Roma Eur, il 24 luglio del 2008 l’amministrazione comunale fa implodere, grazie all’uso del tritolo, il Ve-lodromo al cui interno, secondo la relazione dell’ASL, sono presenti 130 chili di materiali in cemento amian-to e ben 4.535 chili di materiali contenenti amianto. Parte consistente di questi materiali, dopo l’implosio-ne, si liberano in una nuvola bianca che disperdendosi nell’aria invade pericolosamente la capitale d’Italia. Per far crollare i 66mila metri quadrati del Velodromo, giudicato da molti giornali sportivi: “la pista ciclabile migliore del mondo”, realizzata per le Olimpiadi degli anni ’60, furono utilizzate dal Genio Civile 1.800 cari-che di tritolo. La società Eur spa proprietaria del Velodromo, società pubblica del Ministero del Tesoro e del Comune di Roma, non ha avvertito l’ASL dell’imminente esplosione. Il 17 novembre di quest’anno ci sarà la prima udienza presso il tribunale di Roma, che ha accolto la richiesta della petizione pubblicata sul sito di Ulderico Pesce (più di 3000 firme) per tra-sformare l’imputazione alle società coinvolte da “getto di cose pericolose” a “disastro colpo-so”.

“ A come … amianto” nasce dalle personali indagini del suo autore su questo argomento ed è corredato dalla proiezione di sessanta immagini che documentano l’evento romano.

Non è un inno liturgico né una mostra sul sacro, è Batman.

“In Excelsis”, mostra costituita da un piccolo nucleo di inediti, porta lo spettatore di fronte a temi a lui conosciu-ti ma combinati in maniera nuova ed innovativa. La per-sonale di Adrian Tranquilli (Melbourne 1966), accolta dal-lo Studio Stefania Miscetti, ci catapulta in un mondo composto da supereroi e simboli già presenti nell’imma-ginario collettivo. Un tema a tinte forti quello che l’artista rappresenta: un eroe, nato dalla fantasia, che viene ad associarsi alla figura del Salvatore. Posture, anatomie, panneggio classicheggiante e ovviamente, la croce, ci ri-portano a un aspetto piuttosto caro all’iconologia religio-sa. Va ricordato che Tranquilli con le sue opere vuole an-dare oltre la pura e semplice simbologia religiosa, invi-tando a ricercare dei significati altri e più profondi. La chiave, quindi, è incentrata sulla figura dell’eroe e sui va-ri tipi di croce, ma importante è anche il ricorso al sim-metrico e al numero tre che troviamo sia nella scala di grandezza: piccolo, medio e grande, sia nei trittici che aprono la mostra: quello verticale e quello orizzontale. Ritornando alla figura dell’eroe, qui possiamo vedere co-me viene snaturata la sua aura di invincibilità per arriva-re a sfiorare un aspetto un po’ più quotidiano, legato alla realtà della crisi della cultura nei nostri giorni. L’aspetto della tragicità riguarda anche la cromia bianco/nero che ricorre sia nella tecnica utilizzata, il carboncino, sia nel supporto in legno e plexiglass. “In Excelsis” costituisce un punto di arrivo che affonda le radici nel 2004 con “These Imaginary Boys”, nel 2005 con “The Age Of Chance” e nel 2006 con “Don’t Forget the Jocker”, dove aveva già iniziato a intaccare la natura salvifica del supe-reroe.

A COME … AMIANTO

IN EXCELSIS

Page 8: Numero zero nov 11

Forte è il collegamento con la tematica già affrontata nella mostra, allestita presso il MACRO e terminata a novembre, “All is violent, all is bright”; ciò rivela come quello del fumetto e dell’eroe sia un tema particolarmente caro all’artista che così facendo si accosta anche alla collettività che ammirerà le sue opere. L’eroe fin dall’antichità viene cantato ed esaltato e rappresenta una figura familiare a cui oggi volentieri ci appelleremmo per uscire da questa situazione di criticità. Per questo il richiamo all’excelsis, a qualcosa o qualcuno che ci sovra-sta e che rappresenta l’ultima possibilità di salvezza per l’uomo comune.

maria merola

La testimonianza storica di quanto accaduto in passato avviene attraverso la teorizzazione di eventi che si tramandano dalla Storia fino ai giorni nostri. Per comprendere tali eventi si è abituati ad affrontare una lettura verticale degli avvenimenti in questione; la Storia si mate-rializza ai nostri occhi come un diagramma piramidale di date, in cui ad un’azione corrispon-de una causa e così via. Nei lavori degli artisti Joachim Seinfeld e Raul Gabriel presentati in-sieme negli spazi di artMbassy per una doppia personale di respiro internazionale, la lettura della storia avviene tramite la sovrapposizione di stratificazioni visive, in grado di dare origi-ne ad una superficie mentale sintattica ma orizzontale. Per la serie “Neighbours” nei lavori del tedesco Joachim Seinfeld, la conservazione di epoche passate può essere paragonabile ad una pratica atipica del restauro, che attua la conservazione della materia in senso inver-so. Dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Firenze, l’artista ha sentito il bisogno di pre-servare una parte della storia della sua città e non solo, lavorando sulle superfici più vissute di edifici in disfacimento. Dopo aver conservato parte delle mura rimosse, l’artista applica con l’emulsione fotografie e materiale d’archivio sulle stesse macerie, facendo uscire imma-gini bidimensionali che prendono il nome dall’indirizzo in cui è avvenuto lo strappo iniziale. Una pratica di restauro certosina e arbitraria, che parte da una ricerca privata per aprirsi alla sfera pubblica.

Dietro la conservazione di Joachim Seinfeld si apre infatti un ampio raggio di immaginazione in cui il fruitore è sensibilizzato alla memoria storica e architettonica della sua città, grazie ad una strana combinazione di particolari sia materici che visivi, racchiusi a loro volta in una seconda immagine: il reperto lavorato di ciò che era. “It is therefore also a work about what we want to do with our cities, what do we want to preserve…”, scrive l’artista. Memoria e at-tualità si incontrano in una cornice invisibile che raccoglie in parte un presente compromesso dagli eventi - il muro con ciò che l’artista ha rimosso - e in parte un passato immortalato da obiettivi fotografici altrui - il supporto su cui l’artista lavora. L’immagine finale è una sovrap-posizione di suggestioni che rievocano la vivibilità sociale ed estetica di Berlino, abbraccian-do pratiche di arte popolare e ricerca d’archivio personale.

A suggellare i frame di questo viaggio onirico bidimensionale è il fermo immagine del video di Raul Gabriel “Back2Berlin”. La sagoma di una bicicletta bianca scorta sul vetro di un vago-ne metropolitano, appare in primo piano dietro un susseguirsi di paesaggi berlinesi suggeriti dal viaggio dell’artista verso l’aeroporto. Un susseguirsi di rumori urbani si confonde con in-serti sonori fatti emergere successivamente, la cui fonte originale deriva da avvenimenti sto-rici salienti. La stratificazione del tempo e della memoria assume anche qui una lettura oriz-zontale, che si carica di una forza onirica grazie all’uso dell’artista del reverse. I livelli visivi dell’immagine-video mantengono la bidimensionalità dei lavori di Joachim Seinfeld, mentre il movimento su cui si attuano aziona un “flusso ipnotico” sottolineato dal leitmotiv delle sono-rità in sottofondo: torna la forza della memoria, proprio dove il paesaggio sembra sfrecciare via con il percorso del treno.

Il messaggio di Raul Gabriel si concentra nella forza che l’immobilità del simbolo “bike” sug-gerisce. Non è il treno la costante del suo viaggio nonostante sia il motore effettivo del movi-mento presente nel video; è la “formula-bicicletta” che, “imposta sulla città, contrasta con il suo messaggio di riappacificazione ambientale e sembra invitare ad una ecologia della mente prima ancora che dell’ambiente.” (Raul Gabriel).

