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Giorgio Napolitano " pag. 3 A Bari e alla Puglia sono rimasto legato da una forte impronta di affetti famigliari e di amicizie politiche e culturali, dalla suggestione, anche, che su di me hanno esercitato grandi figure del movimento operaio e della politica nazionale dell’Italia repubblicana, da Giuseppe Di Vittorio ad Aldo Moro. Né posso dimenticare di essere stato eletto in Puglia al Parlamento nazionale, anche se sempre optando per Napoli, e di averla rappresentata, insieme con le altre regioni del Mezzogiorno, al Parla- mento europeo. … Città e creatività Amedeo Lepore " pag. 9 I l termine “megalopoli” fu in- trodotto nel 1961 dal geografo Jean Gottmann (Megalopoli. Funzioni e relazioni di una pluri-città, Torino, Einaudi, 1970; ed. orig.: Megalopolis. The Urbanized Nor- theastern Seaboard of the United Sta- tes, New York, The Twentieth Century Fund, 1961), per indicare un continuum urbano di considerevole… Napoli e la finanziaria Ivano Russo " pag. 14 L a Legge Finanziaria varata dal Consiglio dei Ministri è al centro di un serrato confronto con le associa- zioni di categoria, le parti sociali, i rappresentanti degli enti locali, le forze politiche presenti in Parlamento. In casi simili la prudenza è d’obbli- go, e lo sforzo di incrociare il contenuto della manovra con le aspettative,… Il Mediterraneo luogo di scissioni e culla della civiltà europea Biagio De Giovanni " pag. 5 È un compito particolarmente arduo parlare oggi del “Mediterraneo” e collegare la sua immagine, la sua storia, la sua rappresentazione con l’Europa, la sua idea, le sue politiche, il suo possibile ruolo globale. Da dove, questa così aspra difficoltà? Dal fatto, per dirla sinteticamente, che si accavallano e si intrecciano due prospettive di analisi: a) la prima ci mostra il Mediterraneo come luogo di divisioni, scissioni, conflitti, oggi e nella storia passata. Conflitto fra Occidente e Oriente, cristianesimo e Islam, modernizzazione e tradizione, ed è quasi superfluo tornare a passare in rassegna… Dare risposte a esigenze reali di intervento pubblico a sostegno della crescita e della competitività delle aree più sviluppate e dinamiche del Nord del Paese, dev’essere parte della stessa visione e linea di politica nazionale rivolta a mettere in valore le risorse, le riserve potenziali del Mezzogiorno Lo sviluppo economico nel Mezzogiorno Strumenti, contesto ed architettura istituzionale Massimo Lo Cicero " pag. 17 Registrazione al Tribunale di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% – Direzione Commerciale Imprese Regione Campania Periodico della FONDAZIONE MEZZOGIORNO EUROPA Settembre/ottobre 2006 Anno VII Numero 5 Direttore ANDREA GEREMICCA Art director LUCIANO PENNINO Giulia Velotti 21 FORMAZIONE Caterina Nicolais 23 Simona Mangiante 27 EUROPA Paolo Barbi 31 RIFLESSIONI Eirene Sbriziolo 31 FONDAZIONI Gilberto Antonio Marselli 39 SOCIETÀ MULTIETNICA Cetti Capuano 42 SGUARDI Teresa Megale 44 Maresa Galli 46 Giuseppe Giorgio 49 LIBRI Antonio Alosco 52 STORIA

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Rivista Mezzogiorno Europa

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Giorgio Napolitano " pag. 3

A Bari e alla Puglia sono rimasto legato da una forte impronta di affetti famigliari e di amicizie

politiche e culturali, dalla suggestione, anche, che su di me hanno esercitato grandi figure del movimento operaio e della politica nazionale dell’Italia repubblicana, da Giuseppe Di Vittorio ad Aldo Moro.

Né posso dimenticare di essere stato eletto in Puglia al Parlamento nazionale, anche se sempre optando per Napoli, e di averla rappresentata, insieme con le altre regioni del Mezzogiorno, al Parla-mento europeo. …

Cittàe creatività

Amedeo Lepore " pag. 9

Il termine “megalopoli” fu in-trodotto nel 1961 dal geografo Jean Gottmann (Megalopoli. Funzioni e relazioni di una

pluri-città, Torino, Einaudi, 1970; ed. orig.: Megalopolis. The Urbanized Nor-theastern Seaboard of the United Sta-tes, New York, The Twentieth Century Fund, 1961), per indicare un continuum urbano di considerevole…

Napolie la finanziariaIvano Russo " pag. 14

La Legge Finanziaria varata dal Consiglio dei Ministri è al centro di un serrato confronto con le associa-

zioni di categoria, le parti sociali, i rappresentanti degli enti locali, le forze politiche presenti in Parlamento.

In casi simili la prudenza è d’obbli-go, e lo sforzo di incrociare il contenuto della manovra con le aspettative,…

Il Mediterraneo luogo di scissionie culla della civiltà europea

Biagio De Giovanni " pag. 5

È un compito particolarmente arduo parlare oggi del “Mediterraneo” e collegare la sua immagine, la sua storia, la sua rappresentazione con l’Europa, la sua idea, le sue politiche, il suo possibile ruolo globale. Da dove, questa così aspra difficoltà? Dal fatto, per dirla sinteticamente,

che si accavallano e si intrecciano due prospettive di analisi: a) la prima ci mostra il Mediterraneo come luogo di divisioni, scissioni, conflitti, oggi e nella storia passata. Conflitto fra Occidente e Oriente, cristianesimo e Islam, modernizzazione e tradizione, ed è quasi superfluo tornare a passare in rassegna…

Dare risposte a esigenze reali di intervento pubblico

a sostegno della crescitae della competitività

delle aree più sviluppatee dinamiche del Nord

del Paese, dev’essere parte della stessa visione

e linea di politica nazionale rivolta a mettere in valore

le risorse, le riserve potenziali del Mezzogiorno

Lo sviluppo economico nel MezzogiornoStrumenti, contesto ed architettura istituzionale

Massimo Lo Cicero " pag. 17

Registrazione al Tribunale di Napoli n. 5112 del 24/02/2000. Spedizione in abbonamento postale 70% – Direzione Commerciale Imprese Regione Campania

Periodico della FONDAZIONE MEZZOGIORNO EUROPA • Settembre/ottobre 2006 • Anno VII • Numero 5 • Direttore ANDREA GEREMICCA – Art director LUCIANO PENNINO

Giulia Velotti 21FORMAZIONE

Caterina Nicolais 23Simona Mangiante 27

EUROPA

Paolo Barbi 31RIFLESSIONI

Eirene Sbriziolo 31FONDAZIONI

Gilberto Antonio Marselli 39SOCIETÀ MULTIETNICA

Cetti Capuano 42SGUARDI

Teresa Megale 44Maresa Galli 46Giuseppe Giorgio 49

LIBRI

Antonio Alosco 52STORIA

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… Questo è stato d’altronde sempre un luogo cruciale del movimento di idee e dell’azione politico-so-

ciale per le riforme e le politiche volte al superamento dello storico divario, e dualismo di sviluppo, tra Nord e Sud. Impegno, quest’ultimo, che io non pos-so ora – come rappresentante e garante dell’unità nazionale – non considerare sempre vivo e inderogabile.

Preoccupano a questo proposito i dati già ampiamente analizzati – in modo particolare nel rapporto Svimez 2006 – da cui risulta il recente regresso del Mezzogiorno, nel quadro delle diffi-coltà incontrate dall’economia italiana nel suo insieme. I giudizi sulla validità ed efficacia degli approcci seguiti e dei tentativi portati avanti nel corso dell’ultimo decennio possono essere diversi. Ma il fatto che essi non abbiano prodotto risultati più durevoli, inne-scando una strutturale e non transitoria inversione di tendenza nel rapporto tra Nord e Sud, può forse giustificare forme di scetticismo rinunciatario, di liquidazione dell’impegno perseguito a partire dagli anni ’50 nell’Italia re-pubblicana, sia pure attraverso forti contrasti di opinione e numerosi alti e bassi ; può forse giustificare forme di rimozione di quella che è stata da oltre un secolo identificata come questione meridionale? Si tratterebbe di una assurda distorsione e di una fuga dalle responsabilità.

Sia il Mezzogiorno che l’intero paese sono grandemente cambiati nei passati decenni ; e sono ora chiamati a fare i conti con un contesto radicalmen-te nuovo sul piano mondiale, in termini economici, tecnologici, demografici, culturali. Essi debbono dunque saper fronteggiare esigenze di ulteriore e più profondo cambiamento. L’essenziale è comprendere che le sempre più ar-due prove della competizione globale richiedono la valorizzazione di tutte le energie e potenzialità di cui l’Italia dispone, dal Nord al Sud, la conver-genza di tutti gli sforzi ; senza cedere a contrapposizioni fuorvianti. Non ha senso rimuovere i problemi di un nuovo sviluppo del Mezzogiorno o cancellare l’espressione “questione meridionale” come esempio di vecchia retorica, e col-tivare la nuova retorica della “questione settentrionale”.

Dare risposte a esigenze reali di intervento pubblico a sostegno della crescita e della competitività delle aree più sviluppate e dinamiche del Nord

del paese, dev’essere parte della stessa visione e linea di politica nazionale rivolta a mettere in valore le risorse, le riserve potenziali del Mezzogiorno. Le idee circa le strade da prendere, circa le scelte concrete da compiere, possono venire solo dal governo e dal Parlamen-to, in un rapporto aperto e intenso con il sistema delle autonomie e con le parti sociali e in una feconda dialettica tra maggioranza e opposizione. Mi sembra tuttavia giusto raccogliere l’importante contributo di indicazioni e proposte per lo sviluppo del Mezzogiorno che è venu-to non da un particolare schieramento politico ma da un insieme di soggetti altamente rappresentativi politica-mente e socialmente: i presidenti delle Regioni meridionali, senza distinzione di parte, il presidente della Confindu-stria, i segretari generali delle maggiori Confederazioni sindacali.

Le principali linee direttrici che in quel documento sono state formulate, in termini concreti e non generica-mente – una fiscalità di vantaggio per il Mezzogiorno, un nuovo sistema dei trasporti e delle infrastrutture, le politiche volte a far leva sui sistemi ur-bani come motori per lo sviluppo, una svolta verso la società della conoscen-za – presentano un evidente interesse nazionale. E non occorre sottolineare la valenza sociale, le ricadute sociali delle scelte sollecitate dalle Regioni meridionali e dalle rappresentanze industriali e sindacali. È ad indirizzi di politica economica come quelli così delineati che resta legato, soprattutto, un effettivo innalzamento dei livelli di occupazione in Puglia e nel Mezzogior-

no. Più lavoro e in particolare più lavoro legale e garantito, contro fenomeni di spaventosa regressione che calpestano i diritti e mettono in pericolo la vita dei lavoratori.

Esistono ragioni di non retorica fiducia: specie nella prospettiva, ormai tangibile, di una nuova centralità del Mezzogiorno come grande incrocio fra la crescita e l’espansione delle mag-giori economie asiatiche e lo sviluppo dell’Europa unita. In questo scena-rio, il Mezzogiorno d’Italia diviene un punto di forza per l’intero nostro paese, un’opportunità da cogliere creando nello stesso Mezzogiorno le condizioni necessarie perché ciò sia possibile, sul piano delle infrastrutture e delle piattaforme logistiche come sul piano dell’ambiente civile. E nulla più dell’originaria e costante ispirazione della Fiera del Levante contiene in sé questa proiezione mediterranea delle nostre regioni meridionali.

Anche a questo proposito cogliamo ragioni di fiducia nel ruolo che l’Italia ha assunto e che le è stato riconosciuto dinanzi alla tragica crisi del Libano e ai fini di un rilancio dell’impegno europeo per la pace in Medio Oriente e per la collaborazione tra le due sponde del Mediterraneo.

A un forte senso del carattere nazio-nale unitario dello sforzo di cui l’Italia ha bisogno nella fase di trasformazione mondiale che stiamo vivendo, deve egualmente ispirarsi il confronto per larghe intese sui temi istituzionali oggi all’ordine del giorno, e in modo particolare sul tema degli sviluppi da dare all’indirizzo federalista sancito nella Costituzione con la riforma del suo Titolo V. Attuare le prescrizioni dell’articolo 119 in chiave di federalismo fiscale è compito urgente e ineludibile, nel tempo stesso in cui si verifica la possibilità di soluzioni condivise per quel che riguarda la correzione, in alcuni punti, della legge di riforma del 2001. È auspicabile un concorde riconoscimento della necessità di intendere l’evoluzione federalista della forma di Stato in senso effettivamente e conseguentemente cooperativo e solidale, secondo lo spi-rito della Carta costituzionale del 1948 e anche della legge di revisione del suo Titolo V. Si tratta di una necessità più che mai corrispondente all’interesse complessivo del paese, che potrebbe solo ricevere danno da una disputa divisiva tra le Regioni, da una distorsione del modello che ne prevede la responsabile e virtuosa competizione e non la ne-

Giorgio Napolitano

Il mio è un appello alla più leale

collaborazione istituzionale tra

governo nazionale e sistema

delle autonomie,tra Regioni

del Nord e del Sud

Mezzogiorno e Mediterraneo

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gazione di principi di equilibrio e solidarie-tà che garantiscano piena considerazione delle specifiche con-dizioni e difficoltà del Mezzogiorno.

Ai fini di una cor-retta utilizzazione delle risorse pubbli-che e di una più alta capacità di realizza-zione delle politiche e dei programmi di sviluppo, s’impone, or-mai, anche un’attenta rivisitazione dell’ar-chitettura dei livelli istituzionali via via sovrappostisi. Vanno seriamente considera-te innegabili esigenze di razionalizzazione e semplificazione, di fronte a duplicazioni e confusioni di respon-sabilità e di poteri, a moltiplicazioni di istanze decisionali e di enti derivati e quindi di incarichi elettivi e non elettivi retribuiti in modo ingiustificato. Combattere fenomeni di spreco da congestio-ne istituzionale e in special modo di dila-tazione del costo della politica, è parte impor-tante del discorso sul-l’efficienza dell’azione di governo e ammini-strativa in particolare nel Mezzogiorno.

Il mio è dunque un appello alla più leale cooperazione istituzionale, tra governo nazionale e sistema delle autonomie, tra Regioni del Nord e del Sud, tra governi regionali e governi locali, così da realizzare le sinergie di cui c’è acuto bisogno per il rilancio del nostro paese e del suo ruolo in Europa e nel mondo. Questo significa oggi far vivere il valore e l’imperativo dell’unità nazionale.

Delle sinergie di cui parlo si com-prende bene anche in Puglia l’impor-tanza, come condizione per definire e portare avanti progetti di sviluppo infrastrutturale e produttivo, scien-tifico, culturale e turistico, capaci di valorizzare le risorse e le potenzialità di questa regione: si tratti di nuovi settori

industriali o di sistema agro-alimenta-re, di energia, di ricerca e innovazione tecnologica, o di patrimonio storico-ar-tistico. Le realtà più avanzate e i punti di eccellenza di cui già disponete e che mi propongo di osservare più da vicino in questi giorni debbono sprigionare tutta la loro forza di esemplificazione e di trascinamento.

Rivolgo in conclusione un saluto particolare al Sindaco Emiliano e alla città di Bari, cui ho questa mattina l’ono-re di consegnare la medaglia d’oro al merito civile concessa in riconoscimento del tributo di sofferenze e di vite umane pagato nella seconda guerra mondiale, fino al tentativo generoso di riscatto dei primi moti di libertà e d’indipendenza

del 1943. Bari è la città che accolse poco dopo, nel gennaio 1944, quel primo “Congresso dei partiti uniti nei Comitati di Liberazione nazionale” che rappre-sentò un ponte ideale fra le tradizioni di lotta e di sacrificio dell’antifascismo e le difficili prove del risorgere della politica in condizioni democratiche. Si gettarono così le basi di una nuova Italia – come disse Benedetto Croce – “più consape-volmente e accortamente liberale che non fosse nel passato”, di una nuova Italia come parte integrante di una nuo-va Europa. Quella Europa che ancora lavoriamo a costruire.

Appunti dall ’intervento del Presidente della Repubblica alla Fiera del Levante. Ba-ri – 14 settembre 2006.

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la drammatica attualità: guerra per la vita e per la morte fra israeliani e pa-lestinesi, dramma della

fame, della povertà, immigrazione con i barconi che cercano un disperato e spesso mortale approdo, e la costa Sud e la costa Nord divise e lontane, sembra, senza speranze di un vero confronto. b) la seconda, ci indica il Mediterraneo come culla, luogo di nascita della civiltà europea, anzi, per dir meglio, come luo-go di incontro fra molte civiltà, spazio dove nascono, per dirla con George Duby, “gli ideali del Mediterraneo”, la tolleranza, il riconoscimento, l’idea di persona, i monoteismi, il logos greco, la scienza araba, che permise, fra XV e XVI secolo, all’Europa moderna di intraprendere il cammino che poi fu di Galilei e di Newton. Luogo e spazio dove si incontrano “logos” e “mito”, come scrisse Ricoeur, che ricordò “la grande maturità di un logos che ancora sa tenere la memoria del mito”. Ora, è essenziale che queste due vie di analisi, così sommariamente indicate, siano te-nute insieme, siano guardate come due lati nessuno dei quali può essere abolito (ma come coesistono? E possono far-lo?) per evitare o la mera ripetizione, a rischio di retorica, di una idea euforica e irrealistica, mille volte riaffermata, di un Mediterraneo luogo di bellezze e di incontri, o la caduta nella mera rap-presentazione nihilistica della potenza, per cui ciò che conta è solo il dominio del più forte, e il Mediterraneo non rappresenta altro che un contributo a questa immagine del mondo.

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Come fare, per eseguire questo compito? Vorrei muovere dai punti alti di una idea intorno alla quale si è costruito il Mediterraneo come civiltà e incontro di civiltà, di uomini, di etnie, di scambi. Nessuno può negare la sua fondatezza e la sua verità. Come scrive Braudel, “il Mediterraneo è un crocevia antichissimo. Da millenni tutto vi con-fluisce, complicandone e arricchendone la storia: bestie da soma, vetture, merci, navi, idee, religioni, modi di vivere”. O, come aggiunge Maurice Aymard, è nel Mediterraneo che “nasce la moderna urbanistica, la piena trasparenza degli spazi abitati dagli uomini”. Ma assai più di tutto questo è compreso nel-l’idea di Mediterraneo: c’è, lì, l’atto di nascita del logos greco, collocato da Onians nella relazione tra la fluidità

dell’acqua e la generazione delle cose, ancora una volta il mare come fluido luogo di costituzione della ragione, che è divenire e libertà. E se passiamo alle grandi visioni sintetiche incontriamo, nel novecento, per fare un esempio fra i più limpidi e eleganti, il pensiero di Paul Valery (ripreso da Jacques Derrida in un suo saggio affascinante sull’Eu-ropa) che inscriveva l’Europa in quel crogiuolo mediterraneo dove Roma, Gerusalemme, Atene compivano, insie-me, il senso delle sue origini. Dunque, Mediterraneo ed Europa strette da un indissolubile legame costruttivo di civiltà e di incontri fra civiltà, da cui l’Europa prendeva la propria immagine e la collocava nel concreto della propria azione. “In tutti i luoghi dove i nomi di Cesare, di Gaio, di Traiano e di Virgilio, dove i nomi di Mosè e di San Paolo, dove i nomi di Aristotele, di Platone e di Euclide hanno avuto un significato e una autorità simultanee, lì è l’Europa”. E mi viene da citare, in questo veloce ricordo di fonti convergenti, i lavori di quello strardinario ricercatore delle culture antichissime del Mediterraneo che è Giovanni Pugliese Carratelli, dedicati questa volta al Mezzogiorno luogo di confluenza fra Mediterraneo ed Europa, e ineguagliabile “luogo di incontri”, dove nasce la civiltà della polis. Nella Magna Grecia, sulle coste tirreniche, prima ancora che in Grecia. Insomma, in tutte queste testimo-nianze, Mediterraneo ed Europa legati insieme nella costituzione stessa di una comune civiltà.

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L’idea, peraltro, ha ascendenze lon-tane, e ha formato la storia e la coscien-za dell’Europa moderna. Ascendenze lontane, dicevo: una grandiosa rappre-sentazione di quel crogiuolo e di quei collegamenti è in pagine celebri della ”Filosofia della storia” di Hegel. Il testo va letto non senza commozione. “Il Mediterraneo è elemento connettivo ed esso costituisce senz’altro il punto cen-trale della storia del mondo. Con le sue molte insenature, esso non è un oceano, che conduce verso l’incerto, verso ciò con cui l’uomo non ha che un rapporto negativo: esso invece addirittura invita l’uomo ad entrare in relazione con esso. Il Mediterraneo è l’asse della storia del mondo. Tutti i grandi stati della storia antica giacciono intorno a questo ombelico della terra. È qui che si trova la Grecia, il punto più luminoso della storia. Nella Siria è Gerusalemme, cen-tro dell’ebraismo e del cristianesimo; a sud est di essa sono la Mecca e Medina, culle dell’Islam; verso ovest giacciono Delfi e Atene, e ancora più ovest Roma e Cartagine…Il Mediterraneo è così il cuore del vecchio mondo, essendo il suo animatore, la sua condizione di vita. È il punto centrale della storia del mondo, in quanto questa è collegata in se medesima”. Qui sono presenti tutti gli elementi che, per Hegel, fanno del Mediterraneo un crogiuolo di civiltà e formano l’identità originaria di Europa. Il mare, come divenire e libertà. La polis, dove per la prima volta si sinte-tizzano unità e molteplicità. Roma, la cittadinanza come principio universale. Nell’insieme, un crogiuolo nel quale ci sono le condizioni di una cultura del riconoscimento reciproco, il crogiulo da cui nasce Europa e per lui, anche lo sfondo per l’europeizzazione del mondo. Ma questo crogiuolo di culture, che dà vita a Europa, è anche conflitto e radicale contrasto, è insieme ricono-scimento e disconoscimento. Nessuna visione edulcorata della storia nasce da quelle pagine, anzi lì si stabiliscono le condizioni di grandi contrasti, giacchè le civiltà non sono coperte che aderiso-no spontaneamente a persone e terre e mari, ma fonti di energia, di afferma-zione identitaria, per cui agli embrioni di una cultura del riconoscimento che si stabiliscono in alcuni punti luminosi si accompagnano ragioni di lotta e di reciproci disconoscimenti. Per Hegel, fra cristianesimo e Islam si stabilisce un contrasto che germina da due diverse

Biagio De Giovanni

La storia del Mezzogiorno è caratterizzata

da un continuo incontro di genti e culture diverse

quale nessuna altra regione del Mediterraneo ha

conosciuto

Mezzogiorno e Mediterraneo

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letture del monoteismo: trinitario e aperto al mondo della storia il primo, chiuso nell’Unicità l’altro; disposto alla libertà, il primo, al dispotismo il secondo. E nessuna visione edulcora-ta del movimento delle civiltà che si accavallano nel Mediterraneo risulta dalle grandi letture contemporanee del problema. Si ascolti Braudel, che descrive passaggi essenziali della storia mediterranea: “ Da una parte vi è tutto l’Occidente (greci e latini), dall’altra tutto l’Oriente. La vastità del conflitto drammatizza lo scontro, lo amplifica. A Maratona i greci salvano un Occi-dente minacciato dalla sovversione. Roma colpisce l’Oriente stroncando Cartagine. Nella stessa dierezione si rivolgono, ostinatamente, le crociate. La presa di Costantinopoli nel 1453 è, da parte dell’Islam, una replica di portata incalcolabile. In data più tarda (1571), Lepanto mette in gioco ancora una volta la salvezza dell’intero Me-diterraneo, tartassato sul mare dalle flotte turche e dai corsari barbareschi”. E poi: “Le civiltà sono dunque intrise di guerra e di odio, una immensa zona d’ombra che le divora quasi per metà”. E Matvejevic insiste proprio su questo lato, mostrando insofferenza verso ogni visione “mitica” del Mediterraneo, che rischia, come egli dice, di far sommer-gere in una rappresentazione appunto “mitica” proprio quel Mediterraneo che è il “padre dei miti”.

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Come si può sintetizzare ciò che produce conflitto e contrasti che tal-volta appaiono insanabili? È in gioco la crisi della relazione fra identità e differenza. La possibilità della scissio-ne fra i due termini della dialettica. In gioco è un irrigidimento delle identità. Un irrigidimento delle particolarità pur nate nel medesimo spazio e addirittura da uniche fonti. La particolarità non è in sé un valore se si chiude entropica-mente in se stessa, o se pretende, essa, come tale, di farsi universalità. Tutti i monoteismi mediterranei sono abra-matici, ma quanti contrasti li dilaniano per quella che si potrebbe chiamare la diversa lettura del rapporto fra uno e molteplice, fra Dio e mondo! Dunque, conflitto di civiltà? Di civiltà che pure si sono mescolate, condizionate recipro-camente, arricchite l’un l’altra? Duby ricorda in proposito, con particolare efficacia, che fra XV e XVI secolo fu la scienza araba, e il ritorno di Asristo-

tele a consentire che si stabilissero le premesse per il tragitto della moderna scienza europea, alla base di tutta la visione moderna dell’Europa. Il fatto è che, come dicevo prima, le civiltà sono intrise di logos e di potenza, di ragione e di energia vitale, processi complessi e mescolati che rifuggono da ogni definizione monocroma. Ba-sti ancora pensare alla scissione dei mondi mediterranei rispetto ai grandi processi di modernizzazione che si ac-celerano dopo la nascita della scienza moderna. Sono interi mondi che si dividono in questo passaggio, nella realtà delle cose e nelle letture del rap-porto fra modernità e tradizione. Con domande inquietanti che permangono nell’attualità: che cosa è modernità? modernizzazione? Quale rapporto con l’identità? Quali sono le vie della storia da percorrere?

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Ora, tutto si acuisce con il processo di globalizzazione. Perché mai avviene questo, in contrasto con chi immagina-va il processo globale come affetto da progressiva omogeneizzazione di tutti nella modernità? Vale ancora la pena di ricordare chi sosteneva che globa-lismo avrebbe corrisposto a “fine della storia”? Perché tutto sembra andare in una direzione tanto diversa da queste previsioni? Perché, in particolare, il Mediterraneo è a ferro e a fuoco? La ragione è chiara, anche se sarebbe difficile analizzarla in particolare. Ma qui è sufficiente formularla come prospettiva generale: la controfaccia del globalismo, ovvero dello sforzo unificante, sta proprio nella radicaliz-zazione delle identità. Come se questa radicalizzazione indicasse una volontà

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entropica di “resistere” ai processi globali, una critica di questi, ma regres-siva, entropica appunto, rivolta solo a quella particolarità che, dicevo, non è in sè un valore. E le identità radicali si stagliano sulla scena con una intensità “fondamentale” (fondamentalista) acuendo la logica di uno scontro che ha in sé tensioni mortali. Più il Medi-terraneo è stato crogiuolo e incontro di civiltà, più oggi sembra che il suo destino sia nello scontro fra le civiltà. Tema che si può, si deve criticare, ma non si può semplicemente esorcizzare. È proprio qui che si stagliano i compiti di quella Europa che si va unificando. Dopo il 1989 e la fine di un bipolarismo che rendeva relativamente statica la scena del mondo, l’Europa è stata posta dinanzi a nuove sfide e responsabilità. Rispetto allo straordinario disordine degli spazi, seguito a quella vicende, il

compito diviene quello di contribuire a formare un nuovo nomos della ter-ra, per usare la classica espressione schmittiana, un nuovo ordine spaziale che acceleri le potenzialità di governo politico dei processi globali. Come sviluppare qui questo tema? Muovia-mo dalle manchevolezze dell’Europa sui temi mediterranei. L’Europa si va formando con poco Mediterraneo nella propria strategia. Sarà stata la centralità dell’asse franco-tedesco nella storia della sua integrazione, un asse che in certi momenti ha pensato alla ricostituzione di una Europa lotarin-gia, o altre complesse ragioni attinenti alla sfaldatura del Mediterraneo come entità autonoma, quel dato indicato è comunque sicuro. Certo, si può citare Barcellona,1995, con i seguiti che ha avuto. Ma è solo un caso che la comples-sa strategia di Barcellona abbia fruttato assai poco? Come se l’Europa, al di là di grandi affermazioni di principio, non volesse mettere le proprie mani in quei terribili di nidi di contrasti e di lotte che si stringono intorno all’area mediterra-nea. E anzi, la sua assenza quasi totale nel conflitto israelo-palestinese, il suo scarso contributo alla lotta alla fame nel mondo, le sue incertezze e divisioni sui processi di immigrazione mostrano un corpo politico incerto sulle vie da percorrere, diviso, privo di serie pro-poste. Forse qualche segnale nuovo giunge dall’operazione “Libano”, ma quanto carica di ambiguità per poter esser letta come l’avvio di una nuova fase! Come muoversi, allora? In quali direzioni? Qui non entro nel merito di problemi decisivi come quelli relativi alla cooperazione allo sviluppo, alle questioni economiche legate al prote-zionismo agricolo europeo che molto limiterà l’impatto del mercato comune che dovrebbe partire, con i paesi del Magrheb, dal 2010. Intendo toccare altri temi, legati al ragionamento svolto finora.

