Non scrivete lettere d'amore d'estate

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Romance. Un trentenne lasciato dalla compagna con cui conviveva a Milano torna all'inizio dell'estate nella sua cittadina d'origine sull'Adriatico, dove mancava da anni. Si rifugia nell'alcol, in picaresche avventure estive, tenta improbabili lavori, vive di ricordi, ma soprattutto scrive una lettera d'amore alla sua Lucia nel tentativo di riannodare il filo di un rapporto senza il quale si rende conto di non poter vivere. L'attesa della risposta si intreccia in forma di diario con una quotidianità asfissiante di situazioni tanto più paradossali quanto del tutto comuni in un paese che sembra ormai avviato a una necrosi emotiva e morale. Scritto deliberatamente con ruvida ironia e incolta naiveté, questo romanzo ci porta fra I Vitelloni del terzo millennio, senza un euro, barbari e disperati, afflitti da una solitudine sconosciuta alle precedenti generazioni. Ci porta in una Peyton Place della provincia italiana dove la vita è scandita dalla precarietà, una precarietà sociale, familiare

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In uscita il 31/3/2015 (14,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine marzo e inizio aprile 2015

(3,99 euro)

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EMANUELE PIERONI

NON SCRIVETE LETTERE

D’AMORE D’ESTATE  

 

 

 

 

 

 

 

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NON SCRIVETE LETTERE D’AMORE D’ESTATE Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-873-2 Copertina: immagine Shutterstock

Prima edizione Marzo 2015 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Dedico questo libro al sorriso di Lucia. E.P.

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I momenti più cupi della vita sono come pozzi neri senza fondo. Eppure talvolta anche la più piccola e fioca luce

si scopre capace di infrangere quel buio cieco. La mia luce è stata un sorriso.

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4 Luglio 2014 Il meteo l'ha buttata lì, la sua profezia. A quanto pare, questo sarà un luglio incerto. Beh, per quanto mi riguarda, lo sapevo già, e non mi riferisco cer-to al clima. Come se mai fosse esistito poi, un periodo di vita certo, per chi-unque di noi. Ecco qui, Cristo. Non ci siamo. Mi pareva una buona giornata oggi, per iniziare questo diario e-stivo, ed ecco che butto giù subito 'sta gran banalità. A proposito, Manzoni è morto, lo sapete, pace all'anima sua, ma io non proverò certo a resuscitarlo. Bene, patti chiari. E così, inizia tutto con una birra, una penna e un taccuino. C'era da aspettarselo. Datemi tempo. Sapete, una volta ho conosciuto una tipa che non aveva mai sentito dire che la penna uccide più della spada. Ci credereste? Eppure scommetterei che aveva campato bene anche senza saper-lo, e che anche adesso tira avanti meglio di me. Non che ci voglia molto, a tirare avanti meglio di me, comunque. Adesso vi racconto questa, poi smetto di farvi due palle tante con questa introduzione, promesso. Statemi dietro solo per qualche altro istante. Dovete sapere che il mio primo, vero libro, l'ho scritto lo scorso inverno. Faceva freddo di notte, su in quell'appartamentino a Mi-lano, dove vivevo con Lucia, e io non riuscivo a dormire bene. A volte non riuscivo a dormire per nulla. Nel mio cuore sentivo che tutto a breve sarebbe andato a puttane, non riuscivo a capire per-ché e cosa potessi fare per fermare quel declino. Riuscivo solo a

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scrivere e sfogarmi così. E nell'arco di un mesetto ecco che avevo sfornato una serie di racconti. Roba un po' gotica, se mi capite. Un po' d'amore, un po' di morte, le solite cose insomma. Tutto un po' melenso, come qui. Beh, dei pazzi poco tempo fa hanno deciso di pubblicarmelo. Dio – o chi per lui - li abbia in gloria. C'era il protagonista di uno dei racconti, che da ragazzino era un povero grassone timido ed emarginato. Due coetanee gli sfilano davanti a scuola, nel corridoio, sculet-tando allegramente, e alla più fighetta delle due, sbuca il perizo-ma dai pantaloni. Provocatorio, impertinente, sfacciato. Cristo, soprattutto eccitante. Beh, a 'sto poveretto gli si è indurito dentro le mutande. Non c'era un cazzo da fare. Era ovvio. E poi la scenetta finiva lì, non c'era da aggiungere altro. Insomma, 'sto pezzo me l'hanno fatto tagliare tutto. Via, cancellato, censurato. È il tuo primo libro – dicevano – me-glio non evidenziare certi particolari. E credetemi, se vi dico che era tutto ben glossato, non lo descrivevo usando un linguaggio esplicito. Ok - dico loro - non c'è problema, siete voi i pazzi che me lo pubblicano, si fa a modo vostro. Ora avrete intuito cosa voglio dirvi. Questa volta farò a modo mio. Farò ciò che va fatto. Vendicherò il povero ciccione e la sua piccola erezione censurata. Vi parlerò del mio amore, mentre vi racconterò la mia estate, e alla fine spe-ro di poterne avere tante, di cose da censurare che non censurerò, perché vorrebbe dire che sarà stata un'estate memorabile. E racconterò queste cose nella maniera in cui vanno dette, perché è un diario di vita, ed è così che è, la vita. Nuda e cruda. Se vi sta bene, continuate a seguirmi. Altrimenti, chiudete questo libro e fatemi il grosso favore di comprare una copia dell'altro. Fatemeli entrare due spicci, da qualche parte. Ne ho davvero bisogno! A settembre mi sfrattano!