JOACHIM SEINFELD/ RAUL GABRIEL

Page 9: Numero zero nov 11

Entrambi i lavori presentati insieme negli spazi di artMbassy si servono del potenziale narra-tivo dell’immagine fissa che, soggetta a stimolazioni visive di substrati, suscita un “movimento mentale” a favore del ricordo che da individuale si fa collettivo. Una chiave di lettura diversa per conoscere e insieme immaginare la quotidianità di una città in perenne movimento, scavando nel suo passato e nei suoi dintorni, per attraversarla poi in un presen-te visionario ma fedele all’anima vitale che le pulsa dentro.

“Viola di mare” nasce da una storia vera, da un amore impossibile. In un’isola siciliana, in piena vicenda garibaldina, Pina si innamora di un’altra donna e per poter vivere questo amo-re proibito, sfuggendo alla furia di suo padre e alla grettezza del paese, accetta di vivere tra-vestita da uomo per il resto della sua vita.

Ispirata a una vera vicenda siciliana __ raccontata in modo avvincente da Giacomo Pilati nel suo romanzo “Minchia di re” __ la storia di Pina riflette anche la Storia più grande del Risorgi-mento italiano. La menzogna del suo corpo travestito è anche la menzogna di un Paese che in quegli anni sta nascendo, fra promesse tradite e speranze disattese. Tuttavia la ribellione di Pina, la sua sfida, il solco doloroso della sua vita divisa in due, saranno per l’isola anche segnale di un possibile cambiamento: un esempio di libertà che andrà a incidere sugli animi più della legge dei potenti, fatta di promesse e di catene.

Isabella Carloni __ attrice e cantante che ha lavorato con artisti come Carlo Cecchi, Marco Baliani, Toni Servillo, Elio De Capitani, Franco Branciaroli, Giancarlo Sepe, e per maestri mu-sicisti quali Giovanna Marini, Carlo Boccadoro e Filippo del Corno __ è impegnata da anni in un progetto di drammaturgia della voce che l'ha portata già a esprimersi con successo anche come autrice. In questo spettacolo, dichiara nelle sue note di regia, “la scena si apre su un tempo sospeso. Il tempo dell’attrice, che è il nostro, e il tempo di Pina/Pino, in attesa. En-trambe segnalano un travestimento e aspettano di offrire il loro “ritratto” al pubblico sguar-do. In quell’attesa riaffiorano, come soprassalti di memoria, tracce di esistenza. A tratti, im-provvise scritte di luce titolano i passaggi di vita di Pina/Pino, la costringono a precipitare in storie rimosse, a svelarne, perfino a se stessa, attraverso un monologare intimo, che a tratti si fa narrazione, risvolti segreti o nascosti. La memoria, allora, diventa anche un’intima resa dei conti.

La metamorfosi del corpo femminile in quello maschile, che segna la storia di Pina, lascian-dola perennemente in bilico tra due identità, si esprime nel corpo-voce dell’attrice, nella sua fisicità inquieta, nelle sfumature che ne raccolgono gli stati emotivi. Eccola allora circoscrive-re lo spazio in un percorso di spostamenti essenziali, e dilatare o accelerare il tempo nell’in-visibile della memoria, facendo rivivere i luoghi dell’isola e quelli dell’anima. Eccola iscrivere sul suo corpo altre figure: il prigioniero Cece’, la figura grottesca della madre, il duro profilo di suo padre, l’angelico apparire del suo amore, Sara.

La scrittura drammaturgica si sviluppa con la medesima essenzialità del lavoro attorale: se-dimenta, dal testo originale di Giacomo Pilati, quelle sequenze indispensabili a coagulare la vicenda sulla scena, a renderne memorabili i passaggi.

Senza rinunciare alla forza pittorica della scrittura di Pilati, la drammaturgia si nutre di quella scrittura, dei suoi colori e di quelle atmosfere, facendole precipitare nel “cuore di tenebra” della storia.

Le sonorità, create da Alfredo Laviano, a volte come echi di lontananze, a volte come antici-po dei combattimenti interiori della figura sulla scena, segnano, nello spettacolo, il tempo dell’azione, individuano i passaggi, interrompono o spiazzano il fluire della memoria, come una partitura drammaturgica parallela.

Nello spazio, pensato da Giancarlo Gentilucci, si staccano come affioranti dalla crosta del tempo pochi elementi scenici che, assieme alla luce, creano i luoghi della memoria, inventa-no squarci che diventano luoghi, tagli che ospitano spazi, che si fanno botola, mare, ritratto.

VIOLA DI MARE

Page 10: Numero zero nov 11

“Viaggi di Ulisse - Concerto mitologico per strumenti e voci registrate” è la nuova opera scritta e diretta dal compositore Nicola Piovani, proposta per la prima volta nella capitale alla stagione 2011-2012 della Istituzione Universitaria Concerti. Il mito di cui si sono appro-priati i più grandi artisti di ogni epoca viene trasposto in musica da uno dei più celebri com-positori italiani contemporanei in un'opera complessa e pluridisciplinare.

L'autore ha incontrato gli studenti alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università “La Sapienza” giovedì 3 novembre per illustrare nel dettaglio il lavoro. Ulisse affascina prima di tutto per la sua polie-dricità, la quale ha dato vita, nel corso dei secoli, a modi interpre-tativi ambigui e anche antitetici tra loro. Tra le infinite sfaccettatu-re quella che Piovani ha deciso di raccontare è la curiosità: “L'aspetto che più mi sta a cuore di Ulisse è l'uomo che vuole guar-dare oltre, che vuole varcare i confini della conoscenza” (Roma, 26 maggio 1946).

L'opera sarà articolata su più livelli: strutturata in sei parti, con un prologo e cinque movimenti, intervallerà ad ogni sezione musicale dei brani recitati da voci registrate, e per ogni sezione, sullo sfon-do, saranno proiettati i disegni eseguiti appositamente da Mino Ma-

nara; illustri voci hanno interpretato i brani registrati (Carlo Cecchi, Paila Pavese, Massimo Popolizio, Mariano Rigillo, Virgilio Zernitz, Chiara Baffi, Massimo Wertmuller e Siobhan McKenna), mentre la componente strumentale sarà affidata al nutrito organico dell'Ensam-ble Aracoeli (contrabbasso, sax, clarinetto, violoncello, percussioni, pianoforte e tastiere).

I testi, scelti da Piovani stesso, non sono ordinati cronologicamente o secondo l'ordine ome-rico: da “Itaca” di Konstantinos Kavafis è tratto il prologo; i primi tre movimenti, presi tutti dall’“Odissea” omerica, narrano rispettivamente gli episodi dell'Isola delle Sirene, dell'Isola dei Lotofagi e dell'Isola dei Ciclopi; il quarto movimento è dedicato all’“Ulisse” di James Joy-ce, con un brano letto dall'autore irlandese; l'ultimo movimento riguarda l'episodio delle Co-lonne d'Ercole, raccontato attraverso un brano del XV canto della “Gerusalemme liberata” di Torquato Tasso e un passo pindarico della “Nemea”; sui versi di “Ulisse” di Umberto Saba l'opera giunge a conclusione.

Musica, letteratura e arte visiva per narrare l'irresistibile potenza della “curiositas odissia-ca”: “Viaggi di Ulisse” sarà un'opera che, come il suo protagonista, viaggia nel tempo e nel-lo spazio, varcando limiti ignoti dentro e fuori la coscienza umana.

sara iacobitti

VIAGGI DI ULISSE

In questo spettacolo Dio è una donna. E neanche giovane.

Contrariamente al trend del momento è una Signora di mezza età. Fa miracoli ma anche i conti con le rughe, che nel suo caso sono eterne, e come si sa all’eternità non c’è rimedio.

