NIM.libri . Numero 6 . Ottobre 2006

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IN QUESTO NUMERO: Arjun Appadurai Sicuri da morire La violenza nell’epoca della globalizzazione p. 2 Zygmunt Bauman Vita liquida p. 3 Charles Brownstein (a cura di) EISNER/MILLER – Conversazione sul Fumetto p. 4 Francesca De Ruggieri Matrix and the city Il corpo ibrido nel cinema e nella cultura visuale p. 6 Claudio Gaetani Il cinema e la Shoah p. 7 Giuseppe Granieri La società digitale p. 8 Enrico Livraghi Da Marx a Matrix I movimenti, l’homo flexibilis e l’enigma del non-lavoro produttivo p. 10 Francesco Monico Il dramma televisivo L’autore e l’estetica del mezzo p.11 Rubrica bimestrale di recensioni di NIM - Newsletter Italiana di Mediologia http://www.nimmagazine.it/bookreview/ Numero 6, ottobre 2006 NIM .libri 6

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Il sesto numero di NIM.libri, rubrica di recensioni di NIM magazine http://www.nimmagazine.it

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IN QUESTO NUMERO:

Arjun AppaduraiSicuri da morire

La violenza nell’epoca della globalizzazione p. 2

Zygmunt BaumanVita liquida p. 3

Charles Brownstein (a cura di)EISNER/MILLER – Conversazione sul Fumetto p. 4

Francesca De RuggieriMatrix and the city

Il corpo ibrido nel cinema e nella cultura visuale p. 6

Claudio GaetaniIl cinema e la Shoah p. 7

Giuseppe GranieriLa società digitale p. 8

Enrico LivraghiDa Marx a Matrix

I movimenti, l’homo flexibilis e l’enigma del non-lavoro produttivo p. 10

Francesco MonicoIl dramma televisivo

L’autore e l’estetica del mezzo p.11

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Arjun AppaduraiSICURI DA MORIRE. La violenza nell’epoca della globalizzazioneMeltemi, Roma, 2005pp. 189, € 17,00ISBN: 88-8353-233-3

Recensione di Luca Massidda

Quella di Appadurai è un’antropologia bastarda capace di indagare le zone d’ombra che si addensano aimargini delle più attuali definizioni sociologiche, regalando spesso nuova ricchezza e una profondità sco-nosciuta alla loro pervasiva e omologante diffusione. Ecco allora lo stereotipizzato motto “think global, actlocal”, che declina il fortunato neologismo “glocal” di Ronald Robertson, connotarsi sotto lo sguardomoderno di Appadurai di una sfumatura schizofrenica e macabra, oscena e inquietante: le astrazioni incon-trollabili e inassimilabili della globalizzazione implodono sulle iperlocalità dei corpi violati delle minoran-ze etniche. Il corpo («il più locale dei siti globali»), reso manipolabile da una violenza che illusoriamente –e forse consolatoriamente – qualcuno si ostina a considerare primordiale, come velenoso antidoto all’intan-gibile della globalizzazione; le torture, gli stupri, le penetrazioni, le vivisezioni iscritte sul corpo dell’altrocome «tentativo di esorcizzare il nuovo, l’imminente, l’incerto». La violenza etnica come l’erpice glocale acui ricorrono maggioranze incerte e insicure per scrivere sui corpi dell’altro non la colpa commessa, ma lanuova mappa di un nuovo ordine globale, e per tracciare sulla carne gli incerti confini che separano “il noi”e “il loro”. È come se la relazione globale-locale avesse bisogno di innalzare esponenzialmente e disumana-mente la temperatura della sua violenza intra-societaria e inter-etnica per raggiungere e/o conservare la pro-pria costante d’equilibrio.

Quella di Appadurai è anche, proprio in virtù di questa sua natura geneticamente ibrida, sporca – inten-dendo con sporco «ciò che è fuori posto» (Mary Douglas, ripetutamente citata in questo testo) – un’antro-pologia che mette in discussione la sequenzialità e dunque la validità di quei pochi nessi causali che anco-ra sembravano in grado di spiegare qualcosa all’interno di una società e di un sapere sociologico che ave-vano ormai fatto piazza pulita del paradigma meccanicista.

Così non sono le minoranze a innescare la violenza ma è la violenza – di stampo nazionale – ad averbisogno di immaginare le minoranze. Il genocidio non elimina le differenze, ma le ricerca, le inventa e leproduce: «il genocidio, dopo tutto, è una pratica di costituzione della comunità» (Philip Gourevitch).Non sono le etichette “ebreo”, “hutu” o “kurdo” a legittimare la violenza ma è la violenza – più è inti-ma e più è efficace – a legittimare e a dare un senso a quelle stesse etichette. La violenza vivisezionatriceche si esercita sul corpo dell’altro etnico come una sorta di profezia autoavverantesi. Troviamo qui unacuriosa analogia, culturale, tra le ragioni della violenza etnica e le motivazioni della guerra in Afghanistan(e in Iraq), che Appadurai definisce come «una guerra “diagnostica” o addirittura istruttoria, ossia pro-grammata per fare delle scoperte». Anche questa volta l’antropologo indiano si diverte a togliere il ter-reno da sotto i piedi alle nostre correnti tassonomie capovolgendo prospettiva temporale e nesso dicasualità nel descriverci una guerra che da preventiva si fa diagnostica. Sullo scenario di una civiltà degliscontri, entrambe, la violenza etnica come la guerra a lunga distanza, si propongono come forme schizo-freniche della riflessività moderna.

Quella di Appadurai è dunque un’antropologia ambivalente, o un’antropologia del caos, come la defi-nisce brillantemente Piero Vereni nella postfazione. Ambivalenti sono i suoi oggetti (il capitalismo glo-bale, per esempio, conteso tra «la proliferazione delle forme cellulari» – terrorismo globale ma anche la«cellularità utopica» dei «movimenti per la globalizzazione dal basso» – e «la morale vertebrata del siste-ma classico degli stati nazionali»). Ambivalente è il suo metodo che mescola «teoria sociologica, studid’area, scienza politica, psiconalisi e passione etnografica per l’“inessenziale”» (ancora Vereni).