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Intendo sollevare brevemente la centralità del tema culturale. Oggi è forse il cuore di tutti i problemi. Ma non è certo in senso intellettualistico che voglio qui accennarne. Se c’è qual-cosa di vero nelle cose dette finora, la conseguenza è chiara: il ritorno delle questioni identitarie, che sono alla base dei grandi conflitti mediterranei, è carico di implicazioni culturali. Perfino la tesi dello scontro fra le civiltà nasce

da lì. Ed è tesi generalmente accettata, e spesso accuratamente argomentata, quella che invita a prendersi cura delle grandi tematiche che germinano dall’incontro fra culture diverse, fra tradizioni e atteggiamenti di vita che convivono negli stessi spazi, dal mesco-larsi di cose, di idee e di uomini reali. Tutti i temi mediterranei convergono in queste coordinate, da cui ne nascono tante altre: dal dialogo fra civiltà diver-se, alla coesistenza nelle nostre società di tante realtà che proprio dall’area mediterranea provengono. Ora, l’asse sul quale lavorare è, credo, il seguente: la lotta per il reciproco riconoscimento; affermare questo valore; provare a ritrovarsi in forme politiche che con-sentono il riconoscimento reciproco. Smussare la rigidezza delle identità. Essere consapevoli che si tratta di una lotta, come “lotta” la chiamò Hegel quando intorno al riconoscimento re-ciproco collocò l’atto di nascita dell’Eu-ropa moderna in pagine celebri della “Fenomenologia”. Il logos europeo può contribuire a questo processo, se torna ad avere fiducia in se stesso. Se sa di poter conservare un tratto essenziale della propria identità, facendolo gioca-re in un mondo non più eurocentrico e quindi non più appropriabile secondo una antica logica. Quale tratto? Quello che ha formato la coscienza di Europa intorno a una identità che si rompe in lei stessa in diversità, che rigetta l’Unico, che lega, all’origine, uno e molteplice (Platone), che si apre al divenire e alla libertà. In questo nodo essenziale si forma la coscienza origi-naria di Europa. Ma il punto primo è che l’Europa torni ad avere fiducia nel suo logos, a tornare a prendersi cura di esso, in forme diverse dal passato. Non per caso sollevo qui il tema. Domina la scena una situazione spirituale diversa. L’Europa ( l’Occidente) diventa la fonte di ogni male, di ogni violenza passata nella storia del mondo. E siccome potenza e violenza hanno fatto parte di Europa, questa posizione sembra corrispondere a quella verità storica, non fare altro che registrare, nella lo-gica di un diffuso pentitismo, il senso antico di un processo tutto da rigettare, rigettando, con esso, quell’intreccio di ragione e potenza che ha formato il nomos europeo nella sua lettura delle linee globali della storia del mondo. Se questo diffuso pentitismo, se questo diffuso senso comune prevarranno, l’Europa opererà una sorta di dimissio-ne dalla propria storia. Di tradimento

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di sé. Ma questo non rafforza affatto la sua capacità di dialogo. Altro è l’auto-critica, alla luce di una ricerca storica compresa in una nuova dimensione della contemporaneità, secondo l’inse-gnamento di Croce, altro è la diserzione dalla propria storia, l’incapacità di ve-dere, insieme, il movimento del logos e dell’energia vitale che ne fece, appunto, atto di vita. Anche il mondo diverso da quello europeo, quel mondo che si vuol porre nel processo del riconoscimento (“l’Altro”), ha bisogno di avvertire che di fronte non ha il “niente”, non ha una realtà che rigetta se stessa, che si annulla in atti di genuflessione e di pentimento, ma un solido corpo di idee e di storia, di progetto e di volontà di confronto. O sarà questo l’atteggia-mento che tornerà in campo, a comin-ciare dalla ricerca che si svolge nei gabinetti degli studiosi, o ogni dialogo con “l’Altro” è impossibile in partenza. Proprio il contrario di ciò che molti immaginano.

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Accenniamo dunque a qualche direzione di analisi. L’Europa può esibire, oggi, un proprio modello strategico, quello che ha adope-rato per civilizzare le relazioni fra i propri stati-nazione, dopo guerre sconvolgenti e distruttive. È questa una direzione di lavoro possibile, con lo sguardo oltre i confini di Europa, immaginando una riorganizzazione degli spazi del mondo in “regioni” capaci di ri-conoscimento reciproco. Il model-lo politico che ha vinto per placare gli odii e le guerre intraeuropee può contribuire alla costruzione di una comunità internazionale basata sull’espansione di quei pro-cessi costituzionali e democratici necessari perché il riconoscimento reciproco giunga a toccare (e a incontrare) sistemi politici segnati dall’umanità della legge, da garan-zie uguali per tutti i cittadini, dalla riscoperta dell’umanità dell’uomo e dall’espansione della sua libertà. Ma detta così, la cosa può apparire una “pappa del cuore”, per ricor-dare sempre espressioni di Hegel. E rischia di esserlo, e di esser quin-di “flatus vocis” che si disperde senza eco in un mondo di forze e di sovranità in contrasto. Ma può non esserlo, se l’espansione di un nuovo ordine più libero e demo-

cratico, che voglia avere una incidenza decisiva anzitutto sulle tragedie medi-terranee, si interpreti come “lotta per il riconoscimento”, per utilizzare una espressione che fu sempre di Hegel. Lotta, dunque, ai fondamentalismi, dovunque si annidino; affermazione della superiorità della democrazia po-litica su ogni altra forma di governo (è assurdo parlare di civiltà “superiori”, e ciò soprattutto nell’area mediterranea, assai meno parlare di sistemi politici superiori perché capaci di garantire l’umanità della vita e i suoi diritti); af-fermazione della libertà come principio primo del mondo della storia. La lotta per il riconoscimento implica dunque anzittutto battaglia culturale, intorno alle idee, in quanto esse si incarnano in realizzazioni storiche. È lotta per una

polis umana. È, nel Mediterraneo, una antichissima lotta che oggi ha nuovi strumenti di confronto, diffusione di conoscenze, sostegno alla laicità, sforzo di allargare i confini della cittadinanza. Modernizzare l’Islam o islamizzare la modernità? Nell’irto dilemma propo-sto, con riferimento al tema più caldo, oggi, nell’area del Mediterraneo, i compiti di Europa si disegnano con nettezza maggiore che nel passato, proprio perché è caduta ogni illusione di una globalizzazione addolcita, e i travagli del mondo si disegnano in tutta la loro asprezza.

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E infine un cenno al Mezzogiorno, fra Mediterraneo ed Europa. Qual-

che riferimento da uno scritto di Giovanni Pugliese-Carratelli, anzitutto: “La storia del Mezzo-giorno d’Italia è caratterizzata da un continuo incontro di genti e culture diverse, quale nessun altra regione del Mediterraneo ha conosciuto”; “La prima polis colo-niale di Occidente è sorta nell’area del golfo di Napoli”, e le poleis italiote “si giovavano dei lumi dei circoli pitagorici..e non per caso la Magna Grecia non ha conosciuto quel reiterarsi di tirannidi che dal secolo VI ha invece contrassegnato la vita civile delle poleis siceliote”; “Proprio nell’atmosfera formatasi per effetto della colonizzazione greca nel versante ionico e nel tirrenico dell’Italia meridionale ….la meditazione filosofica e la riflessione scientifica hanno posto i fondamenti della civiltà intellet-tuale dell’intero mondo antico”. E la polis è il punto di partenza per quella unità molteplice che è il trat-to dell’identità europea, disposta a comprendere la diversità. Un’unica domanda: è possibile riportare nel-l’azione il senso di quel rapporto originario? O la memoria si è di-spersa, e tutto si annienta in questa dispersione? Qui si gioca molto del futuro, forse tutto. Perciò è do-manda cruciale, esistenziale, non monito accademico a “ricordare”. Vedremo. Le urgenze del mondo potrebbero lasciar pensare che uno sforzo ci sarà, contro ogni tendenza apparente, a ritrovare significati capaci di dar forza all’azione. Le classi dirigenti saranno consape-voli della posta in gioco?

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… estensione, originato dal-l’espansione di una città che entrava in contatto con l’area di influenza di

un’altra città, poi con un’altra e così via… Secondo Gottmann, le radici di questa metamorfosi sono profondamente ramificate, a cominciare dai tempi più remoti; ma l’evoluzione urbana del XX secolo costituisce un “grande tornante nella storia dell’umanità ed una vera e propria metamorfosi nell’organizzazione del mondo” (La città invincibile, Milano, Franco Angeli, 1983). Questa crescita, dovuta alla concentrazione di attività e popolazione nelle realtà urbane a spese dello spazio circostante, è stata favorita e accelerata dai nuovi mezzi di comuni-cazione e di trasporto. Tuttavia, il novus ordo saeculorum (ovvero il nuovo ordine mondiale), all’inizio del terzo millennio è rappresentato da un paradigma di-verso, molto più complesso. Infatti, già dal prossimo anno, il 2007, il mondo cambierà: per la prima volta nella storia del mondo, la popolazione delle città sarà superiore a quella delle campagne. La stima elaborata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite indica circa 3,4 mi-liardi di persone concentrate nei centri urbani, contro 3,3 miliardi di persone distribuite nelle aree non urbane e nelle campagne. Il Dipartimento degli Affari Economici e Sociali delle Nazioni Unite

ha effettuato previsioni ancora più avan-zate, prospettando addirittura per l’anno 2050 uno scenario secondo cui nelle città vivranno il 70% degli abitanti del pianeta. Mila Freire e Richard Stren, a loro volta, hanno previsto di recente (The challenge of urban government. Policies and prac-tices, Washington, DC, The World Bank Institute, 2001) che entro la metà di que-sto secolo si concentreranno nelle aree urbane fra i due terzi e i tre quarti della

popolazione mondiale. Tuttavia, il tasso di crescita dell’urbanizzazione è più lento oggi che nel secondo dopoguerra, quando la popolazione urbana aumentava del 3% l’anno. Dal 2005, l’incremento della po-polazione nelle città si è stabilizzato al di sotto del 2%. Nel mondo, però, si procede a due diverse velocità e l’Asia, che corre di più, fa da traino ai paesi occidentali. Le protagoniste di questo profondo cam-biamento sono le megalopoli, gli stermi-nati conglomerati urbani che superano i dieci milioni di abitanti (arrivando a contenerne fino ad oltre trenta milioni, come nel caso di Tokyo-Yokohama). Solo nel 1975, vi erano appena quattro megalopoli in tutto il mondo; oggi sono arrivate a venti (e ben sedici si trovano nei cosiddetti “paesi in via di sviluppo”). Il ranking delle megalopoli, secondo i dati della fine del 2005, vede in testa Tokyo-Yokohama, New York, San Paolo in Brasile, Seul-Incheon in Corea del Sud, Città del Messico; ma si trovano in una posizione avanzata anche altre grandi conurbazioni, come la giappo-nese Osaka-Kobe-Kyoto, Manila nelle Filippine, le indiane Mumbai, Calcutta e Delhi, Jakarta in Indonesia, Lagos in Nigeria, Il Cairo in Egitto, Los Angeles e Buenos Aires.

Città e popolazione1. Tokyo-Yokohama, Japan 33,200,0002. New York, U.S.A. 17,800,0003. Sao Paulo, Brazil 17,700,0004. Seul-Incheon, South Corea 17,500,0005. Mexico City, Mexico 17,400,0006. Osaka-Kobe-Kyoto, Japan 16,425,0007. Manila, The Philippines 14,750,0008. Mumbai, India 14,350,0009. Jakarta, Indonesia 14,250,00010. Lagos, Nigeria 13,400,00011. Calcutta, India 12,700,00012. Delhi, India 12,300,00013. Cairo, Egypt 12,200,00014. Los Angeles, U.S.A. 11,789,00015. Buenos Aires, Argentina 11,200,00016. Rio de Janeiro, Brazil 10,800,00017. Moscow, Russia 10,500,00018. Shanghai, China 10,000,00019. Karachi, Pakistan 9,800,00020. Paris, France 9,645,00021. Nagoya, Japan 9,000,00022. Istanbul, Turkey 9,000,00023. Peking, China 8,614,00024. Chicago, U.S.A. 8,308,00025. London, United Kingdom 8,278,00026. Shenzhen, China 8,000,000

Amedeo Lepore

Il grande paradosso del

ventunesimo secolo è che potremmo

continuare a vivere in un contesto

prevalentemente urbano anche in assenza di città

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Eppure, negli anni scorsi, vi era stato chi aveva sostenuto che l’avvento della “rivoluzione” delle I.C.T., delle reti, dei nuovi sistemi di trasporto e di comunicazione, a cominciare da Internet, avrebbe reso più semplice l’allontanamento dalle grandi aree metropolitane di un numero sempre più consistente di abitanti. La realtà dello sviluppo urbano contemporaneo degli ultimi anni è stata, tuttavia, molto diversa dalle immagini tramandate dalla letteratura divulgativa e non ha neppure seguito le previsioni degli scienziati sociali sul declino urbano, formulate agli inizi degli anni ottanta del secolo passato. La presenza di visio-ni tanto contraddittorie è indicativa di un periodo di profonda modificazione della forma urbana: probabilmente non diverso, per intensità e ampiezza, da quello che ha portato all’affermazione della città industriale nei secoli scorsi. Infatti, si è verificato un fenomeno del tutto nuovo, con una moltiplicazione degli ambiti di vita e di lavoro, una diversificazione delle abitudini, che ha portato molte persone ad appartenere a più luoghi allo stesso tempo, all’interno di una realtà sempre più globalizzata. Questo processo ha prodotto “costel-lazioni urbane” dislocate in territori molto vasti, integrate funzionalmente e differenziate socialmente. Inoltre, le innovazioni nelle telecomunicazioni, Internet e la diffusione dei sistemi di trasporto rapido hanno determinato una nuova geografia degli spazi, do-minata dalla logica di network, dalla crescita delle comunità virtuali e di una socialità online. La metropoli, tuttavia, non è stata annullata dalle reti virtuali: piuttosto, si è trasformata attraverso l’interazione tra lo scambio di contenuti elettronici e lo sviluppo delle relazioni fisiche, attraverso un’originale com-binazione di luogo e network: infatti, “le città dell’Era dell’Informazione si basano su questo duplice sistema di co-municazioni” (Manuel Castells, La città delle reti, Venezia, Marsilio, 2004).

Durante gli anni novanta del secolo scorso, è diventato quasi un senso comune il concetto di “città globale”, anche al di là del riferimento ai singoli luoghi geografici che danno corpo a questa idea. Manuel Castells ha osser-vato che: “La città globale è (…) una forma che lo spazio può assumere, e non un attributo distintivo di alcuni centri urbani, anche se alcune me-tropoli svolgono senza dubbio in tale network una funzione di maggiore

rilievo rispetto ad altre. (…) Il grande paradosso del ventunesimo secolo è che potremmo tranquillamente continuare a vivere in un contesto prevalentemente urbano anche in assenza di città, ovvero senza sistemi spaziali di comunicazione culturale e condivisione, per quanto conflittuale, di significati. (…) Ma la società e lo spazio sono il prodotto di un intervento umano consapevole…” (La città delle reti, Venezia, Marsilio, 2004).

Nei paesi del Nord del mondo circa il 75% della popolazione abita già nelle città e l’urbanizzazione può proseguire solo attraverso l’espansione e l’integra-zione del territorio circostante. In que-sto modo, le città globali rappresentano un vero e proprio sistema reticolare, con poli sempre più interconnessi, non solo grazie all’evoluzione del sistema della mobilità e dei trasporti, ma an-che per la diffusione di intensi flussi di capitali e informazioni. Queste città globali possono arrivare a coprire intere “regioni metropolitane” (Joel Garreau, Edge city: life on the new frontier, New York, Anchor Books, 1991; Peter Hall, Global city-regions in the 21st century, in “Global City-Regions Conference”, Los Angeles on October 21 – 23, 1999; Oriol Nel.lo, Ciutat de ciutats, Bar-celona, Editorial Empúries, 2001; Ellen Dunham-Jones, Seventy-five percent, in “Harvard Design Maga-zine”, n. 12, 2000). È il caso di aree come quelle tra Boston e Washington (BoshWash) – che arriva a compren-dere anche New York e Filadelfia -, tra San Francisco e San Diego (SanSan), tra Chicago e Pittsburg (ChiPitts).

In Europa, al contrario, non esi-stono megalopoli e le due città più popolose, Parigi e Londra, si collocano dal ventesimo posto in giù nella gra-duatoria generale. Ciò significa che il vecchio continente rischia di restare ai margini di questo intenso processo di nuova urbanizzazione, o, quanto meno, è lontano dalla creazione delle enormi conurbazioni sorte nel resto del mon-do, scontando certamente svantaggi in termini di competitività, ma non in termini di sostenibilità. Altra cosa è la crescita della popolazione urbana negli altri continenti, in Asia e in Africa, ma anche in parte del Sud America, dove le metropoli, le cosiddette “megacittà”, attraggono abitanti con forza impetuo-sa. In questi territori, la percentuale complessiva della popolazione che vive in città è minore del 45% del totale, ma tendono a formarsi sempre più smisu-

rati nuclei urbani, con venti milioni e più di abitanti. La Cina ha già novanta città con oltre un milione di abitanti e, nel corso dei prossimi trent’anni, vedrà spostarsi oltre 400 milioni di persone dalle campagne ai centri urba-ni. Inoltre, insieme all’intensificazione dei fenomeni di concentrazione della popolazione, si sta verificando anche la nascita di svariati “corridoi urbani orientali”, rappresentati da vaste esten-sioni edificate tra una città e l’altra, come quella tra Shanghai e Hangzhou, abitata da 75 milioni di persone.

Nel 2015 vi saranno poco meno di una quarantina di “megalopoli”, tutte al di sopra degli otto milioni di abitanti. La maggior parte di queste (ventidue) si troverà in Asia. In quella stessa data, il processo di urbanizzazione sarà particolarmente progredito, tanto è vero che, negli Stati Uniti, vivrà in città l’80,1% della popolazione e, in Europa, il 73%. Tuttavia, questo processo di inarrestabile maturazione di un nuovo e più complesso urbanesimo è e sarà segnato da fenomeni contraddittori e preoccupanti. Innanzitutto, dalla cre-scita delle “baraccopoli” e delle case di fortuna, dove oggi vivono – secondo le stime delle Nazioni Unite – un miliardo di persone in condizioni disumane. Il programma Un-Habitat è l’iniziativa di maggior rilievo di cui si è dotato l’O.N.U. per analizzare questi problemi, elaborare nuove linee guida per la soluzione delle maggiori criticità e far fronte più adeguatamente alle esigenze abitative e ambientali di una parte co-spicua della popolazione mondiale.

In tutti i grandi conglomerati urba-ni del pianeta, vi sono altri fenomeni che richiedono un notevole livello di consapevolezza e di iniziativa a livello globale. Le città sono sempre più mul-tietniche e multiculturali, complesse e diversificate nella loro composizione sociale. Inoltre, l’insicurezza seguita ai tragici eventi dell’11 settembre 2001, la tendenza a chiudersi nelle identità di origine, nelle vecchie forme di apparte-nenza ad un ceppo comune, la difficoltà di procedere ad una reale integrazione, rimandano alla necessità di nuove poli-tiche di solidarietà e all’aggiornamento delle funzioni delle organizzazioni in-ternazionali. Le grandi città, poi, sono connotate dall’aumento del degrado e dalla diffusione della criminalità, che ingenerano violenza e soprusi, rendendo più difficile ogni forma di convivenza civile.

Come è stato osservato: “La costitu-

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zione di aree megametropolitane, senza nome, senza cultura, senza istituzioni, danneggia i meccanismi della respon-sabilità politica, della partecipazione popolare, di un’amministrazione effi-ciente. D’altra parte, nell’epoca della globalizzazione (…) emerge un nuovo tipo di istituzione, il Network State, che comprende istituzioni sovranazionali risultato dell’interazione tra governi nazionali, Stati nazione, enti regionali e locali e addirittura organizzazioni non governative. Le istituzioni locali diventano un nodo fondamentale della catena della rappresentatività, in grado di regolare l’intero processo politico, grazie al loro valore aggiunto derivante dalla capacità di dar voce ai cittadini più da vicino” (Manuel Castells, La città delle reti, Venezia, Marsilio, 2004).

Tuttavia, le “città globali” sono una nuova frontiera per le sfide competitive e le strategie di coesione, presentano indubbie, inesplorate opportunità, a seconda delle modalità di sviluppo di un “intervento umano consapevole”. Saskia Sassen – The global city: New York, London, Tokyo, Princeton, NJ, Princeton University Press, 2001; Global cities and global city-regions: a comparison, in Allen J. Scott (a cura di), Global City-Regions: Trends, Theory, Policy, Oxford/New York, Oxford University Press, 2001, pp. 78-95 – ha posto in evidenza, dal punto di vista strutturale, il ruolo fondamentale assunto dalle città nello svolgimento dell’economia globale, grazie alla diffusione di collegamenti flessibili per i trasporti e le teleco-municazioni, ma anche in virtù della capacità di mobilitare risorse umane innovative, competenze, migliorando la vivibilità dell’agglomerato urbano. Questa nuova economia planetaria dipende, per una certa misura, da come la città riesca a “subordinare funzioni e forme di pianificazione alla dinamica delle attività svolte, in modo da ottimiz-zare la propria competitività e capacità d’interazione nel contesto dello spazio globale dei flussi”.

La creatività è “la capacità di rior-ganizzare gli elementi esistenti in una nuova combinazione efficace”. Infatti: “Un risultato nuovo ha valore, se ne ha, nel caso in cui stabilendo un legame tra elementi noti da tempo, ma fino ad allora sparsi e in apparenza estranei gli uni agli altri, mette ordine, immedia-tamente, là dove sembrava regnare il disordine (...). Insomma, questo fatto nuovo non soltanto è prezioso di per se

stesso, ma valorizza, da solo, tutti i fatti vecchi che mette in collegamento gli uni con gli altri. Inventare consiste proprio nel non costruire le combinazioni inu-tili e nel costruire unicamente quelle utili, che sono un’esigua minoranza. Inventare è discernere, è scegliere (...). Tra le numerosissime combinazioni che l’io subliminale ha formato alla cieca, quasi tutte sono prive di interesse e sen-za utilità; ma proprio per questo motivo non esercitano alcuna influenza sulla sensibilità estetica: la coscienza non ar-riverà mai a conoscerle. Soltanto alcune di esse sono armoniose utili e belle in-sieme” (Jules-Henri Poincaré, Scienza e metodo, a cura di Claudio Bartocci, Torino, Einaudi, 1997; ed. orig.: Science et Méthode, Paris, Flammarion, 1908). L’idea di creatività – che ha conosciuto una grande diffusione solo a partire dall’inizio del Novecento ed è entrata nel lessico comune verso la metà del secolo scorso – è, dunque, legata alle categorie dell’innovazione e dell’utili-tà, che ne rappresentano l’essenza: lo sradicamento dei modelli precedenti (il nuovo) comporta anche la scelta di un altro modello condiviso (l’utile). La creatività, il cui campo di applicazione coincide con il complesso del pensare e dell’agire umano, può essere intesa sia come un modo specifico di consi-derare e fronteggiare problemi, che come un processo volto all’invenzione di qualcosa di nuovo o alla scoperta di qualcosa di ignoto.

Questo stesso concetto, impiegato in riferimento alle realtà urbane, di-venta un potente motore di analisi, di ricerca e di proposta per il futuro. Se-condo Ezio Manzini: “Le città creative sono i luoghi in cui un milieu creativo offre agli individui, alla comunità, alle imprese e alle istituzioni la possibilità di inventare e realizzare nuovi modi di operare” (Sustainable cities and creativity, Brussels, 2004, <www.klimabuendnis.org/download/man-zini-creativecommunities-en.pdf>). Infatti, la sfida della sostenibilità si intreccia fortemente con quella dello sviluppo delle capacità creative, mentre “i modelli produttivi e di consumo e, più in generale le forme sociali, che le comunità creative ci fanno intravedere potrebbero essere sostenuti e diffusi non solo dalla pressione ambientale e dalla domanda di sostenibilità, ma anche dagli effetti della transizione verso un’economia dei servizi, delle reti e della conoscenza. Ben inteso: il fatto che ciò avvenga non è scontato.

Il successo delle idee e dei modi di fare che le comunità creative oggi ci propongono è possibile, ma il fatto che questa possibilità diventi realtà dipende da una molteplicità di fattori. Tra cui anche, e forse soprattutto, dalla nostra individuale e collettiva capacità progettuale” (Comunità creative e forme di vita sostenibile. La costru-zione sociale del futuro, in Le imprese dell’ingegno. Costruire innovazione sociale, Genova, 2004).

Le città sono divenute un polo fondamentale di interesse globale e rappresentano le vere protagoniste dello sviluppo economico. Nelle città si concentra il 50% della popolazione totale e si prevede che, in poco tempo, tale quota salirà al 75%. Tra qualche decennio, infatti, la gran parte della popolazione mondiale vivrà in un ambiente urbano. Le nuove metropoli non sono state ancora edificate o sono in fase di realizzazione, ma il modo in cui queste realtà urbane saranno erette e il tipo di vita che in esse avrà luogo determineranno il grado di sostenibilità o di insostenibilità, su scala globale, della società futura.

Nella recente analisi svolta dall’A.N.C.E. e dallo Studio Ambrosetti sulle “città creative” (Le città dei creativi, Milano, Roma, Palermo, Napoli, To-rino, 2005-2006), in linea con l’ap-proccio di Richard Florida e di Irene Tinagli (Cities and the creative class, New York/London, Routledge, 2005; Europe in the Creative Age, Pittsbur-gh, Carnegie Mellon University, 2004; L’Italia nell’era creativa, Milano, Creativity Group Europe, 2005), è stato rappresentato uno scenario nel quale esistono quattro “capitali mon-diali” (New York, Londra, Shangai e Tokyo), destinate a diventare i centri di guida e di controllo dei processi globali economici, politici e culturali. Queste big four agiranno da imponenti magneti per l’attrazione delle migliori opportunità del pianeta. A queste città si aggiungono una ventina di “capitali regionali”, che avanzano sulla scena mondiale come centri d’eccellenza in alcuni settori della creatività (nella moda, nel design, nella genetica, nelle biotecnologie, nell’alimentazione), ac-crescendo la loro forza d’attrazione sul mercato nazionale e internazione dei talenti. Tra queste, le città più accredi-tate per il ruolo di “capitali regionali” sono Milano, Berlino, Parigi, Madrid, Mosca e Singapore.

L’altra categoria, delle cosiddette

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“capitali provinciali di terzo livello”, comprende un centinaio di città, con un ruolo di secon-do piano nella competizione globale, pur esprimendo vere eccellenze in nicchie circoscritte di mercato. Infine, si consi-derano un migliaio di centri provinciali, che in passato sono stati nessi molto rilevanti per lo sviluppo economico all’interno di ciascun paese e che, nel corso dell’evoluzione verso il modello dell’economia della conoscenza e della creatività, sono destinati ad adattarsi ad un ruolo mar-ginale rispetto alle dinamiche prevalenti a livello planetario. Di questo scenario generale, dato il suo carattere previsionale, non è possibile valutare quale sia il grado intrinseco di attendibilità. Tuttavia, proprio in riferimento alle tendenze in atto, ha senso interrogarsi sul carattere e la conformazione che dovrebbero assumere le città, nel corso dei prossimi decenni, per interve-nire con possibilità di successo nella sfida globale.