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Beh, che introduzione di merda. Domani andrà meglio. Ahi… ec-co la prima bugia. Forse. Giudicherete voi. Divertitevi!

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5 Luglio 2014 Quando Lucia e io ci siamo conosciuti, nel luglio di cinque anni fa, ero Dio. Nel 2009 avevo il mondo ai miei piedi. Venticinque anni. Nean-che l'ombra di calvizie o capelli bianchi. Bevevo e fumavo come se non ci fosse un domani. Campavo giocando a poker online, e bazzicavo i circoli e le bische locali, e mi andava alla grande. Tut-to mi andava alla grande. Sudavo come un maiale solo per camminare, e avevo già un bell'accenno di pancetta, tipica di uno che aveva capito tutto. Lei, Lucia, l'avevo semplicemente fermata sul lungomare, mentre pas-seggiava, e l'avevo incantata con una delle mie migliori perfor-mance da rimorchio, in piena sbornia. Ci sapevo fare io, da ubriaco, a sparare cazzate. Mi trovava buffo, era affascinata dai miei modi cafoni e diretti, e da quello che an-davo spacciando per lavoro. Giocatore professionista di poker. Ah Ah. Beh, comunque aveva funzionato. Mi asciugava il sudore dalla fronte e non era fuggita quando mi ero allontanato per vomitare. Era il nostro primo appuntamento, e faticavo a reggermi in piedi, ma lei era ancora lì. E sorrideva. Era la ragazza perfetta. Aveva un cuore grande, era chiaro. Per di più, non era uno dei soliti cessi che ero solito racimolare in quelle condizioni, di quelli di terza mano, grassi e sfatti e che se ne fre-gano di come sei messo, che tanto di meglio non trovano. No, era proprio bellina, Lucia. Piccolina, ma con tutte le curve al punto giusto. Capelli lunghi, biondi d'oro, occhi verdeazzurro, grandi, luminosi, buoni. E 'sto gran sorriso, puro, che scaldava il cuore, dava quasi un senso a questo mondo. Ti faceva pensare che forse potesse valerne la pena, dopotutto.

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E per quasi cinque anni, quelli trascorsi con lei, per me ne è valsa la pena davvero, di stare al mondo. Ero arrivato a capire che non ero Dio, prima. Ero solo un povero coglione. Adesso ero Dio. Adesso io avevo qualcuno da abbracciare, la not-te. E che mi abbracciasse a sua volta, si stringesse a me. Con a-more. Per amore. Avevo tutto. Non poteva esserci di meglio e non doveva finire mai. È finita a marzo di quest'anno. Non mi trovava più buffo. Anche se bevevo, fumavo e tiravo a campare giocando a poker, proprio come cinque anni prima. E avevo la pancetta, tipica di chi non ha capito un cazzo. Sono riuscito a spegnerle il sorriso. Merito la dannazione eterna. Forse ce l'ho. Giudicherete voi. Io per dannarmi, mi danno ecco-me, comunque. Da marzo a oggi, non ho fatto altro che cercare di capire che cosa mai cazzo avessi sbagliato. Come fossi riuscito a perdere un angelo. Alla fine l'ho capito. Mi ero fatto annichilire, logorare da tutte le fottute cose del mondo dei normali. E l'avevo trascinata dentro il tunnel con me. Lei che è sei anni più giovane di me. Non ce la poteva fare a reggere. Non ce la faccio io. Le tasse, le dichiarazioni, l'ora suonata di cercarsi il lavoro serio, e le prospettive, il futuro, i risparmi, i fondi pensione, la banca, il dentista, il dottore, il dermatologo, i funerali, la gastrite, gli abbo-namenti, le bollette, la tv. La noia, l'abitudine. Il "lo faremo domani". Ma ero davvero io? Ero la stessa persona che sudava alcol e pi-sciava e vomitava nei vicoli e tirava all'alba tutte le notti nei bar e nelle bische, ma che allo stesso tempo sognava un amore puro, eterno, al di sopra di ogni cosa materiale? Beh, le avevo spezzato il sorriso, con tutte quelle coglionerie. È questo, ciò che ho capito in questi mesi. Ma ora sono tornato ciò che ero sempre stato. Ora me la posso ri-prendere, la mia Luci. Ora non mi perderò più nella burocrazia