Questo di Appadurai è allora un testo che vale la pena leggere, soprattutto in questi giorni. A cinqueanni di distanza dalla polverizzazione delle Torri Gemelle, mentre in tanti ci ricordano che quella mattina

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dell’undici settembre tutto è cambiato per sempre, la dimensione culturale dell’antropologia caotica diAppadurai è infatti una prospettiva a cui non possiamo permetterci di rinunciare.

Arjun Appadurai è attualmente Provost and Senior Vice-President for Academic Affairs e John DeweyProfessor in the Social Sciences presso la Graduate Faculty of Political and Social Science della New SchoolUniversity di New York. Antropologo con una lunga esperienza di ricerca nel subcontinente indiano, è con-siderato uno dei massimi esperti degli aspetti culturali della globalizzazione. Tra le sue principali pubblica-zioni: Globalization (a cura, 2001) e Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization (1996), tra-dotto in Italia nel 2001 con il titolo Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione.

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Zygmunt BaumanVITA LIQUIDA Laterza, Roma-Bari, 2006pp. 192, € 15,00ISBN: 88-8353-434-4

Recensione di Luca Reitano

Che cos’è la vita liquida? Il libro di Bauman, che riprende i temi e le suggestioni delle opere precedentidel sociologo polacco, ruota attorno ad una metafora – quella della liquidità appunto – centrale nella sua let-tura della postmodernità: il liquefarsi della struttura temporale dell’esistenza, intesa come rapporto e connes-sione continua tra il passato, il presente e il futuro: la fine dell’esistenza, insomma, come progetto unitario,in grado di rinviare e di connettere la propria dimensione presente a quel fascio di possibilità da costruire(attraverso la politica, il pensiero critico, ecc.) che è stato il futuro solido (e utopico) della modernità.

Nei sette capitoli in cui è diviso il libro, Bauman descrive i vari aspetti della società “liquido-moderna”:dalla costruzione dell’identità e delle relazioni personali al rapporto con lo spazio metropolitano, dal declina-re della sfera pubblica, all’ossessione della cura del corpo, dalla “formazione permanente”, al carattere prov-visorio delle aggregazioni sociali. Il tratto comune di questi fenomeni è dato dalla «mancanza di fiducia nellasolidità del tempo», ovvero da una instabilità permanente che domina ogni aspetto del mondo della vita.

L’eclissi di un orizzonte temporalmente unitario e dell’idea di trascendenza (intesa come determinazio-ne del presente per mezzo del futuro) che hanno retto il mondo moderno segnano lo snodo fondamentalesu cui si impernia il libro (e l’opera) di Bauman: il passaggio dal capitalismo solido della modernità, fonda-to sull’idea di produzione, al capitalismo post-fordista, liquido e deterritorializzato della società contempo-ranea, fondato sul paradigma del consumo.

La vita liquida può essere così descritta come una «vita di consumi» che «marchia il mondo e ogni suoframmento, animato e inanimato come oggetti di consumo, vale a dire oggetti che perdono la propria uti-lità […] man mano che vengono usati». Da qui, il tratto temporalmente rapsodico della condizione post-moderna, che si risolve «in una successione di nuovi inizi, […] dove sapersi sbarazzare delle cose diventapiù importante che non acquisirle» e dove dimenticare attivamente, identità, appartenenze, oggetti e ruolisociali diventa l’unica strategia di vita possibile. La società liquido-moderna si configura così come unasocietà di produzione di massa di scarti, di oggetti e di vite che portano con sé la propria data di scadenza,dominata dal flusso cangiante, metamorfico e inarrestabile delle merci e della moda.

Quali siano le conseguenze di questo processo di ristrutturazione permanente del mondo Bauman ce lodice lungo il corso del libro, rilevando come il meccanismo temporale del capitalismo liquido inibisca allaradice la possibilità di una critica o di una resistenza al proprio dominio: una società composta da indivi-dui isolati, afflitti dal morbo del «sottoproletariato dello spirito», che vivono nel presente e grazie al pre-sente, è costitutivamente incapace di connettere il tempo privato e schizoide del consumo, con una tempo-ralità diversa (e dunque critica) da quella imposta dalla ruota inarrestabile della moda.

È proprio l’eclissi dell’esistenza come progetto – sostiene Bauman – a rivelare come la precarietà, assur-ta a principio strutturale delle società dei consumi, sia lo strumento più sofisticato di sottomissione e con-

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trollo che la modernità sia mai riuscita a produrre: ad una società di individui isolati e assorbiti dalla pro-pria frenetica ristrutturazione permanente fa da inevitabile correlato la progressiva erosione della sferapubblica, cioè dei luoghi dove la propria vita privata si può tradurre in azione e consapevolezza politica, edunque in progetto.

La crisi della politica e dunque della capacità di colmare l’abisso (temporale e conoscitivo) tra la pro-pria fragilità individuale e un potere extra-territoriale e inaccessibile, è solo una delle conseguenze delliquefarsi della vita. Lungi dall’esaltare l’intelligenza del mondo in un orgiastico sentimento di uguaglian-za, il processo di liquefazione della vita – rileva Bauman – sancisce nuove disuguaglianze tra le élites ingrado di muoversi agevolmente (per privilegio economico e culturale) nel supermarket delle identità enei flussi della società delle reti, e le moltitudini inchiodate alla propria “fissità” territoriale e identitaria,gli scarti di un processo di globalizzazione fondato sull’esclusione necessaria di una parte del mondo dalsistema dei consumi.