Le città forniscono, innanzi-tutto, il capitale umano neces-sario ad originare e sorreggere i vantaggi competitivi delle imprese nei processi d’inno-vazione, i quali, tuttavia, non si determinano solo perché un soggetto o un’impresa diffonde un’idea creativa all’interno del mercato. Il percorso in-novativo, infatti, necessita di un’interazione e di uno scam-bio di conoscenze ininterrotti tra gli individui, attraverso il cosiddetto “processo di appren-dimento sociale”. Inoltre, le città pos-sono divenire esse stesse competitive, in virtù della loro capacità di attirare, convogliare e riunire i migliori talenti, muniti delle cognizioni più avanzate. I lavoratori che producono idee nuove, creatività e immaginazione per le atti-vità ad alta intensità di sapere, sono una componente fondamentale dei sistemi economici basati su un elevato valore aggiunto. Questa categoria particolare di lavoratori è molto flessibile, si sposta in continuazione ed è richiamata dagli insediamenti in grado di offrire le più cospicue opportunità di lavoro e le migliori condizioni di vita. A queste caratteristiche, si deve aggiungere anche l’esistenza di comunità civili

tolleranti, originali e culturalmente aperte, capaci di favorire il confronto continuo di esperienze, di assicurare idonei standard di informazione, di istruzione e di svago.

La qualità di una città, definita dalla compresenza in loco e dall’intreccio di tutti gli elementi indicati, è uno degli elementi di maggiore importanza e di più forte attrazione per i talenti creativi. Questa caratteristica di un territorio si può effettivamente accertare, in relazione a tre aspetti preminenti: la “dotazione iniziale” (in termini di ame-nities), che costituisce l’insieme dei fat-tori in grado di configurare un contesto favorevole allo svolgimento di una vita creativa, ma anche alla connessione in rete e all’estensione delle informazioni;

un “ambiente sociale urbano”, che si fonda sulla tolleranza e sull’interazio-ne tra gli individui, oltre che sui nessi culturali, sociali e tecnologici, in grado di agevolare nuove occasioni di ap-prendimento professionale; la “qualità della vita”, che è contraddistinta dalla presenza diffusa e dal funzionamento, quanto più prolungato, di attività per il tempo libero e la persona, come auditorium, gallerie d’arte, cinema, spazi teatrali, librerie, ristoranti, caffè, impianti sportivi, centri commerciali, locali notturni e così via (cfr. Richard Florida, L’ascesa della nuova classe creativa: stile di vita, valori e pro-fessioni, Milano, Arnoldo Mondadori, 2003; ed. orig.: The rise of the creative class: and how it’s transforming work,

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leisure, community and everyday life, New York, Basic Books, 2002).

È necessario, quindi, di fronte alle dimensioni assunte dai processi di trasformazione economica e urbana, che le città si pongano l’obiettivo di costruire un clima (e un tessuto infra-strutturale) orientato al richiamo di questi nuovi talenti, delle competenze appartenenti alla “classe creativa”: infatti, attraverso l’attrazione di una risorsa rara come quella degli ingegni più altamente qualificati, le metropoli possono diventare appealing anche per le imprese e il mondo degli affari. L’esistenza, in misura superiore al 30% della forza lavoro nei paesi più avanzati, di una “classe creativa” – costituita da un insieme eterogeneo di professioni che producono qualcosa di nuovo e utile nel normale svolgimento del proprio lavoro (scienziati, ingegneri, docenti, scrittori, artisti, architetti, ma anche medici, av-vocati, imprenditori, uomini d’affari e dirigenti) – è il punto di forza essenziale per le città che intendono accrescere la propria capacità di competere sui mer-cati nazionali e internazionali. Si tratta, come ha osservato Richard Florida, di una vera e propria classe economica, in quanto “questa sua funzione fonda e contrassegna le scelte sociali, culturali e di stile di vita dei suoi componenti”, una classe che si sta dirigendo in un numero limitato di aree urbanizzate. La chiave interpretativa per comprendere la nascente geografia della creatività e dei suoi effetti sui risultati economici della globalizzazione è racchiusa nel modello delle 3 T (Tecnologia, Talento e Tolleran-za), proposto da Florida: “La teoria del capitale creativo sostiene che lo sviluppo regionale deriva dalle tre T dello sviluppo economico, e che una regione, se vuole stimolare innovazione e sviluppo, deve poterle offrire tutte e tre” (Richard Flori-da, L’ascesa della nuova classe creativa: stile di vita, valori e professioni, Milano, Arnoldo Mondadori, 2003). Ovvero, la concentrazione della “classe creativa” è più intensa nelle città contraddistinte dalla presenza di individui con un elevato livello di conoscenze (il talento), dalla presenza di imprese high-tech, da un’alta quantità di brevetti prodotti (la tecnolo-gia) e dalla permanenza di un numero rilevante di stranieri e di “minoranze” (la tolleranza).

Tuttavia, è stato lo stesso autore che, più di recente, ha messo in evi-denza anche i pericoli di una fuga: “Per la prima volta i nostri più brillanti scienziati, intellettuali e imprenditori

stanno guardando altrove” (Richard Florida, La classe creativa spicca il volo. La fuga dei cervelli: chi vince e chi perde, Arnoldo Mondadori, 2006; ed. orig.: The flight of the creative class. The new global competition for talent, New York, HarperCollins Publishers, 2005). Infatti, gli Stati Uniti esercitano una sempre minore forza attrattiva per i talenti stranieri e non riescono più a trattenere i propri, correndo il rischio di perdere la leadership nell’ambito delle “città creative” più avanzate del mondo, a favore di nuove destinazioni come quelle del Canada, dell’Euro-pa, dell’Australia, ma anche verso economie emergenti come l’Irlanda, l’India, la Cina, Corea e Taiwan, che si contendono le menti più brillanti e le giovani competenze. I Sergey Brin (Google), Jerry Yang (Yahoo), Linus Torvalds (Linux) del futuro in quale area del mondo andranno a stabilirsi? Quale sistema territoriale si dimostrerà maggiormente concorrenziale per l’at-trazione di nuovi talenti e di conoscenze innovative?

Certo, il modello delle “classi” e delle “città creative”, l’idea secondo cui la potenza economica di un paese non cresce più in proporzione alle risorse naturali, alle eccellenze produttive, alle capacità scientifiche e tecnologiche, all’egemonia militare, ma dipende unicamente dalla capacità di nazioni e “città globali” di mobilitare, attirare e valorizzare il talento umano, può dare adito a più di un dubbio.

Paul Kantor e Hank V. Savitch, nella ricerca Cities in the international market place: a comparative bargai-ning perspective on urban development politics (Eurex, 2003, <http://www.shakti.uniurb.it/eurex/syllabus/lectu-re3/Kantor-lecture-3.pdf>) – che ha posto in evidenza l’evoluzione di dieci città americane ed europee, nel corso di tre decenni (1970-2000) –, indica-no, anziché le “3 T”, quattro variabili decisive per la competitività urbana (le condizioni di mercato, il supporto dei diversi livelli di governo, il controllo popolare e la cultura locale), ma solo le prime due con un valore strategico di guida. Valutazioni analoghe sono contenute nella recente nuova edizione del volume di Saskia Sassen (Cities in a World Economy, Thousand Oaks, CA, SAGE – Pine Forge Press, III ediz., 2006) e in un altro lavoro di Hank V. Savitch e Paul Kantor (Cities in the international marketplace. The politi-cal economy of urban development in

North America and Western Europe, Princeton, NJ, Princeton University Press, 2004).

Queste analisi rimandano, quindi, alla necessità di un modello di sviluppo, a “un’agenzia più una struttura” come direbbero Kantor e Savitch, per costrui-re una strategia innovativa.

Tuttavia, mettere al centro dello sviluppo del territorio e delle diverse economie mondiali il tema della com-petizione culturale e scientifica, della crescita dei talenti e delle attività di ricerca, è un notevole indice di moder-nità. Non solo. Attraverso il progresso delle conoscenze innovative e delle competenze è più semplice rimettere in gioco, offrire nuove opportunità ai paesi e alle città meno favoriti dal punto di vista economico.

Allora, una migliore distribuzione delle occasioni di crescita, un più diffu-so tessuto connettivo e la moltiplicazio-ne delle reti, la flessibilità e la variabilità delle nuove grandi mete dell’economia contemporanea, in sintesi, la concor-renza tra le città può diventare una straordinaria circostanza per affermare nuove forme di partecipazione alla sfida globale, come stanno già dimostrando i paesi emergenti. E l’avvento delle “città creative” si inserisce in quella fase di passaggio dalla città industriale a una nuova forma urbana che è stata chiamata metropoli.

Questa trasformazione ha avuto conseguenze profonde, sia sui modi tradizionali di raffigurare e descrivere le città, sia sui modi aggiornati di go-vernare e operare nelle aree urbane. Il quadro di riferimento è quello della globalizzazione e dell’ampliamento de-gli spazi del mondo, del grande cimento competitivo, che si fonda sempre più su una sapiente miscela di attrazione di capacità innovative e di valorizzazione di preesistenze originali, di culture ed esperienze consolidate.

Il futuro, dunque, può essere già tra di noi, anche se non ce ne siamo pienamente accorti. E se questa è anche “l’era dell’architettura”, come notava Le Corbusier (La ville radieuse: elements d’une doctrine d’urbanisme pour l’equipement de la civilisation machiniste, Boulogne, Editions de L’Architecture d’Aujourd’hui, 1935), e “nuove città hanno sempre rimpiazzato quelle più vecchie”, tuttavia, forse è proprio oggi che “la radiosa, città felice dei tempi moderni è pronta a nascere”. Bisogna solo saperla vedere e incomin-ciarla a costruire.

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i bisogni, le richieste della città, non può che essere ispirato ad un approccio equilibrato

e ad un’analisi tendenziale. Forse è opportuno iniziare tale ragionamento da alcuni principi generali che hanno ispirato, credo giustamente, l’insieme del provvedimento. Anzitutto vi è l’af-fermazione di un criterio che non può essere derogato: quello della respon-sabilizzazione fiscale degli enti locali all’interno di una più ampia strategia di contenimento della spesa pubblica. Se salta il cosiddetto “patto di stabilità interno” per l’eccessivo indebitamento delle amministrazioni locali, anche quello tra Stato e Unione Europea di-viene impossibile da rispettare.

E ciò vale ancora di più alla luce della “stretta” imposta sulla pubblica amministrazione centrale attraverso le forti disposizioni comprese nel Titolo III Capo I della Manovra.

Agli Enti Locali sarà lasciata libertà di decidere come spendere le cifre concordate col Governo, e tuttavia a tale impostazione si accompagnerà un significativo giro di vite circa il mec-canismo dei controlli (ogni tre mesi le amministrazioni dovranno comunicare via internet al Tesoro lo stato delle loro finanze) che pro-durrà, in caso di sforamenti, au-tomatici aumen-ti di tasse locali (benzina, bollo di circolazione, Irap, addizionale Irpef, Ici).

Occorre cul-turalmente uscire dalla demagogi-ca tenaglia: se diminuiscono i trasferimenti na-zionali, i comuni devono tagliare i servizi ai cittadi-ni o aumentare le tasse locali. L ’ a m m o n t a r e della riduzione dei trasferimenti è già stato ridot-to da 4,3 a 3,7 miliardi di euro, ed è stata anche diversificata l’ap-plicazione delle n u o v e n o r m e contenute nella

Finanziaria in materia di tetto all’in-debitamento consentito a seconda della grandezza dei Comuni. Si potrebbe, inoltre, pensare allo scorporo delle spese per i servizi pubblici essenziali dal computo del monte spese, al fine della determinazione del debito di ogni

amministrazione, fissati tuttavia para-metri economici medi di riferimento per l’erogazione di tali servizi.

Ancora, a fronte di investimenti comunali strategici che necessitano di indebitamenti, si potrebbero prevedere forme di “autorizzazione” concesse in sede di Conferenza Unificata dal Tesoro. Accolte così sostanzialmente le richieste avanzate dall’Anci, ora il tema centrale diviene cosa debbano fare gli Enti Locali per comprimere costi ordinari e straordinari di gestio-ne/funzionamento che sono fuori da ogni parametro finanziario, logico, politico.

Secondo l’Istat i Comuni sono indebitati per 2,7 miliardi di euro, e le principali voci di spesa riguardano: stipendi, fitti passivi, spese di rappre-sentanza, consulenze, attività interna-zionali e di relazioni. Stabilire il tetto ad un ulteriore indebitamento rispetto al bilancio al 30 settembre, per ogni amministrazione, significa evitare che si autoalimenti una spirale ormai già abbondantemente fuori controllo.

In questa cornice, per quel che ri-guarda Napoli e la Campania, sarebbe utile partire da una seria analisi dei fabbisogni reali accettando la sfida di razionalizzazione delle spese, effi-

cientamento am-m i n i s t r a t i v o , riorganizzazione dei servizi, mo-dernizzaz ione delle strutture di governance dell’intera filiera istituzionale.

Non ha senso sostenere che Na-poli, con questa finanziaria, “per-de soldi” o “su-bisce tagli” per centinaia di mi-lioni di euro. Ad un’affermazione pseudo aritme-tica del genere si potrebbe repli-care che la città ha, negli ultimi anni, beneficiato di trasferimenti pro capite medi ben più alti di Milano, Torino, Genova e di al-tre medio gran-di città italiane.

Ivano Russo

Ogni livello istituzionale di governo sappia

assumersi le proprie

responsabilità in un grande sforzo di valorizzazione

e sviluppodi Napoli

Dalla prima pagina

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Oppure che, a fronte dei costi soste-nuti dallo stato per contribuire alla risoluzione di alcuni grandi problemi strategici – riqualificazione dell’area occidentale, di quella orientale, emer-genza rifiuti – i risultati siano stati ben al di sotto delle aspettative, per usare un eufemismo.

Il fatto poi che finalmente si stia procedendo ad una razionalizzazione della babele rappresentata dalle decine di società partecipate dal sistema degli enti locali, che si stia dando una stretta complessiva ai cosiddetti “costi della politica”, che si sia aperto uno squar-cio di luce sui casi di spreco e cattiva gestione che hanno prodotto danni era-riali di enorme importo contro la pub-blica amministrazione, la dice lunga su quanto sarebbe possibile risparmiare e contenere le spese attraverso scelte di governo della cosa pubblica accorte, responsabili, efficienti, efficaci.

La stessa critica di non aver pre-visto nella Legge Finanziaria misure “straordinarie per Napoli, a differenza di Roma”, è indicativa di un approccio miope al tema più complessivo del rapporto tra grandi centri urbani e governo del Paese.

I fondi stanziati per Roma sono la conseguenza del Progetto Roma Capitale, avviato già nella scorsa legislatura. Tale progetto tende ad esaltare le peculiarità di una città che accoglie centinaia di sedi di ambasciate straniere, il Vaticano, tutte le principali istituzioni nazionali, che è il principale attrattore turistico dell’intero Paese e che ha tutte le funzioni strategiche e specifiche di ogni capitale. A tale città viene riconosciuta così una mission, ovviamente unica nel suo genere, e in funzione di questa le vengono attribuiti poteri speciali e risorse aggiuntive in termini di sicurezza, traffico e viabilità, grandi eventi, urbanistica.

Nei mesi scorsi qualcosa del genere poteva essere fatto anche per Napoli.

Il tema di “un grande progetto per la città”, legato all’area di libero scam-bio euromed del 2010 e alla funzione strategica che Napoli avrebbe potuto avere quale capitale di un Mezzogiorno molo europeo nel Mediterraneo, recen-temente è stato posto. Un progetto che avrebbe dovuto vedere la città divenire un grande hub internazionale della ricerca, dei saperi, dell’innovazione, della conoscenza. Una nuova e com-plessiva mission, appunto, che non sconfessasse quanto fatto fino ad ora, ma che mettesse la città di fronte ad

una scelta circa la sua vocazione stra-tegica e di ampio respiro, nel contesto della competizione europea tra grandi centri urbani per l’attrazione di capitali e investimenti. Questo avrebbe signifi-cato candidarsi ad ospitare la sede del Parlamento euromediterraneo, della Banca euromed, insediare una task force istituzionale sul Progetto Meda, dare centralità allo sviluppo e poten-ziamento del porto, chiamare le uni-versità, le forze produttive, il sistema camerale a concentrare sforzi, strategie di internazionalizzaizone, partnership in questa direzione.

Questo “grande progetto” strategi-co – certamente di rilevanza naziona-le – avrebbe meritato un’attenzione particolare e specifica da parte del Governo, da concretizzarsi in Finan-ziaria con risorse e poteri straordinari. Purtroppo tale idea fu localmente, e in maniera piuttosto brusca, liquidata

In assenza di tutto ciò, o di altra idea di uguale portata, perché risorse speciali a Napoli e non, ad esempio, a Torino, Milano, Genova, o Bari?

In assenza di tutto ciò, Napoli do-vrà competere per intercettare risorse nazionali ed europee, che comunque vi sono. Penso all’aumento dei finan-ziamenti per le Autorità Portuali e le Autostrade del Mare – 45 milioni di euro in più rispetto all’anno pre-cedente, con la destinazione di circa la metà dei complessivi 520 milioni di euro del Fondo Mare al Sud –, ai 100 milioni di euro per il sostegno alle Zone Franche Urbane per inve-stimenti di riqualificazione e crescita produttiva in aree caratterizzate da particolare arretratezza di sviluppo o degrado economico sociale, alla rein-troduzione del credito di imposta per nuovi investimenti innovativi e nuove assunzioni a tempo indeterminato con retribuzione lorda fino a 20 mila euro, al taglio differenziato del cuneo fiscale, al raddoppio degli stanziamenti per le grandi infrastrutture.

E ancora, sono disponibili le risorse del Fondo unico per l’Innovazione e la Ricerca Scientifica che potrebbero es-sere “catturate” su un grande progetto per l’insediamento di un polo hi tech nell’Area Orientale, le risorse del Fon-do Politiche Giovanili – 120 milioni di euro – utilizzabili per la realizzazione del Centro Internazionale di Cultura nell’ex Palazzo Fuga, ci sono 20 mi-lioni di euro a sostegno delle città che decideranno di candidarsi ad ospitare grandi eventi internazionali.

In una legge di bilancio che conser-va comunque luci ed ombre, la grande centralità attribuita al Mezzogiorno, in assoluta controtendenza rispetto all’ul-tima legislatura, rappresenta comun-que uno degli aspetti più positivi.

La questionane meridionale, riletta alla luce del nuovo contesto interna-zionale e comunitario di riferimento, torna ad essere considerata così una grande questione di sviluppo naziona-le. La vera svolta è rappresentata dalla scelta assunta circa l’elaborazione di un programma di trasferimenti nazionali su un periodo di sette anni, in modo tale da far coincidere questi con i fondi della programmazione europea 2007-2013.

Se si giungesse all’ottimizzazione di tale convergenza, il Mezzogiorno potrà contare su un monte risorse di 120 miliardi di euro da utilizzare per infrastrutture sovraregionali, ricerca, innovazione, reti, sviluppo della co-noscenza e dei saperi nella scia delle politiche di attuazione della Strategia di Lisbona. Questo sarà il campo di gioco in cui Napoli proverà a giocare la sua partita, sapendo che comunque il Governo le sarà vicino.

I 300 milioni di euro stanziati per la realizzazione della Cittadella della Polizia nell’area orientale saranno recuperati, l’iter di conferimento dei poteri speciali in materia di traffico e viabilità da parte dell’Esecutivo al Sindaco è stato varato dal Consiglio dei Ministri ed è in dirittura d’arrivo, l’as-sunzione di responsabilità del Governo sul tema dei rifiuti – con l’apposito De-creto e la nomina di Bertolaso a nuovo Commissario – c’è già stata, il tema dell’istituzione dell’Area Metropoli-tana è stata recentemente riaffermata anche attraverso l’istituzione di un tavolo tecnico con i ministri Amato, Lanzillotta, Chiti e Nicolais, il “Piano Sicurezza”, concertato dal Vicinale con gli Enti Locali, è sostanzialmente approvato.

I tempi sono inoltre maturi, cre-do, per l’ufficializzazione a breve dei due tavoli permanenti di confronto Governo – Napoli e Governo – Milano, che vedranno tra l’altro apposite sedute del Consiglio dei Ministri convocate direttamente nelle due città.

Insomma, nonostante tutto, mi pare ci siano le condizioni per un gran-de sforzo di valorizzazione e sviluppo della città: ogni livello istituzionale di governo sappia ora assumersi le proprie responsabilità.

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Con l’insediamento del Governo di Romano Prodi la politica per il Mezzogiorno presenta una marcata discontinuità. Al

contrario – e questo era stato un evento singolare per la tradizione italiana – tra il primo Governo Prodi, il Governo Dalema e quello Berlusconi era stata mantenuto nel tempo sia l’impianto della politica economica per la parte più debole del paese che il disegno dell’ar-chitettura istituzionale alla quale era af-fidata la realizzazione operativa di quella politica. In altre parole, il medesimo impianto organizzativo ed il medesimo approccio strategico hanno dominato la scena per tutta la durata del ciclo set-tennale di Agenda 2000, riproponendo un assetto che era stato immaginato durante il Governo Ciampi ed il com-pletamento del precedente ciclo delle politiche europee (1993/1999). Un lun-go ciclo unitario si realizza dalle “Cento idee per il Mezzogiorno” – debutto della nuova stagione, voluto da Ciampi a Catania, alla fine degli anni novanta – e la redazione dei documenti strategici per il ciclo 2007/2013 delle politiche di coesione e crescita – finanziate dai fondi europei – elaborati dal Dipartimento per le Politiche di Sviluppo (DPS) e dalle Regioni, poco prima della tornata elettorale. L’impianto organizzativo di questa lunga stagione era domiciliato nel Ministero dell’Economia, nella configurazione disegnata da Bassanini ed interpretata da Ciampi e Tremonti con una certa efficacia.

Il DPS era la centrale di coordina-mento tra fondi europei e fondi nazio-nali; la dote finanziaria era concentrata in quella sede ed amministrata dal CIPE, presieduto dal Ministro in carica o da un suo sottosegretario.

La ricetta ed i contenuti operativi erano chiari ed evidenti: formare ca-pitale umano e realizzare capitale fisso sociale nel Mezzogiorno, sulla base di una larga condivisione, alla scala dei territori locali, dei contenuti operativi per queste due scelte; utilizzare fondi nazionali e fondi europei nella realizza-zione dei singoli progetti; condividere, tra Governo e Regioni, l’impianto delle reti larghe di infrastrutture ed im-plementare le strategie regionali, con periodici accordi di programma tra il Governo e le stesse Regioni. Questa politica veniva monitorata dal DPS mentre i risultati del monitoraggio venivano esposti annualmente all’at-tenzione del Parlamento. Tutto questo ha permesso al Mezzogiorno di crescere

poco più della media italiana negli anni novanta ma, complici la turbolenza del decennio in corso ed una qualche asfissia localistica di alcune manifesta-zioni fenomeniche di questa politica, lo sviluppo del Mezzogiorno appare “frenato” con gli inizi del ventunesimo secolo. La dote infrastrutturale non si adegua al ritmo necessario per ottenere effetti significativi; la riforma degli incentivi finanziari accusa lentezze; si afferma, in opposizione alla politica degli incentivi, una chiara preferenza per una fiscalità di vantaggio, conside-rata più veloce e meno discrezionale. Si osservano storie di eccellenza, come una generazione – limitata solo ad una decina di esemplari – di “patti territoriali” finanziati direttamente dai fondi europei. Ai loro promotori viene imposto l’obbligo di creare una propria stazione appaltante per l’erogazione dei fondi ricevuti: guadagnandone in efficacia, tempestività e rendicontabi-lità delle performance. Meno fortuna hanno avuto i PIT, cioè i programmi integrati territoriali, che – finanziati da Agenda 2000 ma privi di strutture di spesa proprie – hanno ceduto, con mediocri risultati, l’onere e l’impegno di realizzare i progetti, selezionati ai tavoli di concertazione tra forze sociali, alle burocrazie regionali.

Di fronte a questi segnali di mancato successo, ed in presenza di una robusta critica da parte degli ambienti di centro-sinistra nel corso della campagna eletto-rale, conseguita la vittoria ed insediato il proprio Governo, Romano Prodi intro-duce robusti cambiamenti sul disegno originario ereditato da Berlusconi che, tuttavia e come abbiamo appena detto,

veniva direttamente dalle intuizioni di Ciampi ed era sostanzialmente rimasto stabile per una decina di anni.

Prodi sposta DPS in un ministero di spesa – le Attività Produttive – de-nominato ora Ministero dello Sviluppo Economico, evocando l’eredità del Bilancio nell’epoca di Giolitti. Si ricordi che il DPS, del resto, altro non è che la struttura operativa proprio di quel ministero, accorpato da Bassanini con il Tesoro e le Finanze per dare vita al Ministero dell’Economia. Prodi riportato anche il controllo sul CIPE alla presidenza del Consiglio: destrut-turando ulteriormente il meccanismo creato da Ciampi. Ed accentuando un profilo del Ministero dell’Economia che aderisce ai temi della fiscalità e del debito pubblico. Mentre, sia Ciampi che Tremonti ne avevano in-terpretato il mandato con una vasta attenzione anche alle privatizzazioni ed alla riforma della legislazione sul Risparmio. Un tema affrontato con ruvidezza dallo stesso Tremonti che subì, in quella occasione, anche una feroce sconfitta e la perdita, per un certo periodo, dell’incarico ministe-riale. Infine Prodi non ha attribuito a Bersani, il Ministro dello Sviluppo, i poteri di supervisione sulle aziende, controllate dal tesoro, che realizzano infrastrutture o progetti di crescita nel Sud: come l’ANAS o Sviluppo Italia. Ne segue che non sappiamo ancora né chi debba decidere né quali decisioni siano state assunte – ovviamente – in ordine al modo in cui sbloccare lo “svi-luppo frenato”, scegliere tra fiscalità ed incentivi, tarare meglio le azioni di sviluppo locale, tenendo conto dei casi di successo e di quelli deludenti. In sostanza non è ancora chiaro come si articolerà in futuro la politica per il Mezzogiorno e quali saranno i suoi contenuti. Complice, ovviamente, la discussione sulla legge finanziaria per il 2007 che ha catalizzato ed assorbito sia il confronto che lo scontro tra i due schieramenti parlamentari.

A questo vuoto programmatico si oppone, per ora, una ipotesi avanzata dalle Regioni meridionali che si pro-pongono, in termini reciprocamente cooperativi, come un insieme di isti-tuzioni capaci di ridare unitarietà alla realizzazione delle politiche per il Sud ed hanno raccolto, su questa ipotesi di lavoro, un largo consenso sia delle organizzazioni sindacali che delle rap-presentanze sindacali delle imprese italiane.

Massimo Lo Cicero

Il rischio italiano è quello che

tutto il paese diventi un

vero e proprio Mezzogiorno

d’Europa

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UN CONFRONTO LOGICO TRA I DUE MODELLI

La grande tradizione del meridiona-lismo – quella sorta di minimo comun denominatore che lega l’impianto dei classici, da Nitti a Salvemini, con le ipotesi di Saraceno e Morandi fino alle analisi del meridionalismo di Giorgio Amendola e dei comunisti italiani – si fonda su una percezione comune del problema e su una divisione di campo sul terreno degli strumenti istituzionali da utilizzare. Il problema del mancato sviluppo meridionale viene percepito sempre come una grande questione nazionale, un vero e proprio vizio che deriva dallo scarto tra le modalità dell’unificazione politica e quelle, paral-lele, della unificazione economica, che mina alle radici la velocità e l’intensità della crescita in Italia.

La misura del divario tra le “due Italie”, per questa tradizione, è solo una stima della temperatura del problema, un sintomo e non un obiettivo da perse-guire richiudendo quella divaricazione tra i due tassi di crescita.

Se si recuperasse la sincronia tra processo politico e processo economico, al contrario, solo allora si chiuderebbe il divario, di reddito e, sopra tutto, di produttività, e di civilizzazione, tra le due aree del paese.

La tradizione di Saraceno e Moran-di, seguendo l’approccio di Beneduce, crede di dover agire con una politica speciale dello Stato, affidandone il mandato operativo ad un ente pubblico esterno al sistema delle rappresen-tanze elettive del potere politico: un’ “agenzia”, per dirla con i termini della cultura anglosassone. La Cassa per il Mezzogiorno nella sua denominazione storica. L’ipotesi dei comunisti italiani, invece, si fonda sulla convinzione che quella politica, speciale e nazionale, debba essere affidata alle articolazioni istituzionali della democrazia italiana e, dopo la nascita delle Regioni, questa opzione trova un domicilio possibile ancora più evidente. Il disegno, voluto da Ciampi, e realizzato sul piano orga-nizzativo da Fabrizio Barca, realizza proprio quella opzione: coniugando la cultura di Nitti con il collegamento tra Europa e Regioni, gestito dal DPS che, a sua volta, è collocato nella centro strate-gico nazionale della politica economica: il nuovo Ministero dell’Economia.