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della vita, non mi dimenticherò più di quello che davvero conta, di ciò che ho davanti ai miei occhi. Ora, di nuovo in luglio, cinque anni dopo, le ho scritto una lettera. Sono cambiato, sono tornato ciò che ero, e me la voglio riprende-re, la mia Luci. Comunque, ci devo almeno provare. L'ho spedita a Milano, per raccomandata, diretta verso Via dei Piatti, lì dove ho vissuto con lei fino a marzo, quando me ne sono tornato solo, nelle Marche. Quando tutti quegli anni e quei mo-menti sono rimasti sul treno alle mie spalle, e il mondo è tornato, di nuovo, privo di un senso. Le ho scritto tutto questo, le ho scritto che ho capito. Ho cercato di essere sincero, di non apparire patetico. Le ho chiesto una seconda possibilità. Credo che tutti dovrebbero avere il diritto a una seconda chance. Voglio provare a restituirle il sorriso che le ho rubato. E ora non posso far altro che aspettare, e sperare che gliene freghi ancora qualcosa, del mio amore. Sapete com'è, le donne sono creature eccezionalmente forti, con una volontà forte. Molto più degli uomini. Non c'è un cazzo da fare. Hanno la testaccia dura. Quando decidono una cosa, di soli-to è quella. Spero tanto di essere smentito, stavolta. Non sono bravo, io, ad aspettare. Sono un tipo ansioso, penso troppo. Ci bevo sopra, per non pensare. Non ho altre vie. I miei risparmi stanno finendo, così gli do una mano a esaurirsi ancora prima del tempo. Ho preso un appartamentino in affitto, un buco, in un palazzone tipico della grande e terrificante espansione edile degli anni settanta. È vicino al mare, nella zona più povera della città, presso il porto. L'estate non è poi così male qui. Bevo, ed esco per vedere quel che c'è ancora là fuori. Se ci fosse mai qualcos'altro per cui valga la pena campare, quando le cose dovessero andare ancora più storte. Ma già lo so. Non c'è nulla che valga un amore, un abbrac-cio notturno, là fuori. Per quello esco. Così me ne ricordo.

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Bisogna trovarsi nel fondo più nero, per apprezzare di nuovo l'u-nica luce del mondo. Io l'avevo, quella luce. Eri tu, Luci. Quando non bevo, scrivo, per cercare di far fuggire i miei pensie-ri, di liberarmene. Li vomito via così, sulla carta, ma serve a po-co. Loro tornano, tornano sempre. Ma almeno, amici miei, posso raccontarvi la mia storia. Questa è la mia storia. Quella di un povero sciocco, un cretino come tanti, che ha perso l'amore, che non crede più in niente. Uno sfaccenda-to, che non sa far nulla. E che qui, nel buio del fondo del pozzo, aspetta la risposta alla sua lettera. E che, nel frattempo, anche stanotte dorme solo.

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9 Luglio 2014 Ed ecco che si comincia. Ci sarà da ballare, preparatevi. Mi trovo a una specie di festa in spiaggia. Il bar di 'sto stabilimen-to balneare, si chiama Buco24. Nome azzeccato, penso io. È pro-prio un cazzo di buco. Ci hanno piazzato un bel parquet, sulla pi-sta e attorno al bancone, hanno dipinto tutto di bianco, e pompano musica, solo-bassi, buttata lì sul momento da qualcuno di questi nuovi Dj. Sono questi qui che vanno, adesso. Dj con gli strass nel nome e nel cappellino. Beh forse c'erano anche prima, ma io invecchio e non mi ricordavo che sembrassero così deficienti. Beh, bisogna prendere quello che c'è. Almeno ci hanno infilato anche qualche gran bel culo, in questo buco. Ottima mossa i culi. Culi da festa in spiaggia. Tondi, sodi, belli in vista sotto shorts a metà chiappa e minigonne bianche. Culi messi qui apposta per tirare oltre gente, per farla bere, per farla arrapare mentre li guarda inebetita e beve di nuo-vo. Il marketing dei culi. Ballano, si scuotono, vanno vicino ai Dj-cappellino. Sorridono tutti. Chiaro. È una festa. E gli fanno un sacco di foto ai culi, alle loro proprietarie, ai loro perizomi, ai Dj, a tutti i sorrisi. Le scattano dei ragazzi, messi lì appositamente da quelli del bar. Poi le dovranno pubblicare sui social network. Bisogna farlo ve-dere a tutti, quanto ci si diverte qui, stasera. Poverini. Per me, quelle sono facce di chi non vede l'ora di andar-sene a casa, spararsi una sega e pensare ai cazzi suoi. Beh, affari loro. Io me la sto godendo. Sono nell'apice della mia parabola.