Non è magra perché tende ad espandersi come l’universo. E’ terri-bile ma anche insicura, perché una donna anche se è Dio fa fatica a crederci!

Poi dall’Infinito si passa allo Sfinito ed ecco che scesa tra gli uomini la donna deve fare miracoli di ben altro tipo. Mettere assieme il marito e il mutuo, la carriera e la diarrea dei figli, trovare un asilo nido, far salire un passeggino in metropolitana all’ora di punta. Questi sì che sono miracoli!

INFINITE O SFINITE?/ MIRACOLI DELLE DONNE DI OGGI

Page 11: Numero zero nov 11

Non è la solita espressione idiomatica ma il titolo di una pièce teatrale che ha debuttato sul palco del “Cometa Off” l’8 novembre scorso. Sono in quattro, non hanno nome, tre uomini e una donna che decidono di eleg-gere il pubblico a loro confessore. Uno scrit-tore che non scrive più, un’archivista, un uo-mo capace solo di amare e uno che invece sa solo odiare. Questi, dunque, i protagonisti che decidono di mettersi a nudo davanti allo spettatore, non conoscono chi hanno davanti eppure non hanno timore di essere giudicati. Quattro persone diverse si raccontano ren-dendo lo spettatore partecipe dei loro mono-loghi. Sono storie romantiche, tragiche e comiche in cui è possibile immedesimarsi e identifi-carsi. Interessante la scelta di non attribuire un nome a quei quattro volti, scelta che pone il pubblico sullo stesso piano dei protagonisti: nelle sale sono presenti tante persone, ma il personaggio sul palco non ne conosce l’identità.

Fabrizio Sabatucci è lo scrittore che non scrive più, incarna la figura del lavoratore precario che va tanto di moda oggigiorno. Vende gelati, si occupa del magazzino, cuce cravatte... Il destino è sempre lo stesso: il licenziamento. Perché non scrive più? Non ha più soldi, ispira-zione. I tentativi li fa eppure dopo aver accumulato insuccessi su insuccessi inizia a demora-lizzarsi e deprimersi. E quanti non si rivedono in lui?

Veruska Rossi è l’archivista video. Lavora a casa eppure non ha mai tempo di uscire, ma non è sola, mai. Tante persone diverse le fanno visita. Soffre della sindrome da personalità mul-tipla. Un giorno però, un video la porterà faccia a faccia col passato. Un’immagine e la mente torna a quel giorno. A sedici anni prima.

Riccardo Scarafoni è l’uomo che crede nell’amore, che ama e che si ritroverà con la sua amata che prenderà pian piano possesso della sua casa e della sua vita. Fa discorsi contorti sull’amore e prova a dare e darsi una spiegazione, una definizione. Ma non ci riesce. Ci sono giorni che proprio non la sopporta la sua dolce metà … Vorrebbe tanto ribellarsi ma lei si am-malerà e allora sarà lui a cercare di organizzare le loro vite, stilando tabelle orarie che pun-tualmente non saranno rispettate.

Francesco Venditti rappresenta la freddezza e l’indifferenza dell’uomo ricco il cui lavoro lo vede costretto a regolare dei conti con imprenditori accusati di aver sbagliato qualcosa. “Distrarre” dice lui. I premi che riceve gli fanno dimenticare tutti i sensi di colpa, ma un gior-no verrà in contatto con la più dura realtà: un imprenditore a cui aveva fatto “visita” in real-tà non aveva commesso nessuno sbaglio. Ed è lì che si scontrerà con la crudezza del suo la-voro, ma come uscirne? In fondo lui sapeva … eppure alla verità preferisce una bella cravat-

E allora vai con le donne che amano troppo, mangiano troppo, parlano troppo, fanno tutto troppo. Un mondo popolato da manager rampanti, iperfemministe dalle improbabili campa-gne, povere assassine, vecchie ciniche, qualunquiste coatte, ed eleganti snob la cui Bibbia è Vanity Fair.

Nei palazzi dell’amministrazione come nelle redazioni dei giornali si consumano le “Impiegatomachie”, feroci lotte tra figure mitologiche metà donna e metà sedia da ufficio, mentre nei centri commerciali e negli outlet la maggioranza cerca di sfangarla.

Pregustando il giorno del Giudizio Universale in cui finalmente gli utimi saranno i primi e gli uomini partoriranno con dolore, non ci resta che chiederci:

Se il Diavolo veste Prada, Dio cosa si deve mettere?

LA FINE DELLA FIERA

Page 12: Numero zero nov 11

nuova.

I protagonisti finiranno con l’essere accomunati da sentimenti forti come sofferenza, rimorsi, rimpianti, senso di inadeguatezza. Inizieranno a sentirsi alienati da loro stessi e dal mondo, vorrebbero cambiare, tornare indietro, rimediare agli errori. Riusciranno solo ad avere una fine comune, un destino triste frutto dell’esasperazione di ciò che hanno commesso e ciò che ha influenzato le loro vite.

maria merola

L’11 novembre, alle ore 18.30, presso la IPER URANIUM Art Gallery, inaugura la rassegna fotografica “Dannati”, che propone una serie di immagini di Giorgio Taraschi, fotografo tera-mano che, dal 2011, lavora per l'agenzia InVision Images.

Il progetto “Dannati” è una piccola parte di una storia più ampia, commissionatami dal setti-manale “Nepali Times” di Kathmandu con l'intento di documentare gli slum nelle zone peri-feriche della città. Una volta sul luogo non è stato difficile trovare in quel contesto altre sto-rie che valesse la pena raccontare.

“È economica e facile da reperire; e una volta provata non puoi fermarti perché ad ogni re-spiro riesci a vedere il tuo dio...lassù” __ Ram Hari, 12 anni.

Se Kathmandu è una delle città asiatiche con la più alta concentrazione di O. N. G. è perché la piaga dell'alcolismo costringe da anni un numero sempre più ingente di bambini a fuggire dalle loro case per sottrarsi agli abusi e alle violenze che ne derivano. Di età compresa tra gli 8 e i 12 anni, riuniti in piccoli gruppi per far fronte ai pericoli e alla solitudine della strada, iniziano a sniffare colla per uso industriale o domestico, una droga alternativa ed estrema-mente economica con effetti disastrosi sul cervello umano.

DANNATI

Page 13: Numero zero nov 11

Chiamati “freaks” dai locali, scacciati dai turisti e malmenati dalla polizia, la strada diventa un posto in cui nascondersi e la colla un rifugio per le loro menti.

Giorgio Taraschi nasce a Teramo nel 1986.

Nel 2008 si diploma in fotografia presso l'Istituto Europeo di Design di Roma presentando un progetto sulle condizioni degli ex ospedali psichiatrici italiani a trent'anni dalla legge “Basaglia”.

Parte nel 2009 alla volta dell'Asia spostandosi tra India e Nepal e collaborando con testate locali. Nella primavera del 2010 si trasferisce in Thailandia per documentare gli scontri tra Red Shirts e Truppe governative nel centro di Bangkok.

Nell'aprile 2011 entra a far parte dell'agenzia InVision Images.

BOLERO DEL DRAGO ROSSO

“Bolero del Drago Rosso”, spettacolo già col-laudato e che ha già riscosso vari ed ampi consensi sul territorio nazionale, è frutto della collaborazione tra Marco Schiavoni e Caterina Genta. Performance danzata nella quale il Gu-Jang (arpa cinese), magistralmente rivissuto dal maestro Schiavoni sarà utilizzato in modo “totale”, per coniugarsi armonicamente con il mondo plastico e sensuale di Caterina Genta.