Questo è l’impianto che il Governo Prodi ha ribaltato, come si è detto nel paragrafo precedente.

Si osservi che, tra i cambiamenti marginali realizzati durante la stagio-ne di Berlusconi, ad un certo punto il viceministro dell’Economia viene nominato Ministro delle politiche di Sviluppo.

La medesima persona ricopre i due incarichi che si riassumono nella funzione di collegamento tra il centro politico del Ministero e la direzione operativa del DPS. L’efficacia di quel collegamento si attenua notevolmente con la promozione della medesima per-sona, mandataria dell’incarico, al ruolo di Ministro senza portafoglio. L’espe-rienza ci dice, insomma, che la centra-lità del DPS rispetto alla centralità del Ministero dell’Economia, e la intensità di questo collegamento, rappresentano un indubbio fattore di efficacia per il funzionamento della politica destinata alle aree deboli del paese. Un appendice di questa architettura è rappresentata, infine e notoriamente, dalla esistenza di Sviluppo Italia: una organizzazione che ha finito per raccogliere funzioni e compiti che erano stati della Cassa del Mezzogiorno, l’agenzia di morandia-na memoria, e di alcuni suoi satelliti operativi.

Come si potrebbe rappresentare la nuova architettura del sistema, quella che emerge dalle scelte del Governo Prodi?

Si è creata, in primo luogo, una distanza interna alle funzioni di Go-verno.

Il Cipe riporta al premier. La ge-stione dei fondi strutturali afferisce al Ministero dell’economia e, forse ed in parte. al Commercio Estero ed alle politiche comunitarie. Il DPS è collocato nel Ministero dello Svilup-po, insieme con le politiche di age-volazione finanziaria per le imprese industriali. Il medesimo Ministero dello Sviluppo dovrebbe, affiancandosi a quello dell’Economia, occuparsi di Sviluppo Italia, della quale si paventa, tuttavia, la liquidazione. Le Regioni meridionali, si è già detto, si pro-pongono come promotori di un loro autonomo coordinamento e questa segmentazione – utile perchè le regio-ni meridionali sono troppe e ciascuna di loro è troppo piccola rispetto alle dimensioni necessariamente unitarie del Mezzogiorno – si aggiunge alla contrapposizione, spesso poco com-prensibile, tra le ragioni del Governo e quelle delle Regioni italiane nel loro complesso. Uno dei tanti paradossi del nostro “federalismo”.

CHE COSA POTREBBEO DOVREBBE SUCCEDERE

PER LA CRESCITA MERIDIONALE?

La prima osservazione che viene spontaneo formulare riguarda una sorta di nemesi che incombe sul destino di Svi-luppo Italia. Un Governo di centro sinistra la fece nascere e Romano Prodi – durante l’ultima campagna elettorale – ne minac-ciò la liquidazione mentre, di nuovo, è il Governo di centro sinistra, da lui oggi guidato, che ne deve decidere il destino e si orienta verso una vera e propria liqui-dazione della società.

La sua nascita era stata gravata da un vizio di progettazione: una sorta di errore genetico. Vennero allora raccolte tutte le società che avevano compiti collegati all’intervento straordinario nel Mezzogiorno – tranne gli istituti di cre-dito speciale, lo Iasm ed il Formez – ed alcune società finanziarie riconducibili al sistema delle partecipazioni statali e si avviò la loro fusione, senza valutare preventivamente quali di quelle strutture meritavano di sopravvivere, in tutto od in parte. Si è dato vita, in questo modo, ad un conglomerato di risorse umane e di missioni aziendali largo nelle dimensioni quanto complesso nello spettro delle competenze. Gli istituti di credito speciale furono risucchiati nel vortice della crisi bancaria che travolse l’economia meri-dionale. Il Formez rimase strumento del Ministero della Funzione Pubblica. Lo Iasm, diventato IPI – istituto per la po-litica industriale – era diventato un ente strumentale del ministero delle attività produttive. La missione di Sviluppo Italia venne allora indicata nell’attrazione degli investimenti esteri e nel supporto all’ir-robustimento della crescita, come recita ancora oggi la sua ragione sociale. Il vizio originario fu quello di fondere tra loro le società prima ed indipendentemente dall’averne diagnosticato, singolarmen-te, l’utilità e l’efficienza operativa. Una volta creata la nuova organizzazione fu impossibile separare, al suo interno, il grano dal loglio. A ben vedere – ed oltre il linguaggio contabile del bilancio con-solidato, Sviluppo Italia – è oggi molto simile alla Gallia di Giulio Cesare: divisa in tre parti abbastanza diverse tra loro. C’è una holding di partecipazioni che controlla un insieme assai variegato di enti: dagli incubatori di impresa ai parchi della scienza; dalle SGR alle “agenzie regionali” di sviluppo. Tutte queste mi-croentità presentano un minimo comune

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denominatore: sono collegati a vicende economiche locali di promozione della crescita. In una logica di decentramento politico la holding potrebbe tranquilla-mente estinguersi cedendo ad enti pub-blici ed attori locali, oltre che alle regioni, quelle partecipazioni ad un valore equo di trasferimento. Gli altri due rami possibili della tripartizione sono una “banca di sviluppo” ed una “banca d’affari”. Queste attività si sono articolate parallelamente e, nei fatti, hanno poco in comune. Forse i servizi generali di cui entrambe usufruiscono. La “banca d’affari” gestisce operazioni creditizie ed assunzioni di partecipazioni in vari campi di attività: in proprio od attraverso la gestione di fondi stanziati per legge. Agisce nell’industria ma anche nell’area dell’ICT e delle attività turistiche. Potrebbe essere tranquilla-mente oggetto di una privatizzazione, in blocco o per parti. La sua non è una missione che richieda perentoriamente un azionista pubblico.

La “banca di sviluppo” si occupa, invece, di microcredito, creazione di nuova capacità imprenditoriale, va-lutazione di fattibilità dei progetti di interesse pubblico per gli enti locali, le regioni o le amministrazioni centrali dello Stato, monitoraggio o gestione di programmi di interesse collettivo. Il Governo dovrebbe e potrebbe averne il controllo, anche insieme ad attori privati ed organizzazioni not for profit; la sua sede potrebbe non essere nella capitale ma nella città di Napoli, configurando la nuova entità come una sorta di banca di sviluppo per il bacino mediterraneo, anche nella prospettiva della creazione della zona di libero scambio. Queste tre aziende nell’azienda si muovono oggi in direzione sia del Mezzogiorno che delle aree deboli del centro nord. Perché, in entrambi i casi, le attività più di mercato in quelle aree vedono un certo raziona-mento dell’offerta e perché, ovviamente, le attività di interesse pubblico si concen-trano nelle aree in cui gli attori privati sono più fragili. Nell’architettura attuale, voluta del Governo Prodi, il Dipartimento delle Politiche di Sviluppo, un partner sistemico di Sviluppo Italia, è migrato verso il Ministero dello Sviluppo: anche la società dovrebbe allora trovare nella sfera di quel ministero la propria area di riferi-mento, se dovesse rimanere integra e non essere oggetto dell’unbundling appena descritto. La cosa peggiore da fare sareb-be lasciare Sviluppo Italia in una condi-zione di incertezza per quanto riguarda il suo destino e di indeterminazione per quanto riguarda la sua missione. Non

è difficile andare ad una due diligence della situazione ed ipotizzare soluzioni accettabili che ridefiniscano i perimetri e la dotazione patrimoniale di ognuna delle tre aree: anzi questa diagnosi potrebbe rappresentare la doverosa anticamera della terapia di riposizionamento.

L’altro corno della politica per il Sud dovrebbe essere la creazione di un vero e proprio segretariato operativo, capace di declinare in termini attuativi le aspirazio-ni delle Regioni meridionali al reciproco coordinamento. In questo modo si potreb-bero ottimizzare le dimensioni e l’efficacia di progetti interregionali finanziati dai fondi strutturali e ridimensionare gli ec-cessi, localistici ed autarchici, di strumenti come i PIT che limitano il proprio impatto ad insediamento sociali troppo contenuti e trascurano la relazione, virtuosa e neces-saria, che lega il processo di internaziona-lizzazione al decollo di porzioni ridotte del territorio meridionale. La creazione di una simile appendice organizzativa, per il coordinamento e la connessione tra le politiche regionali, avrebbe anche una funzione di supporto alla creazione delle reti di trasporto e di potenziamento delle telecomunicazioni che tutti ricono-scono come il principale obiettivo del ciclo 2007/2013 degli interventi finanziati dai fondi strutturali europei. Infine, ma forse è la cosa più rilevante, la creazione di questo segretariato operativo, localizzato a Bari, unita al trasferimento della “Banca di Sviluppo” per l’area mediterranea di libero scambio – estratta dal copro opaco di Sviluppo Italia e localizzata nell’area metropolitana di Napoli – creerebbe una virtuosa bipolarità, tutta interna al territorio meridionale, e dislocata sugli stremi dell’asse Bari – Napoli, che rap-presenta la porta naturale dell’espansione verso i Balcani e l’est europeo dell’intero Mezzogiorno.

IL QUADRO POLITICODI CONTORNO

La Commissione Europea ci chiede di raccordare il bilancio delle politiche di coesione, realizzate tra il 2000 ed il 2006, con gli obiettivi e gli strumenti da impiegare nel prossimo ciclo: quello che andrà dal 2007 al 2013 e che, dal 2011, dovrà scontare il sorpasso dei paesi de-boli dell’est rispetto alle regioni deboli dei paesi dell’ovest. Il nuovo Governo deve rispondere a questi interrogativi tenendo conto sia delle trasformazioni che ha indotto nell’architettura degli stru-menti di cui dispone che di un radicale ribaltamento nelle condizioni di contesto

in cui quelle politiche dovranno essere realizzate. Una regola del contrappasso sembra aver dominato la dinamica degli eventi alla scala europea. L’allargamento ha reso più profonde le disuguaglianze tra le venticinque economie incluse nel mercato unico ed ha creato una triparti-zione radicale: i paesi che adottano l’euro; i paesi che non aderiscono alla moneta unica ma si impegnano ad ancorare la propria valuta alla quotazione dell’euro; i paesi che entrano nel club commerciale del libero scambio ma non condividono il vincolo della moneta unica. Gli obiettivi ambiziosi di Lisbona e Goteborg – fare dell’Europa l’economia più competitiva del mondo, grazie alla valorizzazione della conoscenza e del capitale umano e sotto il vincolo della tutela del patrimonio ambientale esistente – non hanno pro-dotto alcun risultato. Ritrovare la strada della crescita, ridurre le disuguaglianze ed innestare gli effetti virtuosi della infor-mation and communication technology nella flaccida economia europea dovreb-bero essere i traguardi da conseguire tra il 2007 ed il 2013.

Il Sud presenta problemi dovuti ad uno scarto nei livelli di civilizzazione: dalla sicurezza alla dotazione di beni pubblici. La padania è la più grande re-gione europea omogeneamente ricca. Ma l’industria italiana è incapace di crescere e richiede un radicale processo di ricon-versione. Il paradosso italiano è evidente. L’Italia sconta al suo interno l’esistenza di un marcato dualismo economico e sociale: il più profondo in Europa. Ma la stessa Italia, pur essendo divisa dram-maticamente, rappresenta una economia incapace di crescere, schiacciata nel seg-mento più stagnante del mercato euro-peo. L’Italia è un problema per l’Europa perché ne rallenta la crescita essendo essa incapace di crescere. Ed il Mezzogiorno deve essere riportato ad una dimensione competitiva, sul mercato europeo e su quello internazionale, proprio come è necessario fare per l’Italia intera.

Purtroppo il nostro paese trasforma ogni politica in un gioco a somma zero: tra chi perde e chi si attribuisce una parte delle risorse disponibili. Ne fa fede il confronto sulla le3gge finanziaria in corso. Proprio come avviene da sempre nel Mezzogiorno che, da troppo tempo, è abituato a vivere di trasferimenti e non di produzione endogena di ricchezza. La ripartizione di queste risorse esogene è stata l’oggetto prevalente della politica meridionale. Il rischio italiano, dunque, è quello che tutto il paese diventi un vero e proprio Mezzogiorno d’Europa.

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La Winder school della Fondazione Mezzogiorno EuropaIL MEZZOGIORNO E L‘EUROPA NEL MEDITERRANEO

Giulia Velotti

L’attività della Fondazio-ne Mezzogiorno Europa è in continua e signi-ficativa espansione e

pertanto, innovativa, intensa e va-riegata sarà l’agenda delle iniziative politico-culturali in programma per la fine del 2006 e il primo semestre del 2007. Unitamente ai seminari, agli incontri, alle consolidate atti-vità editoriali, ai partenariati con il mondo dell’associazionismo, con la società, i partiti e le istituzioni, un evento caratterizzerà questa nuova fase nella vita della Fondazione: la Scuola di Formazione Politica. La priorità è di contribuire alla forma-zione di una classe dirigente intellet-tuale, politica e amministrativa dal profilo europeista e meridionalista, consolidando e rilanciando, con il contributo dell’ampio spettro di competenze presenti nella Fonda-zione (accademici, politici, amministratori, ricercatori), l’esperienza già maturata in questi anni, delle Conversazioni periodiche con i giovani attraverso lo strumento dei corsi “full immersion”.

L’esigenza ora è di costruire con nuovi stimoli e idee innovative, un laboratorio di formazione e di discussione per studenti, giovani imprenditori, amministratori, che hanno la volontà e la passione di impegnarsi politicamente, soprattutto in questa lunga fase di transizione del sistema politico italiano e di crisi della forma partito tradizionale. Un laborato-rio culturale-politico che offra momenti di aggiornamento nei quali scambiare esperienze, punti di vista, competenze, progettualità, per rinnovare la necessità di formare giovani che siano dotati di talento politico e che vogliono interpretare e promuovere le spinte all’innovazione e alla ricerca coniugandole con le istanze della coesione sociale e del rispetto delle regole del gioco. Una rappresentanza po-litica in grado di aspirare a rappresentare la classe dirigente futura all’interno di una rinnovata identità riformista. Molto lontana dal modello Frattocchie o della democristiana Camilluccia, la scuola

seguirà in parte, il format anglosassone delle Winter /Summer School.

Una Scuola di Formazione Politica che coinvolgerà studenti universitari, ricercatori, dirigenti politici, ammini-stratori, giovani imprenditori, in una esperienza di analisi e formazione, con la partecipazione di esponenti di Governo, di prestigiose personalità accademiche, di rappresentanti del mondo economico politico e istituzionale.

L’importanza del lavoro che il Dipar-timento “Formazione” della Fondazione si prospetta di sviluppare risulta chiaro dal peso degli argomenti che saranno affrontati, come risulta dal programma di questa prima edizione. Una classe diri-gente per…”il Mezzogiorno è l’Europa nel Mediterraneo”: questo il claim dell’evento che si terrà a Napoli dal 15 al 17 dicembre presso la struttura alberghiera nella locali-tà di Agnano Terme. I numeri della scuola politica: tre giorni, cinque workshop, una festa, centocinquanta partecipanti, sessan-ta relatori. Per la selezione dei partecipanti sarà costituita una Commissione del Dipartimento che provvederà alla valu-tazione dei titoli, alle motivazioni e che garantirà sia la distribuzione territoriale dei partecipanti ammessi, con preferenza

per chi proviene dalle Regioni del Mezzogiorno, sia le pari opportu-nità fra uomini e donne.

Competitività e integrazione; innovazione e sviluppo; comunica-zione e logistica, sono i principali temi che verranno analizzati cri-ticamente.

Tornare a pensare, ragionare e partecipare: queste le parole d’ordine della scuola, per meglio analizzare le principali questioni che attengono al futuro del Mezzogiorno nella cornice comunitaria e mediterranea, analizzando i modelli di integra-zione, innovazione e sviluppo utili ad aumentare la competitività e a rilanciare le nuove politiche per il Mezzogiorno nel quadro strate-gico euromediterraneo. Parleremo di questo, nei giorni della “Winter school” prendendo atto che il Mez-zogiorno non è il grande assente,

ma che sta semplicemente cambiando natura e dovrà necessariamente trovare nuovi interpreti. Il Mezzogiorno non è un mondo a parte e può sempre più rappresentare un punto focale delle tra-sformazioni in atto, un crocevia tra Europa e Mediterraneo. Per conseguire questo obiettivo, gli ingredienti essenziali sono una più attenta conoscenza della storia dei territori del Sud, delle loro identità e differenze, che ne delineano tutte le potenzialità di sviluppo e, al tempo stesso, una dinamica innovativa nello scenario della competizione globale.

I corsi di formazione politica si potranno anche in primavera e in estate in collaborazione con Enti pubblici, centri di ricerca, partiti e associazioni. In particolare la Summer school 2007 sarà rivolta a chiunque sia motivato a conoscere i meccanismi della pubblica amministrazione e le esperienze di partecipazione. Offrire strumenti di comprensione e conoscenza del ruolo e delle competenze delle istituzioni e delle amministrazioni, soprattutto quelle locali è fondamentale per favorire la partecipazione politica dei cittadini nella lettura della situazione locale.

Formazione

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Già nel preambolo al Tratta-to istitutivo della Comuni-tà Economica Europea del 19571, gli Stati membri posero

come obiettivo prioritario la riduzione delle disparità tra le regioni2 e tra i li-velli di sviluppo al fine di assicurare una maggiore coesione economica e sociale. Il concetto di coesione economica e sociale non si esaurisce nel miglioramento asso-luto delle condizioni, ma implica l’idea del riequilibrio, cioè della conseguenza reale, intesa come avvicinamento tra i redditi disponibili, le strutture economi-che e sociali, i sistemi del welfare e delle relazioni industriali3.

Ad ogni modo i problemi derivanti dalle disparità di sviluppo economico e sociale, sono sempre di natura strutturale, cioè legati alla mancanza di adeguamen-to delle strutture locali all’evoluzione del contesto economico e sociale della

FONDI STRUTTURALI. LA STORIA E LA RIFORMACaterina Nicolais

Comunità europea. La carenza di infra-strutture, di investimenti, di manodopera specializzata, unite ai gravi deficit pubblici e a una burocrazia lenta e farraginosa, contribuiscono ulteriormente all’incre-mento del gap tra regioni in ritardo di sviluppo e regioni più prospere. I fondi strutturali erano già previsti dal Trattato originario. Il Fondo Sociale europeo (FSE) istituito per “migliorare le possibilità di occupazione dei lavoratori”, veniva attuato con un regolamento del 1960 e diventava operativo nel 1962; il Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (FEAOG) fu istituito sempre nel 1962 per lo sviluppo e la diversificazione delle zone rurali; nel 1975 fu istituito il Fondo di sviluppo regionale (FESR) destinato a “correggere gli squilibri regionali dei paesi membri”4.

Fu proprio al principio degli anni Settanta, che la Comunità europea

subì il suo primo ampliamento, a cui seguirono un secondo e un terzo, con la Grecia (1981) e la Spagna e il Portogallo (1986). Dunque fu questo il periodo in cui l’attenzione si spostò dagli aspetti monetari dell’integrazione alla vera e propria cooperazione politica, economica e sociale attraverso la predisposizioni di azioni comuni o integrate per superare le disparità nel livello di sviluppo tra le varie regioni rimuovendo in questo modo gli ostacoli al processo di integrazione eco-nomica. Gli organi europei decisero così di promuovere i cosiddetti “programmi di sviluppo regionale” i cui strumenti ope-rativi erano i fondi strutturali e i prestiti della Banca Europea per gli investimenti (BEI)5.

Dal punto di vista formale, è con la revisione del Trattato originario attraverso l’Atto Unico Europeo del 1986 che si istituzionalizzano le nuove politiche comunitarie di integrazione e di conse-guenza anche i fondi strutturali. Con l’art. 23 si introduce ex novo il Titolo V sulla “Coesione economica e sociale” composto di cinque articoli, dal 130A al 130E, che stabiliscono i meccanismi e gli strumenti volti a creare le condizioni favorevoli per uno sviluppo armonioso ed equilibrato della Comunità Europea6.

La politica di coesione, basata sul superamento degli svantaggi strutturali delle regioni più sottosviluppate attra-verso il ricorso a strumenti solidaristici, si sposta dalla sua funzione primaria di ridistribuzione delle risorse, attraverso il riconoscimento di sovvenzioni da parte dell’autorità centrale, alla funzione di allocazione delle risorse disponibili7.

Ci si rende conto che non è suffi-ciente assicurare sovvenzioni alla aree in crisi, ma è necessario concordare con le amministrazioni locali competenti le priorità di sviluppo economico e sociale attraverso alcuni principi cardine quali la sussidiarietà, la partnership e l’addizionalità. Questo sistema porta a valutare una riforma dei fondi struttu-rali nel 1988. Già durante i negoziati relativi al Trattato di Maastricht sono stati ridefiniti gli obiettivi e gli interventi dei fondi strutturali e creato un altro strumento finanziario di intervento, il Fondo di coesione. Viene anche istituito il

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Comitato delle regioni allo scopo di coor-dinare le decisioni comunitarie e quelle delle autorità locali.

Con la Riforma dei fondi strutturali varata nel 1988 viene introdotto un re-golamento quadro (Reg. Cee 2052/88) relativo alla missione dei fondi stessi e un regolamento di coordinamento (Reg. Cee 4253/88) dei vari strumenti della politica di coesione economica e sociale8. Inoltre vengono istituiti nuovi organismi, come i Comitati di sorveglian-za. I principi cardine della riforma sono riconducibili alla compartecipazione, all’addizionalità (o complementarietà), alla concentrazione, alla programmazio-ne e alla semplificazione delle procedure, introducendo le fasi di pianificazione, programmazione, attuazione e control-lo. La programmazione, per esempio, passa dal periodo annuale ad una base pluriennale permettendo un quadro organico di interventi nel medio-lungo periodo. Viene poi introdotto il Quadro comunitario di sostegno (QCS) che rappre-senta una “dichiarazione di intenzione” della Commissione europea. I QCS sono incentrati sugli assi di intervento (o priorità) e definiscono la titolarità delle azioni comunitarie.

Le risorse dei fondi strutturali sono in via prioritaria destinate al persegui-mento di sei obiettivi di politica di coe-sione economica e sociale così distinti:• obiettivo 1: sviluppo e adeguamento

strutturale delle regioni in ritardo di sviluppo;

• obiettivo 2: riconversione delle regioni o delle parti delle regioni colpite gra-vemente dal declino industriale;

• obiettivo 3: lotta contro la disoccu-pazione di lunga durata, inserimento professionale dei giovani ed integra-zione delle persone minacciate di esclusione dal mercato del lavoro;

• obiettivo 4: adattamento dei lavora-tori e delle lavoratrici ai mutamenti industriali e all’evoluzione dei sistemi di produzione;

• obiettivi 5 a e 5 b: promozione dello sviluppo rurale;

• obiettivo 6: interventi nelle aree a bassa densità abitativa.Alla riforma dei fondi strutturali

del 1988 sono seguiti due periodi di programmazione. Dai dati ufficiali della Commissione europea risulta che tutto sommato i Fondi hanno rappresentato una vera e propria politica di sviluppo e

di coesione europea e non una semplice politica di sostegno assistenziale ai paesi economicamente più deboli9.

Risulta infatti che si sono ridotte effettivamente le disparità di reddito pro-capite tra gli Stati membri, anche grazie al Fondo di coesione che riguarda Spagna, Irlanda, Portogallo e Grecia; nelle regioni in ritardo di sviluppo (ad obiettivo 1) il reddito pro-capite è passato dal 64,6% al 67,2% della media europea. Tuttavia sembra che il livello di disoccupazione e le disparità di reddito all’interno dei singoli Stati permangono ancora per cui risulta necessario rielaborare gli strumenti di coesione e sviluppo per sostenere le regioni più svantaggiate nonché i gruppi sociali più deboli sul mercato del lavoro. La realizzazione di un’Unione economi-ca e monetaria impone una “disciplina finanziaria” attraverso il patto di stabilità che certamente avrà ripercussioni sulle condizioni di occupazione e sociali dei vari Paesi10.

Già nel 1997, il trattato di Am-sterdam ha riconfermato l’importanza strategica della coesione includendo un titolo specifico sull’occupazione, al fine di mettere in primo piano la necessità di agi-re a livello europeo e per diminuire il tasso di disoccupazione negli Stati membri.

Con l’adozione di Agenda 2000, do-cumento politico sulle strategie europee, si sono delineate le linee guida della nuova riforma dei fondi strutturali che prevede un’impostazione diversa negli obiettivi, nei contenuti e nell’organizzazione. Infatti con il Consiglio europeo di Berlino del 1999 sono state approvate definitivamente e formalmente le modifiche dei fondi a partire dal periodo 2000-2006.

Le principali modifiche comportano che:1. il periodo di programmazione del-

l’utilizzo dei fondi diventa più ampio, passando da 6 a 7 anni;

2. i Paesi candidati all’adesione avranno a disposizione un fondo specifico di proseguimento dell’azione già avviata con i programmi Phare e Tacis;

3. gli obiettivi dei fondi passano da sette a tre provocando una maggiore con-centrazione e la popolazione comu-nitaria che beneficerà degli obiettivi 1 e 2 diminuirà (passando da un 50% attuale a un 35-40%); inoltre sarà isti-tuita una fase di sostegno transitorio (Phasing out) per le regioni che escono dall’obiettivo 1 ;

4. le iniziative comunitarie vengono ridotte a quattro (Interreg, Urban, Leader, Equal);

5. le procedure sono semplificate al fine di rendere gli Stati membri più auto-nomi e capaci di utilizzare le risorse più efficacemente;

6. il partenariato viene valorizzato in tutte le fasi di utilizzo dei fondi.

Inoltre nel novembre 2002, l’Unione europea ha creato il Fondo di solidarietà dell ’Unione europea (FSUE). Questo fondo è destinato ad assistere i nuovi Stati membri e, a talune condizioni, alcune re-gioni di tali Stati che sono vittime di gravi calamità naturali. Esso è segnatamente intervenuto per sostenere la ricostruzione urgente di infrastrutture nonché il rilancio economico delle regioni che, nell’estate 2002, sono state danneggiate dalle inon-dazioni nell’Europa orientale o vittime della catastrofe provocata dalla petroliera Prestige o ancora colpite dalla siccità come il Portogallo nell’estate 2003.

Per quel che riguarda lo stanziamento, per il periodo 2000-2006 è stata assegnata ai fondi strutturali una dotazione finan-ziaria di 195 miliardi di euro. Gli obiettivi sono stati diversamente definiti: obiettivo 1– regioni a sviluppo arretrato;obiettivo 2 – regioni in fase di riconversione

socio-economica;obiettivo 3 – istruzione, formazione e

occupazione. L’unione europea ha incrementato

la dotazione finanziaria della politica strutturale per l’Italia del 32%, passando da 22,475 miliardi di euro per il periodo 1994-1999, a 29,656 miliardi di euro per il periodo 2000-2006 così suddivisi:• per l’ obiettivo 1, rivolto alle regioni a

sviluppo arretrato che sono le regioni in cui il Pil pro capite è inferiore al 75% della media comunitaria, la do-tazione finanziaria è di 22,122 miliardi di euro (di cui 21,935 miliardi di euro a Sicilia, Calabria, Basilicata, Puglia, Campania, Sardegna, che rimangono regioni ad obiettivo 1 e 187 milioni di euro al Molise che esce dalle regioni ad obiettivo 1 e usufruisce del fondo transitorio fino al 2006) contro i 16,195 miliardi di euro del periodo precedente;

• per l’ obiettivo 2, rivolto alle regioni in fase di riconversione socio-economica (che raggruppa gli obiettivi 2 e 5b del periodo 1994-1999) lo stanziamento

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per l’Italia è di 2,522 miliardi di euro (di cui 2,145 miliardi di euro per le zone ammissibili all’obiettivo 2 e 377 milioni di euro per il sistema di aiuto transitorio);

• per l’ obiettivo 3, rivolto all’ammoder-namento delle politiche di istruzione, formazione e occupazione (che rag-gruppa i precedenti obiettivi 3 e 4), la dotazione finanziaria per l’Italia è di 3,744 miliardi di euro contro 1,869 miliardi di euro del periodo 1994-1999.La riforma dei fondi strutturali è

vista come un’occasione per migliorare ancor più l’utilizzo delle risorse europee, ridurre gli sprechi e alleggerire la buro-crazia, preservando tuttavia il processo di “europeizzazione” delle politiche di sviluppo territoriale.