Del resto, anche all’interno delle società ricche la liquefazione della vita è portatrice di un senso crescen-te di ansia e insicurezza. Non solo perché il sistema dei consumi si basa sulla generazione di uno stato diperenne insoddisfazione, col fine di riprodurre il ciclo continuo del desiderio su cui fonda il proprio fun-zionamento, ma soprattutto perché l’obbligo sociale alla ristrutturazione permanente espone ogni indivi-duo al rischio del proprio fallimento e dunque al precipizio in quella categoria di consumatori difettosi ofalliti che rappresentano la vera “classe inferiore” della società globalizzata.

Per concludere, Vita liquida è un libro che riserva almeno un motivo di interesse, perché, al di là dellepossibili risposte agli effetti socialmente e psichicamente traumatici del liquefarsi della vita (e qui il libro diBauman si rileva carente) rappresenta una lettura lucida e rigorosa dei meccanismi che plasmano la nostravita quotidiana, e un rovesciamento necessario di alcune letture demagogiche e snob della storia dell’indu-stria culturale: Vita liquida ci ricorda, nel momento in cui questo sistema è al suo apogeo, che lo splendo-re del nostro immaginario si fonda su una rapina frenetica delle risorse del pianeta e si nutre del corpo edel sangue degli esclusi: delle vite di scarto del capitalismo globalizzato.

Zygmunt Bauman è tra i più noti pensatori al mondo, interprete tra i più originali della società contempo-ranea. È professore emerito di Sociologia nelle Università di Leeds e Varsavia. Tra le sue pubblicazioniModernità Liquida (Laterza, 2002), La società sotto assedio (Laterza, 2003).

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Charles Brownstein (a cura di)EISNER/MILLER – Conversazione sul Fumetto(Ed. or. Eisner/Miller, Dark Horse, 2005)Traduzione di Andrea Plazzi (con Johnny Baldini) Kappa Edizioni, Bologna, 2005pp. 301, € 19,00ISBN 88-7471-091-7

Recensione di Alessandro Ruggieri

Eisner/Miller – Conversazione sul Fumetto si presenta come l’antico dialogo, la forma narrativa che miraa fornire più punti di vista sul medesimo argomento e a chiarire la natura del tema trattato attraverso l’ana-lisi dei diversi interventi. I contributi riportati appartengono a una serie di discussioni amichevoli tra WillEisner, storico autore al quale dobbiamo la definizione di “arte sequenziale”, e Frank Miller, innovatore delfumetto popolare americano e regista cinematografico.

Vista l’importanza dei nomi coinvolti in questa disamina colloquiale, si assiste a un dibattito tra profes-sionisti e insieme a uno scontro generazionale sul comune terreno di competenza, ma il centro della scenaè tutto per la materia affrontata, che abbraccia più di un secolo di storia dei fumetti con particolare riferi-

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mento alle produzioni statunitensi. Dalle strisce quotidiane dei primordi al comic book periodico di oggi siripercorrono le più rilevanti tappe di questo linguaggio attraverso due modi opposti di raccontare con leimmagini, da un lato la graphic novel di Eisner, dall’altro gli eccessi dinamici di Miller.

L’affascinante excursus non ha obiettivi meramente didascalici, ma restituisce al contrario unavisione ricca di testimonianze dirette e di accadimenti spesso sottaciuti dalle cronache ufficiali. Così,una volta sdoganato il triste destino dei padri di Superman, morti in povertà mentre la DC Comics siarricchiva grazie alle loro idee, non si può non svelare il colpo di mano di Bob Kane, che soffia lapaternità degli antagonisti del suo uomo-pipistrello al collaboratore Jerry Robinson. Si procede quin-di con gli scheletri nell’armadio della Marvel, la più grande casa editrice di supereroi, e del suodemiurgo Stan Lee, ormai un marchio di fabbrica. Qui i toni si fanno duri e se Eisner si dissocia dal-l’atteggiamento strettamente commerciale legato alla “casa delle idee”, Miller calca la mano sulla deli-cata questione dei diritti d’autore e dell’uso improprio che si fa dei personaggi, indipendentemente dachi li ha creati; uno su tutti, il caso Elektra. La polemica si estende alle lotte sindacali e a un’interes-sante digressione su come il Maccartismo abbia influito su tutti i media e in particolare sui fumetti tra-mite il Comics Code Authority, codice di auto-censura adottato a partire dagli anni Cinquanta per evi-tare ingerenze governative.

Ma al di là dei contrasti con gli editori e i loro avvocati (cfr. il capitolo Editori e Banditi), emerge unagrande padronanza del proprio mestiere e delle tecniche che questo richiede. Le varie metodologie dilavoro sono ampiamente sviscerate in brani di dialogo tra allievo e maestro, un passaggio di testimone chetocca nel dettaglio le procedure di realizzazione di un fumetto: dall’idea al disegno, passando per l’inchio-strazione e il lettering del testo. In questo senso si rivela ottima la scelta delle immagini riportate comepuntuale richiamo visivo ad autori e opere citati e una curiosa galleria fotografica, ad opera dello stessocuratore Brownstein, che riprende i differenti momenti dell’incontro/scontro tra i due grandi nomi delfumetto mondiale.

Non sono poi rare le dissertazioni di tipo etico e filosofico, come non mancano interrogativi sul presen-te e sul futuro del medium in oggetto, una volta novità in quanto tale e ora in costante metamorfosi.Suggerimenti professionali, delusioni private e carrellate dietro le quinte del mondo degli eroi di cartacostruiscono una lunga e minuziosa panoramica sulle nuvole parlanti e sulla loro imponente partecipazio-ne alla cultura contemporanea e all’immaginario collettivo.

Infine, c’è da dire che se questa indagine che confronta tradizione e attualità ricorda da vicino IlCinema Secondo Hitchcock – la trascrizione dell’intervista realizzata da François Truffaut per LesCahiers du Cinéma – d’altra parte soffre del complesso di inferiorità tipico dei fumetti, uno strumen-to di comunicazione ormai codificato e di successo eppure ancora discriminato e sottovalutato dal-l’opinione generale.

