Nº 3 Anno 2 L'Eco dal Santa Caterina

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Anno II 2013/2014 1 L’Eco dal Santa Caterina n. 3 Anno II, Dicembre 2013 Un augurio di Buone feste da parte di tutto il Gruppo Redazionale

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Periodico di informazione dell'istituto paritario arcivescovile "Santa Caterina" di Pisa

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Anno II – 2013/2014 1

L’Eco dal Santa Caterina n. 3 – Anno II, Dicembre 2013

Un augurio di Buone feste da parte di tutto il Gruppo Redazionale

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Sono trascorsi appena tre mesi dall’inizio del nuovo anno scolastico ed i nostri bambini sono già stati coinvolti in molte attività didattiche e non …

Ha avuto inizio il progetto “L’olio buono in tutti i sensi”, iniziativa proposta dalla Coldiretti di Pisa, che ha

coinvolto tutti i bambini, avvicinandoli al mondo dell’olio biologico della nostra Provincia.

Il progetto, articolato in due incontri presso i locali della scuola, ha consentito ai nostri bambini di effettuare anche una uscita didattica al Frantoio di Vicopisano; tale visita li ha entusiasmati molto ed ha consentito loro di fare una sana merenda a base di pane e olio sotto il bel pergolato dell’azienda.

Tutti insieme inoltre, hanno partecipato al Concorso Regionale per eleggere la mascotte dell’olio d’oliva 2013-

2014, disegnando con tecniche diverse la mascotte assegnata alla nostra Scuola.

Le mascotte dei nostri bambini sono state esposte alla manifestazione della Coldiretti a Firenze e domenica 1° dicembre le insegnanti, i bambini e le loro famiglie hanno

partecipato all’evento, organizzando una gita in treno. Il gruppo dei 5 anni ha iniziato il programma di

continuità con la Primaria, organizzando un primo incontro bambini, genitori e insegnanti.

Tutti i tre gruppi hanno iniziato anche i seguenti progetti: Madrelingua Inglese, Psicomotricità e Musica.

Venerdì 20 dicembre, ultimo giorno di scuola, i

bambini saranno impegnati nella Festa di Natale presso l’Aula Magna dell’Istituto.

In attesa di ritrovarci dopo le vacanze, vi auguriamo un Sereno Natale.

Elena Marroni

Elena Marroni

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Ha un punto di vista diverso dal comune che gli permette di vedere cose

che gli altri non vedono e cerca con le sue azioni di migliorare il mondo

intorno a sé. È l'eroe mai cantato, al centro dell'omonimo concorso che da

dieci anni (biennalmente) coinvolge le scuole di tutta Italia nella ricerca di

un eroe moderno, che non comparirà mai sui libri di storia, ma che con il

suo esempio ha molto da insegnare ai bambini e agli adulti.

Finaliste di questa 5a edizione la II A e la II B dell'Istituto Capuana di

Siculiana (AG), la IV dell'Istituto Santa Caterina di Pisa e la IV A e IV B

della scuola primaria Toti, Istituto comprensivo Toniolo di Pisa, con i loro

candidati: rispettivamente Anna Melilli, Maria Rita Tarquini e Athos

Mazzanti.