Si è cercato di pervenire ad una revisione che comunque salvasse i prin-cipi di fondo delle politiche strutturali, alla luce non solo degli effetti positivi in termini di equità distributiva, ma anche delle ricadute sulla qualità della governance e sulla costruzione di reti di relazioni tra attori locali, nazionali e sovranazionali11.

L’esperienza compiuta fino ad oggi mostra che l’Unione Europea ha assunto un peso decisamente rilevante nella costruzione della politica di sviluppo regionale degli Stati membri e le regioni, dal canto loro, poiché conoscono più da vicino le diverse specificità e le realtà locali, sono ormai sempre più in grado di prendere in mano il proprio futuro e di gestire direttamente i fondi dell’Unione, la quale interviene ormai soltanto per

coordinare e controllare la conformità dell’utilizzo dei finanziamenti europei.

Con l’allargamento, la sfida della coesione economica e sociale aumenta e si sposta ad Est. L’adesione dei dieci nuovi Stati membri ha rimesso in discussione l’attuale modello della Politica regionale ponendola di fronte a nuove sfide.

Note1 L. Monti, I fondi strutturali per la coesio-

ne europea, Edizioni SEAM 19962 Già con l’art.2 del trattato si sottolinea

l’esistenza del divario tra le regioni europee, con l’art. 39, poi, si evidenziano le disparità strutturali e naturali tra le diverse regioni limitatamente all’agricoltura. Infatti è con l’art. 38 che si promuove l’instaurazione di una politica agricola comune (PAC) come strumento di garanzia per lo sviluppo eco-nomico e sociale.

3 Cfr. il Comitato economico e sociale, parere su “coesione economica e sociale”, in GUCE C21/4/1992, par. 1.2.1.1.

4 Solo nel 1993 è stato creato lo Strumen-to finanziario di orientamento della pesca per la ristrutturazione del settore (SFOP).

5 Dal Rapporto Padoa-Schioppa (1987): Il coordinamento tra i fondi strutturali e la Bei costituisce un punto nevralgico della politica comunitaria di coesione economica e sociale. Con un maggior coordinamento nell’operatività tra i fondi strutturali e gli strumenti di credito verrebbe incrementato il flusso di capitale privato verso le regioni meno sviluppate, contemporaneamente all’espansione dei fondi.

6 Con l’art. 130A, si riconosce il fon-damento giuridico della politica regionale comunitaria; con l’art. 130B, vengono indi-cati gli strumenti operativi della politica di coesione, cioè i fondi strutturali e i prestiti della Bei; con il 130D si auspica una riforma dei fondi al fine di razionalizzare gli inter-venti rafforzandone l’efficacia.

7 Da Padoa-Schioppa: La tecnica otti-male per combinare obiettivi redistributivi e allocativi in un unico strumento consiste nell’uso di percentuali di sovvenzioni variabili.

8 Anche nel 1993 si è avuta una sorta di riforma, con l’approvazione dei Reg. Cee 2081/93 e 2082/93, che modificano i rego-lamenti della riforma del 1988, e vengono considerati come un aggiornamento della struttura regolamentare precedente.

9 L. Piccinetti, La riforma dei fondi strutturali: quale scenario per l’Italia, ricerca condotta nell’ambito del dottorato di ricerca dell’ Università di Newcastle (UK)

10 F. Martinelli, The governance of post-war development and policy in Southern Italy.Notes for a critical reappraisal, Working paper sec-ond European Urban and Regional Studies Conference, University of Durham 1998

11 M. Scarlato, Fondi strutturali: i rischi della riforma, Il Denaro 2005.

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Il sistema economico dell’Unione Europea si basa sull’economia sociale di mercato.

La ripartizione ottimale di risorse insufficienti si ottiene attraverso i meccanismi del prezzo. La domanda e l’offerta si allineano nel breve periodo attraverso prezzi variabili e nel periodo più lungo anche attraverso interventi sulla produzione.

Una componente essenziale della economia di mercato è la concorrenza.

La concorrenza garantisce i prezzi più bassi possibili, riduce gli sprechi di energia e di materie prime, promuove il progresso tecnologico e contribuisce ad innalzare il reddito nazionale.

La concorrenza puo’ esistere nel lungo periodo solo laddove gode di tutela giuridica.

Senza un quadro legislativo appro-priato le aziende raggiungono posizioni di monopolio, i beni ed i servizi diventano più scarsi, la loro qualità peggiora e in ultima analisi diventano anche più cari.

A livello nazionale quindi i Paesi membri dell’Unione Europea hanno adottato severe regole in materia di con-correnza e per i Paesi in via di adesione la creazione di un libero mercato funzionante costituisce un prerequisito fondamentale per l’adesione all’Unione.

La legislazione europea copre quattro settori: cartelli, controllo delle fusioni, liberalizzazione ed aiuti di stato.

Per quanto concerne piu’ specifica-mente questi ultimi, occorre rilevare come un inadeguato controllo sui sussidi, le agevolazioni fiscali e le garanzie ai prestiti, potrebbe causare distorsioni del mercato tra aziende aventi sede nei diversi Stati Membri.

La politica della concorrenza muove proprio dall’esigenza di garantire un’ eco-nomia di mercato in grado di accrescere il livello di vita dei cittadini dell’Unione; approccio questo, che in ultima analisi non rappresenta altro che la proiezione di quanto statuito dagli articoli 87, 88, 89 del Trattato che istiutuisce la Comunità Europea.

Il testo dell’art.87 recita infatti: “ Salvo deroghe contemplate dal presente

trattato, sono incompatibili con il mercato comune, nella misura in cui incidano sugli Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati…”

In questa prospettiva, la Commissio-ne Europea oltre ai divieti ed all’imposi-zione di condizioni e sanzioni, persegue i suoi obiettivi dando il via a processi di revisione tra pari come ad esempio la preparazione di un elenco pubblico sugli Aiuti.

Ed è proprio nel quadro di un sempre piu’ incisivo e puntuale intervento a tutela del mercato libero comune che va colloca-ta la riforma degli aiuti di stato approvata a Strasburgo lo scorso 14 Febbraio.

La risoluzione con cui il Parlamento Europeo, in seduta plenaria, ha adottato la relazione Hokmark e che, grazie ad un emendamento degli eurodeputati Pittella e Pomicino ha aperto un varco sul tema della fiscalità di vantaggio, sebbene sotto il profilo legislativo abbia valore solo consultivo, testimonia la sostanziale condivisione da parte dell’assemblea del Piano d’azione pubblicato dalla Commis-sione il 7 giugno del 2005.

La riforma di questa materia rispon-de alla duplice esigenza di aggiornare il quadro normativo di diritto derivato al nuovo assetto economico dell’Unione e di rendere il sistema di erogazione più trasparente ed efficiente.

A tal proposito la Commissione identifica chiaramente i tre requisiti legit-timanti l’erogazione di un aiuto di Stato: la chiarezza delle finalità, la proporzionalità e la temporaneità.

Altra importante novità introdotta dalla riforma riguarda l’applicazione delle sanzioni in caso di irregolarità; sono attualmente passibili di sanzione non solo i beneficiari dell’aiuto erogato ma gli stessi Stati che risultano, in questo modo, coinvolti nel sistema di monitoraggio e di controllo.

In questa prospettiva la Commissio-ne valuterà la possibilità di farsi assistere da autorità indipendenti negli Stati Membri nell’applicazione delle norme in materia di aiuti di stato, come accertamento e recu-

pero a titolo provvisorio di aiuti concessi illegalmente ed esecuzione delle decisioni di recupero.

Oggetto della riforma è innanzitutto quello di aggiornare la legislazione rela-tiva agli aiuti di Stato ai nuovi 10 Paesi membri, alla sostenibilità ambientale dello sviluppo comunitario e alle nuove sfide della società dell’informazione.

Gli orientamenti di Bruxelles, al riguardo possono essere schematicamente riassunti nei seguenti punti:

1. Allargamento: la Commissione si impegna ad adeguare le norme proce-durali ai 25 Stati Membri dell’Unione attraverso uno specifico regolamento ad hoc.

2. Aiuti regionali: la riforma si proporne di concentrare gli aiuti nelle aree economicamente piu’ svantaggiate definendo i livelli di aiuto giustificabili al di fuori delle regioni meno svilup-pate.

3. Politica ambientale: tra gli obiettivi pre-fissi dalla Commissione va annoverato anche l’incremento della produttività attraverso l’ecoefficienza…”quando la concessione di aiuti di Stato nel settore ambientale è equa e trasparente, puo’ svolgere un ruolo cruciale nel raggiun-gimento dell’obiettivo dello sviluppo sostenibile nell’Unione europea, in particolare per incentivare a lungo termine gli investimenti tecnologici e la brevettabilità di tali tecnologie all’Unione, contestualmente alla stabilizzazione delle emissioni di gas a effetto serra previsto dalla Conven-zione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici”

4. Servizi di interesse economico ge-nerale(SIEG): Bruxelles sottolinea come le compensazioni accordate dagli Stati membri nel finanziare i SIEG non debbano in alcun modo generare indebite distorsioni del mer-cato quali si potrebbero determinare nei casi di sovra-compensazioni. La Commissione ha già specificato nel libro bianco che condizioni speciali verranno applicate ad ospedali e società di edilizia sociale mentre è

POLITICA COMUNITARIA DELLA CONCORRENZA.LA RIFORMA DEGLI AIUTI DI STATO

Simona Mangiante

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già prevista l’esenzione dall’obbligo di notifica per compensazioni di importo ridotto.

La Commissione europea ha inoltre pubblicato una comunicazione speci-ficamente dedicata agli aiuti di stato all’innovazione.

A fronte di una “naturale”inattitudine del mercato a stimolare le imprese ad investire in questo genere di tecnologie non particolarmente redditizie, gli aiuti di stato in questo settore fanno la diffe-renza offrendo l’ incentivo economico a realizzare tecnologie ambientali a tutela della natura.

La logica che sottende questo ge-nere di supporti è la stessa che presiede l’erogazione di aiuti “generici”, ossia vengono concessi solo nella misura in cui siano in grado di ovviare a mancanze del mercato e non distorcano le dinamiche concorrenziali del settore.

Coerentemente con l’ approccio organico adottato dalla Commissione, gli aiuti di stato vengono posti anche in relazione con la politica per la ricerca ed il suo programma quadro per il prossimo settennio: il VII programma quadro di attività comunitarie di ricerca, sviluppo tecnologico e dimostrazione.

In questo quadro la Commissione si propone di elaborare una disciplina che consenta l’assunzione di rischi per quelle imprese e centri di ricerca che decidono di investire per promuovere la creazione di cluster e centri di eccellenza.

Interventi interessanti, quelli propo-sti dalla Commissione Europea, mirati alla realizzazione del duplice obiettivo di tutelare il mercato libero comune e di utilizzare tale strumento di regolamen-tazione come incentivo per stimolarne settori non naturalmente sollecitati dalle dinamiche del profitto.

Interventi che avranno un impatto notevole in Italia, come dimostra il vivace dibattito che si è sviluppato in questi anni sulla fiscalità di vantaggio e sulla creazione di zone franche e come evidenzia l’intervista che abbiamo rea-lizzato con il Direttore Generale della DG Regio della Commissione europea, che pubblichiamo a seguito di questo articolo.

Esperta di politiche comunitarie in servizio temporaneopresso la Commissione europea.

AIUTI PIÙ MIRATIPER LE REGIONI

DEL MEZZOGIORNOColloquio con Michele Raymondo Pascà, Direttore della DG Politiche Regionali

della Commissione europeaQuali sono le principali innovazio-

ni introdotte nel regime degli aiuti di stato, con la recente riforma e quale è il rapporto tra queste innovazioni e i fondi strutturali, la politica di coesione che l’Unione Europea prosegue per l’Italia?

La riforma degli aiuti di Stato è stata lanciata nel giugno 2005. La sua realizzazione impiegherà un certo numero di anni. L’obiettivo principale è quello di tradurre in pratica, nel contesto di un’Europa a 27, lo slogan “meno aiuti e più mirati”. In altre parole, se aiuti devono essere concessi, che almeno accompagnino il processo di Lisbona, vale a dire l’innovazione, la ricerca, l’accesso al capitale di rischio e gli investimenti delle piccole imprese, limitando nel contempo gli aiuti gene-rici alle imprese.

Vorrei citare due aspetti importanti più in dettaglio: uno di sostanza, uno di procedura, e comincio da quest’ultimo. L’intenzione della Commissione è quella di concentrare la sua attenzione sugli aiuti aventi un impatto maggiore sulla concorrenza. Questo vuol dire che gli Stati membri avranno maggiori pos-sibilità di concedere aiuti a determinate condizioni, senza l’obbligo dell’appro-vazione da parte della Commissione per una serie di categorie di aiuti, che includeranno anche gli aiuti regionali e quelli alla ricerca. In questa maniera la Commissione intende fornire un qua-dro chiaro e stabile all’interno del quale gli Stati membri potranno muoversi agevolmente (il nuovo inquadramento degli aiuti alla ricerca, sviluppo e inno-vazione sarà deciso probabilmente dalla commissione il 22 novembre 2006).

D’altro canto, e qui la procedura si incontra con la sostanza, la Commis-sione analizzerà molto più in dettaglio gli aiuti più distorsivi, come i grandi progetti di investimento e i grandi progetti di ricerca. E in alcune regioni in ritardo di sviluppo, la Commissione consente di aiutare gli investimenti

delle grandi imprese oltre a quelli delle piccole e medie, ovviamente entro limiti ragionevoli.

La riforma degli aiuti si accom-pagna a quella dei fondi strutturali. Nei due campi, in un’Europa allargata,

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la Commissione intende lasciare agli Stati membri la responsabilità delle proprie scelte, entro un quadro di regole precise e comuni. Ma il parallelismo delle norme imporrà di concentrare le risorse sugli aiuti mirati, che potranno

raggiungere percentuali più importanti di quelle molto più basse degli aiuti generici che saranno limitati comunque alle sola “Convergenza”.

Come dovranno attrezzarsi, a suo avviso, le regioni meridionali, per que-sta nuova sfida? Le regioni meridionali che rimangono nella “Convergenza” devono mettere a punto dei sistemi di incentivazione alla creazione di impresa e all’introduzione dell’inno-vazione nell’impresa. Questo non solo in termini di agevolazioni finanziarie o di accesso al venture capital, ma soprat-tutto attraverso forme di accompagna-mento alla creazione che comprendano il coaching e il mentoring, necessarie per sviluppare le attività economiche in un ambiente meno favorevole rispetto alle regioni del centro nord.

In altre parole si deve investire di più e meglio nelle condizioni conte-stuali all’impresa visto che le politiche regionali consentono ancora margini elevati per il sostegno (per quanto tem-po ancora ?) alla creazione dell’impresa e alla piccola e media impresa.

Che spazi lei pensa possano esserci, da parte della Commissione Europea, nella autorizzazione di regimi fiscali differenziati per alcune aree svantag-giate come il Mezzogiorno d’ Italia?

Una premessa generale sulla fiscali-tà regionale e I margini di flessibilità che essa consente. È ormai giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea che i margini di flessibilità devono dipendere dal grado di autonomia fiscale di una regione. Mi pare che in Italia nessuna regione goda di tale autonomia, ecce-zione fatta forse per modesti margini di manovra ad esempio in materia di Irap. Per il resto, fino a che non vi sarà una fiscalità regionale o un federalismo fiscale, mi pare difficile parlare di regimi fiscali differenziati. Dunque, vedo pochi margini di tipo giuridico salvo per zone estremamente ridotte per superficie e popolazione, e con problemi molto più gravi delle zone circostanti.

Se poi andiamo oltre la difficoltà giuridica, verso il merito di cio’ che la fiscalità differenziata dovrebbe favori-re, credo che le difficoltà aumentino. Ritengo, infatti che se gli aiuti devono essere destinati ad obiettivi collegati a Lisbona – ricerca, innovazione, capi-tale di rischio, nuovi investimenti – la politica fiscale differenziata non è lo

strumento adeguato. Non si tratta di avere aliquote più basse per tutti, ma vantaggi legati a nuovi investimenti, de-finiti con un certo rigore, e controllati in maniera adeguata. È chiaro dunque che per verificare il rispetto delle condizioni previste dalle regole in materia di aiuti, l’amministrazione deve necessariamente essere in grado di analizzare e valutare i singoli investimenti, specialmente nel caso delle grandi imprese.

È chiaro che quest’analisi deve essere alla base dell’intervento pubblico. Il mezzo attraverso il quale si agisce sia esso il contributo in conto capitale, il prestito agevolato ovvero lo sgravio fiscale non è poi cosi importante. L’introduzione di un nuovo strumento, quello fiscale, quindi non cambia l’es-senza del problema.

Per concludere, e parlo a titolo personale ma con qualche cognizione di causa, mi pare che non vi siano margini per una politica fiscale differenziata. Cio’ che puo’ essere esplorato è un uti-lizzo limitato e mirato dello strumento fiscale per favorire i nuovi investimenti. D’altronde, e vorrei concludere con questa considerazione, gli investimenti, specie quelli dell’estero non vengono at-tratti dagli eventuali aiuti, e neppure in modo determinante dal regime fiscale, ma piuttosto da condizioni economiche come il costo del lavoro, la qualità delle risorse umane, la disponibilità delle in-frastrutture e soprattutto da un quadro di sicurezza e di certezza giuridica che deve costituire il principale obiettivo delle regioni meridionali.

SIMA

Europa

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Giusto o no, opportuno o no, ormai il Partito Democratico (il PD) si deve fare. Sospinti dall’esigenza di porre riparo

ai grandi malanni della democrazia italiana – lo sfascio dei partiti che l’hanno interpretata nel secolo scorso, la frantumazione delle rappresentan-ze politiche, l’ingovernabilità, la legge elettorale maggioritaria e il bipolari-smo artificiale, la personalizzazione esasperata della politica – gli organi responsabili dei DS e della Margherita lo hanno deciso dopo lunga e sofferta maturazione. Ora non si può “rimane-re in mezzo al guado”: lo dicono anche quanti avevano molti dubbi. Ma deve essere un partito nuovo, non la sem-plice giustapposizione dei due partiti “costituenti” e, quindi, neanche la loro federazione: anche questo lo dicono tutti (o quasi). Si dice anche che deve fondarsi non sull’annullamento ma sull’amalgama delle tre culture – la li-beraldemocratica, la socialdemocratica e la cristiano democratica – che hanno ispirato le ideologie politiche e i partiti dell’Otto- Novecento.

Bene. Solo che io vedo, sì, ciò che deve essere amalgamato, sintetizza-to – le tre culture appunto – e ciò che deve essere superato – le divergenze e le contrapposizioni dei vari partiti – ma non vedo con che cosa si può fare l’amalgama. Non vedo il catalizzatore della sintesi.

Per un prodotto nuovo non basta la contaminazione: parola molto usata in questa occasione, ma che evoca il concetto di influenza reciproca nega-tiva, quasi un’infezione che può anche essere letale. Occorre un catalizzatore che produca una sintesi positiva, un effetto vitale e vivificatore per il nuovo soggetto.

Non basta neppure la governabili-tà, l’impegno forte e stabile a sostegno del governo e del suo leader per rendere efficiente e il sistema democratico. Si

resterebbe al livello delle esigenze di questa difficile fase della politica nazio-nale che dura ormai da quindici anni.

Ma non basta neppure un program-ma comune. È vero che tutti concorda-no sulla necessità di passare dal “partito ideologico” al “partito di programma”. Ma quale programma? Certamente non un semplice programma di governo, che può fondare un’intesa necessaria ed utile per una legislatura, ma non un partito che non voglia essere solo l’ef-fimero “partito del presidente” (e Prodi dice esplicitamente di non volerlo).

Ovviamente si deve pensare ad un programma di ampio respiro, capace di interpretare la realtà umana – per-sonale e sociale – che si sta evolvendo, e di orientare costantemente ed effi-cacemente le scelte e le decisioni po-litiche per regolarle e gestirle. Non un programma contingente, dunque, ma un progetto lungimirante. Un progetto che, peraltro, non può ignorare i gravi problemi della situazione contingente, ma anzi debba fornire le rotte giuste per arrivare a risolverli efficacemente, co-struendo così la finalità – la mission, si dice oggi – dell’azione politica del PD.

Ho sentito dire (mi pare da Ciampi) che a tale scopo occorre una “idea d’Ita-lia”. Ma per non rischiare il sospetto di voler costruire una nuova “ideologia”, direi che occorre un “progetto d’Italia” o, anzi, un “progetto di società” – visto che non è possibile, oggi, prescindere dai rapporti internazionali e che le chiusure nazionalistiche ormai sono irrealizzabili.

Ma questo progetto-catalizzatore della sintesi per la nuova cultura po-litica a fondamento del nuovo partito, finora non è emerso. Qualche idea, in verità, è stata formulata qua e là nei convegni che si sono succeduti in questi ultimi tempi, ma non ancora un progetto organico. Spero che i “saggi”, incaricati a Orvieto, vi mettano mano e riescano a proporlo all’intelligenza

e al cuore degli italiani. E spero che, spostando il dibattito dei “costituenti” del PD dai tatticismi della politichetta quotidiana alla Politica (con la maiu-scola!) di grande prospettiva, riescano a metterli in condizione di saper lanciare, coll’annunciato “Manifesto”, “l’idea di cui ci si innamora” (come auspica Cali-se, “Il Mattino” del 30 settembre).

Se si avanzerà in questa direzio-ne – e solo se si raggiungerà un ade-guato traguardo – sarà possibile supe-rare uno degli ostacoli sulla via della costruzione del PD: quello che viene solitamente definito: “la collocazione europea”. E come si è messo finora il dibattito, sembra ostacolo insuperabile. I d.s. considerano impossibile uscire dal PSE e la Margherita considera im-possibile entrarvi. D’altronde anche il tentativo della Margherita di crearsi una nuova collocazione al di fuori del PPE (e del PSE) col progetto del Partito Democratico Europeo (PDE) non ha portato ai risultati sperati: il PDE è così debole da indurre i suoi eletti nel Parla-mento Europeo a inserirsi nel Gruppo dell’ALDE (l’Associazione dei liberali e dei democratici), che, pur nella sua modesta entità numerica, è altrettanto eterogenea del PPE (come è diventato negli ultimi tempi) e del PSE (come è sempre stato).

Ma è proprio questa eterogeneità che rende “arduo e fragile il dialogo coi partiti europei di oggi e di domani”, come opportunamente ha fatto notare l’eurodeputato della Margherita, Lapo Pistelli, in risposta a Fassino (“Euro-pa”, 27 settembre). Eterogeneità – bi-sogna precisare – non solo sul piano ideologico-politico e socio-economico ma anche e soprattutto su quello della politica europea. Certo: per operare in questa situazione, “per farsi ascoltare dalle altre forze politiche, per attirare l’attenzione altrui” (come vuole giusta-mente Pistelli) occorre che in Italia si possa disporre di qualcosa di costruito,

Il Partito DemocraticoUN “PROGETTO DI SOCIETÀ”

PER UN “PROGETTO DI EUROPA”Paolo Barbi

Riflessioni

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di consolidato. Occorre che il PD esista in Italia come partito nuovo, ben defi-nito dal suo Progetto politico (e non come la giustapposizione dei popolari e dei d.s.) e che sia “capito” come tale anche in Europa: non per esser collo-cato qua o là, per esser ricoverato sotto un qualche “tetto”, bensì come una forza nuova capace di fare chiarezza sull’equivoco delle “famiglie” politiche eterogenee (che non sono veri partiti e neanche unioni di tipo federale) e di catalizzare forze omogenee fondendole in un comune progetto politico.

Ma allora: come per far sorgere in Italia un PD nuovo non basta metter insieme le tre culture politiche emer-se nel secolo scorso, ma occorre un catalizzatore che può essere solo un “progetto di società” unitariamente elaborato nell’ambito di quelle culture, così in Europa occorre un catalizzatore che provochi l’”esplosione” degli agglo-merati eterogenei delle attuali famiglie politiche e produca la nuova sintesi, il nuovo autentico partito europeo.

Questo catalizzatore non può esse-re altro che il “progetto di Europa”: il progetto di integrazione europea non più solo economica ma politica, che oltretutto sia capace di definire e so-stenere il suo ruolo nell’arena interna-zionale. E di questo catalizzatore deve esser portatore il nuovo PD, che nascerà certamente con questo DNA non solo per l’apporto genetico della cultura dei democratici cristiani e per la matura-zione europeista dei democratici so-cialisti, ma anche per la chiara, incisiva azione dei governi Prodi – nel crogiolo dei quali esso si è venuto formando e ha cominciato a consolidarsi.

Un PD che si presenta “ben formato e consolidato” come il partito “costrut-tore dell’Europa politica” – come fece De Gasperi 50’anni fa con la DC e i partiti alleati del “centro” – non solo “attira l’attenzione”, si fa ascoltare, ma può proporre intese di lunga portata e inserimenti organici e stabili in un vero partito europeo: omogeneo perchè fon-dato su uno specifico obiettivo politico qualificante. Perché orientato da un mission caratterizzante.

Un Partito Democratico italiano nuovo non va in Europa in cerca di un “tetto” per collocarsi convenientemente e, tanto meno, per legittimarsi (come ha fatto Berlusconi col PPE, come a lungo hanno cercato di ottenere gli ex comuni-sti col PSE), ma va – deve andare! per-ché proprio questo deve essere l’aspetto essenziale, “l’anima vivificatrice” del suo progetto politico: non uno dei punti del suo programma, ma la sua “connotazio-ne essenziale”, come ha detto il professo-re Scoppola a Chianciano – va in Europa per essere la guida e il motore della sua unione completa e definitiva. E quindi per essere il catalizzatore delle forze politiche europeiste, per ri-orientare e calamitare gli europeisti sempre più numerosi che si trovano in grave disagio negli attuali PSE e PPE.

In questa operazione – di portata veramente storica – fattore determi-nante, decisivo, è senza dubbio Prodi: proprio perché è il Presidente del Con-siglio che – incarnando questo pro-getto e attuando questa politica – può individuare e far emergere ai massimi livelli le forze politiche omogenee per la costruzione europea. Certamente gli sarà più facile intendersi con la Merkel (oggi nel calderone del PPE) anzichè con Blair (che si trova in quello del PSE), con Zapatero (che sta nello stesso calderone di Blair) anzichè con Chirac (ultimo aggregato alla “famiglia” del-la Merkel). Ed appunto impegnando nella realizzazione del comune pro-getto europeo il Cancelliere tedesco e il Presidente spagnolo, in inevitabile divergenza dal Premier inglese e dal Presidente francese, farà esplodere le loro due ”famiglie” e potrà far emergere la necessità di un partito europeo che con una sua struttura federale sia il prototipo di quella federazione di Stati europei che si intende costruire.

Riflessioni

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Cresce l’interesse per il patri-monio dei beni culturali e la consapevolezza di doverli tutelare, valorizzare e, con il

loro uso, conservarli in efficienza.Ad accentuarlo hanno concorso la

riscoperta di tanti monumenti valoriz-zati e di siti eccellenti fino ad oggi ai più sconosciuti, l’innovazione e l’apertura di nuovi musei che evolvono rispetto ai modelli tradizionali, nuove emersioni archeologiche. Si sperimentano felici restauri architettonici di monumenti proiettati a portare il passato nella sua consistenza materiale nel prossi-mo futuro conciliando salvaguardia dell’esistente e ragioni della contem-poraneità.

Istituzioni centrali e locali – tra-dizionalmente responsabili del patri-monio culturale, cui si vanno aggiun-gendo associazioni e fondazioni di scopo – mettono in campo proposte seducenti per comunicare e diffondere la conoscenza della ricchezza del patri-monio culturale e la sua storia (si pensi ai musei virtuali).

Cresce anche una domanda nuova d’incontro tra comunità e arti e si ab-bassano le barriere elitarie del passato di una scontata frequentazione dei siti della cultura, dei musei.

E le comunità locali scoprono nel proprio patrimonio culturale la cifra identitaria caricandola di aspettative per la qualità sociale dei loro luoghi e per occasioni nuove del fare sviluppo economico.

E, tuttavia, la risorsa patrimonio culturale è oggi risorsa e problema.

L’anacronismo è emerso chiaro nel recente incontro dell’ottobre scorso di Palazzo Donn’Anna – prima iniziativa pubblica promossa dalla Fondazione culturale De Felice – per discutere il ruolo delle fondazioni culturali e i pro-blemi del patrimonio culturale.