Will Eisner (1917-2005) è riconosciuto universalmente come uno dei padri del fumetto moderno.

Frank Miller comincia a lavorare come disegnatore di fumetti verso la fine degli anni Settanta e ancora oggicontinua ad aprire ed esplorare nuove strade per il fumetto.

Charles Brownstein, giornalista, critico di fumetti, sceneggiatore e direttore esecutivo del Comic BookLegal Defense Fund, istituto che aiuta a raccogliere fondi per i processi riguardanti i fumettisti ed il PrimoEmendamento.

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Francesca De RuggieriMATRIX AND THE CITY. Il corpo ibrido nel cinema e nella cultura visualeEdizioni ETS, Pisa, 2006pp. 164, € 13,00ISBN 88-467-1447-4

Recensione di Stefano Mizzella

Precisiamolo subito – meglio ora che alla fine – il testo in questione non sembra eccedere né per origi-nalità di tematiche né per una spiccata quanto auspicata profondità di analisi. Verrebbe da dire un lavoropiù utile che bello, anche se spesso i due termini coincidono. Utile nel fornire al lettore un quadro suffi-cientemente articolato di un’indagine che ha come protagonista il corpo ibrido, o meglio la sua rappresen-tazione mediatica, all’interno del nostro immaginario individuale e collettivo. Utile, ancor di più, nel dona-re dignità scientifica a miti e figure che appartengono al dominio delle immagini e non a quello della scrit-tura, ai linguaggi del corpo e non a quelli del sapere. Risiede in questo il valore aggiunto del libro, nella cuiarchitettura gli strumenti metodologici della semiotica vengono modellati tanto sul testo cinematograficoquanto sui prodotti della cultura visuale. È in tale contesto che il “corpo sullo schermo” non viene solomostrato ma prodotto, reso vivo da immagini produttrici di immaginazione, perché l’atto del vedere è essostesso corpo, nella sua totalità.

Carne e metallo, atomo e bit. Dicotomie fluide di un corpo privo di confini materiali e simbolici. Lanuova carne è qui a rammentarci che la nuda vita non è mai esistita. Meglio allora indagare la pervasivitàipodermica delle tecnologie incarnate, le quali operano in due direzioni complementari: rendono tecnolo-gico il nostro corpo antropomorfizzandosi a loro volta. Non più quindi corpo e tecnologia, bensì corpo tec-nologico. Tanto quello dell’automa quanto quello del cyborg, per poi naufragare verso l’esperienza delcorpo virtuale disseminato nella rete, in cui la dimensione del sensorio supera quella dello sguardo, dellapercezione esclusivamente visiva.

Ancora lo sguardo, dunque. Paradosso dei paradossi, è ancora il senso eletto a cifra stilistica della moder-nità a funzionare come griglia teorica attraverso cui analizzare le tracce di un cambiamento epocale, non soloepistemologico, verso qualcosa di indefinito o di indefinibile. È ancora “lo statuto della visione” a permetter-ci di leggere e decifrare la nuova dimensione assunta dal corpo a seguito della sempre più consistente intera-zione tra uomini e macchine. Uno sguardo che però nel frattempo è divenuto tattile, sinestesico, ibridoanch’esso come l’inedita corporeità che vuole narrare. Perché se la vita ha luogo sullo schermo (per dirla conNicholas Mirzoeff) tra gli occhi e la realtà si frappone l’esperienza mediatica grazie alla quale quella stessa real-tà si innesta dentro la nostra pelle divenendo tessuto vivente, significante.

È in tale prospettiva, tuttavia, che andrebbe forse corretto l’incipit con cui l’autrice apre la suaintroduzione: “Il corpo umano è un luogo”. Meglio prendere esempio dalla lezione di Michel DeCerteau e parlare in questo caso non di luogo, bensì di spazio, perché dove il primo è ordine, stabili-tà e chiusura, il secondo è velocità, mutazione, imprevedibilità. Lo spazio è dunque un luogo pratica-to, percorso, vissuto, così come il corpo è re-combinato, re-mediato dalle nuove soggettività che nepercorrono l’epidermide. Un corpo-spazio (e non corpo-luogo) intimamente sociale e culturale piut-tosto che naturale. Un territorio carnale che oltre ad offrire inedite possibilità di sviluppo riflette ine-sorabile l’ombra del controllo, della sorveglianza, del biopotere. Perché l’unione di carne e metallo hafatto il suo tempo, è venuta meno. Le biotecnologie e i flussi elettronici sono i virus che rimodellanola genetica di una nuova era dell’essere nel mondo. La presa di coscienza dell’avvenuta obsolescenzadel corpo è pertanto il chiavistello ideale per forzare i gangli delle categorie moderne e oltrepassare iconfini dell’umano.

È qui che il pensiero postumano trova la propria ragion d’essere. Perché postumano non va intesocon postumanesimo, termine, quest’ultimo, tanto ambizioso e connotato da annullare le diverse sfuma-ture che la nozione di postumano ha acquisito negli ultimi tempi e che Francesca De Ruggieri è bravaa passare in rassegna, evitando così una sorta di determinismo del termine assai pericoloso per i neofi-ti della materia. Tuttavia, resta ancora uno sforzo da fare. La direzione da seguire è quella di acquisirenuove immagini, nuove figure, nuove suggestioni capaci di parlarci del corpo ibrido, perché se questoè in perenne divenire, lo sono anche i simboli e le immagini che ce ne parlano, che ne decretano l’evo-

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luzione. Ecco perché l’augurio che ci facciamo è quello di superare una volta per tutte le pur meravi-gliose fantasmagorie di Metropolis, Videodrome o Matrix, solo per fare alcuni nomi.