Maria Rita Tarquini è nata a Montepulciano nel 1939 ma è cresciuta a Pisa. Più piccola di 5 figli ha da sempre avuto un amore per gli altri, per l’avventura e per lo studio. Fin da piccola aveva chiaro di voler fare la maestra, ma non la maestra in generale, la maestra dei poveri. Spirito combattivo e forte ha sempre creduto che per aiutare gli altri bisogna cooperare e far sì che tutti tirino fuori le loro capacità, senza che qualcuno si sostituisca ad altri. Dopo aver preso il diploma magistrale, Maria Rita ha iniziato ad insegnare ai bambini della scuola elementare di Lavaiano. Nel frattempo, con i soldi che guadagnava, è riuscita a pagarsi gli studi universitari e si è laureata in lingue, spagnolo. Il suo era un obiettivo preciso: avere un titolo che le permettesse di poter andare all’estero, ad aiutare i meno fortunati di lei. Da sempre impegnata ad aiutare gli altri, anche in Italia, attiva nella parrocchia, quando un’amica partì per lo Zambia si operò per organizzare il supporto italiano alla Missione: raccoglievano tutto ciò di cui c’era bisogno e lo inviavano in Africa. E così (il caso!) lei fu indicata come referente a Pisa: alcuni anni dopo (quando l’amica era già rientrata in Italia), con sua sorpresa, ricevette una lettera di invito da una suora che lavorava nella missione che le chiedeva di passare 3 mesi all’orfanotrofio locale. Senza pensarci due volte, Maria Rita acquistò il biglietto e partì. Lei, che da sempre sognava l’Africa, anche per una certa passione per l’avventura che l’aveva accompagnata da ragazza (amava i libri di Salgari!) ma che aveva studiato lo spagnolo per andare in Perù, si ritrovava in Africa, quasi per caso. La sua grande passione ed energia non passarono inosservate. Una volta rientrata in Italia iniziarono ad arrivare proposte di collaborazione: l’India, il Sud America. Ma le modalità operative adottate in questi paesi non si sposano con il suo spirito anche impulsivo: al volontario è chiesto di stare nelle retrovie, spronare la gente alla ribellione ma non schierarsi in prima fila e lei non lo può accettare. O combatte con la sua gente insieme o non ci sta!

È il periodo di Natale 1980…., mentre torna verso Pisa in treno, dopo un incontro con i vertici di un’organizzazione che le ha appena proposto di andare in Brasile, rattristata e quasi delusa (lei, spirito così combattivo!) incontra una persona che le parla (di nuovo!) dell’Africa e le propone di andare in Kenya. L’11 di gennaio Maria Rita è già a Nairobi. Per due anni lavora per la sua organizzazione, ma, contemporaneamente, affianca una ONG locale (o, meglio, il suo direttore) in un grande progetto che riguarda la baraccopoli intorno a Nairobi, fatta di tanti villaggi attaccati uno all’altro: Kibera, dove vivono oggi circa 1 milione di persone che spesso passano l’intera vita lì senza mai anche vedere Nairobi. Si parte da un progetto che riguarda le persone con handicap. Si tratta in massima parte di bambini, perché la cultura locale crede che la malformazione sia segno di spiriti maligni e lascia a sé stessi gli handicappati che, come ovvio, lentamente si spengono. Maria Rita riesce a conquistare la fiducia delle mamme con bambini con handicap ed anche delle mamme di bimbi sani e così riesce a studiare le cause – spesso legate a malattie come la poliomelite! – e ad attivarsi per far guarire i bambini ed inserirli (magari con protesi di vario tipo) nella loro società. Nasce la prima scuola di Maria Rita a Kibera. E contemporaneamente, arrivano i primi orti, l’acqua potabile: la vita di questa famiglie del villaggio migliora nettamente. Siamo alla fine degli anni 80. Maria Rita deve rientrare, il suo progetto è finito, devono andare avanti con le loro gambe. A pochi giorni dalla partenza, le donne del villaggio prendono il coraggio a quattro mani e le chiedono ancora aiuto: capiscono che se restano dentro Kibera non ci sarà futuro per i loro figli e vogliono fare qualcosa. La implorano “Non ci lasciare, portaci via da Kibera”. Lei non sa cosa fare e come farlo: chiama il fratello (sacerdote a Pisa) e lui la sprona ad accettare “In qualche modo faremo”. Maria Rita accetta. Con la sua forza e fermezza, però, chiarisce le regole del gioco: noi ci siamo ma voi dovete fare la vostra parte con braccia e testa.

"Nella vita bisogna avere un sogno, se il sogno è piccolo la realizzazione è piccola, se il sogno è grande la realizzazione è quasi grande, ma se il sogno è IMMENSO […] riusciremo a fare delle cose grandiose, perché l’importante è CREDERE."