Problema ribadito in tutti gli in-terventi, e denominatore comune no-nostante la diversità dei protagonisti, per profili professionali e competenze,

è stato la preoccupante contrapposizio-ne di fondo tra la ricchezza del nostro patrimonio culturale, dai musei ai tanti luoghi della cultura in senso più lato, e l’inadeguatezza, anzi la grave crisi della sua gestione.

Sulle ragioni della crisi si è soffer-mato a lungo, introducendo i lavori, Stefano De Caro che, per il suo ruolo di Soprintendente regionale per i beni culturali in Campania, non ha lasciato dubbi sulla gravità dei problemi esi-stenti per la gestione del patrimonio culturale in Italia.

Di conseguenza lo stesso dibattito si è inquadrato in nuovi contorni.

L’argomento dell’incontro era stato indicato dalla Fondazione per un con-fronto sugli attuali orientamenti locali

e nazionali in materia di beni culturali con comparazioni tra le più significative nuove esperienze formative e di ricer-che in corso per la tutela e la valorizza-zione del patrimonio culturale.

In sintesi, può dirsi di un’esplora-zione per una collocazione credibile della Fondazione in uno spazio ope-rativo per svolgere un’attività utile e collaborativa con le istituzioni preposte tradizionalmente alla tutela del patri-monio culturale.

Un’esplorazione iniziale, con una sottintesa garanzia (?) per la giovane Fondazione dal rischio di affrettate sug-gestioni del fare o da quelle immagina-zioni salvifiche o di autoreferenzialità, incaute tendenze che ammaliano non di rado le nuove iniziative.

Un Convegno a Palazzo Donn’AnnaIL PATRIMONIO CULTURALE:RISORSA E PROBLEMAEirene Sbriziolo

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Questa Fondazione ha un program-ma ambizioso: promozione di ricerche scientifiche, tecniche, sperimentali e operative nel campo dei beni cultu-rali, particolarmente in quello della museologia, della conservazione e del restauro dei beni artistici monumentali, con finalità del loro inserimento vivo nell’attività del mondo contemporaneo. Di formazione e specializzazione di studiosi, esperti e tecnici che intendono dedicarsi alla conservazione e alla tra-smissione del patrimonio culturale.

Ma ha ritenuto opportuno partire con una fase propedeutica all’avvio dei compiti statutari, rivolta appun-to a confronti su specifici argomenti che ineriscono lo stato dell’arte delle problematiche più significative del complesso mondo dei beni cultura-li. Occasioni di verifica di quanto la Fondazione sappia già intervenire, sia nel mondo degli studi che nei contesti sociali, su temi che oggi richiedono, e giocoforza, considerazioni e valuta-zioni differenti rispetto al passato, a partire da ripensamenti sul significato della tutela, della conservazione, della valorizzazione del bene culturale per la esigenza oggettiva di dover evolvere dai modelli culturali e comportamen-tali di tradizione, per approfondire, sperimentare approcci per fare tutela e valorizzazione in conciliazione con le ragioni culturali, sociali, economiche del mondo contemporaneo, che non sono statiche né rigide e con decisioni esauribili una volta per tutte.

La Fondazione, allora, si dà una fase di rodaggio, non ritenendo scontata la sua collocazione automatica in un con-testo precisato o precisabile soltanto sulla base del modello delle finalità che hanno informato le ipotesi iniziali per la sua istituzione.

Un esempio acconcio lo fornisce in qualche modo lo stesso dibattito di otto-bre: la Fondazione aveva programmato per la fase di rodaggio di offrire un ser-vizio di tipo seminariale, incentrato sulle tematiche emergenti in materia museale e di restauro artistico e monumentale, prevedendo un’attività che non si svilup-passe in competizione con le specifiche competenze nel campo delle istituzioni ufficialmente preposte, nè con le offerte culturali di istituti universitari, bensì perseguisse intenti d’integrazione, con

un sevizio appunto, di attività in queste sedi non previste o non praticate.

E, invece, con l’incontro sul ruolo delle fondazioni culturali e i problemi del patrimonio culturale sembra che qualcosa, e non trascurabile, possa cambiare. Perché è sembrato che sa-rebbero proprio i problemi emersi per la gestione del patrimonio culturale a giustificare il ruolo, e in Italia, delle Fondazioni e quindi potrebbero non essere le Fondazioni a ricercare il pro-prio spazio di attività.

Il servizio culturale, con prudenza programmato dalla Fondazione, rita-gliandolo per spazi neutri, potrebbe addirittura evolvere in un impegnativo esercizio di cultura della gestione del patrimonio museale, ad esempio, con modalità gestionali alternative a quel-

le finora frequentate dalle istituzioni preposte.

Altra cosa se saprà o potrà farcela.

E’ stato proprio Stefano De Caro a dare il la a questa prospettiva, poi seguito dagli altri protagonisti del di-battito, e a spiegare le ragioni per cui le Associazioni, le Fondazioni, le Società impegnate nel campo dei beni culturali dovranno attrezzarsi per fornire un ser-vizio attivo alternativo e non ancillare a quello svolto dalle istituzioni statali, finora i soli soggetti preposti alla tutela, alla conservazione, alla valorizzazione, alla gestione del patrimonio culturale.

E non ha mancato di sottolineare quanto nel Mezzogiorno questo eser-cizio altro non è soltanto auspicabile, ma ormai necessario. Poi, la gravità

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dei problemi della gestione la affronta senza mezzi termini, ricordando che da tempo e in più occasioni, ribadita in documenti ufficiali, ha sostenuto la necessità e l’urgenza di efficaci piani di gestione per il patrimonio culturale, e ad un tempo insistendo sulla necessità di prendere atto del significato concet-tuale e fattuale diverso da attribuire oggi al fare tutela e gestione del patri-monio culturale.

Servono concetti nuovi per modelli organizzativi e alternativi a quelli di tradizione, e indispensabili per una gestione efficace attiva e continuativa rivolta anche ad accompagnare processi di sviluppo locali in atto, con la respon-sabilità di non vanificare le ragioni degli investimenti impiegati per la valorizza-zione di beni culturali in diversi luoghi del territorio.

Patrimoni culturali in cui sempre più le comunità ritrovano forte il valore distintivo del proprio luogo, vivendolo come potenziale formativo di nuova qualità dello sviluppo locale.

La gestione attiva del patrimonio culturale era particolarmente caldeg-giato dal Presidente scientifico della Fondazione, dell’Università internazio-nale dell’arte di Firenze, il professore Umberto Baldini già componente del c.d.a della nostra Fondazione, di recen-te scomparso. Ha sostenuto, presso la regione Campania, la centralità da at-tribuire alla cultura della manutenzione nel programma delle attività prioritarie della nostra Fondazione, consapevole come era del generale impoverimento del patrimonio culturale, che include addirittura quello di recente restaurato e valorizzato, e con ingenti investimenti di risorse.

E per la nostra Fondazione aveva escluso si avessero soltanto corsi di specializzazione post universitaria, ritenendo nel Sud di curare fonda-mentalmente una platea di giovani per affezionarli ad un’attività lavorativa appagante, per cui:

« con lo svolgimento dei corsi di manutenzione s’intende venire incon-tro ad un’esigenza operativa che fu ti-pica dell’artigianato colto, per cercare di coprire la carenza didattica riferita all’atto di manutenzione per il quale occorrono operatori tecnici specifici, a tutt’oggi pressoché assenti.

Il programma dei corsi prevede l’insegnamento di tecniche artistiche d’intervento, di elementi di diagnostica, di modalità di pulitura e manutenzione del materiale lapideo, pittorico, sculto-reo, librario.»

Stefano De Caro realisticamente ha fatto anche bilanci e, per sua espe-rienza, considera che in una città come Napoli, in una regione come la Campa-nia, e per estensione come quella del Mezzogiorno ci si impatta giocoforza nella loro storia, e questo si ripercuote e diventa vincolante anche ai fini di una efficiente gestione del patrimonio culturale, perché la gestione è stata fondamentalmente di mano pubblica, e fino a non molti anni fa.

Ha pesato e pesa ancora l’eredità della concezione borbonica dei reali siti, che era appannaggio delle casse private del regno borbonico: gli scavi di Pompei erano un real sito, e quelli di Paestum e le archeologie dell’area flegrea.

Poi alla cassa privata del regno bor-bonico si sostituì quella dello Stato e i beni e i siti culturali automaticamente passarono dalla cultura reale a quella nazionale, e quindi rimasti comunque in mano pubblica, e statale.

Così la gestione del patrimonio ec-clesiastico: che rimase sostanzialmente pubblica e a cura statale con il ricorso al fondo per il culto.

Una sola innovazione significativa: l’affiancamento dei musei provinciali, e in Campania nacquero a Capua, Bene-vento, Salerno tra il 1870 e il 1920. Fu un tentativo di decentramento ammi-nistrativo orientato a responsabilizzare soggetti illuminati dell’epoca ad occu-parsi della tutela e della conservazione del patrimonio culturale locale. Alle amministrazioni locali della Campania, disabituate all’autonoma gestione del proprio patrimonio culturale, mancò quell’impegno che fu significativo in altre regioni del Paese,

Storie note di differenti. consuetu-dini consolidate nel tempo per cui Il museo dell’Archiginnasio di Bologna, fu amministrato dal Comune dieci anni prima del Reali museo borbonico e dell’inizio degli scavi di Ercolano. E datano al 1720-30 i musei civici della stessa Bologna, di Modena, di Reggio Emilia realizzati e gestiti dalle ammi-nistrazioni comunali.

Fu la tradizione forte comunale lì a rispecchiarsi nella forma museo, mentre nel Mezzogiorno i musei nac-quero come i simboli delle dinastie, borboniche o farnesiane, e a carico di quegli stati.

E mentre al centro nord i musei comunali si collegavano anche a quelli privati, nel Mezzogiorno i nuovi musei provinciali, che pure si riconduceva-no a iniziative prestigiose private, già fallivano per inadeguatezza di risorse finanziarie, di personale specificamente formato, per il ricorso precario e di-scontinuo a direttori onorari.

Poi, con la fine del secondo conflitto mondiale dai comuni del Mezzogiorno cresce la domanda di museo locale, sollecitante la riappropriazione di quel materiale storico artistico, archeologico che, custodito nel periodo bellico nei depositi delle soprintendenze, era stato poi lì a lungo trattenuto.

Anche nella nostra Regione i giova-ni sollecitavano la diffusione di luoghi culturali nel territorio, insistendo in primo luogo con il Museo nazionale di Napoli, che conservava un patrimonio archeologico costituito da provenienze diverse per la restituzione ai Campi Flegrei e a Ercolano e ad altri luoghi di appartenenza le memorie della propria storia.

Fu letta come una ventata di volon-tà partecipativa alla gestione dei beni culturali, e che di fatto ha portato alla nascita del museo archeologico di Tea-no, a valorizzare luoghi della regione con restauro di anfiteatri e apertura di piccoli e meno piccoli musei locali.

E oggi?Oggi, la Campania rispetto al centro

nord d’Italia rimane al di sotto con la domanda di decentramento museale, per lo meno come è avvenuto nella Lombardia e nel Veneto, che hanno anche capacità di gestione.

Il risultato è che non è progredito il c.d. parametro culturale, che è tra altri il misuratore della qualità della vita di una regione: ha contribuito la carenza di gestione del patrimonio culturale da parte dell’amministrazione pubblica dello Stato e l’incapacità dei comuni a darsi propri modelli per la gestione del patrimonio culturale locale. D’altra parte, appena da due anni la regione Campania ha emanato la legge per la

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gestione dei musei locali, ma è ancora priva di regolamento.

E si aggiunge ora anche il rischio che risorse POR impiegate in realizza-zioni museali accumulino un patrimo-nio di meri contenitori non gestiti o difficilmente gestibili. Laddove a queste nuove strutture avrebbe dovuto corri-spondere un altrettanto nuovo modello di gestione che, d’altra parte lo stesso POR prevede nell’ istituzione di orga-nismi ad hoc per la gestione dei nuovi luoghi della cultura e con l’esclusione delle soprintendenze e dello Stato.

Eppure le finalità del programma regionale mirato allo sviluppo qualifica-to di luoghi attraverso la valorizzazione del patrimonio culturale, rivelava un intento compensativo del declino di lo-cali impianti industriali, ma sono state sottovalutate opportunità sincretiche tra le politiche per i settori del terziario avanzato, del turismo… e di possibili gestioni associate, per evitare fram-mentazioni di servizi indotti, in consi-derazione della decisione di realizzare i musei in tanti piccoli comuni.

Stefano De Caro da parte sua con-ferma la praticabilità della gestione associata con il caso dell’area dei parchi della Val di Cornia, che comprende un insieme di piccoli comuni che si sono messi insieme per gestire alcuni servi-zi pertinenti ai siti culturali: trasporti, parcheggi, ristorazione,editorie…

E fa carico alla Scabec dell’impegno di diffondere l’utilità ai livelli locali del-l’’aggregazione e del superamento degli individualismi municipali, per avvici-nare uno sviluppo credibile e durevole

per le proprie comunità. In generale, però, la gestione del

patrimonio culturale in Italia rimane il problema centrale, ulteriormente aggravato anche dalla riduzione dei finanziamenti agli unici soggetti che, nonostante le inadeguatezze, l’ hanno fino ad oggi curato: le soprintendenze.

E così, torna più chiaro l’interesse per le Fondazioni e Associazioni cultu-rali in quanto soggetti privati che posso-no agire ad un tempo come partner sia del consorzio civile che delle istituzioni pubbliche, accompagnando la promo-zione qualitativa dello sviluppo.

Claudio Boci della Federculture, però, ci ha tenuto a precisare che non spetta alle Fondazioni fare sviluppo economico, bensì civile, sociale e sem-mai – in considerazione delle caratte-ristiche dell’economia post industriale sempre più di economia delle conoscen-ze – rappresentare un’ infrastruttura virtuale di capacità cognitive.

Il ruolo gestionale, invece, del patrimonio culturale le Fondazioni lo dovrebbero affrontare con modalità innovative rispetto alla tradizione, per cui il progetto culturale della Fonda-zione deve precedere aspetti giuridico amministrativi, risolvibili solo succes-sivamente. Ad un tempo, invece, con il progetto culturale si deve conoscere gli attori locali, le risorse umane, la disponibilità finanziarie…per attuarlo.

Anche Alessandro Hinna – respon-sabile delle strategie della Federcultu-re – rifiuta quelle Fondazioni che negli statuti presentano procedure giuridiche e istituzionali suggestive che nei fatti

non portano ad innovazioni reali. La sfi-da all’innovazione la vede non nei mo-delli organizzativi e gestionali astratti, bensì nel coinvolgimento di risorse umane, di competenze specifiche e tec-niche. Ritiene che una fondazione bene impostata possa diventare una delle istituzioni più duttili per il raggiungi-mento di specifici scopi coinvolgendo di volta in volta anche soggetti diversi locali avvicinando la cultura ad una più ampia comunità con maggiori possibili capacità di agire sul territorio.

Per Roberto Cappabianca presiden-te della Scabec la partecipazione con il soggetto pubblico – per sperimen-tare modalità più efficienti e ottimali di gestione del bene culturale – è un’ esperienza che vive in vitro.

Il primo prodotto è il rapporto sull’ economia dei beni culturali, redatto con l’Università Federico II, e tratta del fattore economia in rapporto al bene culturale, affrontando le tematiche del-la domanda, dell’’offerta, dell’ occupa-zione, della qualità della fruizione…

Ma la sfida, per Stefano De Caro, che la Scabec dovrà affrontare è quella di sapere rappresentare un soggetto fondante di processi innovativi nel ter-ritorio campano e non gestore di situa-zioni, così evitando il rischio di accredi-tare alla Regione tendenze dirigistiche nei comparti dei beni culturali.

E, infatti, la Scabec non è una fondazione, bensì una società, nata completamente detenuta dalla regione Campania e di seguito in base a gara europea ha ammesso la partecipazione di minoranza di privati, con l’obiettivo di identificare i soggetti privati in grado di gestire nell’ambito delle strutture museali servizi, editoria, sorveglianza, manutenzione ordinaria…

Quindi, un caso a sé questo della Scabec.

In conclusione fa riflettere invece un’osservazione che Hinna ha buttato nella sua foga espositiva allo scopo forse di confermare il nuovo ruolo delle fondazioni: in Italia si sta invertendo la prassi consolidata in altri Paesi. In quelli, dove non arriva la società civile entra lo Stato, da noi dove non è ar-rivato lo Stato si fa entrare la società civile.

Una provocazione o lo stimolo al-l’impegno?

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Ma anche il tempo è trop-po prezioso per poterlo sprecare senza doversene pentire amaramente, so-

prattutto considerando l’eredità che lasceremo alle future generazioni.

Più volte, in questa Rivista ed ade-rendo pienamente al suo spirito, ho ritenuto opportuno porre all’attenzione dei lettori il non indifferente problema del futuro che, tutti insieme ed ognuno per la propria parte di competenza e di responsabilità, dovremo saper af-frontare. Un futuro nel quale dovremo augurarci che almeno i più importanti dei problemi presentatisi già all’inizio di questo terzo millennio possano, quanto meno, essere avviati ad una definitiva soluzione se non, addirittura, essere archiviati come un triste retaggio del nostro passato.

Tra questi problemi – oltre ad una concreta e completa realizzazione dell’Unione Europea con il consegui-mento di una politica estera comune e di una maggiore, più efficace e più ef-ficiente integrazione economica e, nel no-stro interno, ad una definitiva soluzione dell’annosa questione meridionale porrei soprattutto quello della gestione – dal punto di vista poli-tico, culturale, eco-nomico, ma anche, e non meno, da quello burocratico – della non più evitabile so-cietà multietnica.

A volte, occor-rerebbe essere più realisti e non illudersi che possa essere suf-ficiente cullarsi nelle proprie convinzioni ed aspirazioni per poter sperare che le cose vadano sempre secondo i nostri pia-ni. D’altra parte, è pur vero che certi pro-blemi sono talmente impellenti, carichi di una forza propria e così influenti sul destino futuro del-la nostra società che

trascurarli o, peggio, ignorarli non sarebbe solo una colpa, ma un vero e proprio dolo. Dalle imprevedibili e gra-vissime implicazioni, foriere sempre di problemi ancora più gravi e complessi. Ormai, tutti hanno dovuto convenire sul fatto che la Storia può e deve es-sere interpretata, talora anche aiutata nel suo evolversi, ma mai ignorata o sottovalutata.

La tanto paventata globalizzazione era già segnata. I più accorti studiosi ne avevano cominciato a prendere atto e ad attrezzarsi per poterla meglio comprendere il più compiutamente possibile: purtroppo, non tutti i respon-sabili – politici, economici, finanziarî e sociali – soprattutto in Occidente se ne erano resi conto tempestivamente. Da questa colpevole sottovalutazione che, poi, proprio nel nostro Paese ha raggiunto livelli del tutto incompren-sibili, non poteva non discendere una maggiore impreparazione, per noi, nell’affrontarne positivamente le conseguenze.

Omettendo, in questa sede, di con-siderare come ciò abbia potuto influire sui rapporti economici internazionali e, ancor più, su una non tempestiva individuazione delle tendenze in atto e che già si manifestavano più che consi-stenti, qui vorrei soffermarmi, invece, sui fenomeni demografici e su quelli attrattivi per i flussi migratorî.

Per quanto riguarda i primi, solo lentamente ci si è accorti che, nello scenario internazionale, l’Italia ma-nifestava una sempre più accentuata tendenza al declino delle natalità, da una parte, ed all’accresciuta inciden-za delle classi di età più anziane. In sostanza, lo scenario che si veniva prospettando era quello di una società che avrebbe dovuto affrontare pro-blemi non facili per poter assicurare un corretto funzionamento dei settori economici e, contemporaneamente, soddisfacenti prestazioni da parte di tutti i servizî (scolastici, assistenziali, igienico-sanitarî e previdenziali).

Ciò ha determinato che, più ac-centuatamente in alcu-ne aree locali che non in altre, si sia dovuto lamentare perfino un deficit di forze-lavoro. E non si può nemmeno ignorare che, spesso, a determinare queste as-senze hanno contribuito, oltre ai già denunziati fenomeni demografici, anche comportamenti indotti da un processo di modernizzazione spesso solo apparente se non, al limite, del tutto contro-producente. Un processo esageratamente centra-to su spinti modelli di consumo, ai quali, in aggiunta, non sempre corrispondevano ade-guate risorse finanziarie per farvi fronte.

Un altro aspetto della solo apparente moder-nizzazione può essere facilmente colto nel fat-to che, nel miraggio di un’illusoria promozione sociale, spesso si è ri-nunziato in partenza a conseguire un’adeguata

LA FRETTA È CATTIVA CONSIGLIERA…Gilberto-Antonio Marselli

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e superiore formazione professionale per approdare, invece, ad un’illusoria qualificazione per attività non manuali, non sempre verificabile e spendibile proficuamente sul mercato del lavoro.

Una necessaria e sicura promozione sociale, da tutti giustamente richiesta ed auspicata, avrebbe presupposto l’apprestamento di strutture formative ed un rafforzamento di certi sistemi di valori che, invece, la nostra società ha troppo trascurato. Il risultato è stato l’abbandono progressivo ed irreversibi-le di alcune attività artigianali, dopo che già si era dovuto assistere ad un vero e proprio esodo dal settore primario (agricoltura, caccia e pesca).

Nel primo caso, il fenomeno non poteva non colpire particolarmente le aree industriali del Nord, a loro volta messe in difficoltà anche dall’accresciu-ta competitività con la quale fare i conti sui mercati internazionali; mentre, nel Sud, indeboliva quella rete di servizî indispensabili per rendere più civile la vita.

Nel secondo caso, molti settori tradizionali della nostra agricoltura hanno dovuto lamentare un’eccessiva carenza di mano d’opera, dando luo-go, anche al Nord, a quel vergognoso fenomeno del caporalato. Prima, quasi esclusiva macchia di disonore per le re-gioni meridionali, per cui veri e proprî schiavisti si frappongono tra domanda ed offerta di lavoro. Ora, purtroppo, le più frequenti vittime di questi mecca-nismi inaccettabili sono, per lo più, gli immigrati clandestini: sia quelli giunti avventurosamente in Italia e sia, quel che peggio, addirittura quelle donne condotte a forza nel nostro Paese con il miraggio di una vita ben diversa da quella alla quale, invece, vengono de-stinate, come tragicamente dimostrano le cronache.

Il combinato verificarsi di queste due generali tendenze non poteva non determinare quel complesso intreccio di problemi riconducibili, direttamente od indirettamente, ai flussi migratorî.

Forse, non a tutti è sufficientemente chiaro che, almeno da un decennio, anche gli italiani – e, soprattutto, i più giovani – hanno ripreso ad emigrare. Inizialmente, ciò interessava più gli studiosi che, per motivi i più diversi (ricerca scientifica, nell’impossibilità di poterla fare nei nostri laboratorî; frequenza di Corsi universitarî nel-l’ambito di programmi di scambio quali l’Erasmus, per l’Europa, o la Fullbri-ght, per gli Stati Uniti) hanno ritenuto

opportuno e conveniente acquisire nuove esperienze all’estero e, talvolta, vi si sono trasferiti anche più o meno definitivamente; successivamente, il fe-nomeno ha coinvolto anche coloro che, in possesso di un qualunque titolo di studio, nell’impossibilità di poterlo uti-lizzare in loco, hanno preferito spostar-si in altre aree (per lo più in Italia più che all’estero). In questo ultimo caso, purtroppo, spesso questa decisione ha comportato che la famiglia originaria continui a sostenerli finanziariamente a causa della persistente precarietà dei rapporti contrattuali e del sempre crescente costo della vita nelle località di destinazione. A stare ai risultati delle prime ricerche condotte su tale feno-meno, si tratta di cifre niente affatto trascurabili: ma, se è più o meno facile individuare le ripercussioni finanziarie ed i costi psicologici, ardua resta la valutazione del depauperamento in-dotto alle comunità di provenienza, per effetto della perdita di nuove energie che, almeno teoricamente, avrebbero potuto inserirsi più proficuamente nelle attività locali.

Per quanto riguarda, invece, i flussi immigratorî provenienti dall’estero, è indubbio che trattasi di un insieme di problemi troppo spesso erroneamente interpretati o sotto la negativa influenza di preconcette posizioni ideologiche e politiche o, ancor peggio, a seguito dell’esagerato risalto data dai mezzi di comunicazione ai fenomeni patolo-gici riconducibili a questo fenomeno. Tutto ciò fa sì che ogni soluzione fin qui prospettata non può che essere ritenuta manchevole, per questo o per quell’aspetto.

Si dovrebbe, invece, responsa-bilmente prendere atto che l’immi-grazione –e, purtroppo, sempre più massiccia – non potrà diminuire nel-l’immediato futuro.

È fin troppo chiaro che anche una più efficacia ed efficiente poli-tica di aiuti internazionali ai Paesi più poveri – soprattutto in Africa ed Asia – non potrà trattenere nei luoghi natî quanti – spinti dalle insostenibili condizioni di vita e, ancor più, dai mes-saggi ingannevoli, che li raggiungono, sulle idilliache condizioni di vita tra noi. Purtroppo, le immagini veicolate dai nostri mezzi di comunicazione di mas-sa, molto spesso ci presentano come il Paradiso terrestre, tutto votato ad un regime di vita acriticamente prigioniero del più inconsiderato consumismo.

Né si può ignorare che la no-

stra posizione geografica protesa nel Mediterraneo rappresenta, per molti, una facile – e più agevolmente raggiungibile – porta di ingresso alla più ampia Europa. Per molti di loro, l’arrivo nel nostro Paese non è altro se non un momento per raccogliere le idee (come orientarsi in una terra del tutto sconosciuta e differente) e le forze (fisiche e psicologiche) necessarie per un’ulteriore tratta del loro arduo percorso verso una nuova dignità: un viaggio periglioso, cominciato nelle zone di origine, reso sempre più duro ed ostico fino al raggiungimento delle nostre coste e spesso marchiato dalla stessa perdita della vita per molto occasionali compagni di viaggio. E se noi siamo una porta di ingresso ed un mero passaggio verso l’Europa, sarà necessario che in sede europea si decida, una buona volta, l’adozione di misure più adatte e concrete per meglio fronteggiare una tale emergenza che, ripeto, non potrà considerarsi limitata nel tempo.

Per quelli, poi, di questi immigrati che decideranno di fermarsi più a lungo tra noi dovremo, una buona volta per tutte, accettare l’idea che stiamo vera-mente procedendo alla costruzione di una società multietnica e multiculturale destinata a durare nel tempo.

Ben a ragione, molti paventano che ciò possa alterare irrevocabilmente i nostri caratteri distintivi dei quali, giustamente, dobbiamo continuare ad essere sempre gelosi custodi. Ma sarà anche opportuno prendere atto che questa esigenza non potrà mai fare astrazione dai termini concreti nei quali il fenomeno si presenta: immigrazioni sempre più numerose e persistenti nel tempo, destinate a fermarsi a lungo tra noi (forse, perfino definitivamente), candidate a divenire parte integrante della nostra realtà.

È vero ed è giusto che da esse dovre-mo sempre legittimamente pretendere il più assoluto rispetto delle nostre leggi, delle norme di convivenza e delle nostre abitudini e dei nostri costumi; ma, proprio per questo, dobbiamo esse-re disposti anche ad agire attivamente –e non solo passivamente – perché ciò possa realizzarsi compitamente. Per questo motivo, sono da tempo contrario a puntare ogni sforzo perché possa aversi una loro integrazione nella nostra società.

Infatti, questo termine implica il dar corso ad un’operazione a senso uni-co, in una sola direzione: i nuovi venuti,

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anche se opportunamente assistiti, devono loro – e solo loro! – adeguarsi a noi. Mi piacerebbe di più, invece, che, da entrambe le parti, siano posti in essere tutti i mezzi perché possa aversi una reale ed effettiva intera-zione: nel senso, cioè, che tutti – noi e loro – cercassimo, in ogni modo possibile, di interagire sempre, al fine di conseguire, sia pure gradualmente, la più completa e reciproca conoscenza possibile, tale da condurci tutti ad una reale comprensione.

Una comprensione che non dovrà mai essere offuscata dalla sia pur mi-nima diffidenza o dal sospetto che non possa mai conseguirsi totalmente: che non si fermi mai agli aspetti esteriori e formali, ma aspiri sempre più a co-glierne, nella realtà quotidiana, tutti gli aspetti utili ad assicurare un’effettiva comunicazione dialogica. In sostanza, una comprensione siffatta da assicurare che, insieme, si possa attingere a sem-pre superiori livelli di benessere sociale, economico e culturale collettivo ed individuale. Interazione non dovrà mai significare totale ripudio delle proprie radici, né totale omologazione ai valori e simboli dominanti, né inaccettabili di-sagi provocati dalla sensazione che altri possano giudicare non positivamente l’essere diversi.