Forse il cinema ha perso il ruolo di mezzo di comunicazione più rappresentativo della nostra epoca, comeinvece più volte sostiene l’autrice. Forse davvero ci troviamo di fronte a una “estetica della sparizione” (PaulVirilio) in cui l’eccesso di immagini crea un’assenza, in cui l’ipertrofia della retina ci ha reso ciechi di fronteal nuovo che accade. Meglio allora abbandonare lo schermo cinematografico e cercare nuove immagini altro-ve, negli interstizi della rete, in quelle zone d’ombra della nostra quotidianità che non possono essere mostra-te ma vissute, esperite, introiettate e fatte carne. Queste immagini esistono, sono sempre esistite, apparten-gono addirittura alla favola e al mito, perché Prometeo è più anziano di Robocop. Di fronte al cinema cheabbaglia, meglio osservare il buio, abitare l’oscurità, e scovare le immagini del corpo ibrido nelle continue“invenzioni del quotidiano” che i nuovi strumenti del comunicare ci mettono a disposizione.

Francesca De Ruggieri, dottore di ricerca in Teoria del Linguaggio e Scienze dei Segni, insegna Semiologiadel cinema e degli audiovisivi nel Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università di Bari(sede di Taranto). Collabora, inoltre, con il Dipartimento di Pratiche Linguistiche e Analisi di Testidell’Università di Bari e con il Dipartimento di Letterature Moderne e Scienze dei Linguaggidell’Università di Siena-Arezzo. I suoi ambiti di interesse sono la semiologia del cinema e la semiotica deinuovi media. In particolare, si occupa delle rappresentazioni del corpo nel cinema, negli audiovisivi e neinuovi media. Fra le sue pubblicazioni più recenti: Tecnologie incarnate (Meltemi 2004).

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Claudio GaetaniIL CINEMA E LA SHOAHLe Mani, Genova 2006pp. 264, € 13,00ISBN 88-8012-346-7

Recensione di Guido Vitiello

Molti sono i meriti del libro di Claudio Gaetani. Anzitutto, colma un grave vuoto nell’editoria italiana.Gli Holocaust Studies statunitensi hanno prodotto monografie a dozzine, non di rado eccellenti, sul cine-ma e la Shoah, come quelle di Doneson, Avisar, Hirsch o Insdorf; l’editoria tedesca, comprensibilmente, èsu questo versante molto ricca, e anche la Francia ha dato il suo contributo, non scevro tuttavia da una certaautoreferenzialità: in libri come L’histoire infilmable di Vincent Lowy si ha l’impressione che la filmografiasullo sterminio degli ebrei nasca con Nuit et brouillard (1955) di Alain Resnais e finisca con Shoah (1985)di Claude Lanzmann. Solo l’Italia faceva eccezione, fino ad oggi: il lettore interessato all’argomento pote-va giovarsi di un’unica, esilissima monografia – Il racconto della catastrofe. Il cinema di fronte ad Auschwitz(Cierre edizioni, 1998), catalogo peraltro assai composito di una rassegna veronese – oppure affidarsi alledieci pagine del lemma “Cinema e televisione” nel Dizionario dell’Olocausto Einaudi; e poco altro.

La filmografia sulla Shoah è ormai sconfinata, e Gaetani la padroneggia così a fondo che quasi ci si stupi-sce di qualche “assenza” eccellente (che fine ha fatto Dossier Odessa? E Il negozio al corso di Kadár e Klos?).Davanti a un materiale così vasto ed eterogeneo, il primo problema che si pone a chiunque voglia scrivere dicinema e Shoah è il criterio secondo cui organizzarlo. Cos’è più appropriato, rispettare la mera successionecronologica? Procedere per autori, per paesi, per aree geografiche, se non addirittura per generi? O quellodei film sulla Shoah è ormai un “genere” a sé stante, come taluni suggeriscono? Il criterio adottato da Gaetanirisente della sua assidua frequentazione della bibliografia americana: è quello della comparazione tra la pro-duzione europea e quella statunitense – quest’ultima diventata via via egemonica e capace di assorbire ancheil meglio del cinema prodotto nel Vecchio Continente (non si può dire l’inverso, purtroppo).

Comprensibile se adottato da un americano, il criterio delle due sponde dell’Atlantico qui convince soloper metà; e questo perché, detto brutalmente, se non è affatto certo che esista in generale un “cinema euro-

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peo”, senz’altro non esiste un cinema europeo sulla Shoah. La varietà delle cinematografie nazionali èampia almeno quanto la gamma delle posizioni rispetto allo sterminio. Anche solo ad attenersi alle tre“figure” storico-morali indicate da Raul Hilberg – carnefici, vittime, spettatori – si comprende che una“memoria collettiva” degli europei sulla Shoah è per definizione impossibile e chimerica. Abbiamo memo-rie nazionali in lotta, o più spesso introverse e gelose, e questo non manca di rispecchiarsi sul grande scher-mo: il cinema tedesco, quello cioè degli eredi dei carnefici, si divide tra i richiami alla colpa di Kluge oVerhoeven e le strategie di “normalizzazione” elusiva di Reitz e Hirschbiegel; quello francese, da Malle aTruffaut e oltre, orbita quasi ossessivamente intorno a Vichy. E così via.

Il cinema polacco è fra tutti il più interessante, vista l’“impossibile” collocazione – geografica, storica emorale – del paese slavo. La Polonia, anche per la sua lunga tradizione antisemita e antigiudaica, fu sceltadai nazisti per ospitare i grandi centri di sterminio; eppure era un paese sotto occupazione. Come possonodefinirsi dunque i polacchi? Vittime della guerra, collaborazionisti, spettatori impotenti o che cos’altro? Equi veniamo al secondo grande merito di Gaetani, un merito che può vantare anche rispetto alla bibliogra-fia straniera. Nel suo libro dedica infatti grandissima attenzione al cinema polacco, a partire dall’Ultimatappa (1948) di Wanda Jakubowska, girato nell’immediato dopoguerra con molti attori sopravvissuti aiLager, fino alle opere di Wajda e soprattutto di Munk (il cui La passeggera è probabilmente il più grandefilm mai girato sulla Shoah). Nella sezione di interviste che conclude il volume, Gaetani s’intrattiene conuno stretto collaboratore di Munk, Andrzej Brzozowski, autore peraltro di film di grande interesse di cuiraramente si trova menzione nella bibliografia sull’argomento.