Maria Rita Tarquini

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Cooperazione non è sostituirsi a qualcuno, ma collaborare, ognuno con le sue capacità: tutti sono e saranno uguali per lei. Tutti insieme “Arambè” – come dicono i kenioti: è il segno più importante per loro – esiste una comunità, basata sulla famiglia, sulla condivisione, non sull’io ma sul noi. Ma ci sono nuovi problemi in vista: la popolazione Masai – tribù pastorizia fiera e guerriera che abita i territori dove Maria Rita compra 8 ettari per costruire il nuovo villaggio, si fa sentire: vuole partecipare! Maria Rita (che ha imparato a contenere la sua impetuosità) si pone come mediatrice (!) ed ecco che il villaggio (costruito a tempo di record) si forma: non solo le case, gli orti, ma una scuola materna, un dispensario, un piccolo ospedale con reparto di maternità e sala operatoria, una grande sala per le riunioni (i problemi si affrontano insieme e si risolvono!), una falegnameria, un negozio. Oggi, le famiglie crescono, i ragazzi studiano, alcuni sono laureati: c’è un agronomo (con un progetto agricolo), c’è un medico, c’è un’infermiera (che giusto quest’inverno hanno passato alcuni mesi a Pisa con una borsa di studio per imparare e poter migliorare ulteriormente il proprio ospedale). La gente si rispetta, non importa di che religione sei: alla base di tutto c’è il rispetto, non si impone niente a nessuno. Nel frattempo è nato il Sucos, onlus pisana che raccoglie i fondi e che promuove attività di vario tipo a supporto dei progetti in Kenya. Ci sono state borse di studio, finanziamenti privati, finanziamenti pubblici e persone che sono andate in Kenya ad aiutare, a vedere con i propri occhi cosa accade, come vivono e come affrontano i cambiamenti e la crescita. Ecco il nostro Eroe: una donna forte, appassionata che fa della dialettica la sua migliore “arma”. Non si sostituisce mai agli altri, ma li coinvolge e stimola perché crede fortemente che in un progetto di sviluppo ciò che conta è lo sviluppo del pensiero. Per aiutare non si può mai puntare sul pietismo, ma sul diritto di ciascuno di avere l’indispensabile: è più faticoso, ma più dignitoso e dà risultati per sempre.

Alcuni momenti della premiazione

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Il telegiornale della sera… Una storia vera di chi l’ha vissuta da vicino, la memoria di un uomo che ne ha passate tante L’ultima guerra mondiale è stata un’epoca dura, per le persone che l’hanno vissuta: i ragazzi che avevano l’età per combattere partivano per il fronte, le famiglie restavano a casa ad aspettarli e spesso non li avrebbero più rivisti, altri venivano portati nei campi di concentramento in paesi freddi, lontano da tutto e da tutti; l’Europa e l’Italia hanno passato momenti davvero brutti. Ieri sera, mentre ascoltavo il telegiornale, verso la fine è arrivato un ospite: il signor Enzo Camerino che all’età di quattordici anni è stato deportato nel campo di concentramento di Auschwitz insieme a 1022 altre persone. Solo in sedici sono riusciti a tornare in patria e solo due sono ancora vivi. Dopo settant’anni ha voluto parlare di questa esperienza: - Pensando a quanto ho passato quando ero ragazzo, non ne ho mai voluto parlare perché è una cosa che può ancora sembrare incredibile. Quando siamo saliti sul vagone noi ragazzi non ci rendevamo conto di cosa ci sarebbe potuto succedere, ma forse i genitori capirono a cosa saremmo andati incontro. Saremmo stati una cinquantina di persone tra donne, bambini, uomini e malati. Credevo che ci mettessero famiglia per famiglia, come si faceva in Italia, ma presto capimmo che non sarebbe stato così. Mia sorella e mia madre furono separate da noi e non so che fine abbiano fatto, mentre io, mio fratello e mio padre siamo rimasti là. Appena siamo scesi dal treno davanti a noi c’erano i tedeschi e i cani: ci hanno diviso fra chi poteva lavorare e chi no. Ii giovani di oggi non sanno cosa vuole dire essere trattati da bestie, ma venivamo marchiati come le mucche e questo è il marchio che mi dettero, il numero 158509. Una volta arrivati ci fecero fare la doccia e nessuno pensava nemmeno lontanamente alle camere a gas.