Sarebbe tempo, ormai, che ci si convincesse della ricchezza rappre-sentata da diversità vissute lealmente ed altrettanto lealmente proposte al confronto con le altre: è da questo, infatti, che possono trarsi i più efficaci stimoli per un continuo adeguamento della cultura collettiva come anche di quella dei singoli, in epoche storiche così dinamiche come l’attuale.

So bene che trattasi di un processo lungo, pieno di ostacoli e di traboc-chetti, esposto alle mille tentazioni, specialmente in presenza di inaccetta-bili massimalismi che, non raramente, sfociano in azioni terroristiche mai troppo aborrite e respinte. Proprio per queste difficoltà, non si potrà non procedere che a tappe: sia pure forzate, ma sempre culturalmente rifacentesi ad un programma ben delineato nelle sue linee generali e tali da consentire un logico passaggio dalla fase della programmazione a quella della piani-ficazione e, infine, all’attuazione vera e propria.

Come accade sempre più spesso, nell’iter che lega tra loro questi mo-menti importanti del processo da in-nescare, si può dar luogo anche ad una

vera e propria contrattazione, ai varî livelli, con i protagonisti dell’intervento sempre nella speranza che questa non finisca, poi, per stravolgere lo stesso intervento. Ed è fin troppo evidente che, ogni qualvolta ci si decida a dar vita ad un qualunque tipo di contrattazione, si renda indispensabile una preventiva fissazione dei criteri da seguire e dei limiti ritenuti indifferibilmente insu-perabili.

In tutte queste quattro fasi – pro-grammazione, pianificazione, contrat-tazione ed attuazione – sarà sempre necessario che sull’interesse del singolo o di questa od altra istituzione (Partiti politici, Chiesa, Enti nazionali e terri-toriali, Associazioni e lo stesso volon-tariato) prevalgano sempre i seguenti obiettivi irrinunciabili:a. totale raggiungimento dei fini fon-

damentali proprî dell’intervento, caso mai anche accettando leggere variazioni nei ritmi e nelle modalità di attuazione, senza, però, mai ce-dere alla tentazione di ricorrere a radicali variazioni, che, in sostanza, ne potrebbero alterare la stessa natura;

b. continuo monitoraggio dell’intero processo, in ogni sua fase, sì da poter più agevolmente far ricorso a tutti quegli accorgimenti necessari per non distaccarsi troppo dalle meta prescelta;

c. periodico censimento dello stato di fatto al fine di individuare la con-sequenzialità tra obiettivi e realtà concreta in perenne mutamento: in altri termini, essere pienamente consapevoli che si tratterà sempre di processi dinamici. Il recente caso propostici dalla

scuola araba di via Ventura a Milano è, purtroppo, la dimostrazione che siamo ancora ben lontani da quel clima finora da me auspicato.

Gli organizzatori di quella iniziativa, forse spinti dal legittimo desiderio che i proprî ragazzi continuino a nutrirsi delle proprie radici originarie, hanno sicuramente persa un’eccellente occa-sione per cercare di imboccare, insieme con le nostre istituzioni, un percorso più efficace. Si tratta di giovani che, presumibilmente, non ritorneranno certo troppo presto nei Paesi di origine, ma, anzi, dovranno sempre più inserirsi nella cultura italiana o, addirittura, europea.

Dal canto loro, è inconcepibile che le nostre istituzioni, temendo che simili iniziative possano presentare rischi di

contaminazione ideologica, si arrocchi-no pretestuosamente dietro il mancato rispetto di alcune formalità: mancanza di permessi e di autorizzazioni o non completo adeguamento alle norme vi-genti, spesso anche di difficile completa interpretazioni da parte delle nostre stesse istituzioni. Senza contare, infi-ne, che il nostro ordinamento prevede esplicitamente l’operatività, a fianco di quelle italiane, anche si scuole straniere o confessionali.

Così come è inaccettabile che, a difesa della posizione assunta dalle autorità italiane, si invochi la mancata reciprocità, sullo stesso piano, da par-te di quei Paesi. Non perché non sia corretto attestarsi sul rispetto di certe formalità previste dal Diritto interna-zionale; ma perché, proprio nell’ottica dell’obiettivo che vogliamo perseguire, deve interessarci più la riaffermazione dei valori fondamentali della civiltà occidentale che non l’anodina prassi diplomatica.

Sarebbe, piuttosto, più proficuo impegnarci perché, nel caso della for-mazione dei futuri cittadini permanenti e transitorî del nostro Paese, ci si occupi maggiormente, e più seriamente che in passato, di fare in modo perché a tutti – italiani e stranieri – vengano forniti tutti gli elementi utili per in-staurare reali rapporti di reciproca comprensione. Naturalmente, ciò non potrà mai voler dire un radicale stravolgimento del nostro ordina-mento o, peggio, un’attenuazione del doveroso rispetto delle nostre norme di convivenza, prodotte da un regime parlamentare democratico saldamente inserito nell’ormai consolidata tradizio-ne occidentale.

Ma perché ciò possa attuarsi è necessario che si cominci ad operare proprio a livello di quei nostri opera-tori – burocrati nazionali e periferici, formatori ai diversi livelli, addetti ai Servizî sociali ed assistenziali – ven-gano addestrati ad adempiere compiu-tamente le sempre nuove e crescenti richieste provenienti da un società multiculturale, spesso anche multiet-nica. Un’impresa non da poco ma che, proprio per la sua complessità e deli-catezza, richiede che vi si ponga mano al più presto, indipendentemente dal colore politico del Governo in carica.

Infatti, o ci si adegua responsa-bilmente e liberamente ai mutamenti in atto a livello globale o si rinunzia a continuare a svolgere quel compito che, per secoli, è stato proprio del

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“Ma cosa stavo pensando prima di perdermi a guardare…?” Parte da questa frase di Fernando Pessoa la “Lectio magistralis” di Mimmo Jodice in occasione della Laurea Honoris Causa che la facoltà di Architettura dell’Uni-versità degli Studi di Napoli ha deciso di tributargli. È una frase che descrive un atteggiamento che gli è ricorrente: il perdersi a guardare, lo smarrirsi in una dimensione senza fine, in continuo conflitto con una realtà nella quale la capacità di guardare diviene sempre più sfuggente e ciascuno è costretto ad un rapporto veloce e superficiale con il circostante, perdendo così la possibilità dell’osservazione e della riflessione. Parla di “inquinamento visivo”, Mimmo Jodice, che invade e offende la nostra vita, e che riduce la capacità di ciascu-no di “vedere”, costringendoci ad una visione “bassa” del labirinto urbano. La pratica della fotografia ha invece sviluppato in lui proprio la capacità di usare uno sguardo lento per capire, ri-cordare, emozionarsi, vedere, osservare e riflettere…

Mimmo Jodice si avvicina all’arte negli anni ’50, quando da appassionato autodidatta inizia a frequentare gli ambienti dell’Accademia di Belle Arti di Napoli. Dopo le prime esperienze con la pittura e la scultura, sotto l’influenza di De Pisis e Viani, all’inizio degli anni ’60 si avvicina alla fotografia, grazie anche alla conoscenza con il pittore e fotografo Giovanni Thermes. Figura importante per la sua formazione è anche quella del pittore Emilio Notte.

L’incontro con la fotografia cambierà la sua vita. Fino ad allora emarginata dalle politiche culturali e confinata in quella zona nebulosa definita “arti minori”, negli anni sessanta essa in-cominciò ad emergere e a confermarsi come nuovo codice espressivo, deter-minando entusiasmo e partecipazione. In questo clima e con questo bisogno di rinnovamento Jodice realizza le sue prime esperienze, sovvertendo il concetto di fotografia come “specchio della realtà” e avventurandosi in una ricerca approfondita volta a verificare tutte le possibilità espressive del lin-guaggio, sia dal punto di vista tecnico che linguistico. Partendo da questa base, negli anni successivi egli ha praticato

in maniera trasversale i diversi generi della fotografia: dal ritratto all’indagine sociale, dal paesaggio urbano alla natura e all’architettura, imprimendo sempre, in ogni lavoro, la sua visione e le sue convinzioni. Successivamente il suo in-teresse per l’architettura lo ha portato a rapporti di conoscenza e collaborazione con alcuni dei più importanti maestri dell’architettura contemporanea, in Italia e fuori, da cui poi è maturata l’idea di raccontare per immagini alcune città significative: Parigi, Tokyo, New York, Mosca, San Paolo. Questi lavori sono diventati mostre e libri che rappresen-tano un’indagine sull’identità dei luoghi, ma anche pura “narrazione” secondo la maniera dell’artista, cercando di mostra-re la coincidenza tra realtà e visione, in una dimensione irreale e metafisica che trae ispirazione da maestri dell’arte figu-rativa quali De Chirico, Sironi, Magritte e Delveaux. Da fotografo di paesaggi urbani, Mimmo Jodice, come afferma l’urbanista Stefano Boeri, autore dell’in-troduzione al libro di Jodice “Città visi-bili”, guarda in faccia “senza ossessioni autoreferenziali e preoccupazioni di mercato, la stravagante e imprevedibile fattura dei paesaggi urbani”. Egli parte dalla libera scelta di un tema, dopo-dichè la sua ricerca visiva non ha altri freni o vincoli, e ciononostante giunge a ritratti di città “necessari e precisi … senza bisogno di elucubrazioni o esibiti virtuosismi”.

Ma la narrazione del paesaggio urbano in Mimmo Jodice è soprattutto Napoli, la città in cui è nato, e dove ha scelto di vivere e lavorare, grande pro-tagonista del libro “Vedute di Napoli”, del 1980, che contribuisce a fornire una nuova visione del tessuto urbano e della sua architettura. Se è vero che, come afferma ancora Boeri, ogni grande fotografo si porta dentro una propria città interna, nel caso di Mimmo Jodice, certamente la città è Napoli.

La ricerca di Mimmo Jodice sul-l’architettura viene oggi riconosciuta al livello più alto e più adeguato, con il conferimento, il prossimo 16 novembre, della Laurea Honoris Causa in Architet-tura, nell’Aula Magna Storica dell’Uni-versità di Napoli Federico II. L’Ateneo federiciano è da sempre molto attento nel conferire lauree honoris causa, come

LE OPERE D I MIMMO JOD ICEPROGETTI DI LUOGHI DELLA MENTE

Cetti Capuano

Laurea honoris causa in architettura al fotografo napoletano

Sguardi

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sottolinea il rettore Guido Trombetti. “Tale riconoscimento” afferma “viene assegnato solo a figure di alta levatura che con la loro attività abbiano recato significativi contributi al progresso ed alla diffusione della conoscenza”. Il pre-stigioso riconoscimento a Mimmo Jodi-ce, è un tributo che l’ateneo napoletano ha scelto di conferirgli perché quello di architetto “è un titolo che egli ha acquisi-to con l’esperienza sul campo, maturata nel corso di una lunga ed appassionata ricerca sull’architettura”, come afferma Benedetto Gravagnuolo, preside della Facoltà di Architettura, secondo il quale le fotografie di Mimmo Jodice “non rappresentano i luoghi trovati, ma sono progetti di luoghi mentali”. Ed è lo stes-so Jodice ad ribadire questo concetto, quando afferma: “Tutti i miei lavori sono frutto di osservazioni e riflessioni che si concretizzano in progetti”.

La laurea Honoris Causa in Architet-tura rappresenta un ulteriore prestigioso tassello nel mosaico di una carriera già ricca di riconoscimenti a livello nazionale ed internazionale. Nel 1995 il Philadelphia Museum of Art dedica a lui la grande mostra “Mediterraneo” ed un libro, frutto dell’ approfondita ricerca sul mito del Mediterraneo intrapreso sin dal 1985. Successivamente egli espone in numerosi musei nazionali e stranieri. Nel 2001 la Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino gli dedica una importante retrospettiva, accompagnata da un catalogo curato da Piergiovanni Castagnaoli. L’Accademia dei Lincei, nel 2003 gli conferisce il prestigioso premio “Antonio Feltrinelli”, e a partire dallo stesso anno il suo nome è inserito all’interno dell’Enciclopedia Treccani.

L’ultima mostra è del 2006, alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna.

Dopo la cerimonia di laurea, sempre il 16 novembre prossimo, alla Biblioteca Nazionale del Palazzo Reale di Napoli, Mimmo Jodice presenterà il libro “Città Visibili”, introdotto da Stefano Boeri e Pier Giovanni Castagnoli, edito da Charta Edizioni. A seguire, nella Sala Dorica, sempre a Palazzo Reale, sarà inaugurata una mostra dallo stesso tito-lo. Composta da 50 fotografie in bianco e nero di grandi dimensioni, la mostra consiste in una lettura intrecciata di otto città emblematiche: Roma, Parigi, Mosca, Boston, San Paolo, Tokyo, New York, Napoli. Una sorta di selezione dell’indagine sull’architettura svolta da Jodice in un periodo di tempo che va dal 1986 al 2006, e che più che mai lo conferma Architetto.

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Sono innumerevoli gli oggetti culturali smarriti della civiltà europea, autentici tesori perduti

in cui risiedono le radici del-l’identità occidentale e a cui si è costretti a guardare da lontano, a volte con la nostalgia strug-gente di un sogno inappagato, altre con il desiderio inespresso di un mito irraggiungibile. Tali Omero, Don Giovanni, Don Chisciotte, simulacri di proie-zioni simboliche mai interamen-te o fino in fondo dominate da alcuna prospettiva di studio, se non parziale, e da alcuna ri-scrittura artistica, incontenibili in confini certi e rassicuranti e, pertanto, inesauribili. Mito fon-dativo della cultura performati-va italiana ed europea, ‘classico’ perduto del teatro, Arlecchino sembra essere uno straordina-rio personaggio teatrale, in cui si sono sedimentate pratiche rituali e spettacolari di assoluta importanza per definire i tratti pertinenti della civiltà artistica spettacolare europea. Oggetto fascinoso, poliedrico e inaffer-rabile al pari di tutti i classici o di tutte le Atlantidi, la maschera esce dalla mitografia e dal colpe-vole oblio storico grazie all’ac-curato e appassionato studio di Siro Ferrone, Arlecchino. Vita e avventure di Tristano Martinelli attore, pubblicato a inizio del-l’anno da Laterza, nella collana «Storia e società».

L’autore, affermato stori-co del teatro, ha il merito di ricostruire per la prima volta

un’invenzione spettacolare confermata da una plurisecolare tradizione, che si propaga dagli anni Ottanta del Cinquecento fino ai nostri giorni. Nel periodo cruciale fra il XVI e il XVII seco-lo, in un’Europa divisa e trava-gliata i mantovani Martinelli e il fratello Drusiano portarono ovunque l’arte comica italiana e sciolsero il cuore inos-sidabile dei potenti con l’intelligenza reattiva e im-prevedibile degli uomini di spettacolo. Avventurieri e mercanti, ebbero il me-rito di ven-dere se non il principale, di sicuro il più originale made in Italy, un’arte im-materiale che divenne gra-zie ai Marti-nelli e ai loro compagni un bene ricercato da ogni corte e in ogni pae-se europeo. Nella trama avvincente del racconto di Ferrone si comprende come la forza di Martinelli sia la forza

dell’energia comica, che tra-sudava dal corpo ‘esplosivo’, dalle parole creative, dalla vi-vacità fisica e mentale del suo possessore.

Con assoluta maestria l’Au-tore insegue l’invenzione di Arlecchino, in un racconto bio-grafico in cui sono sedimentati studi e ricerche compiuti nel corso di molti anni (del 1986 è il primo scritto dedicato all’ar-gomento: Arlecchino rapito, ap-parso in un volume miscellaneo; del 1993 la sua rivisitazione e approfondimento nel volume dedicato dallo stesso studioso alla commedia dell’Arte, Attori mercanti corsari, uscito presso Einaudi), nel quale ricorre e si

Libri

LO STUDIO DI SIRO FERRONE

ARLECCHINO: UN CLASSICO DEL TEATRO EUROPEO

Teresa Megale

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avvale di innumerevoli docu-menti. La corrispondenza con i regnanti europei, la straordina-ria serie di incisioni, nota come Recueil Fossard, lo studio delle Compositions de Rhetorique, libro parodico scritto da Martinelli con il quale nel 1601 metteva in berlina la cultura ufficiale fran-cese, i testi di alcune commedie, tra cui quelle di Giovan Battista Andreini, il ritrovamento di di-pinti riproducenti le fattezze del personaggio storico, sono prove parziali dell’imponente impe-gno di raccolta e di ermeneutica delle fonti discusse nel volume, che rinuncia alla questione irri-solvibile, e pertanto sterile, delle origini di Arlecchino, o peggio,

del suo costume, per concentrasi sulla biografia storica del primo interprete dell’immortale per-sonaggio. Sotto il profilo com-positivo, la monografia coincide con una sorta di sceneggiatura documentata della vita di un attore straordinario, Tristano Martinelli, che, munito del solo talento comico, esportò per pri-mo in Europa un corpo e una lingua arlecchineschi destinati a divenire la koiné della spettacola-rità italiana nel mondo, il model-lo comico per eccellenza insieme con quello, coevo, personificato dalla maschera di Pulcinella, e – al contempo – l’aspirazione ad una teatralità italiana da am-mirare e da sognare perché irri-

producibile in altri luoghi e in altre civiltà. Senza mai al-lontanarsi dai reperti storici e dalla prove inconfutabili dell’esisten-za di Trista-no-Arlecchi-no, l’autore sceglie un ac-cattivante sti-le narrativo, ed in tal modo sperimenta un modo nuovo, non saggisti-co, di scrivere la storia del teatro e del-lo spettacolo, fondato sul possesso sicu-ro delle fonti archivistiche e sulla loro piena assimi-lazione. Fer-rone insegue l’affascinante biografia del primo Arlec-chino noto alla storia e

dei suoi innumerevoli compa-gni di viaggio senza cedere ad alcuna lusinga, se non a quella, necessaria alla definizione del contesto di ogni sceneggiatura, di ricreare le ambientazioni pae-saggistiche. Nel libro i dettagli geografici si ampliano e si allar-gano: le strade incerte e difficili sono sempre meticolosamente segnate, così come i quartieri di Anversa o di Parigi.

L’inizio ha qualche assonan-za manzoniana: «A circa dodici miglia da Mantova, sulla riva si-nistra del fiume Oglio, al confine meridionale del ducato dei Gon-zaga, sorgeva fin dal Medioevo il castello di Marcaria: tutt’intorno e sull’argine del fiume erano disseminate le case degli abi-tanti, qualche mulino ad acqua, la sede del vicariato». L’autore cattura il lettore nel paesaggio urbano affollato e disordinato delle metropoli europee di fine Cinquecento e lo conduce così lungo l’itinerario teatrale e men-tale di Arlecchino e compagni. Si potrebbe scorgere nel volume la traccia di un doppio viaggio: i viaggi di Tristano-Arlecchino, alla ricerca della propria identità di attore e i viaggi dei comici dell’Arte, colti nel momento della sua massima diffusione ed espressione, oltre a quello, inevi-tabile, che compie il lettore che si avventura fra le ricchissime pagine del libro laterziano.

L’Arlecchino di Ferrone è l’epi-tome di un fenomeno di ampia portata, il fenomeno del profes-sionismo attorico, studiato nel momento, difficile e delicato, della sua formazione e della sua sperimentazione.

La vita e la carriera artistica del mantovano Martinelli ven-gono ricostruite con dovizia di particolari minuti, messi insieme in anni di ricerca storica svolti negli archivi di mezza Europa, da Mantova a Lione, da Anversa a Parigi, da Madrid a Londra, una ricerca resa ancora più difficile e

Libri

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Enzo Giustino, imprendi-tore abile e lungimiran-te, ma anche intellet-tuale e meridionalista

convinto, da sempre impegnato in prima linea per lo sviluppo e il rilancio di Napoli e del Mez-zogiorno, è oggi il curatore del progetto “Gli assi portanti”, “Le radici e il domani”, sedici libri di facile consultazione, con un volume di premessa dal titolo “Competitività territoriale in Campania”, pubblicati con il sostegno del Sanpaolo Imi. Il libro introduttivo si avvale della presentazione di Antonio Bassolino.

I capitoli sono: “Le motivazio-ni” di Enzo Giustino, “Il quadro di riferimento per lo sviluppo dell’economia e della finanza”, di Alfonso Iozzo, “Federalismo fiscale e fiscalità di vantaggio” di Adriano Giannola; “La Cam-pania nel contesto euromediter-raneo – Un’esperienza di mul-ticulturalismo ante-litteram: il caso dell’identità campana”, conversazione di Ivano Russo con Fulvio Tessitore; “Mediterraneo: dal mito dell’unità alla realtà della frattura” di Lida Viganoni; “I rapporti culturali, istituzionali, sociali ed economici tra i Paesi dell’europartenariato” di Paolo Nicoletti; “Imprese italiane: i veri ponti del Mediterraneo” di Vincenzo Boccia. Vivo apprez-zamento esprime il governatore della Regione Campania “per questo importante lavoro di ricerca e di analisi, promosso dall’Associazione Alfredo Guida Amici del Libro Onlus. Il lettore

troverà in questa pubblicazione un quadro aggiornato e appro-fondito della Campania, vista da molteplici punti di vista. La giu-sta scelta di articolare l’analisi in due grandi campi d’indagine consente di approfondire, con-testualmente molte diverse dimensioni dell’identità della nostra regione: dalla storia, alle infrastrutture, dalla cultu-ra all’ambiente, dall’economia alle vocazioni dei territori e alle prospettive di sviluppo. Si tratta di un intenso lavoro di analisi e di ricerca che ha inoltre il merito di riunire una parte consistente delle migliori energie intellettuali della nostra regione attraverso i contributi di esponenti del mondo universitario e di per-sonalità impegnate in prima persona nel contesto economi-co, istituzionale e sociale della Campania”. Puntare sul tema della competitività territoria-le significa guardare al suo futuro, in chiave nazionale, mediterranea, europea.

“Il progetto sulla Compe-titività territoriale. La Campa-nia”, spiega Giustino, nacque con il proposito di dar vita a una sorta di minienciclopedia. Quei volumi non volevano essere, come non sono, dei trattati, ma dei libri snelli, di facile e piacevole lettura, im-postati come se si trattasse di un racconto. Con lo scopo di far conoscere le “fonti” della competitività alla maggior parte dei cittadini, ai giovani in special modo, ponendone in

risalto l’importanza e la comples-sità, ma rendendole comunque di agevole comprensione specie per i non esperti. I libri chiariscono in particolare il rapporto prope-deutico e funzionale degli “assi” e delle “radici” con lo sviluppo senza aggettivi, implicitamente con l’occupazione, la redditività, la qualità della vita, il progres-so civile, il benessere sociale. L’iniziativa di pubblicare questa raccolta è stata assunta con l’am-bizione di fornire un contributo

IL PROGETTO DELL’EDITORE MARIO GUIDA

“GLI ASSI PORTANTI” LE RADICI E IL DOMANI

Maresa Galli

Libri

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per una migliore consapevolezza da parte della società campana su questi temi. Soprattutto oggi che le Regioni meridionali, in forza dei poteri e delle competenze di cui dispongono, sono chiamate ad assumersi la maggior parte della responsabilità nell’affrontare le moderne sfide nella nuova Euro-pa e con l’Europa nel Mediterra-neo, in un mondo globalizzato”.

Ma la costruzione del futuro del Sud non può essere frutto solo di responsabilità politiche

e istituzionali. Il Ministro per l’Economia, Tommaso Padoa Schioppa, sulle pagine de “L’In-dustria”, ha affermato che:“Ciò che cresce, prima ancora del-l’economia, è la Società. La cre-scita è una dinamica sociale, ancor prima che industriale, produttiva, commerciale; è un fatto della società e come tale va vista e interpretata”. Perché dunque parlare di potenzialità, risorse, di radici e futuro della Campania?

Quando parlano di identità, lombardi, piemontesi, siciliani, la identificano con la regione. I cittadini della Campania, inve-ce, più della regione “sentono” l’appartenenza alla propria città. Anche studiosi stranieri, come Julius Beloch, hanno sostenuto la tesi secondo la quale “la Campania non ha mai costituito un complesso politi-camente omogeneo; per questa ragione non si può parlare di un confine geografico ben deter-minato”. Le sue diverse radici le hanno impedito di assumere una propria identità basata su interessi comuni, su un destino comune. E Napoli, dal canto suo, aspira sempre a diventare “centro sovraregionale, sebbe-ne in progressiva crisi”, come sottolineato da Macry e Villani. Vi sono anche questi motivi, storici e culturali, alla basse del fatto che la Campania tarda a

definire un proprio assetto terri-toriale ed un piano di sviluppo. Tuttavia, in prospettiva, esistono speranze; il “collante” per ricono-scersi appartenenti ad un’unica realtà socio-economica è dato oggi dalla territorialità istituzio-nale (Regione Campania).

Gli Assi Portanti, fondamenta-li per la conoscenza, sono dunque, nella collana Guida “L’energia”, di Federico Rossi; “L’acqua” di Giuliano Cannata, “I trasporti” di Ugo Leone con un’intervista ad Ennio Cascetta; “Il mare” di Ernesto Mazzetti; “La ricerca e l’innovazione” di Luigi Nicolais e Giuseppe Festinese; “I giovani” di Enrica Amaturo e Lello Savonar-do; “L’efficienza burocratica e am-ministrativa” di Bruno Carapella e Riccardo Mercurio; “La sicurez-za ambientale” di Ugo Leone. “La conoscenza della realtà – afferma Giustino – è il substrato dal quale bisogna necessariamente parti-re per capire e affrontare ogni aspetto problematico della nostra società. I giovani, approfondendo il patrimonio storico, culturale, sociale ed economico della loro regione, diventano veri protago-nisti nel processo di sviluppo per la crescita del paese”.

Sappiamo poco e quel poco è spesso distorto: ad esempio, pochi sanno che l’Italia importa l’80% dell’energia e che sprechiamo il 50% dell’acqua o la utilizziamo male. Risorse da valorizzare, per un patrimonio che ha grande potenziale e dalla cui gestione dipende il futuro in un’ottica di sviluppo socioeconomico e istitu-zionale. Per competere in Europa, attrarre investimenti e assumere un ruolo chiave nel Mediterra-neo, occorre un salto qualitativo, un cambio di mentalità. Troppo spesso la soluzione ai problemi non arriva o arriva tardi per scar-sa consapevolezza delle sfide da affrontare e da vincere.

La sola politica non può esse-

re la risposta, perché occorrono il consenso e la partecipazione attiva dei cittadini. Cristiana Coppola, presidente di Confin-dustria Campania, intervenuta al convegno della presentazione dei volumi nella sede del Banco di Napoli, ha sottolineato come l’immagine negativa della regio-ne in termini di sicurezza e am-biente gravi sugli imprenditori come un’imposta patrimoniale. Per rilanciare la competitività in Campania servono misure quali l’attuazione di zone franche, la fiscalità di vantaggio, infrastrut-ture, sicurezza ma, soprattutto, la capacità di “fare sistema”. “La competitività di sistema nasce dall’esigenza di coniugare la competitività propria delle azien-de – cioè la capacità di sostenere la concorrenza sui mercati – con una combinazione ottimale di tutto il complesso delle condizio-ni ambientali, fisiche, normative e burocratico-amministrative, all’interno delle quali l’economia in generale opera; è quello che oggi chiamiamo “competitività territoriale”. “Competitività di sistema”, dunque, che assorbe, arricchisce e valorizza l’efficien-za aziendale, mediante l’apporto di un “valore aggiunto” costi-tuito dalle cosiddette economie esterne. Ciò che direttamente o meno influenza l’economia in senso ampio, ma che incide positivamente anche su quello che è funzionale a determinare i migliori standard di “qualità della vita”.

“Le radici e il domani” del territorio sono racchiusi negli altri volumi dedicati a Storia sociale e politica; Storia religiosa; Tra-dizione e strutture scientifiche; Beni culturali; Beni ambientali; Economia; Emigrazione e immi-grazione; Cultura e media.