Il terzo grande merito di Gaetani è il definitivo riscatto di Schindler’s List, straordinario esperimento difilm popolare e “modernista” a un tempo, che la critica più saccente ha subito liquidato quasi fosse un suc-cedaneo, appena un po’ più raffinato, della miniserie della Nbc Holocaust di fine anni Settanta (ClaudeLanzmann, in un imbarazzante “copia-e-incolla” di sé stesso, stroncò entrambi i film con le stesse frasi!).Gaetani dimostra una volta per tutte che, se per difendere il mediocre Holocaust c’erano soprattutto ragio-ni politiche e morali – e che ragioni, tuttavia! – per Schindler’s List la difesa va condotta su tutti i piani,anche su quello della riuscita artistica e della ricerca di uno stile appropriato alla natura dell’evento.

In coda, un piccolo appunto da fare a Gaetani. Va bene, ogni tanto, lodare un film perché è “sincero” od“onesto”; ma forse fare della “sincerità” un metro di giudizio ricorrente, senza chiarire in cosa consista di pre-ciso la sincerità cinematografica, significa in fin dei conti appellarsi alle imponderabili “buone intenzioni” delregista – di cui è lastricata la via dell’inferno. Ma a fronte dei meriti del libro, questa è davvero un’inezia.

Claudio Gaetani (Macerata, 1976) collabora con le cattedre di Storia contemporanea e di Teoria e tecnicadel linguaggio cinematografico all’Università di Macerata. Ha scritto per “Ev”, “Duel” e “Ciminiera”.

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Giuseppe GranieriLA SOCIETÀ DIGITALELaterza, Roma-Bari, 2006.pp. 198, € 10,00ISBN 88-420-8047-0

Recensione di Manolo Farci

La società digitale è una breve ma esauriente guida per comprendere lo spirito del tempo dell’attualenetwork society: spirito inquieto perché costantemente attraversato dallo stupore del nuovo, dalle promes-se di orizzonti di attesa, da successi oramai consolidati, ma anche da fallimenti ancor più repentini. Lasocietà digitale è un complesso processo di bricolage messo in atto da una cultura che non è più esclusiva-mente informatica, ma che ha imparato ad abitare le piattaforme digitali fino a trasformarle in uno spaziosociale emergente, capace di generare nuovi valori collettivi. Il libro di Granieri ricostruisce le più attuali

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evoluzioni della cultura delle reti, evitando di appiattire il discorso sulla semplice retorica esponenziale dellanovità a breve termine, ma tentando di delineare un quadro a lungo termine delle emergenze a cui la cul-tura delle reti ci sta chiamando a rispondere.

La società digitale è un sistema complesso di pratiche adattive che funzionano secondo il principio dellaswarm intelligence, un’intelligenza distribuita in modo paritario, disponibile e condivisibile da tutti, dovel’unico criterio di qualità deriva dal numero di consensi che i soggetti decidono attivamente di conferirle.Nonostante la mancanza di un controllo centrale, la network society non genera automaticamente anarchiae disordine, ma un’architettura capace di modellarsi attraverso rapporti di forza distribuiti tra i nodi stessidella rete. Da Google a Wikipedia, dai software open source ai Weblog: i più recenti social software emer-genti nella Rete definiscono modelli di interazione che prediligono i valori di gruppo e la ricerca di solu-zioni paritarie cooperative e condivise. La società digitale sembra ridare forza allo sllogan mcluhaniano «themedium is the message» poiché è la tecnologia del Web – un ambiente mediale caratterizzato dalla replica-bilità digitale senza aumento di costi – a condizionare comportamenti e dinamiche sociali e a diffondereun’etica del “valore condiviso” capace di sostituire all’economia di scambio una economia del dono fonda-ta sull’abbondanza di risorse condivisibili.

Si tratta di un’etica che necessita però di una grammatica culturale in grado di stabilire pratiche di orien-tamento e criteri di classificazione per una mole di conoscenze, informazioni e relazioni sociali che si è fattasempre più vasta. E anche qui, l’unico modo per trattare tale complessità sembra essere il principio dellacollaborazione dal basso. Le reti mettono a disposizione degli individui una vasta gamma di meccanismi –dal Web Semantico ai feed RSS – in grado di far scegliere loro i contenuti qualitativamente più pertinentie promuovono lo sviluppo di sistemi di reputazione e valorizzazione delle risorse più valide attraverso link,segnalazioni e recensioni su motori di ricerca, condivisione delle proprie esperienze su weblog o forum didiscussione. Le piattaforme della rete diventano così una comunità di pratiche fondate su meccanismi ditrasparenza e fiducia online, i cui effetti stanno gradualmente mettendo in discussione alcune dimensionidella realtà offline come gli assetti dei media tradizionali, le tendenze di mercato, la sfera politica, le stesselogiche di appartenenza identitaria.