Caterina Genta, danzatrice che utilizza ed in-tegra la propria formazione alla scuola tede-sca (la Folkwangschule di Pina Bausch) con le suggestioni nate dall'incontro con alcuni dan-zatori Butô, esperta nell'arte della composizio-ne istantanea all'interno di una struttura data, interagisce con uno schermo video sul fondale entrando ed uscendo dallo spazio bidimensio-nale della proiezione, in un continuo gioco di sovrapposizioni visive e disvelamenti. Nono-stante il fatto che il video sia registrato, il la-voro sempre rinnovato della danzatrice lascia spazio ad una interazione all'istante.

Marco Schiavoni, compositore, polistrumenti-sta e videografo, da più di trent'anni attivo sulla scena italiana, abile nella composizione musicale per il teatro, nel live sound set acu-stico ed elettronico e nelle videoscenografie, suona dal vivo uno strumento molto singolare, l'arpa cinese e dialoga con i materiali registra-ti e video.

CONSONANTIA

“Un percorso in uno scenario totalmente evocativo”. Il viaggio di un ricordo e il ricordo di un viaggio.

“Consonantia” nasce dal ricordo, tanto doloroso quanto elettrizzante, di una delle esperienze che ha accomunato generazioni italiane di ieri e di oggi: l'emigrazione. AnnaChiara Tealdi

Page 14: Numero zero nov 11

racconta nella sua prima opera teatrale di un viaggio lontano nel tempo e nello spazio: una storia d'amore tra un musicista in cerca di fortune negli Stati Uniti (Lorenzo Farina) e una cantante di successo che resta a Napoli (AnnaChiara Tealdi). Una relazione divisa da un oceano, ma scissa soprattutto tra la volontà di cercare nuove possibilità nella terra promessa e le riserve di lasciare le certezze del paese natale. Queste le ragioni dei due protagonisti che inseguono i loro sogni, ma che alla fine si ritroveranno insieme.

Lo spettacolo gioca sulla doppia valenza espressiva della parola recitata e della parola canta-ta: i due eccellenti chitarristi Andrea Brandizzi e Carlo Testana accompagnano canzoni senza tempo interpretate splendidamente dalla protagonista: brani evocativi come “Over the rain-bow”, “New York New York”, “Anema e Core”, “Quanto t'ho amato”, “Santa Lucia Luntana”, “Malafemmena” (solo per citarne alcuni) stimolano il serbatoio della memoria sia nei perso-naggi sia negli spettatori.

I dialoghi recitati sono inseriti tra le maglie delle canzoni per creare un filo conduttore, ope-razione che alcune volte risulta forzata o troppo frettolosa: lo scavo psicologico dei perso-naggi è espresso in certi casi da monologhi intensi, ma più spesso il senso è affidato alla mu-sica, che non sempre sopperisce da sola a far immedesimare il pubblico nello stato d'animo dei due innamorati.

La scenografia di Cuqui Trujillo dona maggior forza al senso del ricordo: oltre agli essenziali elementi d'arredo, primeggiano sullo sfondo sei pannelli bianchi con brandelli delle parti reci-tate. I pensieri della memoria riaffiorano dalla mente dei protagonisti e si mostrano al pub-blico in sala, presenze costanti durante tutto lo spettacolo. I colori della scena sono preva-lentemente il bianco e il nero, così come in bianco e nero sono i costumi di tutti i personaggi, curati da Norha Trujillo: gli stessi colori delle foto e delle cartoline scattate in un paese lonta-no e spedite ai propri cari rimasti a casa. Tra la prima e la seconda parte dello spettacolo un intermezzo strumentale delle due chitarre si sovrappone proprio ad immagini di emigranti all'estero proiettate sui pannelli bianchi dello sfondo, creando un effetto davvero suggestivo dei mezzi espressivi. Musica, parole e immagini per alludere, come il baule posto al centro della scena, alle due essenze di “Consonantia”: il viaggio e il ricordo.

sara iacobitti

L’attualità dell’emigrazione

Dal 1905 ad oggi gli scenari non sono cambiati poi di molto, gli Italiani partivano alla ricerca di qualcosa di migliore, della felicità. Tutto era un’incognita. Oggi gli Italiani continuano a partire, colpa della crisi che non dà più speranze per il futuro. Non ci si domanda se si torne-rà o meno indietro, si pensa solo a star bene. Chi sono i nuovi emigranti? Giovani che hanno studiato ma a cui i tagli sulla ricerca tarpano le ali, giovani a cui viene impedito di continuare i loro studi e di fare nuove scoperte. Partono i laureati, che si vedono chiuse tutte le porte dal mondo del lavoro con la motivazione che: “costano troppo”. Ora non si sa quanti di que-gli italiani che se ne sono andati in passato avessero la voglia effettiva di tornare indietro, ma molti lo hanno fatto e si sono sentiti stranieri nel loro Paese. Perché? La lunga assenza ha provocato dei cambiamenti sia a livello fonico, per via dell’accento acquisito stando in ter-ra straniera, che culturale. La nostalgia del luogo di origine si trasforma così in una barriera culturale da superare che condurrà ad un duro impatto con la realtà. Quella terra ospitale, che era il simbolo della casa, diventa ostile, sconosciuta e chissà se non c’è voglia di ritorna-re indietro, alla casa adottiva … Oggigiorno molte sono le possibilità che ci mettono in con-tatto coi Paesi esteri come Inghilterra e Australia, sono nate tantissime agenzie che promet-tono e permettono di aiutare lo “straniero” a non sentirsi solo e abbandonato. Queste agen-zie, infatti, si occupano di fornire assistenza per il lavoro e lo studio. Ma l’Italiano che partiva all’inizio del novecento non aveva tutte queste possibilità, questi aiuti. Era solo, se la cavava con le sue forze. Nel 2011 e già da molti anni ormai, siamo di fronte al fenomeno dello sbar-co dei clandestini in Italia e qui si tende a ricordare quando erano i nostri connazionali a far-lo, a fuggire dal futuro incerto. Si parla, però, anche di come questi emigrati portino crimina-lità e violenza, si vorrebbe che fossero allontanati e che tornassero ai luoghi di origine, che ci

Page 15: Numero zero nov 11

ci lasciassero in pace. Ma questo è chiudere gli occhi di fronte a ciò che successe anche ai nostri concittadini, connazionali. Se si vuole andare ad analizzare il fenomeno non ci si può dimenticare che la mafia fu portata in America dagli Italiani stessi. Non si può fare di tutta l’erba un fascio additando qualsiasi straniero come criminale. Non si può essere ciechi da-vanti a chi lavora per stipendi miseri senza lamentarsi, mentre un Italiano per condurre una vita decorosa e spendere e spandere rifiuta alcuni stipendi definendoli da fame. Allora la do-manda è: come fa lo straniero ad andare avanti con quello stesso stipendio? Sarà l’epoca ma ormai tutti si puntano il dito contro, l’accoglienza benevola non esiste quasi più, siamo di fronte al fenomeno del cane mangia cane, del rifiuto del diverso. Basterebbe solo un po’ di educazione in più a partire dalle scuole. Il convegno L’emigrazione italiana: un percorso a senso unico?, organizzato dal Museo Nazionale dell'Emigrazione Italiana presso il Comples-so del Vittoriano mercoledì 30 novembre, coglie l’occasione per creare dibattiti costruttivi e per dare maggiori informazioni nonché approfondire questa tematica sempre esistita e dai toni sempre attuali.

maria merola

Altrove Gli italiani nel mondo: l’emigrazione dal periodo pre-unitario ad oggi

La ricorrenza dei centocinquanta anni dell’Unità d’Italia consente di riaprire un capitolo della nostra storia quanto mai memorabile e significativo: l’emigrazione. Va subito detto che già il Risorgimento aveva assistito all’emigrazione e all’esilio di molti italiani, per cui si può asseri-re che il fenomeno nasce prima dell’Unità ed ha riguardato dapprima il Settentrione, con in testa Piemonte, Veneto e Friuli e poi, dopo il 1880, anche il Meridione.

