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morire viviGianni Grassi

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Sul mare di Palinuro (2001)

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Il 6 febbraio 2007, dopo anni di pesanti terapie oncologichee otto mesi finali di ricovero all’Hospice Antea di Roma(per una paralisi da infiltrazione al midollo spinale),moriva a 67 anni il “paziente esigente” Gianni Grassi. Sociologo, studioso di bioetica e tenace precursore dellabattaglia per un vero rapporto comunicativo fra medicie pazienti (che ha perseguito sino agli ultimi giorni).Comunista, sindacalista e sostenitore di forme di lottaalternative nel settore pubblico (pensate non controma con gli utenti); impegnato al fianco dei non vedenti(in particolare dei ciechi di guerra, come lo era suo padre)per garantire loro una piena autonomia.E ancora: coerente ecologista d’azione, concreto pacifista(con partecipazione a una missione di interposizioneumanitaria in Bosnia), giornalista, curatore di libri eorganizzatore culturale.Gianni Grassi è stato tutto questo e molto altro, mostrandosempre come caratteristiche umane una estrema generosità,grande passione ideale e altruismo. Tratti evidenziatidai suoi scritti e dalle sue riflessioni – altrettanto ricchee poliedriche – raccolte in una prima sintesi in questo libro(consultabili integralmente sul sito www.giannigrassi.it).Il lascito quanto mai attuale di un uomo che si è battutosino in fondo per “morire da vivo, magari scrivendo”.

INTRODUZIONE

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Bisogna salvarsi per poter morire, perché la morte non sopraggiunga senza coscienza,

ma chiara, precisa, limpida.

(José Revueltas Sànchez, “Il coltello di pietra”, 1957)

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Si è salvato Gianni Grassi, è morto vivo come pochi riesconoa fare. Si è immerso con pienezza e generosità nel suo tem-po, accogliendo l’amore della famiglia e dei tanti amici e ri-cambiando, moltiplicandolo. Ma ha fatto di più: ci ha ricor-

dato che ciascuno di noi ha il diritto di morire vivo, ogni perso-na ha il diritto di essere un paziente esigente.

La sua esperienza umana si è fatta testimonianza quotidia-na, un richiamo per i medici a porsi in ascolto, comportamentoche diventa medicina miracolosa, per il paziente e per la sua fa-miglia. E anche per gli stessi medici che, dall’approccio “dueper sapere, due per curare” possono trarre grande nutrimento.

Ho avuto con Gianni Grassi una densa corrispondenza esono stato onorato del suo sostegno alla mia candidatura al Se-nato della Repubblica, nella primavera del 2006. Un sostegnoalla persona, una grande responsabilità. Mi auguro di non avertradito la fiducia che mi accordò allora. Sono convinto di avercontribuito a dare un’identità chiara sui temi etici a quel PartitoDemocratico che Gianni Grassi faceva fatica a votare, ma sonoconsapevole che lunga è la strada ancora da percorrere.

Mi sono ritrovato guaritore ferito nei suoi scritti, laddove ci-tando il mio “Credere e curare”, ricordava la mia esperienza dipaziente, il cambio di prospettiva cui la vita mi ha costretto annifa. Certo, come lui affermava, un medico non dovrebbe trovarsinella malattia per comprendere un malato. Ne resto profonda-mente convinto e credo che onorare la memoria di una personacome Gianni Grassi voglia dire anche continuare a impegnarsiperché quel “capire insieme” divenga naturale attitudine di chisi accosta al mestiere di medico, difficile e bellissimo.

Resto convinto che, come affermava il grande teologo tede-sco Paul Tillich, “Il confine è il luogo migliore per acquisire co-noscenza”. Gianni Grassi ha vissuto con coscienza chiara, pre-cisa e limpida il suo passaggio e questi scritti, riflessioni e pen-sieri sono qui non solo come testimonianza, ma come utilestrumento di un percorso comune di consapevolezza e rispettodelle verità scientifiche e della libertà individuale. n

Sen. Ignazio MarinoChirurgo • Presidente Commissione parlamentare d’inchiesta sul SSN

Passando il confinePREFAZIONE

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In auto con “Ninino” in fuga verso la libertà

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Lettere a un ospedaliere

L’8 luglio 1986 il mio amico Giovanni Ciccarelli, detto “Nini-no”, moriva di cancro nell’ospedale San Camillo di Romadopo 40 giorni di atroci sofferenze, non sufficientementealleviate da una deontologia medica punitiva e da una

profonda disorganizzazione assistenziale. Peggiorate anzi daforme di lotta sindacale che, nel mio libro Scioperare stanca,definivo “efferate, vigliacche e banditesche”, in quanto formedi violenza contro i malati, tenuti in ostaggio nelle corsie a subi-re una “terapia” di inquinamento sonoro.

Alla memoria di “Ninino” devo l’impegno a studiare percomprendere per quali mai perverse ragioni tante buone per-sone e tante brave professionalità si rovesciano – una voltamesse insieme nell’istituzione sanitaria – in un meccanismoinfernale che distrugge ogni dignità loro e dei pazienti a loroaffidati. Il giorno stesso della sua morte incominciai a scriverelettere al miglior medico del reparto ospedaliero in cui il mioamico era stato ricoverato.

Quanto tempo occorrerà perché la cultura delle cure pal-liative (accoglienza, ascolto attivo, comunicazione empatica,presa in cura dei malati inguaribili, sino alla fine, per alleviarei sintomi dolorosi rispettando la loro dignità e i loro desideri diautonomia, senza imporre alcuna forma di accanimento dia-gnostico o terapeutico) entri finalmente nelle corsie ospeda-liere già nella fase delle cure oncologiche, contribuendo a mi-gliorarne l’efficacia terapeutica – ovvero a valorizzare le rela-zioni tra curanti e curati – e al rispetto delle potenzialità e del-le risorse interne dei pazienti?

Se non ora, quando?

Così Gianni spiegava il suo “testamento” politico e moraleracchiuso in cinque lettere scritte tra il 1986 e il 2006

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Un dolore ingiusto,indegno, ignobileScritta l’8 luglio 1986 a Roma e pubblicata nel librodel Gruppo Eventi “Sarà così lasciare la vita”(a cura di Livia Crozzoli Aite, Edizioni Paoline, 2001)

Caro dottore, questa notte il mio amico finalmente è morto,solo come un cane. Dico finalmente, perché non ce la face-vo più a vederlo soffrire e guaire per il dolore. Un doloreingiusto, indegno, ignobile. Insopportabile per me, figuria-

moci per lui.È morto nel letto che gli era stato assegnato fin dall’inizio

del suo calvario, in mezzo agli altri degenti. Perché l’ospedale,per quelli come lui che smentiscono la pretesa onnipotenzadella medicina, se non riesce a mandarli a casa o in rianimazio-ne, non ha una stanza appartata dove farli morire dignitosa-mente, tra i propri cari. E stamattina, quando sono arrivato, hoscoperto che non avete nemmeno un luogo in cui tenerli damorti. Il suo cadavere, in attesa del trasferimento alla cameramortuaria, era celato nel ripostiglio del materiale.