Il libro di Granieri attinge a tutti quegli ingredienti del grande racconto mcluhaniano di cui la culturacyberpunk da sempre si alimenta: la centralità delle tecnologie come terreno di scontro cruciale del futuro,la convinzione che le innovazioni nel mondo della comunicazione conducano a vere e proprie mutazionivaloriali e antropologiche, il mito di una comunità paritaria e senza confini fondata su forme di collabora-zione e solidarietà pre-moderne. È un racconto che, pur portato avanti con la competenza e la dimestichez-za di chi quotidianamente vive gli ambienti cognitivi della rete, contiene tuttavia due punti deboli. In primoluogo, l’eccessivo entusiasmo di Granieri per l’elemento di rottura portato dai network non tiene conto delfatto che alcuni fattori della società digitale devono in realtà essere analizzati e compresi all’interno dei piùampi processi di sviluppo della società della comunicazione; in secondo luogo, l’enfasi internet-centrica dellibro mette volutamente in secondo piano un aspetto tutt’altro che marginale, ossia il rapporto delle reticon le complesse dinamiche di investimento e sviluppo nelle telecomunicazioni dell’economia capitalisticaglobale. È proprio vero che «nessuna acquisizione o nessuno spostamento di capitale ha finora prodottocambiamenti significativi nell’evoluzione della Rete»? Forse, invece di stilare novantacinque asserzioni aconclusione del suo libro, pensate come tesi luterane dell’epoca digitale, sarebbe stato meglio che Granierici avesse lasciato con un po’ di dubbi in più sul suo futuro.

Giuseppe Granieri è uno dei maggiori esperti italiani di comunicazione e culture digitali. Scrive di tecno-logia e società da molti anni. Attualmente collabora con diverse testate, tra cui “Il Sole 24 Ore – Nova”.Ha curato, tra l’altro, un manuale di scrittura, Istruzioni per un racconto (Potenza 2000), e una raccolta dinarrazioni brevi, Racconti Rubati (Potenza 2001). Per Editori Laterza ha pubblicato Blog Generation(Roma-Bari 2005).

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Enrico LivraghiDA MARX A MATRIX. I movimenti, l’homo flexibilis e l’enigma del non-lavoro produttivoDeriveApprodi, Roma, 2006pp. 224, € 17,00ISBN 88-88738-87-8

Recensione di Daniele Vazquez

Nel 1895, dodici anni dopo la morte di Marx, i fratelli Lumière riprendevano con un’arcaica macchinada presa una folla di operai nel momento dell’uscita dallo stabilimento di cui essi stessi erano proprietari.Questo è stato il primo sguardo del cinématographe e Livraghi, attraverso lucide e interessanti argomenta-zioni, dimostra che non si è trattato affatto di un caso. E d’altronde proprio in certi filoni dell’archeologiadel cinema, negli esperimenti di Jules Marey (inventore del cronophotographe), in cui si era portata avantil’analisi grafica dei movimenti di umani e animali, si ritrova la connessione più stringente con l’organizza-zione scientifica del lavoro taylorista. Livraghi scrive: «Si direbbe che un fantasma si aggiri tra le primitivefondamenta dell’arte e dell’industria cinematografica: il fantasma della forza-lavoro».

L’autore lo ripete in tutto il libro: il cinema e il sistema tayloristico condividevano lo stesso statuto onto-logico, e anche oggi che l’immagine fotodinamica, figlia della tecnica fotografica, è sradicata dall’immaginedigitale, il cinema continua ad alludere nello stesso momento in cui l’occulta al suo legame con le formepostfordiste del lavoro. Livraghi è convinto che le macchine abbiano un’«anima», un’anima in loro incor-porata che è il fantasma del lavoro vivo, il quale pur celato dietro il sipario dello spettacolo, continua anco-r’oggi a presentarsi nelle nuove tecnologie numeriche. Nuove tecnologie che, va detto, oggi incorporanoanche l’intelligenza della forza-lavoro. E domani forse, chissà, anche gli affetti.

Il paradosso è che il cinema, pur essendo espressione paradigmatica della tecnica fin dalla sua nasci-ta, sembra mettere in scena un nascondimento del suo proprio fondamento, cioè del lavoro vivo. Ilcinema non parla volentieri del lavoro, ma Livraghi, utilizzando della cassetta degli attrezzi marxistasoprattutto i Manoscritti del ’44, il “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse e il primo libro delCapitale – e dunque la parte sul feticismo delle merci – e accompagnato nel suo percorso da marxistieterodossi (da Lukács e Debord ai post-operaisti), cerca di scovare nelle pietre miliari del cinema fan-tascientifico i mutamenti contemporanei della forza lavoro. Soprattutto, l’attenzione dell’autore va aquel particolare feticismo della merce che caratterizza il lavoro in quanto merce e che si ritrova comespirito, spettro, fantasma nelle macchine.

Dentro le rivoluzioni tecnologiche, dalla macchina a vapore fino alle nuove tecnologie numeriche,e attraverso l’evoluzione delle figure della letteratura e del cinema di fantascienza, dai robot agliandroidi capaci di sentimenti, è scritta la storia di una sempre più compiuta sussunzione del lavoro alcapitale. Così il titolo di questo libro, Da Marx a Matrix, rimanda alla struttura di questo libro, allastoria degli smottamenti tecnologici che hanno portato sempre più in profondità la sussunzione dellavoro al capitale, fino all’attuale precarizzazione del lavoro e di contro all’improvvisa e inaspettataricomparsa di una motitudine di corpi antagonisti nelle piazze e nelle vie dell’Impero, una moltitudi-ne che durante la sbornia di immaterialità e new economy degli anni ’90 sembrava del tutto e definiti-vamente scongiurata.

Quanto a Matrix, Livraghi fa notare le contraddizioni del saggio di Slavoj Zizek, “The Matrix: Or,The Two Sides of Perversion”. ZiZek riteneva stupido e ingenuo prendere sul serio le basi filosifichedel blockbuster dei fratelli Wachowski, ma, detto questo, si è cimentato anche lui in un’intepretazionefilosofica di taglio lacaniano-leninista, arrivando a scrivere: «la futura terza parte, The MatrixRevolution, dovrà produrre nientemeno che la risposta appropriata ai dilemmi della politica rivoluzio-naria oggi, un modello per l’atto politico che la sinistra sta disperatamente cercando». Inutile dire cheThe Matrix Revolution ha tradito completamente queste aspettative, cosa che rileva ovviamente ancheLivraghi. L’autore sembra però essere d’accordo con Zizek laddove questi sostiene che la battagliadeve’essere vinta dentro la matrice stessa.