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È il mio momento magico. Quello che precede la solita, inevitabi-le, discesa verso l'oblio. Cioè il post sbronza del giorno dopo. Ma a domani ci penserò domani. E qui, nel mio ennesimo momento magico, in 'sto cazzo di Buco di sorrisi finti, ecco che spunta questa tizia assurda. L'ho conosciuta qualche mese fa, ero tornato in città da poco. Abbiamo un paio di amiche in comune, quelle con cui ogni tanto esco ora. Me l'hanno presentata proprio loro. Mi sembrava una che ci poteva stare. Faceva tutta la carina. Così ho subito chiesto loro se fosse una che la dava senza farsi troppi problemi. Col cazzo, mi hanno risposto. È fidanzata da quattro anni. Ma mica è questo il problema. E quando mai lo è stato, questo, il problema? No, è proprio una che non chiava, mi dicevano, scuotendo pure la testa con disprez-zo. Nemmeno con il suo ragazzo. Boh. Non capivo, e neanche m'interessava di capire. Ma questa, anche se d'estate è piena di turisti, resta una piccola città. E nelle piccole città accadono due cose: tutti sanno i cazzi di tutti, e in giro ci si incontra con tutti. E ogni santa volta questa tizia mi sorride. Sempre. E quando c'è la possibilità mi attacca bottone. E dopo un po' si prende parecchia confidenza. Mi liscia, con le sue manine bianchicce e un po' tozze, sulle braccia e nella schie-na, quando si appoggia o mi abbraccia, ridendo per qualsiasi caz-zata sparo. E cristo, mi fa sempre arrapare quando lo fa. Sono anche certo che lo sa, che me lo fa venire duro, e ci fa apposta. Lo fa anche davanti al ragazzo. Non si fa problemi. Eppure non chiava, a quanto dicono. Beh, c'è solo una spiegazio-ne, una definizione. Gatta morta. Una delle specie di donna peggiori in assoluto. Ho conosciuto anche il suo fidanzato, qualche tempo fa. Non ho proprio idea di come si chiami, e neanche m'interessa. Io lo chia-mo l'orso Yoghi. È una specie di orsetto, il ragazzo della gatta

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morta. Un orsetto cicciotto e barbuto, dalla faccia mite e lo sguardo passivo. Lui se ne sta lì, a bersi paciosamente la sua birra, con quell'assur-da aria indifferente, mentre lei fa le fusa e gli occhi dolci a chiun-que altro, me compreso, davanti a lui. Me lo immagino con la stessa espressione, anche se gli chiavasse-ro la donna proprio davanti agli occhi. Non alzerebbe un dito se non per sorseggiare la birra, e resterebbe lì come un'idiota. Mi pa-re una brava persona, comunque. Ma io la sua ragazza me la farei lo stesso. Le gatte morte saranno anche la specie peggiore, ma bisogna ammettere che lo tirano sempre su bene. Questa qui si chiama Paola... non è niente di che, comunque. Non è ai livelli di un ces-so, ma è senza tette e si ritrova un culo troppo grosso, rispetto al resto del corpo. Ha una pelle che a me non piace, lentigginosa, bianchiccia, flo-scia. Roba da inglesi. Eppure, parla e si muove e ti tocca che una botta gliela daresti lo stesso, e anche di gusto. Una strana cosa, insomma. Ed eccola, Paola-Gattamorta, nel suo pallore lunare, che sorride con quelle labbra sottili a culo di gallina, e mi fa: «Manu?». «Bionda». «Sì vabbè, bionda. Scemo. Vieni a Londra con me, a ottobre?». «Che mese è questo?». «Luglio». Così capisce cosa voglio dire, e mi guarda, con la sua faccia da ebete. Che domanda assurda. Cristo, non so cosa farò o dove sarò tra due giorni, tra due ore… E mi vieni a chiedere di ottobre? Beh, si è fatta tutta seria. Me la sono giocata, penso. Addio Gattamorta. Addio, svuotata da ubriaco. Ma chi se ne frega. Anche troppe ce ne sono, in giro.

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Guarda là, penso, tutti quei culi. Con i loro perizomi da cavalcare. Yyy-Aaaa! Bravi loro, i Dj con i capellini imbecilli, che li fanno scuotere. Fateli ballare quei culi! Ma Paola cosa fa, invece? Mi sorride di nuovo. Nella sua ma-schera di fondotinta, imbrattata di rossetto. Non me la sono gioca-ta. Non si dà per vinta per così poco. E come potrebbe? Mi ricor-do solo ora di una sua telefonata, qualche tempo fa. Era maggio. Lo so, perché c'era appena stata l'alluvione. Mezza città era stata inondata da fango e merda, nel giro di una sola not-te. Una cosa da pazzi. Neanche uno smidollato come me poteva dimenticarsene. Non ancora, a luglio, almeno. Era venuto giù anche Renzi, il neo-eletto premier. «Ricostruire-mo, aiuteremo, e bla bla bla». E la gente che gli tirava le pale. «Vieni giù a scavare!» gli urlavano. Poveracci. In quei giorni seguenti all'alluvione, il mio passatempo consisteva nel vagare tra le zone maggiormente colpite e funestate, a bordo della mia scalcinata bicicletta. Mi appollaiavo in qualche panca o gradino, bevevo la birra che mi portavo sul portapacchi, arrotolavo le mie sigarette e guardavo chi spalava. Erano i residenti, e anche parecchi volontari, che ci davano dentro di brutto. Erano lì dalla mattina presto. Liberavano le loro case e garage dalla melma. E la melma, che era anche merda, non ne voleva tanto sapere, di venir via con facilità. E mentre me ne stavo lì, in uno di quei giorni, nel cortile della chiesa del Portone, e c'era uno di quei gran primi soli di maggio, ecco che in tasca mi vibra il telefono. Saranno state le due o tre di pomeriggio e intanto la gente davanti a me spalava. Cercando di riportare alla luce quel che restava, di ciò che un tempo era stato loro. E sorridevano. Chiacchieravano. Parevano uniti. Erano uniti. Molto più, pensavo, di quanto non fossero mai stati, prima dell'alluvione. Rispondo. Era lei, 'sta Paola. «Bionda». «Manu?».