Il dolore e la morte, dunque, non vi appartengono?L’altra sera, violando il ferreo patto che prescrive di non

scocciare i medici quando non sono di turno in ospedale, hotelefonato a casa sua. Me ne scuso, non mi sarei permesso se leiavesse mantenuto la promessa di prescrivere analgesici effica-ci al mio amico, che non meritava affatto di morire con ulterio-ri inutili sofferenze. Ma nelle disposizioni per l’apparato para-medico, le uniche che contano – come tutte le procedure chenei servizi offuscano i problemi umani e dirottano l’attenzione– nessuno aveva introdotto quella relativa ai mezzi per allevia-re i lancinanti dolori del mio amico, pudico e sobrio pur nel do-lore più atroce.

Anche un medico così onesto, preparato e scrupoloso, co-me lei, si era dimenticato del trascurabile dettaglio delle soffe-renze di un moribondo.

Desideravo che lei provvedesse, almeno per telefono, a im-partire quella prescrizione di alleviamento della inutile pena,che la macchina ospedaliera non aveva incamerato in memoriae pertanto non accettava da me, ingenuo utente rompiscatole eper di più nemmeno parente, ma soltanto amico del morente.Nella iella, ho avuto la fortuna di incontrare una sua collega

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che, ricordandosi dei discorsi tra noi e della sua promessa, hafatto inoculare l’unica fiala in dotazione al reparto. Meglio pocaterapia che nessuna. Sono grato alla giovane dottoressa per-ché, poco dopo, lo stato di spossatezza semi-incosciente è con-tinuato finalmente senza lamenti.

Sarebbe bastato così poco, grazie a un minimo rispetto delmomento del morire, per aiutarlo a spegnersi serenamente. Einvece, alla fine, ha prevalso un meccanismo feroce nella suadisumana indifferenza, addirittura esibita nelle alte sfere. Ieri,infatti, in tarda mattinata, mi ero permesso di importunare perla prima volta il primario. Gli avevo chiesto di poter acquistarea mie spese per il reparto una confezione di quel medicinaleanalgesico all’amico morente, visto che la notte precedente gliera stata somministrata l’ultima fiala e ora ricominciava a la-mentare la ripresa dei dolori. Ebbene, il professore – dopoaver contestato ai paramedici che si sia potuta verificare unacosì grave lesione della riservatezza sulle dotazioni dei medi-cinali – mi ha letteralmente dichiarato: “Noi non usiamo morfi-na. Se il paziente deve soffrire, che soffra purtroppo. Ma noinon diamo certi farmaci”.

Questo, oltre a essere falso – perché il medicinale era statousato, altrimenti sarebbe rimasto a me del tutto sconosciuto – èfrancamente indecente. È una logica aberrante, anche nell’am-bito di una pur rigorosa deontologia professionale. Si teme cheil morente diventi tossicodipendente?

Ostaggi di stupide sofferenzeMi perdoni, dottore, forse pesano sulle mie parole le notti pas-sate al capezzale del mio amico e l’avvilimento per questa suamorte. A quel camice canuto che se ne andava altero per la cor-sia ripetendo quelle parole, avrei voluto augurare di non do-versi mai trovare nella situazione del mio amico. E glielo augu-ro. Ma spero anche di non dover mai capitare sotto il suo pote-re, nonostante ogni possibile garanzia di efficienza e serietàprofessionale. Io chiederei soltanto di poter morire bene: nonquando voglio io, ma almeno come desidero, cioè in pace,senza stupide sofferenze, senza diventare ostaggio delle effe-rate convinzioni di certi medici.

È troppo pretendere questo? Oppure è davvero ancora cosìdiffusa e irresistibile una simile concezione punitiva della me-dicina? Quando dovremo aspettare perché si realizzi il model-lo, proposto da Gadamer, dei “guaritori feriti”, cioè dei mediciconsapevoli della comune matrice umana, corporea e mortale,che li unisce ai malati e ai morenti? Forse... finché non ci sa-ranno abbastanza pazienti esigenti. n

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Noi siamo un colloquio

Scritta il 2 novembre 2002 a Berceto (Parma) e pubblicatanel libro del Gruppo Eventi “Assenza, più acuta presenza”(a cura di Livia Crozzoli Aite, Edizioni Paoline, 2003)

Ricorda, dottore? “Dottore, dottore, perché mi hai abban-donato?” era il grido di dolore dal capezzale dell’amicomorente nel Reparto che ora lei dirige. Dopo la sua morte,tra faticose e atroci sofferenze, altra fatica per riuscire a

cremarlo e a portare le sue ceneri nel piccolo cimitero di Lupa-ra, sull’Appennino molisano. E lì interrarle sotto un bel croce-fisso. Non ho avuto altra scelta. Come in ospedale non c’è an-cora l’Hospice, un posto in cui continuare a essere curati anchese inguaribili e poter morire dignitosamente, così dopo, per ilaici, non c’è ancora un posto e un modo in cui poter essereonorati. E così oggi anch’io, non credente, me ne sto nel picco-lo cimitero di Berceto, sull’Appennino parmense, partecipedella liturgia religiosa con la comunità che torna dai luoghi incui è migrata. Il prete ripete le stesse parole, con la stessa ca-denza, quasi un rumore di fondo che accompagna la mesta ce-rimonia e permette a ciascuno di immergersi nei propri pen-sieri, contemplare i monti, osservare i convenuti, scrivere a undottore... Ogni anno ricordiamo i nostri cari defunti e insiemeci riconosciamo tra sopravviventi e conosciamo i nuovi venuti,grazie agli immigrati. Anche se, come dice Arundhati Roy,“nessuno di noi ha bisogno di anniversari per ricordare quelloche non possiamo dimenticare”.

Proprio al mio amico avevo dedicato l’impegno a studiarele istituzioni sanitarie. E stavo facendo ricerche, quando uncancro alla vescica e poi alla prostata mi ha costretto a fre-quentare un altro ospedale. Un Istituto con una produttivitàdidattica e terapeutica così intensa da rischiare la spersona-lizzazione dei malati, se non fosse temperata dalla umana di-sponibilità del personale. Ho capito che per curare, perprendersi cura, l’efficienza è condizione necessaria ma nonsufficiente: ci vuole anche l’anima, la comunicazione. E hodeciso di fare della mia disavventura personale un’opportu-nità maieutica, politica e sociale: tramutare la sofferenza pri-vata in pubblica ricerca per ottenere miglior comunicazionetra medici e pazienti.

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Ma come si fa a comunicare, a intendersi senza litigare tra “ca-mici & pigiami”? Occorre che entrambi imparino anzitutto acomunicare con se stessi. I camici chiamati a fare i conti col ta-bù degli errori e il mancato confronto con gli altrui pareri, in-somma la propria arroganza. I pigiami chiamati a dar contodella propria ignoranza che idolatra i dottori e produce paura,isolamento, rassegnazione. Il vostro linguaggio, che dovrebbeessere terapeutico, è criptico, retorico, usa parole di guerra in-vece che di consolazione. E la guerra, scrive Arundhati Roy,mentre “non può vendicare i morti, è solo una brutale dissa-crazione della loro memoria”,“significa svalutare il dolore,svuotarlo di significato”.