E’ certo che l’unificazione dell’Italia non portò alla risoluzione dei problemi economici e socia-li della penisola. Gli ultimi anni dell’Ottocento vedevano l’Italia ancora molto povera e vellei-taria rispetto alle proprie capacità e risorse.

Le due più grandi ondate migratorie si registrarono in modo rilevante tra 1896-1918 e il 1947-1970 ed ebbero proporzioni tali da incidere sulla storia d’Italia e del mondo nonché, secondariamente, sulla storia dell’immagine della nazione italiana e degli italiani nel mondo. Il fenomeno fu talmente vasto da distinguersi ben presto per la sua portata epocale: tutte le regioni d’Italia, naturalmente in misura diversa, ne furono coinvolte.

La prima ondata migratoria (1896-1918) si inserisce in un secondo momento della storia dell’Italia unita, ovvero un periodo di accresciuto benessere per l’Italia e per il mondo: forte era all’epoca la richiesta di manodopera degli Stati Uniti e di stati del Sud America (soprattutto Venezuela e Argentina); si trattò dunque in primo luogo di un’emigrazione “agricola”, che andò esaurendosi con l’avvento dell’era fascista. E’ bene notare che anche la seconda ondata migratoria (1947-1970) nacque in un periodo connotato dal boom economi-co. Chiaramente, le possibilità che gli emigranti italiani videro oltre i confini della propria pa-tria furono ben più floride e allettanti di quelle offerte dal proprio paese.

Altre mete furono l’Australia e il Canada, ma vi fu anche un’emigrazione “europea”, verso la metà del Novecento, che ebbe come mete paesi come il Belgio, la Francia, la Svizzera e, infi-ne, la Germania. E’ bene ricordare, tra l’altro, che nel 1955 l’Italia firmò addirittura un patto di emigrazione con la Germania, il cui risultato è chiaro a tutti: un immenso flusso di italiani __ si stimano circa tre milioni di persone __ si recò in Germania alla ricerca di un lavoro, spes-so nelle fabbriche e nelle grandi industrie, anch’esse bisognose di manodopera.

L’integrazione fu talora dolorosa, talaltra più agevole; è un dato di fatto che al giorno d’oggi si contano milioni di italiani sparsi in questi paesi, dove hanno poi creato una propria fami-glia, unitamente a reti di relazioni le quali hanno col tempo portato ad un’integrazione spes-so perfetta con la società ospitante.

Il flusso migratorio italiano ha subito un’attenuazione allo scattare del terzo millennio, tutta-via è evidente la sua attuale ripresa, che spesso ha come protagonisti professionisti e lau-reati che non sentendosi apprezzati e valorizzati nel proprio paese, sono spesso costretti

Page 16: Numero zero nov 11

qui è sinonimo di “indotti”, “invogliati”) a prendere la decisione di trasferirsi all’estero.

Com’è chiaro, cambiano i soggetti, le motivazioni e le condizioni, poiché naturalmente è più semplice ora spostarsi da un paese all’altro, ma gli italiani devono continuamente fare i conti con le mancanze e le difficoltà derivanti dal vivere nel proprio paese e cercare, con orgoglio, determinazione e spirito di sacrificio, di soddisfare le proprie esigenze altrove.

vincenza accardi

STRANI-IERI

Matera. Alcune donne si dispongono sul ciglio di un dirupo e urlano forte il nome dei propri uomini, partiti per Torino in cerca di fortuna. Questa è l’immagine iniziale di “Strani-Ieri”. Lo spettacolo racconta, con ironia, la storia dei meridionali che, fra gli anni Cinquanta e Settan-ta, lasciarono le terre natie per migliorare la propria condizione economica e sociale. L’opera è una produzione Tedacà, in coproduzione con La Tela di Aracne, con il contributo di Regione Piemonte in collaborazione con Fondazione del Teatro Stabile di Torino, Sistema Teatro Tori-no e Fondazione circuito Teatrale del Piemonte.

Tra il 1950 e il 1970, milioni di contadini del Meridione abbandonano le campagne per recarsi nelle grandi città del Cento e Nord Italia. Torino è una delle mete privilegiate di questa onda-ta. Strani-Ieri narra la storia di questi immigrati (la scelta della partenza, il viaggio sull’anco-

ra esistente treno del sole, l’arrivo, l’ambienta-zione, il lavoro, la fabbrica, la casa, il primo ritorno nella terra natale, le prospettive per il futuro) sia attraverso la ricostruzione del con-testo storico e sociale del periodo, sia ripor-tando le esperienze reali di chi ha vissuto in prima persona questa storia. La drammaturgia dell'opera, difatti, si basa sia su una fase di documentazione sia su un lavoro d'interviste agli immigrati di ieri, con l'obbiettivo di focaliz-zarsi sulle speranze, i problemi, i sentimenti e i sacrifici che la scelta di migrare ha comporta-to nelle loro vite. Dice Valentina Veratrini, as-sistente alla regia: “L’auspicio è che tale rilet-

tura permetta, inoltre, d'interrogarsi sulla situazione contemporanea: forse negli occhi degli immigrati di oggi, che da ogni luogo giungono in Italia, si può ritrovare la medesima volontà di cercare una vita migliore non solo per se stessi ma anche, e soprattutto, per le future ge-nerazioni”.

La drammaturgia dell’opera è stata il termine di un percorso in cui i migranti meridionali de-gli anni Cinquanta-Settanta si sono confrontati con la discendente generazione nata e cre-sciuta a Torino. L’associazione Tedacà ha prima incentivato i ragazzi a intervistare i propri nonni e genitori, poi ha chiesto ad alcuni testimoni di raccontare la propria esperienza in pubblico, attraverso una serie d’incontri chiamati da Sud a Nord: le storie di ieri. Una platea di giovani ha così potuto sentire la diretta testimonianza di chi ha vissuto da protagonista i problemi legati a questo processo storico, come la ricerca del lavoro e della casa, l’ambienta-zione, la povertà e il pregiudizio, ma anche le motivazioni che li hanno spinti a rimanere, contribuendo allo sviluppo economico della città. Queste esperienze sono diventate il baga-glio di una narrazione della quotidianità che si fonde a un lavoro di descrizione del contesto storico e sociale.

Dice Simone Schinocca regista e ideatore dell'opera: “Strani-Ieri” nasce da esperienze diver-se ma per alcuni aspetti simili. A noi una fortuna: quella di poterle ancora raccogliere dalla voce delle persone che negli anni Cinquanta-Settanta salirono su quei treni del sole per giun-gere in questa città. Da qui a una decina di anni, molte di queste storie andranno perdute, così come la possibilità di poter leggere il nostro presente attraverso quelle esperienze. Ma

Page 17: Numero zero nov 11

questo spettacolo non vuole comunque pretendere di rappresentare la realtà contempora-nea, bensì si basa sulla sola consapevolezza che i giovani meridionali di quegli anni approda-rono in molte città industrializzate per cambiare vita, offrendo un contributo fondamentale al loro sviluppo urbano ed economico”.

“Strani-Ieri” utilizza un linguaggio fondato sia sulla parola sia sulla rappresentazione emble-matica di macro situazioni. Ogni attore interpreta un personaggio di provenienza diversa (Sicilia, Campania, Veneto, Basilicata, Piemonte), quindi con differente bagaglio linguistico e culturale. I protagonisti vengono poi seguiti, nel loro percorso, da una narrazione che prose-gue per quadri argomentativi. Nel momento in cui l’opera analizza il contesto storico e socia-le, gli attori diventano popolo, materializzando stati condivisi da tutta la comunità di migran-ti. La narrazione possiede così un doppio binario che fluisce dal piano individuale al piano so-ciale e viceversa. Contribuiscono all’atmosfera ironica dello spettacolo le canzoni dei Pappaz-zum, una fanfara che mescola con disinvoltura musica, danza e numeri comici.