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«Dì». «Che fai?». «Prendo il sole». «Che stupido! Ma dove vivi? Ti dice niente l'alluvione?». «Ce l'ho davanti, credo. Quindi?». «Sto uscendo, io. Con vanga secchio e stracci. Per dare una mano nel quartiere. Vuoi venire?». «Se proprio vuoi pulire fango, allora scrostami la bicicletta. Do-vresti vederla, è davvero lercia». Silenzio, e poi mi chiude in faccia. Senso dell'humour da rivede-re. Eppure, non me l'ero giocata. Nemmeno allora. Alla fine, queste gatte morte qui, tornano sempre fuori. E chi le ammazza. Anzi, penso, sono loro che ti ammazzano, in qualche modo, prima o poi. Così, eccola qui, al Buco24, ora. Che mi accarezza di nuovo un braccio, e di nuovo me lo fa venir duro, e il suo sorriso rosso tra-disce i suoi pensieri – lo so, bello, cosa ti succede là sotto, proprio ora. Ah Ah. Dice che per Londra me lo richiederà più avanti. Pensaci su, si raccomanda. Lo farò culona. Senz'altro. E se ne va. Con l'orso Yoghi, che la segue fedele. Ah, ma c'era anche lui?

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12 Luglio 2014 Beh, non mi gira ancora di farvi leggere la lettera che ho spedito a Lucia. Ora come ora, non ho neanche la forza di riaprirla. Sarà piena di errori, confusionaria. Mi succede spesso, quando scrivo di getto. E io scrivo sempre di getto. Si fotta comunque, ne coglierà il succo, se vorrà. Per me, non vorrà. Luci, leggila almeno cento volte, te ne prego! Comunque, stamattina mi son trovato nella posta la ricevuta di ritorno. Per questo le ho mandato una raccomandata. Ora ho la sua firma in mano, so che l'ha letta. Che volete, sono all'antica. Mi piacciono le lettere, mi piace proprio scrivere a ma-no. Per questo giro sempre con il taccuino in tasca. È nero e spor-co e macchiato e scarabocchiato ma è pieno di appunti, di mo-menti vissuti. La mia calligrafia poi è davvero ignobile. Ma me ne sono fatto una ragione. Ho deciso che il mio punto di partenza per l'estate sarà il caffè Doria. Ci sono venuto spesso ultimamente, e mi trovo abbastanza bene. Lo frequentavo già una vita fa, comunque. Ora la gestione è cambiata, e non conosco più nessuno, ma del re-sto sono tante le cose che sono cambiate, in questi ultimi anni, in quella che era la mia città, mentre io vagabondavo chissà dove. Sembra quasi un bar da fighetti ora, anche se si vede chiaramente che fa solo finta di esserlo. Mi farò una ragione anche per questo. L'importante, è essere an-cora qui. Anche se importante per cosa, e per chi, non lo sa nes-suno. I miei risparmi stanno finendo, ve l'ho già detto?

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A poker online non gioco neanche più, per carità, il tempo è trop-po prezioso per regalarlo allo schermo di un computer. Perché non ci sono arrivato diversi anni fa, a questa conclusione, non lo so. Ma forse è stato meglio così. Sono ancora vivo, e avevo anche messo da parte qualche soldo, grazie a quest'assurdo gioco, e tanto basta. Nelle bische e nei cir-coli invece ci vado ancora, anche se con meno frequenza di un tempo. Qualcosa come una sera a settimana, o anche meno. Che volete, ogni tanto mi piace ancora starmene lì, a osservare chi se la passa peggio di me. Sono un egocentrico del cazzo. Ma mal comune mezzo gaudio, e bla bla bla. Se ne vede di gente strana in questi posti, credetemi. Alcuni hanno la mia età, ma sembrano quarantenni. I quarantenni poi sembrano sessantenni. I sessantenni, sono già morti e non lo sanno. Nel frattempo giocano. Tutti giocano. Mi sembra anche che si divertano. Hanno buttato la loro vita, ma che gli frega, a loro. Basta guardarli. Gente rovinata, senza senso, senza futuro. Sbandati, proprio come tutti noi. Questi posti sono lo specchio migliore della società. Per questo forse mi ci trovo bene. Nessuno indossa maschere, nessuno finge di essere qualcun altro, di essere felice se non lo è, di condurre una vita, cosiddetta, normale. Io non sono mai stato un tipo da vita normale. Ci ho provato una volta sola lì, con Luci, a Milano, e mi sono perso. Mia madre, ad esempio. Beh, son quarant'anni, quasi, che lavora alle Poste Italiane, le stesse Poste, le stesse mura giallo malato, appena due vie dietro casa. Aveva poco più di vent'anni quando ci è entrata, ne avrà poco più di sessanta quando uscirà. Svolterà due angoli, e si sarà buttata alle spalle quarant'anni di vita, allo stesso tempo. Morirà nello stesso istante in cui si domanderà: «Dio mio, ma cosa ho fatto?».