Geni e relazioniLa vostra pratica, che è fatta di poche certezze e molti pareri,nega l’errore sempre e comunque e ignora il consulto, il con-fronto con altri specialisti, medici di base, tecnici e infermieri.Così il nostro linguaggio resta misero e dipendente, la nostrapratica quella del credente: siamo ancora in pochi a confron-tarci coi compagni di viaggio, le associazioni di malati, i comi-tati in difesa dei loro diritti, in pochi a informarsi, difendersi eriunirsi. Eppure sarebbe terapeutico anche per voi.

Come scrive Giovanni Berlinguer, già presidente del Comi-tato nazionale di bioetica, siamo fatti “di geni e relazioni”. Perdirla con il poeta Hölderlin, “siamo un colloquio” (Borgna,1999). E sono grato al filosofo Umberto Galimberti di ricordar-ci pazientemente – magari dall’ultima pagina di un settimanale“femminile” assai diffuso – che serve guardare, sentire, odoraree toccare il corpo, ma insieme interrogare e ascoltare l’anima,con sufficiente lentezza; di ricordare a tutti noi come la morte,“insignificante decorso biologico, talvolta una liberazione”, sia“crudele solo quando separa un amore... Quando si ama è do-lore, anzi il dolore, che dunque abita solo le case d’amore”.

Caro dottore, in tempi di morte come gioco e spettacolomalato, persino in famiglia, e di immolazione suicida non solotra i terroristi ma di nuovo tra i disoccupati, i licenziati e i carce-rati delusi, sarà mai possibile che l’unico dolore concesso e ri-spettato in ospedale resti quello che separa un amore? Forse.Se riusciremo a passare dal formale “consenso informato” auna sincera e reciproca “validazione consensuale”, diventandoesigenti soprattutto con noi stessi. n

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La goccia scava la roccia

Parte della tesi del Master in bioetica (gennaio 2004).

Caro dottore, chi le scrive è un paziente un po’ speciale. A unrecente convegno sul consenso informato, a voi riservato,ho chiesto di intervenire perché sarebbe ora che sul con-senso informato, e più in generale sul rapporto tra medici e

malati, si cominciasse a sentire anche la voce di qualche pa-ziente. Magari parziale e indisponente – all’inizio è sempre co-sì – ma tuttavia indispensabile, trattandosi di un rapporto a due.È sintomatico, infatti, che l’autore di uno dei testi più chiari fi-nora scritti sul consenso informato (Spinsanti, 2002), per di piùproteso a delineare il sentiero in salita “dal consenso informatoalla decisione consensuale”, lo presenti così: “Questo libretto èdedicato ai medici che hanno poco tempo… L’etica ha moltoda dire sul profilo che deve assumere la nuova relazione tera-peutica. Ma non saranno gli esperti di etica a realizzarla: gli ar-tefici potranno essere solo i professionisti sanitari. Questo sa-pere pratico è loro, non devono lasciarsene espropriare né daimagistrati, né dai filosofi, né dai moralisti”. E i malati?

Eppure, lo stesso autore ha spiegato (Spinsanti, 1999 e 2003)che a diversi modelli della cura corrispondono diversi ruoli deicuranti e dei pazienti: al modello della malattia come parentesi,chiusa dalla guarigione, corrisponde il malato che “comincia aguarire quando obbedisce al medico”. Ma quel modello funzio-na solo in una minoranza di situazioni, le acuzie.

Nell’ottanta per cento dei casi la “guarigione” è quella suffi-ciente per continuare a vivere, cioè a convivere con una malat-tia cronica: cui corrisponde il medico “montessoriano” che aiu-ta il malato a curarsi da sé. L’ascolto attivo e terapeutico, l’artedi ascoltarsi/osservarsi reciprocamente (Sclavi, 2000), impa-rando ciascuno dall’altro – medico e malato – e dai propri erro-ri, viene ricondotto al modello della “ricerca della grande salu-te”. Che richiama un po’ la “grande illusione” e invece vuol di-re: realizzare il nostro progetto di vita ovvero “assumere la re-sponsabilità di dare un senso alla nostra finitezza” (Melucci,1991). Il convegno l’aveva aperto un giornalista scientifico cheera riuscito a far convivere la denuncia della “marginalizzazio-

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ne” dei medici con l’enunciato della “centralità” del paziente.“L’economicismo dilagante si combatte coinvolgendo massic-ciamente i medici, dando loro più potere, responsabilità e au-tonomia decisionale”, ha detto. E poi: “L’informazione è reci-proca e circolare, il paziente ha un ruolo attivo, è lui che tiene ilbandolo della matassa tra i vari soggetti curanti. Dunque ha piùpotere, responsabilità e autonomia”. Magari fosse. Io mi sentopiuttosto come un mozzo che, attraverso i raggi, congiunge ot-to specialisti che mi ruotano intorno ma non comunicano traloro: urologo, oncologo, radiologo, radioterapista, psicologo,medico nucleare, medico generale e andrologo.

Subito dopo, una psicologa aveva ricordato una cosa im-portante: se è vero che l’informazione è circolare e il pazientenon è un vaso da riempire, è pur vero che quando ci ammalia-mo regrediamo, fisiologicamente e psicologicamente. Tornia-mo neonati, pieni di ansie e aspettative, a volte di terrore, biso-gnosi di aiuto, protezione, amore (Honegger Fresco, 1987).Possiamo recuperare, certo, ma all’inizio è proprio così. Altroche potere e autonomia.. Voi lo sapete bene. Inoltre, c’è anchela vostra fragilità, la fragilità dei tecnici. Uno studioso di “psico-somatica” ha paragonato la posizione del medico di base al-l’immagine di chi, camminando su una cresta, gode di un belpanorama su entrambi i versanti: quello esposto alla luce – lamedicina razionale misurabile e visualizzabile in modo digitalecon la moderna tecnologia – e quello in ombra, l’aspetto irra-zionale dell’essere umano, avvicinabile in modo analogico.

Un medico svizzero (Schlaepfer, 2003) ha dato seguito aquella immagine sostenendo che: “Il medico e il paziente for-mano una cordata a due. Il medico è la guida. La meta, la cima,sarebbe il recupero della salute, che non è un dato, un unicoobiettivo, ma piuttosto un equilibrio, una strada. La corda checollega i due sarebbe l’intreccio tra la comprensione del medi-co e la fiducia del paziente. A volte è importante per entrambila vista del lato luminoso, a volte di quello ombroso. È richiestala franchezza, quella spregiudicata del medico forse dà la pos-sibilità al paziente di aprirsi anche lui”.