FILIPPINO LIPPI E SANDRO BOTTICELLI NELLA FIRENZE DEL ‘400

Grandissimo allievo di un grande maestro. Sotto i riflettori delle Scuderie del Quirinale occu-pa finalmente il centro della scena “l’amico di Sandro”, Filippino Lippi.

Indiscussa protagonista della mostra curata da Alessandro Cecchi è l’opera di Filippino Lippi (Prato 1457 __ Firenze 1504), figlio di Filippo Lippi (Firenze 1406 __ Spoleto 1469), che ne fu il primissimo maestro, e allievo di Sandro Botticelli (Firenze 1445 __ Firenze 1510). Intento del curatore è, in li-nea con numerose voci della critica novecentesca, quello di affermare l’importanza di un artista dapprima noto come “l’amico di Sandro”, ma che ben presto seppe conquistarsi indipendenza e riconoscibilità, fino ad essere spesso preferi-to a Botticelli da illustri committenti.

La mostra consta di sei grandi sezioni, composte da numero-se opere provenienti da musei e collezioni private di tutto il mondo. Le singole sezioni permettono al visitatore di riper-

correre le principali tappe della carriera di Filippino Lippi: dall’apprendistato paterno alla bot-tega botticelliana, dai primi lavori autonomi al successo fiorentino, toscano e poi romano. La predominante produzione di Filippino Lippi è inframmezzata dalla presenza di alcune opere del padre Filippo e di Botticelli, tra le quali vale la pena di ricordare almeno l“Adorazione dei Magi”, contenente il noto autoritratto dell’artista.

Tuttavia non mancano lavori di autori coevi e di allievi di Filippino Lippi, come Raffaellino Del Garbo (San Lorenzo a Vigliano, Firenze, 1466 __ Firenze 1524). L’allestimento della mostra mira spesso alla comparazione tra le opere, che si gioca sul piano tematico e su quello stili-stico.

Le tavole sono accompagnate da un cospicuo numero di studi, disegni grazie ai quali è possi-bile conoscere l’affascinante evoluzione di un’opera, il cui risultato definitivo è spesso il frutto di ripensamenti, ritocchi e stravolgimenti. L’esposizione è inoltre arricchita dalla presenza di preziosi documenti dell’epoca: registrazioni, denunce, inventari. Tra i documenti spiccano alcune lettere, che testimoniano il rapporto con illustri committenti, come Filippo Strozzi il Vecchio e il cardinale Oliviero Carafa. E’ proprio da una lettera scritta da quest’ultimo che si apprende che l’incarico della decorazione della cappella Carafa, presso la Chiesa di Santa Maria sopra Minerva di Roma, fu favorito dalla raccomandazione di Lorenzo il Magnifico.

Uno dei più noti e apprezzati capolavori dell’autore, “L’Apparizione della Vergine a San Ber-nardo” (1486), conservato nella Badia Fiorentina, racconta al visitatore le tangenze e l’inci-

Page 18: Numero zero nov 11

e l’incipiente infrazione degli schemi botticelliani. Le figure allungate all’inverosimile sono an-cora un chiaro marchio del maestro, ma s’insedia una nuova inquietu-dine, tipica della produzione matura, unita ad un personale gusto per il minuzioso dettaglio, per il capriccio, tratto che ha consentito di ac-costare la sua pittura a quella fiamminga.

Come testimonia la presenza di “Due studi per candelabri a grotte-sca”, Lippi coltivò anche la decorazione “a grottesca”, tipica dell’anti-chità e tornata in voga nel Quattrocento. E’ possibile riscontrare an-che una certa vena misteriosa e fantastica che serpeggia in alcune sue opere esposte.

I levigati volti delle madonne, i colori delicati, il recupero di motivi flo-reali cari al maestro Botticelli non sono le uniche cifre, dunque, di un artista che a ben vedere manifesta una più complessa e vertiginosa concezione dell’arte e della bellezza.

vincenza accardi

GEORGIA O’KEEFFE

“Non c’è nulla di astratto in questi quadri, sono quello che ho visto, e per me sono molto realistici”. Un viaggio nello sguardo dell’artista americana che ha rivoluzionato il concetto di arte modernista.

Ha il sapore di una passeggiata per una New York di inizi ‘900 l’apertura della mostra che celebra una delle artiste più interessanti del secolo scorso. Georgia O’Keeffe (Sun Prairie, 15 novembre 1887 __ Santa Fe, 6 marzo 1986) ha cominciato la sua carriera di artista quasi per caso, grazie all’aiuto dell’amica Anita Pollitzer e del gallerista e fotografo Alfred Stieglitz (1864 __1946) che, intuendone il talento, espose i suoi primi lavori a carboncino presso la 291 Gallery sulla Fifth Evenue. Sempre all’influenza di Stieglitz, che diventò marito della O’Keeffe nel 1924, si devono gli autoritratti dell’artista. Si tratta di nudi realizzati intorno al 1917, la stessa artista scriveva all’amico a corredo delle ope-re: “Oggi volevo dipingere la nudità, ma non saprei dire se sono più nudi questi di un paesaggio al quale sto la-vorando”. L’intero allestimento dell’esposizione vuole riproporre il percorso storico -artistico della pittrice at-traverso un viaggio tra circa 60 opere realizzate nel corso della lunga vita della O’Keeffe e che riflettono im-mancabilmente i luoghi in cui ha vissuto. In questa pri-ma sezione dedicata agli anni giovanili spiccano i lavori ispirati ai vasti spazi texani in cui aveva trascorso alcu-ni anni come insegnante. Tra questi “Evening Star No. VI” del 1917, un acquerello esempio di un nuovo astrattismo, in cui le forme cariche e colorate rimangono sospese sul foglio sen-za toccarne i bordi.

Il percorso ora si insinua tra le pareti di legno della ricostruzione della casa della famiglia Stieglitz a Lake George. Immersa nel verde, con vista sul lago, dava spesso rifugio alla O’Keeffe che vi trascorreva lunghi periodi per dipingere. A questo periodo si deve il pregevo-le “New York Street With Moon” del 1925 prestato eccezionalmente alla mostra romana dal

Page 19: Numero zero nov 11

Thyssen-Bornemisza di Madrid.

Delusa dalle erronee interpretazioni delle sue opere astratte in chiave freudiana, l’artista americana negli anni ’20 sposterà l’oggetto delle sue rappresentazioni su elementi naturali quali calle, petunie e mele di un rosso profondo modificando il punto di vista delle nature morte attraverso un’inquadratura macroscopica. Negli anni ’40, in cerca di nuova ispirazione, comprò una casa a Ghost Ranch, in New Mexico, e vi si trasferì conquistata dal paesaggio esotico delle montagne rosse e gialle del Painted Desert dove la sua creatività troverà nuova linfa. Questi paesaggi brulli e surreali diventarono il fulcro delle creazioni della O’Keffe che rivedeva nelle ossa di animali sbiancate dal deserto la migliore rappresentazione di questo ambiente, come in “Summer Days” del 1936.

La mostra si chiude con una ricostruzione dello studio nel deserto della O’Keffe composta da oggetti personali e strumenti di lavoro originali di questa artista caratterizzata da grande for-za ed originalità espressiva e che solo grazie alla sua determinazione cominciò a proporre dipinti considerati così audaci e inusuali, specie per una donna.

Dopo Roma l’esposizione si trasferirà presso il Kunsthalle der Hypo-Kulturstiftung di Monaco.

raffaella mossa

CENTO VOLTE PRIMAVERA. FOTOGRAFIE DI TEL AVIV DAL 1909 AD OGGI

Il fascino del bianco e nero e gli accesi colori della modernità. Uno sguardo approfondito su una città in trasformazione che sorprende, incuriosisce e affascina a tal punto da far venire voglia di visitarla al più presto.