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Ma sarà salva. Non se lo chiederà. Le persone come lei hanno un gran dono. Non se lo pongono nemmeno il problema. Dio, ma non potevo essere anch'io così? Invece no, io ho preso tutto da mio padre. Mio padre è come me, un mezzo sbandato. Ma con una gran testa, lui. Non ho neanche la più pallida idea di dove sia, in questo momento. Credo si trovi a Roma, ma non chiedetemi a fare cosa o perché. Sono anni che bazzica la capita-le, e io non so nemmeno che lavoro faccia. Ogni tanto mi chiede-va dei soldi. Ce li avevo, glieli mandavo. Questi ultimi, effimeri anni del poker e delle bische, me la cavavo bene. Mi sentivo Dio. Ora li sto finendo tutti, e non ho un lavoro, non so fare niente, in pratica. Mai guardato al futuro, io. Mai capiti quelli che guardano al futu-ro. Morti bianche, morti assurde, malattie, incidenti. Esci da casa e t'investe uno stronzo qualsiasi, sul ciglio del tuo portone. Per cosa mai cazzo avranno risparmiato quelli? Ve lo domandate anche voi, o sono pazzo solo io? Ti mando un brindisi, Pà. Non hai mai rotto i coglioni e mi hai sempre lasciato libero di sbagliare a più non posso. Tanto basta, per me, per renderti un gran padre. Ovunque tu sia ora. Sto divagando troppo. Abbiate pietà, è la birra. Credo che questo non sia il libro che vi aspettavate di leggere. Meglio così, spero. A me, le sorprese sono sempre piaciute. Altrimenti, beh, buttatelo. Oppure riciclatelo. Come regalo di Na-tale, per il vostro parente che vi sta sul culo. È la prassi, no? Torniamo a dove eravamo. Anzi, a dove sono. Sono al caffè Doria e sto bevendo la mia terza Menabrea e voi siete sul mio taccuino, cari amici. Ho spedito una lettera alla mia amata e aspetto la sua risposta. Nel frattempo bevo, per non pen-sarci troppo. Come vedete, non funziona. Non funziona mai. Da quando sono tornato, a marzo, sto rivedendo tanta gente che avevo conosciuto, in quella che io definisco la mia vita passata. Tutti quelli che non hanno avuto le palle di levarsi da qui, da que-

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sto sputo di città di quarantacinque mila anime, sul mare Adriati-co. Ormai non ce la fanno più. Ci moriranno, qui. E ne saranno felici, E beati loro. Eccone uno, di 'sti poveri cristi. Lo chiamavamo Poia, una vita fa. Ha un enorme porro sul naso che l'ha sempre deturpato. È rimasto grassoccio e dall'espressione ebete, ora come allora. Si trascina al guinzaglio un cane ridicolo, grosso quanto una scarpa, e mi fa, passando senza nemmeno fermarsi: «Aho! Ma sei sempre qui? Si sta bene, a non fa' un cazzo, eh?». Gli ho strizzato l'occhio in cenno d'intesa e sollevato una mano, per salutarlo mentre sfilava via, con il suo topo che gli rantolava dietro. Un bravo cristo. Chi non si ferma mi piace. Gli passo an-che la battutina, ci può stare, se poi te ne vai per i cazzi tuoi. Sono gli altri, che non riesco a tollerare. Sono quelli che ti si piazzano lì e iniziano a chiederti come cazzo ti va la vita. E non gliene frega assolutamente nulla. Anzi, questi sperano con tutto il cuore che ti vada peggio di come va a loro. Se gli rispondi solo: «Bene!» ci rimangono male. Provare per credere. Stanno lì, che continuano a martellarti di domande minu-ziose, con tono da inquisitori... sperano di trovare l'inghippo, da qualche parte, alla fine. Ma come - pensano - come cazzo è che a questo la vita gli va "bene"? Io mi ammazzo in un posto di lavoro cui darei fuoco, sotto un imbecille di titolare che ucciderei se po-tessi, sto con una che a malapena tollero solo perché è l'unica stronza che me la dà, ho il mutuo, arrivo sì e no a fine mese, e in-vece a questo la vita gli va BENE? Beh, se volete fare conversazione, ecco la parola magica. Bene. Provate a spiazzarli invece, e ditegli subito che tutto vi sta andan-do a puttane. Era quello che volevano sentire, ma non così. Vole-vano scavare, volevano essere loro a smascherare l'altarino. È quello che gli dà la soddisfazione.

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Se glielo dite voi, che la vita fa schifo, che si tira a campare, che è tutto un grande ammasso di merda e che ci state affogando den-tro, ne hanno paura. Ci si rivedono. Non scatta più il mal comune mezzo gaudio, scat-ta il «Cazzo ha ragione lui non c'è speranza per nessuno di noi, ci stanno inculando di brutto!». E così se la svignano. Passano al prossimo. Passano al "Bene". Ed ecco come si fa morire una con-versazione, grazie al cielo. È arrivata la quarta birra e il cameriere non mi ha ancora chiesto chi sono, da dove vengo e perché. Né oggi, né gli ultimi giorni in cui son venuto qua. Ci sono ancora dei bravi cristi in giro, dopotutto.