La finalità della pubblicazione, spiega il curatore, è quella di farla adottare nelle scuole. “I nostri giovani sono ricettivi, intelligen-ti – sostiene Giustino – penso al progetto di Guida “Leggiamoci

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Furono trecento le copie di “Minuetto Settecento”, il primo libro in stampa datato 1883 di un venti-

treenne Salvatore Di Giacomo, inviato speranzosamente ad un certo Antonio Fogazzaro e trecento, guarda il caso, sono, oggi, le copie di “Napoli miele e fiele” il volumetto di poesie in lingua napoletana che l’illustre commediografo col diletto del

canto, della chitarra e della poe-sia, Manlio Santanelli, ha voluto scrivere ispirandosi alla lirica di quello stesso, novelliere, croni-sta, scrittore e poeta, autore di poesie come “Pianefforte ‘e not-te” (tra le prime opere dialettali ad essere inserite nelle antologie scolastiche italiane) di saggi eruditi come “La prostituzione in Napoli” e di drammi senza tempo come “Assunta Spina”.

Ancora, continuando nella ricerca di curiose analogie, l’estimatore digiacomiano più attento non potrà fare a meno di sussultare nel leggere, nel-l’ultima pagina del delizioso libricino, inneggiante per stile e legatura alle maniere di una Napoli romantica Fin de siècle, che quando il lavoro è stato impresso “era di maggio”. Si, maggio…proprio come il cele-bre mese dell’anno citato nella poesia del cantore Di Giacomo, musicata dal maestro Costa, dove “li ccerase rosse” ancora cadevano “a schiocche a schioc-che” sulle ginocchia (nzino) di una innamorata canterina in un giardino che odorava di rose a cento passi. Ebbene, nonostante il nostro Santanelli, affermato ed osannato autore di quella Nuo-va Drammaturgia Napoletana che proprio grazie a lui può fregiarsi di alcune delle sue mi-gliori pagine andate in giro per il mondo, sia nato esattamente quattro anni dopo la scomparsa del grande poeta, qualcosa del timido ed erudito don Salvatore deve essere comunque entrato a far parte del suo essere più profondo fino a manifestarsi, in età matura, con una raccolta di poesie che, pur ripercorrendo volutamente la ricerca, lettera-ria, stilistica e metrica del gran-de autore minimisticamente detto di “Marechiaro”, rilascia nell’anima dei lettori di una Napoli moderna, non certo più romantica e dall’aria “fresca e fina”, l’essenza benefica di una lirica capace, tra una rima e l’altra, di denunciare, di incan-tare ed ancora, di far sorridere e sognare.

E così, la poesia napoletana che parve morire definitivamen-te insieme allo stesso Salvatore Di Giacomo nelle prime ore del 5 aprile del 1934 oggi, con Manlio Santanelli ed il suo coraggioso libro di versi “Napoli miele

NAPOLI MIELE E FIELECON IL LIBRO DI VERSI DI MANLIO SANTANELLI

LA POESIA NAPOLETANA SEMBRA ESSERE ANCORA PRODIGIOSAMENTE VIVA

Giuseppe Giorgio

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e fiele” edito da “Il Girasole” di Angelo Scandurra, sembra essere ancora prodigiosamente viva. Dedicato all’insigne e com-pianto docente dell’Università Federico II, Antonio Palermo (quasi ad emulare lo stesso ge-sto che Di Giacomo nel suo libro di poesie fece per Benedetto Croce, almeno, fino a quando, il timore per l’incombente fa-scismo, notoriamente contro le

idee del filosofo, non gli facesse cambiare idea) il volume ha la stessa efficacia di una prodi-giosa e stravagante macchina del tempo che pur proiettando il lettore in una Napoli ancora scritta con “termini scìvete e cianciuse” e con “inchiostro odiroso” non indugia nell’in-terporre tra i musicali versi, le malefatte e le assurdità di un burrascoso presente. Parlando,

del “Signor Poeta” Santanelli, tuttavia, occorre subito precisa-re che non si tratta di un novello verseggiatore dal cassetto stra-colmo di anacronistiche poesie ispirate al solito mare, al sole ed alle immancabili “Marie” tenta-trici ed ancora, che non si tratta nemmeno del solito attempato nostalgico che mentre si asciuga struggenti lacrime di passione, torna a cercare rime per una

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Napoli da cartolina ingiallita. Si tratta invece di un geniale commediografo capace di tra-mandare alla storia del teatro te-sti come “Uscita d’emergenza” e “Regina Madre”, indiscusse perle del panorama teatrale europeo che, in punta di piedi, si diletta a fare il poeta proprio come colui che, tra festose Pie-digrotte, antiche “Fenestelle a Marechiaro”, settecenteschi ed immaginari diverbi tra il mu-sicista Cimarosa e la sua serva, incantate immagini di procaci “Donn’Amalia ‘a Speranzella”, bambini morenti che elargi-scono “vasilli” (baci), bande di poveri affamati che trovano il paradiso a bordo di una magi-ca “mappata” diretta verso il cielo e romantiche frittate che in una scomparsa “tavernella” ad Antignano si raffreddano nel piatto di innamorati incantati, seppe elevare la poesia napo-letana a livello internazionale. Ed ecco allora che, quasi mi-racolosamente, insinuandosi nell’ombra lasciata dallo stesso poeta ancora incantato a pen-sare alla finestra di un vico che dorme sulla “nonna nonna ‘e nu mutivo antico” scaturita da un pianoforte che suona di notte, Manlio Santanelli, mette in versi con fare intimistico ed a tratti umoristico le sue “parole d’ammore scuntento” per una Napoli che ride e che piange in-sieme alla sue amate donne ora pettegole e violente, ora dolci ed ansimanti.

Acuto nell’indagare, ora com-mosso ed incredulo, ora ironico e romantico, Santanelli con le sue poesie dal piacevole sapore volu-tamente digiacomiano come “‘O Sacrestano”, “‘O Pertuso”, “ ‘ A culata”, “‘E femmene pittate”, “Il coltello”, “ ‘O Teatro” e “Chi va e chi resta”, sembra immortalare, proprio come avrebbero fatto con le loro audaci pennellate pittori del calibro di Migliaro, Dalbono e Scoppetta, gli uomini,

le passioni e gli eventi che ogni giorno, nel bene e nel male ani-mano questa nostra sofferente e tuttavia sorridente città. Proprio come quello del mancato Senato-re Salvatore di Giacomo, il “ben formato cuore” di Santanelli, sembra pulsare d’umana pietà per le creature che soffrono e per le ingiustizie subite da un popo-lo abituato a patire ed ancora, sembra scandire, tra un battito e l’altro, il tempo di un artista che nel suo giocoso pellegrinaggio poetico prova a descrivere tra lacrime e sorrisi, tra rose e spine, tra altari e fango, la vita quotidia-na di una metropoli in affanno che memore del suo passato fatto di regnanti, filosofi e scrittori, sospira e canta con la speranza nel cuore.

E così, tra il dolce del “miele” e l’amaro del “fiele” citati nel titolo del suo libro di poesie, Santanelli conferma l’antica tesi secondo cui non si può cono-scere Napoli se non attraverso i suoi poeti. Quella stessa Napoli che ancora oggi, respirando, soffrendo e ridendo nelle rime di questo giovane fanciullo di sessantotto anni malato di poe-sia, si piega ai versi che simulano tempi ora lontani e felici ora tri-sti e beffardamente attuali. Nella sua raccolta di poesie, insomma, così come nel suo grande Teatro, Santanelli, volando lieve ed iro-nico sulle immagini devastate di una società civile affranta ed ancora, planando su tumultuose esistenze gravemente ferite da un presente ingrato e crudele, sembra inserire qualcosa di sfug-gevole come il destino umano, di dominante come la speranza e di delicato ed indifeso come i più interiori amori. Ispirandosi con l’animo, l’istinto e l’intelletto al-l’opera poetica dell’ottocentesco Don Salvatore e descrivendo col pennino e l’inchiostro di china anziché con i tasti del computer una Napoli intrisa di nostalgica malinconia e di pungente sarca-

smo, Santanelli, sembra proiet-tarsi in una dimensione capace di oltrepassare la soglia del tempo fermando in un flash di eternità i tratti di un sogno leg-giadro e ristoratore. Quasi come Dante che nella sua “Comme-dia” scelse Virgilio per accom-pagnatore, Santanelli adottando per “Duca” l’antico Di Giacomo attraversa a cuor leggero e senza soggezione i gironi più terribili di una Napoli ingannatrice fino a placarsi con quel “dolce ber che mai non m’avrìa sazio” in un Purgatorio non più diviso in canti, ma in versi a tratti so-spirosi ed a momenti burleschi che appena lascia intravedere la precarietà di un Paradiso da ter-zo millennio sempre più etereo ed irraggiungibile. Così, grazie a Santanelli, mentre la figura del poeta Di Giacomo si allon-tana sempre più da un mondo multimediale portando con se i coloriti paesaggi della Scuola di Posillipo, l’amore, il cinguettio degli uccelli e l’odore dei giar-dini, lo stesso, rivive in un libro all’uso antico col “senzo ‘e cierta carta staggiunata” nel nome di una poesia pura e gentile.

Dormite, allora, caro poeta Di Giacomo! Dormite e sognate di rivivere in eterno nel vostro delicato mondo. Oggi, nel 2006 c’è chi come Manlio Santanelli vi pensa e stima ma…state attento a non svegliarvi mai, poichè tanto amaro sarebbe il vostro risveglio. Passeggiate ancora con il vostro cappello di sghembo per Antignano, per Santa Lucia, per i saloni della vostra Lucchesi Palli, curatevi gli acciacchi col vostro chinino, cullatevi al tepore del vostro ultimo sole primaverile …dor-mite… sia dolce la vostra lunga notte, quella che ormai vi separa dai malanni di questa vostra cit-tà che oggi, in un libro almeno, tra “Miele e Fiele” vi ricorda e vi loda non solo per “gioco” ma per devota ed umana passione.

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Sono stati ripub-blicati nei mesi scorsi in copia anastatica tutti

i numeri dell’organo del PCI,l’Unità, dal n. 1 del dicembre 1943 al n. 33 del 23 luglio 1944. È stata certamente un’iniziativa opportu-na e meritoria perché il giornale esprimeva in modo autentico le posizioni ufficiali del partito – molti altri fogli di matrice ere-tica nell’ambito della sinistra apparvero – in una con-tingenza eccezionale del nostro Paese che corrispose col “Regno del Sud”, un periodo solo recen-temente ricostruito con dovizia di documentazione.

I lettori de l’Articolo hanno potuto verificare in tal modo dalla viva fonte le vicende di quegli anni e gli studiosi hanno avuto a disposizione in modo diretto – vi era già stata una ripubblicazione molti anni fa – documenti per un ulteriore approfondimento.

L’Unità, dal primo numero fino al n. 20 del 23 aprile ’44, aveva la dizione di Edizione Meridionale, che scomparve in coincidenza con la “svolta di Sa-lerno” che portò alla formazione del governo di unità nazionale. La svolta, concordata prima della partenza dall’URSS con Stalin, fu voluta decisamente da Palmiro Togliatti, il quale im-presse un incisivo cambiamento nella politica e nella organiz-zazione del partito, dirigendo di fatto – nelle linee essenzia-li – l’organo del partito.

Il giornale quindi esprimeva le posizioni di tutto il PCI, non solo di quello meridionale, e di qui l’opportuno abbandono della dizione di organo meri-dionale, molto più riduttiva. Esso – come si diceva – iniziò le pubblicazioni nel dicembre 1943

ed esprimeva compiutamente la nuova linea togliattiana, ma la città di Napoli, capitale politica dell’Italia meridionale, venne liberata il 1 ottobre del 1943, dopo le Quattro Giornate.

In questo periodo può apparire che l a v o c e d e l PCI fosse sta-ta muta e non avesse avuto modo di espri-mersi attraver-so la stampa. Il ritrovamento, dopo accura-te ricerche, di alcuni fogli ci c o n s e n t e d i colmare que-sta lacuna. Mi r i fer isco in-nanzitutto al foglio Giornale del Popolo ed a qualche altro, che provano tra l’altro l’evo-luzione politica del PCI e il tra-vaglio che esso attraversò in tempi cruciali ed eroici.

I l Giorna-le del Popolo si pubblicò pres-

so la sede del partito in via Salvatore Tom-masi 62 il 10 ottobre del 1943, subito dopo quindi l’entrata in cit-tà degli Alleati, e non aveva certo l’auto-rizzazione ufficiale degli organi preposti angloamericani – il PWB -, che in seguito autorizzò solo poche testate per mancanza di carta soprattutto, ma per avere un con-trollo su di esse. Non a caso venne escogitata

la finzione, in primo luogo da parte dei giornali della sinistra più colpiti dalle limitazioni, della dicitura che essi venivano stampati a Bari. Il capoluogo pu-gliese godeva infatti di una mag-

LA VOCEDEL PCI

DOPO LA LIBERAZIONE

DI NAPOLIAntonio Alosco

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giore libertà in quanto liberato prima ed era lontano dal fronte di guerra e di qui anche l’errore di poco accorti ricercatori. L’edi-toriale era costituito da un lungo e circostanziato Manifesto alla cittadinanza, firmato significati-vamente dalla Segreteria italiana del PCI, nel quale, oltre al saluto di rito agli eserciti alleati e un pensiero rivolto ai fratelli che combattevano contro i nazifasci-sti nelle terre ancora occupate, venivano posti i capisaldi della politica dei comunisti, che era-no comuni a tutte le forze della sinistra: epurazione – libertà democratiche – giustizia sociale ed altro.

Ciò che interessa rilevare in questa sede è però la posizione politica non molto chiara del partito, sul suo ruolo e sul-

la collaborazione con le altre forze antifasciste. Essa appare oscillante. Veniva esaltata con forza la politica di intesa, ma si dava un’interpretazione esten-siva e di parte dei Comitati di Liberazione Nazionale, quale unione di forze progressive per il raggiungimento, così nel testo, “di quelle mete alle quali tendono le grandi masse del popolo lavoratore”.

Non era questo il ruolo dei Comitati di Liberazione, come illustrerà successivamente in modo esplicito lo stesso Togliat-ti. In quella fase però premeva al gruppo dirigente del PCI sotto-lineare questo aspetto unitario, quasi come fase di passaggio necessario verso maggiori con-quiste sociali se non addirittura verso il socialismo, per contra-

stare le perples-sità, i dubbi, le esplicite pole-miche e oppo-sizioni di molti operai a questo tipo di politica, come veniva evidenziato in più occasioni nelle pagine del giornale.

Si era nel periodo infuo-cato dei con-trasti interni, che porteranno alla scissione di Montesan-to, guidata da Mario Palermo, Eugenio Manci-ni, Vincenzo Io-rio, Libero Vil-lone ed altri ed alla fondazione della Confede-razione rossa di Enrico Russo e Dino Genti-li, slegata dal partito. In tale contesto veniva

pubblicata una diffida contro Federico Zvab (erroneamente Zwabo), il rivoluzionario socia-lista protagonista delle Quattro Giornate, portabandiera in quegli anni di una politica di contrasto al “cedimento”, come si diceva allora, propugnante in-vece formule estreme. Il Giornale del Popolo restò numero unico, o almeno non ne abbiamo ritrova-to altri, dovuto al fatto che an-darono in vigore le disposizioni provenienti dal PWB alleato.

Di tono molto più deciso, in-vece, il manifestino dal titolo Al muro i nemici del popolo, a firma PCI. In esso si evince l’esigenza già dal titolo di assecondare l’atteggiamento intransigente della maggior parte della base del partito e si chiedeva un’azio-ne decisa contro il re fascista e il suo preteso governo e contro i complici dei tedeschi. Si invi-tavano inoltre amichevolmente gli Alleati a favorire un orien-tamento sociale e politico più progressivo.

Nell’altro volantino intito-lato Niente Tutto si davano dei chiarimenti sul programma del partito in direzione più democratica e liberale per non allarmare la popolazione, già sensibile alla questione co-munista dopo venti anni di propaganda fascista. In esso non si rinunciava a porre dei postulati politici, soprattutto in riferimento alla forma istituzio-nale dello Stato, demandata alla volontà popolare degli italiani, la cui maggioranza però già veniva prefigurata nell’intento di instaurare una Repubblica eminentemente sociale.

Come si può notare dai docu-menti esaminati, che assumono il valore di fonti originali al di là delle ricostruzioni preconcette, le posizioni politiche e program-matiche del partito comunista agli inizi della contingenza del Regno del Sud appaiono poco chiare. Alla barra dell’incerta

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EURONOTE di Andrea Pierucci

Bulgaria e Romania membri dell’Unione dal 1 gennaio 2007

Le ultime settimane dell’azione istituzionale del-l’Unione europea sono così ricche di evento importan-te da laciar pensare alla fine della crisi costituzionale scatenata dal “no” francese ed olandese al progetto di Costituzione. Così non è, ma finalmente arrivano del-le proposte specifiche per uscire dalla crisi, dal “mini-trattato”apertamente invocato da Sarkozy, candidato della destra alle elezioni presidenziali francesi, ad altre forme di riduzione del testo costituzionale nella forma allora proposta (l’europarlamentare Duff, per esem-pio) : siamo ancora (ma direi: finalmente) al periodo dei cento fiori e, come altre volte, speriamo che non si concluda come avvenne all’epoca in Cina! Quel che appare comunque evidente è la piena conferma del fatto che la costruzione europea sta andando avanti con un ritmo assolutamente incompatibile con l’idea di crisi. Questo vale non solo per i fatti della politica, ma anche per il rilancio delle idee; è di pochi giorni fa, per esempio, la consacrazione dell’iniziativa di oltre 100 Università per rilanciare il processo euromediter-raneo. È interessante notare che, anche se un nesso formale non c’è, questo rilancio prende corpo proprio in corrispondenza col rilancio di una politica euroepa in Medio Oriente.Sul piano istituzionale gioverà, innanzitutto, notare la decisione di accogliere come membri a tutti gli effetti dal primo gennaio 2007 la Romania e la Bulgaria. La decisione, presa il 23 ottobre dal Consiglio su propo-sta della Commissione, è stata sofferta, poichè alcune delle condizioni di adesione non sembra possano es-sere realizzate da questi due paesi entro quella data. Si è optato per una decisione positiva essenzialmente in base a criteri politici e prendendo in conto la “ten-denza” di questi paesi; si è così seguito, dal punto di vista tecnico, il medesimo ragionamento adottato al momento della definizione dei partecipanti all’Euro. Se alcuni paesi (Italia e Belgio, in primo luogo) non rispettavano i parametri di Maastricht, si considerò, tuttavia, che erano sulla buona strada. Il metodo è ec-cellente ed ha una sua logica. C’è però da domandar-si se questo stesso metodo sarà usato per consentire

ai nuovi membri di partecipare all’Euro (la Lituania, per esempio, ha subito un ritardo sulla base della non applicazione del metodo stesso) o a Schengen (libera circolazione delle persone), allorchè si chiedeva, in qualche modo, un po’ di più di quanto si chiedeva ai membri attuali. L’adesione della Bulgaria e della Romania comporta dal primo gennaio l’inserzione di nuovi membri di quella nazionalità nelle varie istituzioni dell’Unione. Ritorneremo su questo punto la prossima volta. Per ora, dobbiamo prendere atto della designazione dei membri della Commissione, fatta dagl interessati di comune accordo col Presidente della Commissione Barroso nei gironi scorsi. Si tratta della bulgara Me-glena Kuneva, attuale ministro degli affari europei, 49 anni, giurista, alla quale sarà attribuito il portafoglio della politica dei consumatori, sottratto al Commissa-rio cipriota Kyprianou, e di Leonard Orban, attuale se-gretario di Stato, coordinatore della preprazione del-l’adesione della Romania, 45 anni, ingegnere, che sarà responsabile del multilinguismo (23 lingue dal primo gennaio, compreso il gaelico, recentemente promosso e un rilancio di attenzione europea alle lingue regio-nali). Ora si dovrà provvedere alla finalizzazione della nomina. I Trattati di adesione prevedono che il Parla-mento europeo esprima un parere prima della nomina dei due Commissari da parte del Consiglio; non si trat-ta infatti di nominare una nuova Commissione, come invece avvenne all’epoca dell’adesione dei 10 nuovi Stati, poichè si considerò che 10 nuovi membri rap-presentassero un cambiamento sostanziale. Dunque non ci si attende un nuovo voto di fiducia a Barroso, a meno che quest’ultimo non decida (ciò che ormai sem-bra del tutto improbabile) un più vasto rimpasto della Commissione stessa. Il Parlamento, dopo le audizioni nelle commissioni parlamentari competenti, voterà in dicembre il suo parere.

Consiglio europeo informaledi Lathi

Il 20 ottobre ha avuto luogo il Consiglio europeo in-formale che si è tenuto, appunto in Finlandia. Ormai, infatti, i Consigli europei si tengono sempre a Bruxel-

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les, mentre gli informali si tengono in una città dello Stato che ha la Presidenza di turno. Il Presidente del Consiglio finlandese Vanhanen ed il Presidente Bar-roso hanno espresso un parere molto favorevole sui risultati del Consiglio. In particolare, si è discusso di energia, della creazione dell’Istituto europeo di tecno-logia, di ricerca in genere e vi è stato un incontro assai mediatizzato con Putin. In mancanza di conclusioni, non previste per un Consiglio europeo informale, si possono ricavare alcune notizie interessanti dalle di-chiarazioni. Qui mi limiterò a suggerire in primo luogo, l’importanza del via libera alla creazione dell’Istituto europeo di tecnologia per il quale due giorni prima la Commissione aveva presentato una dettagliata propo-sta. Gli effetti della decisione formale, che prenderà forma legislativa, si potranno valutare nei decenni, ma il segnale è estremamente positivo per un’Europa che dichiara ai quattro venti di volere un’economia basata sulla conoscenza ed un rilancio della ricerca. Speria-mo che alla fine la montagna non prtorisca il topolino! La seconda questione riguarda l’energia, non tanto per i dibattiti, pure importanti, nè per le relazioni con Putin, delle quali la stampa ha fatto larga eco, quanto piuttosto per i contenuti della proposta della Com-missione, che dà molto da pensare. La Commissione, infatti, propone di ridurre del 20pc i consumi entro un certo tempo. Questa proposta, che sembra sbalor-ditiva, secondo molti specialistri, si può concretizza-re semplicemente riducendo gli sprechi. L’Europa è l’unica area geografica significativa che gà agisce con una politica contro gli sprechi, con importanti risulta-ti. C’è da chiedersi quanto sprechino altre grandi aree come gli Stati Uniti o il Giappone. Si tratta – ormai da anni – di un problema davvero urgente ed essenziale per la vita futura del pianeta.

Il Comitato economico e sociale europeo si rinnova

Dimitrios Dimitriadis è il nuovo Presidente del Co-miato. Greco, membro del gruppo degli imprenditori è stato nominato quasi all’unanimità. Succede all’au-striaca Anne-Marie Sigmund, del gruppo interessi di-

versi. Il mandato di Dimitriadis durerà due anni e già si pensa al suo successore che dovrà essere, secondo la prassi interna, un membro del gruppo lavoratori. In pole position vi è un italiano, Mario Sepi, attuale presidente di questo gruppo, ma la partita è tutta da giocare. Il Comitato si trova ad un passaggio non facile della propria attività, alla ricerca di un’identità sem-pre difficile nel labirinto (ma poi non così complesso!) delle Istituzioni europee. Nato come forum europeo per i sindacati e le organizzazioni padronali alla fine degli anni 50, si è visto diminuito nel suo ruolo con l’introduzione, col Trattato di Maastricht, del dialogo sociale diretto fra i partners sociali. La sua funzione può essere rilanciata con un’attenzione più grande al-l’insieme delle componenti economiche e sociali del-la società civile e, certo, non mantenendo la pletora di pareri che esso fornisce. Si tratta di continuare ed accelerare quel ruolo di forum dell’insieme, appunto, della scoietà civile che il Comitato ha saputo realizza-re negli ultimi anni sia intorno alla preparazione della Costituzione, sia nel quadro della strategia di Lisbona, ottenendo in questo caso un vero e proprio mandato del Consiglio europeo. È certo che i tempi di un rilan-cio del Comitato non sono eterni. Il suo vicino, il Comitato delle Regioni ha dato il via ad un vero e proprio rilancio politico, specie con la presidenza di Delebarre (e anche con una maggiore attenzione al reclutamento dello staff.). In particolare, come si è visto anche in questa rivista, il Comitato ha accreditato una nuova versione del suo ruolo, netta-mente più dinamica e interventista non tanto al mo-mento del parere formale su una proposta legialtiva, quanto al momento della sua formazione. Inoltre, sta costruendo un sistema di reti (sussidiarietà, Strategia di Lisbona) che rafforzeranno certamente il suo rap-porto con la “base sociale” delle regioni e delle autori-tà locali. Questa strada, importante e necessaria, apre tuttavia la strada, in seno al Comitato stesso, al dibat-tito sul ruolo delle reti stesse e su quello dell rappre-sentanza. Non vi è il rischio che alla rappresentanza, al Comitato, cioè, rimanga un ruolo di semplice passa carte delle posizioni delle regioni e dei comuni? La prima risposta è, ovviamente, negativa, ma il dibattito si annuncia davvero importante.

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[59]LA RIVISTA

Periodico della FondazioneMezzogiorno Europa

N. 5 – Anno VII – Settembre/ottobre 2006Registrazione al Tribunale di Napoli

n. 5112 del 24/02/2000

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EIRENE SBRIZIOLO

Consulenti scientifici:SERGIO BERTOLISSI, WANDA D’A-LESSIO, MARIANO D’ANTONIO, VITTORIO DE CESARE, BIAGIO DE GIOVANNI, ENZO GIUSTINO, GILBERTO A. MARSELLI, GUSTAVO MINERV INI, MASSIMO ROSI, ADRIANO ROSSI, FULVIO TESSITORE, SERGIO VELLANTE

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MEZZOGIORNO EUROPA del Centro di iniziativa Mezzogiorno EuropaLA RIVISTA SI PUÒ TROVARE PRESSO:

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Feltrinelli Via S. Tommaso D’Aquino, 70 NAPOLI – Tf.0815521436 Piazza dei Martiri – Via S. Caterina a Chiaia, 33 NAPOLI – Tf.0812405411 Piazzetta Barracano, 3/5 SALERNO – Tf.089253631 Largo Argentina, 5a/6a ROMA – Tf.0668803248 Via Dante, 91/95 BARI – Tf.0805219677 Via Maqueda, 395/399 PALERMO – Tf.091587785Librerie Guida Via Port’Alba, 20 – 23 NAPOLI – Tf. 081446377 Via Merliani, 118 – NAPOLI – Tf. 0815560170 Via Caduti sul Lavoro, 41-43 CASERTA – Tf. 0823351288 Corso Vittorio Emanuele, Galleria “La Magnolia” AVELLINO – Tf. 082526274 Corso Garibaldi, 142 b/c SALERNO – Tf. 089254218 Via F. Flora, 13/15 BENEVENTO – Tf. 0824315764Loffredo Via Kerbaker, 18 – 21 NAPOLI – Tf. 0815783534; 0815781521Marotta Via dei Mille, 78 – 82 NAPOLI – Tf.081418881Tullio Pironti Piazza Dante, 30 NAPOLI – Tf. 0815499748; 0815499693Pisanti Corso Umberto I, 34 – 40 NAPOLI – Tf. 0815527105Alfabeta Corso Vittorio Emanuele, 331 TORRE DEL GRECO – Tf. 0818821488Petrozziello Corso Vittorio Emanuele, 214 AVELLINO – Tf.082536027Diffusione Editoriale Ermes Via Angilla Vecchia, 141 POTENZA – Tf. 0971443012Masone Viale dei Rettori, 73 BENEVENTO – Tf.0824317109Centro librario Molisano Viale Manzoni, 81 – 83 CAMPOBASSO – Tf. 087498787 Isola del Tesoro Via Crispi, 7 – 11 CATANZARO – Tf. 0961725118Tavella Corso G. Nicotera, 150 LAMETIA TERMEDomus Luce Corso Italia, 74 COSENZAGodel Via Poli, 45 ROMA – Tf. 066798716; 066790331Libreria Rinascita Via delle Botteghe Oscure, 1-2 ROMA – Tf. 066797460Edicola c/o Parlamento Europeo Rue Wiertz – Bruxelles

Le Associazioni e gli Istituti:Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Via Monte di Dio, 14 NAPOLI – Tf. 0817642652Associazione N:EA Via M. Schipa, 105 – 115 NAPOLI – Tf. 081660606Intra Moenia Piazza Bellini, 70 NAPOLI – Tf. 081290720Centro Mezzogiorno Europa Via S. Lucia, 76 NAPOLI – Tf. 0812471196

Le opere che illustrano questo numero sono di Edvard Munch.

Page 60: Numero 5/2006