Nel cuore di Trastevere è da oggi possibile visitare una ricca mostra fotografica dedicata a Tel Aviv, ideata da Roly Kornblit e curata insieme a Francesca Barbi Marinetti. L’evento na-sce dal desiderio di testimoniare la bellezza della città israeliana che proprio due anni fa ha compiuto il suo primo centenario. La mostra si compone di due grandi sezioni: la prima ri-guarda le prime fasi della città in costruzione, raccontata dagli scatti del russo Avraham So-skin (1881-1963). La seconda sezione ritrae l’odierna Tel Aviv, così come ha scelto di illu-strarla Viviana Tagar (1949), romana di nascita, che oggi risiede a Tel Aviv.

Con due significative immagini della fondazione della città, “Il sorteggio dei terreni” (1909) e la “Celebrazione per la deposizione della prima pietra della Nuova Società” (1913), si apre la ricca raccolta di scatti fotografici degli albori della città, firmati Avraham Soskin. Gli sguardi fissi all’obiettivo dei fondatori della “collina di primavera” (significato dell’ebraico nome di Tel

Page 20: Numero zero nov 11

Aviv documentano la consapevolezza di un preciso momento storico e la fierezza per quan-to stava accadendo. Le prime foto scandiscono i momenti della fondazione della città “nata sulle dune”, come testimonia uno scatto del 1909, che coglie gli operai nell’attività di spia-nare le dune nella zona di via Allenby.

Raccontano di una realtà urbana che sta prendendo vita le fotografie di opere portate ormai a compimento come abitazioni, acquedotti, scuole, l’ufficio postale e la Sinagoga di via Al-lenby, il cinema e i locali alla moda, che simbolicamente danno l’idea delle priorità di una città moderna. Soggetti come lo spazzino, con lo sguardo fisso e immobile all’obiettivo di Soskin, e attività come la raccolta dei rifiuti, così come una lezione nelle scuole elementari, compongono un ideale quadro della quotidianità di una città il cui cuore inizia a pulsare. De-sta l’interesse dei visitatori la foto datata 1924, che documenta la visita di Albert Einstein a Tel Aviv.

Impressionante è la vicinanza di quattro fotografie che illustrano la trasformazione dell’a-spetto di Boulevard Rothschild: il mare è sempre sullo sfondo, la strada prende forma, gli alberi appena piantati delle prime immagini crescono a vista d’occhio man mano che lo sguardo passa da una fotografia all’altra. La mostra ci porta per mano verso il cuore archi-tettonico della modernità: alcune foto presentano le numerose costruzioni in stile Bauhaus (edificate tra il 1931 e il 1956), preziosi oggetti dell’arredamento urbano grazie alla cui pre-senza Tel Aviv è stata dichiarata dall’UNESCO patrimonio dell’umanità. Infine, una parte meno cospicua della mostra è affidata al racconto della modernità vista da Viviana Tagar, le cui immagini producono un apparente contrasto __ che in realtà è una fu-sione armonica con il resto della mostra __ dovuto alla presenza di moderni edifici, di nuovi locali alla moda, di imponenti grattacieli, ma soprattutto per la vivacità dei colori, simboli di un’accattivante e insaziabile modernità.

Quando si pensa a questa città si potrebbe parlare di “dinamismo monumentale”, come ha osservato Dino Gasperini, assessore alle politiche culturali del Comune di Roma, alla pre-senza dell’ambasciatore di Israele in Italia durante l’inaugurazione del 22 novembre. L’as-sessore ha inoltre dato voce ad un desiderio che senz’altro ha accomunato la folla di visita-tori accorsi all’evento: “Viene davvero voglia di andarci!”.

vincenza accardi

VIK MUNIZ. MATRICI ITALIANE

I grandi maestri della pittura italiana attraverso fotocopiatrici, cisterne, frigoriferi, corde, ro-telle, botti di vino... La personale di Vik Muniz nel cuore di Roma.

È stata inaugurata il 25 novembre la mostra dedicata all'artista brasiliano più famoso al mondo, allestita presso l'Ambasciata del Brasile a Roma all'interno del Primo Festival di Cul-tura Brasiliana. La sontuosa Galleria Cortona di Palazzo Pamphilj accoglie sette opere ispirate ad alcuni dei più celebri pittori italiani del Cinquecento e del Seicento. “Matrici italiane” esplora capolavori di Caravaggio, Tiziano, Guido Reni, Michelangelo, Carracci e del Guercino per mezzo di ciò che Muniz definisce “un negativo, qualcosa che non si usa più: ciò che non si vuol vedere”.

L'immondizia torna a nuova vita nella prima delle due sezioni della mostra “Pictures of Junk”: Muniz utilizza ogni sorta di oggetto solido per comporre quadri famosissimi con un collage di prodotto in disuso. Cinque stampe digitali che giocano sulla contraddittorietà tra qualcosa di estremamente noto ma anche di fortemente nuovo: questo è ciò che la curatrice della mo-stra Claudia M. Abreu definisce il “perturbante di Muniz”, ossia l'ambiguità con cui Muniz di-sorienta lo spettatore. Gli offre una visione bifronte: da lontano la ricostituzione di contorni conosciuti, estesi su dimensioni piuttosto imponenti;avvicinandosi progressivamente si sco-

Page 21: Numero zero nov 11

prono i pezzi del puzzle che affiorano dalla discarica, e acquisiscono dignità pari ad olio su tela. Ma l'incertez-za si basa su altri due aspetti: la bidimensionalità dell'opera si increspa con la sua componente tridi-mensionale man mano che si riconoscono gli oggetti nella loro concretezza. In ultimo, la prospettiva viene confusa in duplice modo: da una parte la grandezza degli oggetti non viene percepita in proporzione per-ché i lineamenti dei protagonisti dei quadri confondo-no i parametri reali, e dall'altra è lo stesso Muniz che predispone gli oggetti più grandi in primo piano e via via sempre più piccoli sullo sfondo, dando all'opera una profondità assoluta. Inoltre in sala viene proietta-to un video che presenta le fasi di realizzazione delle composizioni da parte dell'artista e dei suoi collabora-tori.

Ad una sola sostanza materica è affidata la seconda sezione della mostra “Picture of Magazine 2”: “la carta assume una scala quasi scultorea […] mi affascina”. “Bacchino malato” di Caravaggio e “Bottega del ma-cellaio” di Annibale Carracci sono ricreati attraverso un'infinita serie di ritagli: colori, sfumature, ombre, la carta viene sapientemente disposta da Muniz donando una veste totalmente nuova ai dipinti. Come per le altre stampe digitali, anche per queste sussiste l'ele-mento perturbante: la completezza d'insieme contro il singolo particolare, volutamente mostrato attraverso lo strappo della carta, poiché il mezzo espressivo uti-lizzato deve essere ostentato e non nascosto, come accade nella quotidianità di tutti i giorni.

Nell'epoca del riciclo, “Matrici italiane” spinge anche a riflessioni che vanno oltre l'arte stessa: nell’ “Atlante” del Guercino agli albori dell'umanità il titano sollevò il mondo; nell'opera di Muniz l'uomo del XXI secolo solleva un mondo fatto di rifiuti.

sara iacobitti

OUTSIDE

Mostra fotografica

Francesca Petrella e Teresa Brillante, giovani fotografe emergenti, iniziano il loro viaggio ver-so mete ignote, con la semplicità di chi per la prima volta si affaccia in un mondo nuovo. La loro prima mostra collettiva: “Outside”, nasce da un progetto di Teresa Brillante, “L’emancipazione”, espressione ironica per denunziare un percorso difficile di integrazione sociale da parte delle persone.

Teresa è un’artista, si avvicina alla fotografia grazie alla sua passione per la pittura.