I lettori non vanno però illusi: pur essendo Livraghi un filosofo dell’immagine, le sue interpretazioni di filmcome 2001 Odissea nello spazio, Gattaca, Matrix e Intelligenza Artificiale sono in questo libro secondarierispetto al varco che cerca di aprire attraverso di esse per la riflessione marxista sul lavoro. Se siete in cerca di

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un libro facile che offra letture divaganti di film come Matrix o Intelligenza Artificiale questo non è il libro pervoi. Inoltre c’è da dire che Livraghi non offre soluzioni e che nel libro non si trova una vera tesi centrale, sem-mai vi è l’invito ad un lavoro di scavo che si lasci alle spalle le teorie postmoderne degli anni ’80 e la vulgataimmaterialista degli anni ’90.

Enrico Livraghi ha diretto la rivista di filosofia politica "Metropolis" e ha scritto per “l’Unità”, “Cuore”,“Duel” (ora “Duellanti”) e altri periodici. Tra i fondatori dell’Obraz Cinestudio di Milano, si occupa di filo-sofia dell’immagine. Collabora con “il manifesto”.

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Francesco MonicoIL DRAMMA TELEVISIVO. L’autore e l’estetica del mezzoMeltemi, Roma, 2006pp. 263, € 20,50ISBN 88-8353-471-9

Recensione di Alejandro De Marzo

La televisione, quale prodotto comunicativo della tarda modernità, si presenta come un processo erme-neutico a tutti gli effetti, ma vive di una lacerazione evidente, soprattutto negli ultimi tempi dominati dalleforme di riferimento alla realtà costituite dai reality show e i format strutturati.

Il contenuto della tv è sempre più pervasivamente attinente al quotidiano, secondo la traccia iniziata dallaneo-tv, però eccede in verosimiglianza, cioè quella necessaria categoria poetica individuata a suo tempo daAristotele quale fondativa di una qualsiasi opera umana creativa rivolta alla pubblica presentazione in fun-zione catartica. Il percorso che l’autore di questo volume, studioso di manifesto orientamento mcluhaniano,ci porta ad intraprendere facilita l’esplorazione nei meandri di questa contraddizione (appunto un “dram-ma” televisivo), organizzando le riflessioni in modo mirabilmente sistematico e propedeutico. Pregio dellavoro, pensato infatti per l’insegnamento, sta nel riuscire a spiegare la particolare prospettiva interpretativasulla fenomenologia televisiva contemporanea in termini rigorosi e di comune progressiva verificabilità logi-ca. Tanto che riesce perfino a definire esplicitamente la fisionomia di questo “dramma televisivo”.

Se la tragedia, alla base della cultura occidentale, viveva della tensione del destino e del verosimile attra-verso la dualità realtà/idealità, e la verosimiglianza rispettava cinque caratteristiche generali (transrealtà,coerenza, necessarietà, azione e impossibile credibile), la televisione può essere solo dramma, perché atte-sta l’assenza di queste dimensioni e della poetica aristotelica, per via dell’incoerenza tra contenuto ed este-tica del mezzo (che corrisponde alla mediocrità tematica delle comunicazioni della gente comune, e perchéannulla la consapevolezza della tragicità esistenziale dell’essere umano). Nella tragedia avevano poi unagrande importanza i coriferi, i cui commenti avevano funzione di catarsi politica e giocavano un ruolo simi-le a quello che il pubblico televisivo potrebbe oggi rappresentare con l’intervento simulacrale (se non addi-rittura effettivo) all’interno del processo di produzione (coinvolgimento del telespettatore, eredità dellaneo-tv). Purtroppo, però, il valore dell’intervento “pubblico” nell’atto creativo è delegittimato alla base nelconcetto di esperienza, perché non vive più che di soli entimemi (sillogismi per associazione semplice), percui il criterio del verosimile diventa la regola, mentre le emozioni (di per sé molto comuni e disponibili inchiunque) guidano il processo di verità.

La televisione riduce tutto a notorietà, appiattendo la realtà al visibile, ma per ovviare a questo FrancescoMonico suggerisce di utilizzare la poetica di Aristotele per l’atto creativo (salvaguardando l’arte), e la con-traria posizione platonica (di irriducibilità formale-espressiva del mondo sostanziale dell’idea) per l’applica-zione al mezzo. In questo cuneo teoretico, formulato in un breve capitolo, l’intenzionalità televisiva genera-trice della volontà di significazione potrebbe tornare ad arginare la “repubblica televisiva italiana”, la qualeaumenta il narcisismo della democrazia stessa nel rituale di massa della partecipazione popolare vicariamen-te rappresentata dalla simulazione virtuale dell’opinione pubblica della gente comune. Così come si dovreb-be poter ridimensionare il “folklore pubblico dei telespettatori”, cioè il circolo ermeneutico che si viene a

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creare quando il produttore emittente collassa con il ricevente, snaturando la moralità nazionale e operandola scissione dell'uomo da se stesso mediante la diffusione di un “egotismo televisivo”. La televisione, insom-ma, assicura la riproducibilità del reale, ma insistendo “zoppa” del senso della conoscenza, ormai inevita-bilmente estranea all’estetica del mezzo.

Francesco Monico è critico dei media, ricercatore di forme culturali e mediazioni tecnologiche.Coordinatore del Dipartimento di Media Design della Nuova Accademia di Belle Arti di Milano, presso laquale detiene la Cattedra in Teoria e Metodo dei Mass Media, è Fellow del McLuhan Program in Culture& Technology presso l’Università di Toronto. Presso l’Università di Plymouth è Ph.D researcher e studia ilfenomeno dell’Arte nel XXI secolo, arte e tecnologie, cultura e forme di esplorazione espressive. È diret-tore del Nodo di ricerca Ph.D M.-Node in Italia. Ha scritto per l’“International Herald Tribune/ItalyDaily”, e unisce all’attività di ricerca e didattica quella di autore televisivo.

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