“Dove una persona si può spogliare completamente, farsivedere veramente nuda e onesta, se non dal medico, che nonne ride, al massimo sorride ed è discreto? – prosegue – Che asua volta può far vedere la propria vera immagine al paziente,in modo che questi realizzi la propria? A volte però, dovendoaggirare un ostacolo insuperabile, non cercano entrambi lostesso versante; è situazione quotidiana che il medico si com-porti in modo troppo digitale e il paziente fugga alla para-me-dicina. A volte nemmeno mirano alla stessa meta, a volte la cor-da non resiste allo strappo. Ma – si chiede – dove abbiamo im-parato ad ammettere gli errori che, specialmente nel nostromestiere, sono severamente vietati e che sarebbero tanto uma-

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ni?”. “Proprio i medici – scrive un filosofo (Valdrè, 1995) – sco-prono come nessun altro nel contatto con i malati e con la lorosofferenza l’esistenza di un mondo ben più vasto di quello cir-coscritto della scienza”. E legge un sintomo di questa convin-zione in un episodio del film Ordet di Teodor Dreyer, che de-scrive così: nel corso della veglia funebre per la giovane prota-gonista morta di parto, alla presenza dei familiari, del prete edel vecchio medico che aveva tentato invano di salvarla, riap-pare all’improvviso il cognato scomparso da alcuni giorni.

Coinvolto dalla ingenua fiducia della nipotina, non accettala rassegnazione e cerca la parola che possa mutare un ordinein apparenza irreversibile. Il suo è un atto di fede totale, irrazio-nale. Ebbene, mentre gli altri – soprattutto il prete – si scaglianoindignati contro la sua bestemmia e cercano di impedirgli diparlare, il medico sembra l’unico disposto ad ascoltarlo. Un im-pulso “antiscientifico” da parte di un medico profondamenteconvinto del valore della medicina scientifica che, commenta ilfilosofo, “potrebbe rappresentare proprio un esempio di razio-nalismo aperto”.

Il vissuto dei pazientiIn quel convegno la gran parte del tempo era stata dedicata avalenti giuristi perché vi spiegassero le differenze tra dolo ecolpa – per imperizia, negligenza o imprudenza – e tra lesionevolontaria e atto chirurgico, sempre bene intenzionato anchese sbagliato. E valenti medici legali vi hanno invitato a superareil dispetto verso la “burocratizzazione” (l’invasione di nuovimoduli, compreso quello per la privacy, da inserire in cartellecliniche quasi sempre incomplete), aprendovi al progetto di unsistema di prevenzione dei rischi e degli errori che comporta lacompilazione di nuove schede di registrazione e valutazione.

Nell’ultima giornata, dedicata alla riflessione bioetica e allaepistemologia della cura, i filosofi Guido Traversa e Mario Pal-maro, premesso che ogni tipo di medicina presuppone un mo-dello di antropologia, vi hanno esortato a non dimenticare ilvissuto dei pazienti. Quel vissuto che li fa diversi uno dall’altroe comporta risposte diverse al medesimo protocollo. Del resto,in Italia i medicinali vengono testati ancora solo sugli adultimaschi: per donne, anziani e bambini non esistono prodotti sumisura – nemmeno strumenti diagnostici adeguati – per cui siricorre banalmente alla riduzione delle dosi.

Quello dei filosofi è stato un invito a trattarci da persone re-sponsabili e non da “pacchi senza valore che l’ostetrico spedi-sce al becchino”, come mi pare dicesse Petrolini. Per non ri-condurre la “tormentata storia” del rapporto medico paziente(Shorter, 1986) a una relazione tra semidei onnipotenti e fedelisemi-deficienti. Ma neanche ridurla a una transazione tra con-traenti formalmente (e falsamente) equivalenti. Per fortuna la

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realtà umana è dialogica, non solo biologica o merceologica; ildialogo tra medici e pazienti può evolvere nel rispetto e nellafiducia reciproci. Non a caso la vostra è una delle categorie più“moralizzate”: nelle intenzioni, negli esiti, nelle regole stesseche vi siete dati, sia pure unilateralmente. Anche se non bastauna moralità “interna”: l’etica è cosa aperta, non riducibile a“etichetta”, ai codici deontologici (Engelhardt, 1999).

Tradizionalmente il nostro rapporto è stato rappresentato daquesto modello: “scienza e coscienza” del medico, incoscienzae riconoscenza del malato. Ancora pochi mesi fa, lo specialista acui sottoponevo alcune ipotesi, cioè i miei ragionevoli dubbi,sul preoccupante aumento di un marcatore tumorale, mi ha ri-sposto via mail: “Non pensi da urologo”. Oggi ne discute senzaconsiderarmi un ingrato ignorante, ma ce n’è voluto per non es-ser più trattato come l’umorista Jerome K. Jerome. Di più. Unabrava infermiera, impegnata nel tentativo di allacciare un lega-me tra la riflessione etica e la pratica sanitaria, afferma: “Il fattoche il malato non appartenga alla categoria delle cose stabili epermanenti in seno alla struttura sanitaria, lo fa apparire comeelemento disturbante e paradossalmente distorcente il normaleandamento dell’azienda” (Mitello, 2000). E ricorda l’aforismadiffuso nell’apparato, secondo cui “l’ospedale funzionerebbebenissimo... se non ci fossero i malati”. È proprio così?

Riprendere tempo e fiatoHo imparato molto dalle vostre domande. Squarci su una real-tà quanto mai sfumata e complessa, delicata. Come se il conve-gno, per parecchi di voi, si rivelasse una delle rare e prezioseoccasioni in cui riprendere tempo e fiato, per sostare e chieder-si qualche perché. Spero allora di restituirle parzialmente qual-cosa di utile e sensato.

Ho premesso di essere un paziente un po’ speciale. Hodunque il dovere di esplicitare la mia equazione personale, fat-ta di esperienze e valori. Sono un ricercatore di sociologia. Me-glio, un amante della sociologia che ha fatto ricerche sui con-flitti nei servizi, sulla loro produttività e qualità, sui rapporti congli utenti: prima nell’assistenza sociale, poi nella giustizia mi-norile, quindi nella previdenza e infine nella sanità. Nel 1986ho pubblicato un libro, nella cui introduzione, scritta mentreassistevo impotente alla morte atroce di un amico ricoverato alSan Camillo, mi chiedevo (e tuttora mi chiedo): per quali maiperverse ragioni tante buone persone e tante brave professio-nalità, mediche e “paramediche”, troppo spesso si rovesciano– una volta messe insieme nell’istituzione sanitaria – in unmeccanismo che rischia di distruggere la loro dignità e quelladei pazienti loro affidati? Per mettere sotto controllo la variabi-le efficienza (alcuni sostenevano: “Ovvio, hai sofferto la pe-sante disorganizzazione romana”) l’anno dopo andai a operar-

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mi di ernia inguinale in una clinica chirurgica dell’ospedale ci-vile di Parma, culla dell’efficienza. L’operazione è perfettamen-te riuscita, ma io ho patito proprio le ingiurie dell’efficienza.Avevano trascurato di comunicarmi il piccolo particolare che,dopo l’intervento, avrei dovuto starmene disteso per almeno12 ore a smaltire i veleni dell’anestesia spinale. Per cui mi sonomosso, cominciando a soffrire un devastante mal di testa chem’impediva di riposare e alimentarmi, ma sembrava incom-prensibile: ero un’ernia ottimamente operata, mentre il mal ditesta non si vede. L’organizzazione mi infliggeva tutte le offesedella sua efficienza: luci, rumori, odori.