Francesca invece si accosta piano, quasi in sordina, alla fotografia, prima come modella e poi come fotografa. Il connubio tra Teresa e Francesca è uno scambio di reciproco aiuto, fatto soprattutto dalla “sofferenza” per la fotografia, che si trasforma ben presto in passione. Quella passione che permetterà ad entrambe di entrare a spiare un mondo lontano dalle ap-parenze.

La mostra è stata allestita presso la libreria “Hamletica” in Maddaloni, un luogo insolito ma

Page 22: Numero zero nov 11

mondo della lettura è colui che per un attimo si allontana da una vita frivola, si addentra in uno spazio senza fine e dove, almeno per una volta, si può essere liberi con se stessi!

La scelta del titolo non è casuale, anzi, il termine inglese “outside” identifica il significato e il taglio che Francesca e Teresa vogliono dare alle loro opere.

Le due giovani artiste denunciano con la loro macchina fotografica il disagio di oggi, co-gliendo, attraverso i “modelli umani” la velocità e la staticità del nostro tempo, la cattiva abitudine di non soffermarsi a guardare le sfumature di ciò che “Outside” in italiano signifi-ca : “Al di fuori”.

Al di fuori degli schemi convenzionali esiste la realtà di ogni singolo essere umano, in cui si intrecciano imprecisioni, incertezze, paure, coraggio e solitudine. Ma ogni essere umano è distratto dal consumismo, dall’indifferenza verso l’altro, dalla voglia di apparire e non di es-sere.

Lo stile è accademico, ancorato alla precisione e alla ricercatezza della perfezione, che in certi momenti diventa quasi maniacale.

Le immagini hanno un duplice significato, entrambe presentano sette scatti, e da una prima analisi di lettura si deducono delle domande:

la predilezione del loro stile è dettata dalla volontà o dall’esigenza? In che modo riescono a rompere gli schemi consolidati nel tempo? Ma soprattutto, hanno la forza di uscire da una nicchia fatta di sicurezza per addentrarsi in un mondo ignoto? Per cosa? Per essere contro-corrente e per avere un ruolo marginale nel sistema? Domande legittime che l’osservatore attento si pone davanti alle fotografie di Francesca e Teresa.

L’altra lettura è: Francesca e Teresa sono due donne spregiudicate che non hanno paura, hanno la consapevolezza di essere se stesse nel bene e nel male, di correre dei rischi, di mettere a nudo la loro visione della vita, consapevole di esserci, e più di ogni altra cosa, si-cure di aver dato un contributo in questo mondo.

Enigma di capire prima noi stessi, poi addentrarsi nell’immaginario fotografico di Francesca Petrella e Teresa Brillante, solo attraverso la visione diretta delle loro opere si possono tro-vare delle risposte.

La mostra è visibile tutti i giorni presso la libreria “Hamletica”, piazza della Vittoria, 12, Maddaloni (Caserta).

Esterina Pacelli

Page 23: Numero zero nov 11

Sara Iacobitti (Atessa, 1984), terminato il liceo, si trasferisce a Ro-ma per gli studi universitari. Dopo una laurea di primo livello in Lettera-tura, musica e spettacolo (2008), si specializza prendendo l'indirizzo musicale, (passione che coltiva fin da piccola con lo studio del pianofor-te per sette anni) e nel 2011 consegue la laurea a pieni voti in Musico-logia e beni musicali. Durante il percorso universitario si confronta con diverse esperienze del settore musicologico. Nel 2009 partecipa alla Giornata di studi organizzata dall'Irtem in collaborazione con L'Universi-tà “La Sapienza” intitolata “Futurismo e musica. Una relazione non faci-le”, tenutasi presso la Biblioteca Casanatense, con l'intervento “I mani-festi: forza e contraddizione del futurismo” a firma congiunta con Irene Morelli; lo stesso è stato pubblicato nel 2010, a cura di Antonio Rosta-gno e Marco Stacca. Tra il 2009 e il 2010 svolge uno stage editoriale presso l'Accademia di Santa Cecilia Fondazione, e collabora alle fasi fi-nali di redazione di alcuni volumi. Per due anni (2008-2010) scrive brevi saggi pubblicati nei programmi di sala del Teatro dell'Opera di Roma in collaborazione con il progetto “Studiare con l'Opera” del Servizio didattica. Attualmente svolge ricerca archivistica per il progetto “Gli spazi teatrali nel Lazio tra XIX e XX secolo”, promosso dall'Irtem in collabora-zione con la Soprintendenza Archivistica per il Lazio e sotto il patrocinio Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Collabora con CU.SP.I.D.E. magazine dal 2011.

LA REDAZIONE

Michele Luca Nero (Agnone, 1979), figlio d’arte, inizia a dipin-gere all’età di sei anni. Una passione ereditata dal padre, Francesco, insieme a quella teatrale acquisita dal nonno, Valentino, poeta e dram-maturgo riconosciuto a livello internazionale.

In pochi anni ha curato e realizzato numerose mostre, tra cui alcune personali. Un successo di pubblico che lo ha accompagnato anche nelle performance teatrali, non senza un'esperienza come ufficio stampa. Appassionato di cultura e società e dotato di uno spiccato senso critico. Curioso, perfezionista, esteta. Forse a causa della sua innata passione per la musica, per la quale vanta, oltre ad una laurea in etnomusicolo-gia, anche studi musicali di pianoforte. Ha maturato esperienze nell'in-segnamento e nella trascrizione apportando un decisivo contributo alla salvaguardia del patrimonio di tradizione orale delle melodie della sua terra di origine. Vivace sperimentatore nel campo della pittura, è alla costante ricerca di sempre nuovi linguaggi espressivi. Sostenitore del

collage, cerca da sempre di unire tradizione e modernità, con un ricorrente accenno al mondo del sacro, sua costante ossessione. La formazione teatrale ha influito notevolmente sulla sua concezione del corpo (figura), dello spazio e della materia. Nelle sue opere preva-le sempre un carattere deciso, vuoi nel colore che nella definizione del soggetto: eleganza nella postura, espressività nel volto. Ha frequentato un corso di mimo e uno di portamento e passerella. In qualità di illustratore ha pubblicato “Matteo e il viaggio nel meraviglioso mondo dei libri” (2009) e “Gigì le coiffeur et la maison de beauté” (2011) per la Edigiò. E’ direttore responsabile del magazine CU.SP.I.D.E. (cultura, spettacolo, intrattenimento, di-vagazioni artistiche, etno -gastronomia). Dal 2011 fa parte dello staff redazionale di Artri-bune.

Page 24: Numero zero nov 11

Maria Merola (Agnone, 1984) è laureata in Storia e Conserva-zione del Patrimonio Artistico. Ha conseguito un master in Orga-nizzazione e Gestione di Galleria ed Eventi. Attualmente lavora presso l’encoding della Rai ed ha una collaborazione attiva presso un antiquario. Dal 2011 collabora con CU.SP.I.D.E. Magazine.

Vincenza Accardi (Maratea, 1986) è laureata in Filologia Moderna. Le sue ricerche in ambito universitario hanno dapprima riguardato la dialettologia e in un secondo momento la storia della letteratura italia-na, con un particolare sguardo sulla trattatistica e la poesia del Cinque-cento, che tuttora costituiscono il suo campo di ricerca. Ha svolto uno stage presso la redazione di un istituto storico ed ha collaborato con un'importante biblioteca romana. Collabora con CU.SP.I.D.E. Magazine dal 2011.

Adriana Farina ( Vibo Valentia, 1985) è laureata in Storia e Conser-vazione del Patrimonio Artistico. Durante il suo percorso di studi ha avuto modo di svolgere un tirocinio presso un istituto storico e di colla-borare con il CROMA (Centro di Ateneo per lo studio di Roma) e con la biblioteca dell’università. Attualmente è laureanda in Storia dell’Arte presso l’Università di Roma Tre. Collabora con CU.SP.I.D.E. Magazine dal 2011.