Durante il giorno portavo i sacchi di mattoni e mio padre scaricava i sassi dai vagoni raccolti per strada. L’ultima volta che l’ho visto è stato nel ’44: era caduto a terra mentre lavorava e un tedesco andò là e invece di aiutarlo gli dette un sacco di calci fin che non morì. Io ora vivo in Canada, quando sono tornato in Italia e c’erano i funerali di Priebke ho pensato che coloro che ci hanno fatto passare momenti così duri non dovrebbero morire con un colpo di pistola, ma dovrebbero subire tutti i lavori e le fatiche che hanno imposto a noi. Ho avuto il piacere di avere un colloquio con il Papa ed il presidente Napolitano, voglio scrivere un libro da far studiare e non da leggere ai ragazzi di tutte le scuole italiane, per far capire cosa abbiamo passato e cosa potrebbe succedere di nuovo.- Questa intervista mi ha fatto riflettere molto e quasi piangere, perché anche mio nonno ha passato momenti simili in prima persona. Quando era ragazzo è stato chiamato per fare il militare; partito per la Campagna di Russia, finì deportato nello stesso campo di sterminio del signor Enzo. Riuscì a scappare una notte con dei compagni, e mia nonna che lo aspettava a casa ha ancora tutte le sue lettere, dalla prima all’ultima. Nonno tornò a casa ed è morto di vecchiaia: non sono riuscita a conoscerlo, ma sono felice e fiera di avere avuto un nonno che ha vissuto con dignità i momenti più bui della storia dell’umanità. Con questo tema voglio ringraziare tutti i militari italiani, gli uomini e i ragazzi che hanno combattuto con grandissimo coraggio guerre dure e difficili. Grazie!

Matilde Maria Giampieri, II media

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Ho scelto 'acqua' come parola -chiave per guidare il mio testo espressivo perché pratico surf e quindi trascorro molto tempo in mare. Quest’anno nel mese di luglio ero a surfare a Tirrenia, quando un’onda da me non vista mi travolge e scaraventa la mia tavola quasi a riva e io rimango intrappolato nella centrifuga dell’onda che mi fa sbattere la testa sulla sabbia e bere molta acqua.

Per vari giorni ho avuto il terrore di entrare in mare, ma un giorno ho ripreso la mia tavola e ho ricominciato da zero come se non avessi mai praticato surf. Questo sport include sia allenamento sia gare che a me piacciono molto perché sono un tipo competitivo. Infatti non amo perdere sia a surf tanto meno a calcio. Questa mia caratteristica mi piace molto però a volte mi porta ad arrabbiarmi troppo per i miei errori. Oggi farò una partita importante e dovrò essere bravo a usare a mio favore questa parte del mio carattere e se farò qualche sbaglio dovrò ripartire da lì per migliorare.

Ho scelto anche la parola 'confusione' perché nei momenti più importanti di ogni azione e pensiero c’è sempre un attimo in cui il mondo esterno non esiste più. Sia quando devo alzarmi sulla tavola per evitare che mi risucchi l’onda o quando devo tirare in porta a calcio, c’è sempre un momento in cui esisto solo io, il pallone e la porta o io, la tavola e l’onda. Questa sensazione che io, non so bene come, chiamo 'confusione' è ciò che mi dà la spinta in più per concludere l’azione nel migliore dei modi. La professoressa mi ha consegnato il ritratto di un bambino, che mi ha fatto venire in mente un episodio divertente e umoristico della mia infanzia alle elementari. Mi ricordo che io e la mia classe eravamo appena rientrati dal giardino, dove trascorrevamo ogni giorno la ricreazione .

Quel giorno avevo una piccola palla da calcio nello zaino, la tirai fuori e ci mettemmo a giocare a calcio in corridoio. Dopo qualche minuto la situazione degenerò perché ebbi l’idea di tirare forte e così colpii una pila di libri che cadendo urtò una porta che provocò un gran rumore. Sentendo questo grande caos la maestra uscì e urlò ‘’datemi tutti i vostri diari, così imparate a comportarvi’’, io non presi la punizione perché riuscii a nascondermi in un armadio basso ma spazioso, il quale ci ospitò in tre .

In quel momento avevo lo sguardo ansioso e nervoso, gli occhi erano sgranati, furbi e vispi, avevo un finto sorriso stampato in faccia, perché, in realtà avevo una paura tremenda di essere scoperto. Ero in uno stato d’animo che non avevo mai provato prima, avevo paura, ero contento, allegro e pensieroso; nella mia testa c’era una grande confusione .Ora, vedendo quest’esperienza dall’esterno, penso che avrei fatto meglio ad ammettere la mia colpa, perché è cosi che si passa da bambini a persone mature. Quest'esperienza è molto importante per me perché è una delle prime della mia carriera da 'confusionista'. Nonostante ciò la rifarei volentieri.