Insomma, ho cominciato a intuire, sulla mia pelle, che l’ef-ficienza è una condizione necessaria ma non sufficiente. Civuole anche l’animus: la comunicazione. E proprio lì fui intro-dotto ai misteri di quella ospedaliera: un’infermiera m’avevainvitato a seguirla per fare la tricotomia. Avendo studiato ilgreco, ricordavo che tomia vuol dire tagliare. Ma, nell’ansiapre-operatoria, non ricordavo il significato di trico: “Che cosami vuole tagliare?” “Ma i peli! Cos’altro crede?” “E perché nonparla come mangia? Perché non dice rasare i peli o depilare?”“Perché qui si dice così”. Amen.

Dieci anni più tardi ebbi l’opportunità di fare un altro passonel mondo ipogeo della comunicazione medico paziente: la ra-diologa, consegnandomi il referto dell’ecografia pelvica, disse:“Purtroppo è positiva” “Perché purtroppo?” “Perché non va be-ne” “E allora perché dice positiva invece di negativa?” “Perchéin medicina si dice così: positivo se hai il cancro, negativo se nonce l’hai”. Così seppi di avere il k alla vescica, detto “papilloma”.Il figlio primogenito, informatico presso l’Ansa, chiese alla re-

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Insieme a Francesco durante la vendemmia ad Amelia (1995)

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dazione scientifica e mi spedì a Padova dagli inventori dellaVIP, la Vescica Ileale Padovana. In un Istituto con una produtti-vità didattica e terapeutica così intensa da rischiare la spersona-lizzazione dei malati, se non fosse temperata dalla umana di-sponibilità del personale. Lì ho avuto conferma che, per cura-re, per prendersi cura, l’efficienza è condizione necessaria manon sufficiente. Intanto, da sociologo studente dell’organizza-zione sono precipitato a malato utente di quella sanitaria.

Da professionista a pigiama. Dapprima profano, ignorante,esitante. Poi via via paziente più esigente e più informato: in-nanzitutto dagli altri pigiami, poi dai camici e sempre più spes-so da Internet. Quindi, solo da poco sono tornato a essere unostudioso di sociologia dell’organizzazione, in cura per k, chetutto sommato ha avuto una grande occasione di ricerca sulcampo. E ha deciso di fare della disavventura personale un’op-portunità maieutica, politica e sociale: tramutare la sofferenzaprivata in pubblica ricerca per una migliore comunicazionemedici pazienti. Insomma, sono proteso in avanti. Qualcunodice che è solo una pretesa, un’illusione. Ma intanto sono pas-sato dalla protesta alla proposta di comunicazione con i curan-ti, medici e infermieri. Ho insomma l’ambizione di non limitar-mi a pregare o predicare i buoni principi ma di “praticare”l’obiettivo, di provarci, mettermi in gioco. Ovvero di applicarealla “vertenza” le linee guida che nel 1986 avevo intravisto nel-le forme di lotta sindacale alternative allo sciopero nei servizi,definite “lavoro arbitrario” o sciopero alla rovescia: • più proposta che protesta (più proposizione che opposizione); • più tensione morale che astensione fisica; • più attenzione agli utenti che ai regolamenti.

Immettendo quanti più elementi di ricerca nell’attività di“resistenza” (o di resilienza) da svolgere con un “cuore vigile”,quello che permise a Primo Levi e Bruno Bettelheim di soprav-vivere persino all’universo concentrazionario del lager nazista(Levi 1986, Bettelheim 1988).

Di recente, avendo letto le dichiarazioni del segretario dellaFederazione Italiana Medici di Medicina Generale (“i medici difamiglia, di fronte allo scarico di responsabilità di Governo eRegioni e alle carenze emerse con l’aumento della mortalitànella popolazione anziana, conseguente al gran caldo, aderi-ranno allo sciopero”) e quelle del presidente della Federazionedegli Ordini dei Medici sui 100 anni del primo codice di deon-tologia medica, ho scritto una lettera ai giornali. Ho chiesto:“dove erano quest’estate i medici di famiglia che avevano incura i 7.659 vecchi, morti più per l’aridità della società che perl’arsura della natura? A che è servito il codice deontologico?”. Eancora: “Se, come dite, sono troppi gli anziani senza aiuto,specie quelli non autosufficienti abbandonati dagli ospedali al-le famiglie o da soli, perché invece di scioperare contro le ca-

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renze dell’assistenza, con il bel risultato di aggravarle in realtàcontro i malati, i camici non provano a diminuirle? Basterebbeprendersi la responsabilità di scioperare alla rovescia: cioè nondi far scioperare i pigiami al loro posto (anche se un’astensionedal consumo di farmaci ci farebbe bene). Bensì nel senso dipraticare gli obiettivi invece di limitarsi a predicarli. Se voglio-no davvero la continuità assistenziale e migliori cure domici-liari agli anziani, ai malati cronici e ai terminali, perché nonprovano a sperimentarle come forma di lotta sindacale? Sareb-bero più credibili. E noi saremmo loro alleati, invece di esserele loro vittime. A meno che non siano convinti di farci del beneproprio scioperando, visto che negli Usa, durante uno sciope-ro dei medici, diminuì la mortalità”. La lettera non è uscita ma ledomande restano aperte.

Ho aperto una brecciaLa goccia scava la roccia, si dice. Ed io, a forza di insistere, hoaperto una breccia nella rocca patavina. I curanti m’hanno invi-tato a far loro una lezione sulla comunicazione tra medici e pa-zienti. Non so se sia la prima volta che succede. Ho chiesto diintitolare il mio breve intervento così: “Due per sapere, due percurare”. Infatti, se il medico è competente sulla malattia, il ma-lato è l’unico competente a dire come la vive e la soffre. La cul-tura anglosassone, che ha un linguaggio più preciso del nostroe un rispetto più deciso dei dati usa vocaboli diversi per con-cetti diversi: malattia si dice illness (“hai una malattia”, vissutomedico), sickness (“sono malato”, vissuto personale) e disease(“essere un malato”, vissuto sociale). Se il malato deve saperimparare dal medico le informazioni sulla malattia e la cura, ilmedico deve saper imparare dal malato le informazioni su co-me lui vive la malattia e la cura. E per poterlo fare deve ripren-dere tempo e imparare a comunicare, auscultare il corpo eascoltare la persona.

Solo così si eviterà il ricorso ai falsi medici, ai maghi. Purconsapevoli che “non ci sono due diverse medicine. Ce n’è unasola, che possiede diverse sfaccettature. La gente comune l’hacompreso con molta più chiarezza dei medici. Lo dimostra lacrescita costante dei pazienti che chiedono esplicitamente diessere curati con le medicine non convenzionali che permetto-no un diverso livello di comunicazione; medico e paziente siinterrogano insieme sul significato della malattia”.