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14 Luglio 2014 Che questa fosse un'estate del cazzo, l'avevo già bello che capito. Ma dico, sentite qua che mi succede. Finale dei mondiali di calcio, ieri sera. I crucchi hanno la meglio sugli argentini, e son campioni del mondo. Kartoffeln! Poco im-porta, penso io. Tanto non avevo neanche i soldi per farci su una scommessa. O meglio, ce li avevo anche, ma poi non avrei potuto più bere niente, ieri sera. Dico, che senso ha vedere una partita, se non puoi bere niente? Così dico, opto per la birra, e alla fine, la partita me la vedo lo stesso. Beh, una noia clamorosa, senza neanche una scommessa, ma non si può aver tutto dalla vita. Fatto sta che alla fine, al Doria, c'era 'sta gran tavolata di mangia-crauti, tutti contenti, nella loro vacanza al mare, erano venuti lì a godersi la loro finale in tv. Ed eccoli lì, due ore dopo, sbronzi persi e campioni di solo loro sanno cosa, che offrono giri e giri di boccali di bionda, a tutto il bar. Io ringrazio e brindo alla facciaccia loro. Deutschland über alles! Ok, arrivo al punto. Oggi, solo verso le due di pomeriggio riesco finalmente a trascinarmi in cucina. Cazzo, se bevevano quelli. Neanche per me è stato facile, stargli al passo! Colazione obbligata. Mezza piada, da farcire con prosciutto in contenitore sottovuoto, di plastica. Tanto c'è. Pazienza, tanto mangio solo per fare una cagata decente, spero, tra un po'. Quest'osceno casermone dove sto in affitto, dove c'è 'sto appar-tamento che fino a settembre mi dà un tetto, è più vecchio di me. C'è il bombolone del gas, in cucina, con 'sti tubi mezzi scoperti,

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tutti scrostati, che spunta inquietante e minaccioso da dietro il fornello. Dico sempre: Per me, prima o poi, esplode. E io con lui. Avrete capito tutti ormai quanto mi piace compiangermi, talvolta penso di essermi ficcato in questa situazione del cazzo solo per frignarmi addosso. Metto su la padella, per scaldare la piada. Accendo. Vampata blu, come sempre, mi brucia mezza faccia, come sempre, ma non e-splode. Come sempre. Sarà per un'altra volta. Faccio un'opera di carità verso me stesso, penso, mentre quella si scalda, che gli ci vuole una vita, che non so di che materiale sia, 'sta padella, forse in ghisa, o so un cazzo, comunque, lavo i piatti, nel frattempo. Da quanti giorni è, che son lì accumulati, è un mistero. Beh, faccio in tempo a insaponare la spugnaccia, girarmi a pren-dere uno straccio, per asciugarli dopo, ed ecco che lo vedo, dalla finestra. Il gran culo del palazzo di fronte. Miracolo! Allora non avevo avuto una visione, l'altra volta. C'è sempre 'sta finestra aperta, al pianoterra del palazzo adiacente al mio. Spalancata proprio, sempre. Si vede 'sto scorcio d'un letto, una sedia, e tutto sempre incasinato di vestiti qua e là. Vestiti da donna. Ma una sola volta, una sola, mi vedo passare 'sto mezzobusto, con un gran perizoma azzurro. Un corpo di quelli da rivista. La pro-prietaria di 'sto culo, sarà alta almeno un metro e settanta. A dire poco. Ed è proprio fatta bene, cristo santo. Chiappe sode, alte, schiena bella lunga, dritta, liscia, con due spalle tante, larghe. Una figa davvero, che la natura non si è scordata niente, quando l'ha butta-ta nel calderone con tutti noi. Poi scompare, dopo esser passato un attimo, 'sto culo, e non lo vedo più. E quella finestra, i giorni successivi, resta sempre vuo-ta. Avrò avuto un'allucinazione. Lo dico solo per consolarmi.