A parte gli scherzi adoro questo momento, mi piace ripensare a tutte le avventure corse da me quando ero piccolo.

GIANLUCA ROCCHICCIOLI - I LICEO

Campo di parole: troppe paure; insicurezze; rabbia

Le troppe paure che vedo raffigurate nel disegno che mi è stato dato da osservare mi ricordano le paure che ho su me stessa in qualsiasi ambito: familiare; scolastico ecc... Secondo me le troppe paure rappresentano insicurezza nell'esprimersi con gli altri, con i professori e a volte anche con la famiglia. In questo disegno vedo alcune persone che cercano di esprimersi, ma non ce la fanno a causa della timidezza e della paura per cui si ritirano indietro e rimangono solamente delle teste verdi con alcune tracce di sangue a causa dei colpi che hanno subito nel dire cose sbagliate.

Assieme associo la rabbia, vedendo dei tratti molto spezzati. Dentro me stessa ricordo la rabbia nella mia vita per non aver potuto esprimermi nei momenti più difficili e critici. Oppure per non saper andare bene a scuola.

‘Insicurezza’ è il mio mostro da sconfiggere, sono sempre insicura: interrogazioni, compiti ecc... Io spero che con il passare del tempo questa sensazione e l'ansia si possano placare. Io prevedo un futuro molto duro se continuo così perché ho sempre paura di dire tutto quello che penso, anche se a volte ciò che penso è giusto. Fino a poco tempo fa ero molto meno ansiosa infatti vivevo molto meglio ero più serena e allegra al contrario di oggi: ogni sera penso e piango per il giorno successivo che mi aspetta a volte brutto e altre bello, io la mia vita non la voglio vivere così ansiosa ma molto più gioiosa e allegra, voglio ritornare al passato quando magari ero più felice con tutti.

(continua pagina successiva)

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La giornata della solidarietà

L’immagine della bambina che vedo mi ricorda un episodio molto triste perché mi rappresenta da sola quando passavo dei momenti brutti e colmi di ansia nella mia infanzia: ogni mattina quando arrivavo davanti all'asilo e quando percorrevo in macchina il lungo viale di San Rossore piangevo per evitare di andarci. Mi rispecchio in questa immagine perché la bambina ha un vestito molto elegante, come desiderava vestirmi la mia mamma, il fiocco assomiglia ad una passata che mi mettevo da piccola che ancora conservo in un cassetto segreto. Poi vedo i lunghi capelli e infine l'espressione che è raffigurata sul volto.

Questo ritratto mi rende triste perché suscita emozioni che ormai era da tantissimo che non mi ricordavo: ogni mattina mia madre veniva a svegliarmi nella mia cameretta, mi vestiva e mi faceva fare colazione. Prima di percorrere quella strada infinita andavo a salutare il mio babbo in pasticceria e poi proseguivamo per andare all'asilo, appena passavamo la sbarra di San Rossore io iniziavo a piangere perché non volevo andarci, quando dovevamo scendere dalla macchina io mi attaccavo alla mia mamma e lei non mi capiva per cui mi portava dalle maestre, con cui io non volevo rimanere.

La causa di questo comportamento era legata alle maestre che non mi capivano e continuavano per la loro strada, mentre magari avrei voluto un po’ più di attenzione e che non mi minacciassero se non mangiavo. Ecco le ragioni per cui io la mattina avevo terrore ad andare all'asilo. Poi con il passare del tempo la mia mamma mi ha capito e così la mattina mi aiutava a stare serena. Nel tempo lo sguardo diventa sempre di più allegro, dolce e gioioso. il sorriso smagliante, dolce e sbarazzino. Ritornando indietro con la mente in questo momento mi sento cupa e malinconica perché comunque i miei sono momenti dell'infanzia tristi e da dimenticare soprattutto quelli dei primi anni. Ho un carattere curioso, simpatico, ansioso ma soprattutto desidero vendicarmi perché quelli che mi stavano intorno non capivano le mie difficoltà. Ho un sorriso smagliante, dolce e allo stesso tempo teso.

Adesso immagino un futuro più sereno, tranquillo, gioioso e bello perché mi sto sforzando di passare questo brutto momento.