Sto raccogliendo evidenza empirica (moduli di consensoinformato, test di verifica della comprensione e questionari divalutazione della qualità delle cure e della vita). Ascolto e im-paro, specie da convegni seri. Ne ha svolto uno anche il Masterin bioetica parlando onestamente di responsabilità, dignità, au-tonomia, sovranità di sé. Tutti i medici avrebbero bisogno diparlarne. Non solo quelli presenti ai corsi, certo tra i più moti-

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vati, ma molti di quelli che ho incontrato nel mio peregrinareper il mondo ospedaliero, lo zoccolo duro, gli strong resistentdella corporazione, ne avrebbero tanto bisogno. Per riuscire arispettare l’autonomia nei malati dovreste essere aiutati a rico-noscerla e a recuperarla in voi stessi. Innanzi tutto nei confron-ti del mercato della salute, dei farmaci e delle tecnologie.

Ma mi chiedo: come? Bastano buoni libri, corsi e convegni oci vogliono anche autentiche esperienze pratiche, comprese leforme di lotta di cui ho parlato? E, ancor prima, se è vero che lostesso consenso informato è fondato su “un’idea di stereotipodi cittadino che non ancora esiste”, non servono sempre piùpazienti esigenti che vi obblighino a collaborare? Altrimenti, senella prassi medica permane la scissione tra curare e prendersicura (care), anche il principio del consenso informato può ri-velarsi “insufficiente, se non addirittura mistificatorio”, ri-schiando di coprire “forme di burocratizzazione del rapporto edi deresponsabilizzazione del medico” (Toraldo di Francia,2003). L’anomalia è stata ben rilevata da un giurista onesto: “Larepentina affermazione ai massimi livelli del consenso infor-mato come norma, mentre la pratica sociale e assistenziale ve-de il rapporto medico-paziente ancora improntato a un pater-nalismo autoritario, rende la situazione italiana critica e interes-sante allo stesso tempo. È necessario che queste due idee ispi-ratrici, l’autonomia del paziente (di principio) e il paternalismomedico (che resiste di fatto) entrino in rapporto tra loro: questoè inevitabile e sta già accadendo” (Santosuosso, 1996 e 2001).

Differenza tra la sofferenzaGli stessi giuristi ci hanno ricordato, al convegno, che il con-senso informato è un problema medico prima che amministra-tivo, assicurativo o fiscale. Cioè è il problema bioetico di unabuona informazione tra medici e pazienti, per la quale occorro-no più rispetto che assetto giuridico, più norme morali che le-gali. Il consenso informato non è un pezzo di carta, che co-munque va scritto bene, ma è un anello importante del proces-so comunicativo (Tamburini, 1996), “l’inizio di un percorsocondiviso” (Crotti, 2003). Come tale deve essere completo etempestivo, permanente e speculare.

Da paziente esigente che di consensi informati ne ha firma-ti abbastanza (anche se non tutti quelli cui avrebbe avuto dirit-to), le faccio solo alcuni esempi della giusta estensione e com-pletezza, spaziale e temporale, della informazione ai pazienti.

Sto correggendo le bozze di un bel libro in cui la psicologaLucia Aite ha raccolto le storie narrate dai genitori di neonaticon malformazioni genetiche, operati al Bambino Gesù di Ro-ma. C’è una notevole differenza tra la sofferenza dei genitori aiquali l’informazione è stata data prima possibile, durante lagravidanza, e quella di chi l’ha appresa solo al momento del

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parto. La prima è dura, ma consente di dare un senso alle pro-prie scelte successive. La seconda è devastante, un incubo.Molto più dura da recuperare e gestire.

Non solo: l’informazione va data più presto possibile, la dia-gnosi corretta è il primo momento, ma nel dovere di informaresta anche quello di indicare subito le possibilità, le località e leistituzioni che garantiscono il migliore intervento, favorendotempestivamente i contatti. Sia per collaborare tra medici di fa-miglia, radiologi, analisti e istituzioni sanitarie, sia per sollecita-re un ritorno di esperienza tra genitori e medici, che aiuti que-sti a informare sempre meglio.

Nel sito Internet della Società Oftalmologica Italiana c’è uncapitolo sul consenso informato come punto di partenza fon-damentale per decidere se sottoporsi o no all’intervento di chi-rurgia rifrattiva. Nel sito si specificano i pro e i contro del tratta-mento: quando è più indicato, le fasi dell’intervento, le con-troindicazioni, le possibili complicanze, precauzioni e terapiepost correzione. Ogni oculista “è tenuto a dare questo docu-mento quando il paziente chiede di sottoporsi al laser: non peruna firma poche ore prima dell’ingresso in camera operatoria”.

Con l’aumento del tasso di sopravvivenza, la maggior partedelle patologie sono di tipo cronico e non acuto. Il vero proble-ma diventa quello di informare e aiutare i pazienti non solo aconvivere con le malattie, a costruire una strategia terapeuticacomune con i curanti, ma anche a informare bene e tempesti-vamente – a loro volta – i medici, in un processo di retroazionecontinua. Non possono esistere modelli fotocopia di consensoinformato perché non esistono pazienti fotocopia. Con i malatireali il problema è come farsi carico della responsabilità dellacomunicazione. Che non è scaricabile, nemmeno da Internet.

Ne consegue che tendenzialmente, anche sotto l’aspettodella valutazione giuridica, la buona informazione va data pri-ma possibile, deve durare più a lungo possibile e coprire lospazio più ampio possibile. Ma soprattutto deve alimentarsi ilpiù possibile di reciprocità. Per questo mi piace dire “validazio-ne consensuale” più che “consenso informato”.

Voi medici, voi operatori sanitari, siete in prima fila tra i co-siddetti mass media. Siete – dovreste essere – i veri mediatori, iltramite, il traghetto, spesso l’unico, tra le persone malate e l’in-formazione, che sempre più pazienti vorrebbero corretta e ri-spettosa della riservatezza e dell’autonomia. Ma, attenti. Nonbasta essere un canale simbolicamente significativo o formal-mente, tecnicamente corretto. Occorre sforzarsi di essere unponte concreto, un autentico spazio comunicativo. Tutti i gior-ni, in tutte le sedi, non solo nell’intimità dello studio privato. Econ tutti i pazienti: non solo con quelli più esigenti o prepoten-ti, più ricchi di soldi o di cultura, ma anche con quelli più debo-li e poveri, che esigono maggiore disponibilità e creatività co-

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municativa, in primo luogo le persone immigrate. Altrimenti ri-schiate di essere percepiti come il ricostruito ponte di Mostar,che dovrebbe ricollegare la comunità bosniaco/musulmanacon quella cattolico/croata da cui dieci anni fa è partito l’ordinedi distruzione. Un bel ponte, tutto nuovo. Ma, senza una vali-dazione autenticamente consensuale delle due comunità, unclone inanimato.