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Ma in fondo, invece, so bene che lo riacchiappo quel culo, prima o poi. E, infatti, anche se stavolta proprio inaspettato – che non son state mica poche, le volte che mi son piantato lì, davanti a quella fine-stra vuota, senza esito – eccolo lì! Un gran bel regalo di Natale a metà luglio. Dà proprio le spalle alla finestra, oggi. Chiappe ben in vista, impavide, fiere, il perizoma oggi è rosa ac-ceso, e 'sta schiena, splendida, statuaria, tutta nuda, fino alla base del collo! La testa non la vedo, che dal secondo piano mi resta coperta dalla serranda, ma chi se ne frega! Se ne resta lì, poi! Fermo, in esposizione! Giurerei che la proprietaria del culo si sta guardando a uno spec-chio, che io però da qui non posso scorgere. Peccato. Mi piacerebbe sbirciarle anche le tette, già che ci sono. Mi dovrò accontentare. Comunque, se ne sta impalata lì, come fosse un quadro, un quadro tutto per me, con la sua pelle nuda, abbronzata, 'ste grandi chiappe alte e sode, che mi tufferei dalla finestra, per farmela. Davvero. Meravigliose. Così io inizio, che non ne posso mica più. Capitemi. Sono ma-schio. Mi sparo una sega lì, sul momento, alla mia finestra aperta, mezzo affacciato. Ci do di manovella di gran foga, guardando giù da basso, al pa-lazzo di fronte, e per una volta mi va anche bene, che la tipa è ri-masta lì per tutto il tempo. Gran brava ragazza. Ho sbrodolato tut-to nel lavandino. Ne è valsa la pena. Tanto i piatti erano ancora da lavare, quindi amen. Magari ci riprovo domani, a lavarli, sia mai che mi va come oggi, di culo, appunto. E la padella per la piada ora è calda a puntino. M'è giusto venuta un po' fame, adesso. Dopotutto, forse non è poi così del cazzo, 'sta estate.

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15 Luglio 2014 Perfino essere uno scrittore ha i suoi risvolti incredibilmente pal-losi. Soprattutto se non vi si fila quasi nessuno. Bisogna arrangiarsi e prendere quel che c'è, se c'è. Io ho questi pazzi dell'associazione culturale, che hanno pubblica-to la mia prima raccolta di racconti, e non avete idea dei pome-riggi che ho dovuto trascorrere lì in sede con loro, per questa pra-tica terribile chiamata editing. Si rivede tutta la stesura dei testi, per infinite volte, fino a che non ci si trova tutti d'accordo e allora si può procedere alla stampa. Vi sembra niente? È una procedura che richiede mesi e mesi di tem-po. Assurdo, ma tant'è. Beh oggi ero di nuovo lì, in associazione, che stavo facendo leg-gere al presidente, tale Marcello Cottini, alcune mie poesie, con-fidando in un parere onesto e qualche buon consiglio. Ho una certa stima di Marcello, anche se è un uomo di una prolis-sità disarmante. Oggi ero lì alle quattro, e alle cinque avrei già voluto essere altrove o morto. Ma ormai ero fregato, ero preda della sua logorrea e poiché era uno dei pochi che in questa vita aveva creduto in me non avevo via di scampo. Erano trascorse quasi due ore e Marcello non ave-va letto neanche uno intero dei miei racconti. A un tratto si è alzato dicendo: «Vado di là, a prendere patatine e birra». Grazie, cielo, davvero. Un raggio di sole biondo e spumoso in un pomeriggio piovoso e terribilmente palloso. Senz'altro. Ritorna e mi si para davanti con un pacco disumano di patatine da due soldi, di cui non mi poteva fregar di meno, e una cazzo di bottiglia di plastica di tè alla pesca. È uno scherzo? Ho pensato io.

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Invece lui aveva la faccia seria. Non scherzava mica. Mi fa: «I ragazzi ci han dato sotto, ieri sera, mi sa. Mi spiace, Manu. Questo abbiamo». Beh, i ragazzi, chiunque siano e se mi leggono, sappiano che si son presi certi colpi oggi, mica da ridere. Comunque non potevo farci niente, e mi son versato 'sto bicchiere di tè. Era terribilmente insulso, davvero. Sono rimasto lì per altre due ore, finché il mio bicchiere di tè sen-za senso non era ridotto a nient'altro che un portacenere, colmo di mozziconi. Tutto sommato aveva molto più senso così. Sono riuscito a sgattaiolare via di lì poco dopo, alle otto passate. Non ricordavo nessuno dei suoi suggerimenti. Ero assonnato e stordito. Il grosso problema di chi parla troppo è che se anche dice qualcosa di sensato, si perde nella fiumana del-le altre parole superflue, e nessuno ci fa più caso. Ero per le viuzze del centro storico. Faceva un freddo ridicolo e pioveva a dirotto. A luglio. Ditemi voi. Un povero cristo di un negretto tentava di propinarmi uno dei suoi ombrelli. Cinque euro, voleva. Ho tirato via tutti gli spicci dalla tasca e arrivavo a un euro e ottanta. I centesimi di rame sono una delle cose più inutili della storia dell'umanità. Il povero cristo non è sceso così in basso. Dei due il povero cristo ero io, alla fine. Del resto lui ce l'aveva l'ombrello, poteva aspettare di trovarsene altri, di polli che gli allungassero il cinque, per non bagnarsi il vestito buono. Io non avevo nessun vestito buono, anzi avevo perfino su le bre-telle, però non volevo bagnarmi lo stesso. Alla fine ho dovuto in-camminarmi e rassegnarmi al destino. Il cielo spuntava cupo e grigiastro tra vicoli e tetti e ne buttava giù senza risparmiarsi. Faceva freddo e l'aria puzzava un po' di fogna. Avevo un euro e ottanta in una tasca e il taccuino con qualche poesia nell'altra e riflettevo sul fatto che c'erano stati po-meriggi molto migliori di quello. Fine anteprima.Continua...