Da “neofita” della bioetica, ancora stupito della natura di-fensiva che questa è venuta consolidando come “bioetica difrontiera” rispetto ai casi estremi sollevati dalla ricerca scienti-fica, temo il rischio di sottovalutazione del vasto territorio co-stituito dal rapporto medici pazienti, esperienza veramentecentrale e quotidiana. Talmente ordinaria, nella sua drammati-cità – a volte nella sua tragicità – che si rischia di trattarla comegli incidenti stradali, con la loro scia di sofferenze, invalidità emorti. Sembrano quasi un costo dovuto al progresso della mo-bilità, alle sue illusioni di velocità, riservatezza e autonomia.Certo, a volte il prezzo diventa esoso e attira l’attenzione. Ma èil prezzo medio che non fa notizia, mentre i mass media siconcentrano su altri eventi (per esempio, la Sars) facendolipercepire come più drammatici. Schermo e maxi-schermo,per dirla con un filosofo (Galimberti, 1983), “ci esonerano dal-l’esperienza diretta... Qualsiasi informazione... segnala il pun-to di vista da assumere per prendere in considerazione l’even-to che ci viene proposto. E allora ciò che informa ‘codifica’, el’effetto di codice diventa criterio interpretativo della realtà”.Eppure, come si ricava dai rapporti anglosassoni e dalle stimenostrane – perché da noi l’errore è ancora un tabù, una colpa,invece che un’occasione di miglioramento, e ancora non si mi-

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Rocca di Mezzo (2001)

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surano gli errori sfiorati o accaduti – ne uccidono più le corsieospedaliere che quelle autostradali. Un indicatore meno difrontiera, anzi vero simbolo della parte centrale della curvagaussiana e non solo delle sue estremità, è secondo me pro-prio il consenso informato, il quale peraltro è solo un passodella danza comunicativa (Fucci, 1996).

La comunicazione, cioè la vita – come attività relazionali de-gli esseri umani tra loro e con esseri non umani, animali o vege-tali – comprende varie sfere di discorso, di ricerca di senso, diazione e interazione. Le sfere di discorso utilizzano giustifica-zioni (cioè ragioni) e motivazioni (cioè interessi, emozioni, de-sideri e virtù). Entrambe possono essere usate per descrivere oper prescrivere. La scienza è la tipica attività descrittiva, la ricer-ca della verità possibile in un tempo dato. L’etica invece prescri-ve a tutti gli agenti morali consenzienti, coloro che hanno possi-bilità di scelta, compresi gli scienziati: sia come dimensione per-sonale (sii onesto) sia come dimensione sociale (sia onesta la ri-cerca, la cura). L’etica ha regole (ragioni) e sanzioni (disappro-vazione), le quali a volte vengono raccolte in testi che non han-no valore legale ma costituiscono una guida morale pratica (ilvostro codice deontologico). Anche il diritto prescrive a tutti gliagenti, consenzienti o no, e ha regole (norme cogenti) e sanzio-ni (pene materiali) raccolte in testi di legge e codici. Possonoesistere norme giuridiche moralmente sanzionabili ma non so-no ammissibili regole morali (o religiose) legalmente imponibi-li a tutti, anche agli “estranei” morali. Etica non è dare una rego-la uguale per tutti, bensì dare ragioni plausibili per tutti.

È vero che siamo liberi se siamo guidati dalla ragione, nonpassivamente soggetti al pathos. La bioetica però ha a che farecon la persona non solo pensante, ma anche senziente: il pa-ziente, per principio, va considerato come un fine ma va ancheaiutato a non soffrire. Ragione, libertà e autonomia, ideali chenon possono essere presupposti, nemmeno nel consenso in-formato, vanno verificati e costruiti insieme.

Diversamente si comportano religione e politica: entrambedescrivono e prescrivono. Ma la prima prescrive amore reci-proco alla comunità di credenti, rifacendosi a regole (dogmi) esanzioni (pene spirituali). La seconda prescrive rispetto reci-proco a tutti i “cittadini” utilizzando il diritto. La religione sifonda sulla fede e “trascrive” scienza ed etica in una visionetrascendente. La politica le “inscrive” in una azione immanen-te, ha a che fare col consenso e con la maggioranza. La buonapolitica, veramente utilitarista, cioè attenta più alle conse-guenze delle proprie azioni che alle motivazioni, si fonda sul-la fiducia reciproca, unisce metaetica ed etica pratica, memo-rie, valori e speranze. Sono grato agli organizzatori per averrealizzato, con quel convegno, una buona azione politica. Peraver segnalato alla vostra scienza e alla vostra coscienza che il

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consenso informato, pur rappresentando in dottrina “il fulcrodella valutazione della relazione paziente-medico”, resta anco-ra nella pratica un mero adempimento formale, spesso funzio-nale più a ottenere il consenso che a fornire l’informazione suf-ficiente. Paradossalmente, invece d’essere vissuto come l’as-sunzione della ulteriore responsabilità di farsi carico dell’infor-mazione, rispetto a quella del prendersi cura, viene accettatoda molti di voi come una tutela o subìto come un fastidioso “ca-pestro”, un controllo. Si riduce spesso a un nuovo modo perscaricare le responsabilità comunicative. Eppure, i controllinon sono la nostra/vostra garanzia? La trasparenza morale escientifica, ideale e professionale, non è la nostra/vostra forza?

Sappiamo che l’assenso formale del paziente “non esauri-sce la responsabilità morale del medico” e che il consenso in-formato costituisce “una garanzia necessaria ma non sufficien-te”, proprio come l’efficienza. Ci vuole altro: la comunicazione,appunto. La quale, dal concepimento alla morte, è parte essen-ziale e integrante della “alleanza” o, come preferisce dire chi ri-tiene questa definizione pre-moderna, del “patto” terapeutico.

Il “patto” terapeuticoA me, studioso che si trova a essere anche paziente, pare chenella realtà ospedaliera ancora prevalga il pre-moderno rispet-to al moderno e al post-moderno. La vecchia mentalità resisteai timidi tentativi di cambiamento. Forse le tre epoche, le treimpostazioni, sono destinate a convivere per molto tempo ne-gli stessi reparti e nelle stesse corsie. Almeno finché le personemalate non avranno accumulato la consapevolezza, il coraggioe l’autorevolezza sufficienti a imporre i cambiamenti, invece diricorrere ai risarcimenti civili o penali.

Al posto di quelli giudiziari è sperabile si aprano ben diver-si processi: innanzitutto un confronto orizzontale tra i malatistessi, cioè la costruzione di un patrimonio culturale condiviso,fatto di esperienze di cura e di comunicazione; quindi un con-fronto verticale con la medicina, cioè di riappropriazione dellascienza medica; infine, una elaborazione e sperimentazione diproprie analisi critiche e proposte autonome, nel merito e neimetodi di cura e di comunicazione. Processi che richiamano leesperienze di studio e di lotta contro la nocività del lavoro e perla salute in fabbrica, sviluppate tra gli anni ’60 e ’70, da cui sonovenute conquiste, come lo “Statuto dei diritti dei lavoratori” e ilServizio sanitario nazionale, che ancora resistono all’assediodel mercato. Processi di cui le dirò più avanti.

Il problema della salute in fabbrica si pose prima di tutto co-me problema di comunicazione. Lo stesso che si ripropone og-gi per la salute in ospedale. “L’idea della morale medica fonda-ta sul riconoscimento della autonomia delle persone e sul ri-spetto è che ogni paziente debba poter contribuire a decidere

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la comunicazione delle notizie che lo riguardano e il trattamen-to da ricevere” (Azzone, 2003). La realtà invece è diversa, scon-fortante. Al Master di bioetica l’infermiera e sociologa Lucia Mi-tello ci ha fornito i risultati di un’indagine, svolta dal “Coordina-mento per i diritti del cittadino” tra centinaia di ricoverati inquattro città (Genova, Varese, Padova e Roma). Ebbene, nel1994 solo il 38% degli intervistati aveva ricevuto la richiesta diconsenso, nel 1997 la percentuale era salita solo al 54,7. Di quel38%, il 79 per cento non aveva avuto informazioni sui rischiconnessi al trattamento consigliato e l’84% sulle eventuali alter-native terapeutiche (Di Viggiano, 1999).

Un problema non risoltoAl vostro convegno partecipava un’altra infermiera, GiulianaFracassi, che ha avuto la cortesia di farmi consultare la tesi chestava definendo per la Scuola speciale dirigenti assistenza in-fermieristica dell’Università Cattolica. L’elaborato, che riportaun’indagine su conoscenza e valore del consenso informato inambito ospedaliero, realizzata dalla stessa infermiera tramitequestionario da lei ideato e somministrato a pazienti ospedaliz-zati, familiari e operatori sanitari (medici, infermieri, tecnici),conferma i limiti della informazione e della sua comprensione.

A settembre, a un altro convegno “per un’etica della ricercascientifica”, il dottor Giovanni Apolone ha presentato i risultatidi indagini che vanno nello stesso senso. Anch’io farò ricercheper ottenere dati più recenti, ma temo che l’informazione ai pa-zienti – se e quando informarli – e i modi in cui trasmetterla, siatuttora un problema non risolto e rappresenti uno degli aspettipiù controversi che ancora dovete affrontare. È proprio il casodi occuparsene tutti di più e meglio. Le giuste e reiterate preoc-cupazioni circa la persistente carenza di norme potrebbero, amio parere, essere declinate così: raccogliamo sufficienti e au-tentiche esperienze di etica pratica per arrivare a definire il pri-ma possibile le migliori regole giuridiche che aiutino e sorreg-gano tali esperienze. Le quali non possono essere lasciate trop-po a lungo alla discrezionalità delle corti.

Io però continuo a chiedermi: come si comunica? Come sipassa dagli enunciati ai risultati, dalle belle parole una tantumagli umili fatti quotidiani? Rammento un detto orientale che re-cita: “Se ascolto dimentico. Se vedo ricordo. Se faccio capi-sco”. E so che la domanda posta dallo psichiatra Franco Basa-glia (“Può esservi una possibilità di cura dove questa cura nonha una situazione di libera comunicazione tra medico e mala-to?”) non ha avuto risposta perché non si è provveduto a pre-disporre strutture adeguate e personale dotato di preparazio-ne specifica (Turnaturi, 1991). Dunque, come si fa a comuni-care, a intendersi senza litigare tra “camici & pigiami”? Occor-re che gli uni e gli altri imparino anzitutto a comunicare con se

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stessi. I camici, chiamati a fare i conti con il tabù degli errori eil mancato confronto con gli altrui pareri. Insomma, con lapropria arroganza comunicativa. I pigiami, chiamati a darconto della propria ignoranza, che idolatra i dottori e producepaura, isolamento, rassegnazione comunicativa. Il vostro lin-guaggio, che dovrebbe essere terapeutico, è criptico, retorico,usa parole di guerra invece che di consolazione. La vostra pra-tica, che è fatta di poche certezze e molti pareri, nega l’errore eignora il consulto, il confronto con altri specialisti, medici dibase, tecnici e infermieri.

Così il nostro linguaggio, quello dei malati, resta misero edipendente, la nostra pratica quella del credente. Siamo ancorain pochi a confrontarci con i compagni di viaggio, le associa-zioni di malati, i comitati in difesa dei loro diritti. Siamo ancorain pochi a informarci, difenderci, riunirci, confrontarci, a rac-contare il proprio viaggio e a trasmettere strumenti di com-prensione e di azione ai compagni di percorso. Eppure sareb-be terapeutico anche per voi.

Il dato divergenteNella mia esperienza di ricercatore ho compreso il rischio didarmi ipotesi e modelli, a volte impliciti, mutando i ragionevo-li dubbi in irragionevoli idealtipi. Cioè di innamorarmi delladiagnosi del fenomeno da me elaborata e di non cogliere più isegnali divergenti. È quello che spesso capita anche a voi. Men-tre è proprio al dato divergente che bisognerebbe dedicare ilmassimo di sensibilità, una attenzione weiliana (da SimoneWeil), insieme alla corretta metodologia popperiana (da KarlPopper). Che è quella di cercare di falsificare le proprie ipotesiper vedere se reggono, invece di accanirsi per verificarle, conil rischio di non vedere ciò che le contraddice.

Sempre più e meglio si discute di quanto e come informarei malati per coinvolgerli nelle decisioni che li riguardano. Cre-sce la domanda di comunicazione onesta e sincera, come di-mostrano diversi indicatori. Da una ricerca del Picker Institutefra 8.000 cittadini di 8 Paesi europei – pubblicata sulla rivista“Care” – è emerso il desiderio di avere maggiore e migliore in-formazione, in primo luogo dai medici, per assumere maggiorie più consapevoli responsabilità nelle decisioni terapeutiche.Contemporaneamente, un vasto gruppo di esperti ha elabora-to la prima “Carta” europea dei diritti dei pazienti, allo scoposoprattutto di arginare l’invadenza e la prepotenza della “indu-stria della salute”. Si discute sempre di più e meglio del “doloreinutile” (Zavoli, 2002), delle cure palliative, della spiritualitànei pazienti oncologici. Spesso la sofferenza va oltre il dolorefisico, che si può e si deve alleviare. Purtroppo l’Italia resta agliultimi posti nell’uso terapeutico di farmaci analgesici a base dimorfina, con o senza consenso informato. L’indifferenza è la

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causa delle principali e più acute sofferenze di tanti malati, maanche di tanti curanti. Emergono le problematiche relative allasofferenza spirituale ed esistenziale.

La dottoressa Carla Ripamonti dell’Istituto nazionale tumo-ri, insieme a molti clinici e ricercatori, sostiene che è “necessa-rio raccogliere e incorporare la ‘storia spirituale’ dei pazienti al-l’interno della storia medica standard”. Ma come, se non fa-cendo corresponsabile anche il paziente della cartella clinicache lo riguarda? E che tuttora viene gestita quasi come proprie-tà esclusiva da voi medici e dalle caposala?

Da varie ricerche in Nord America e in Giappone emergeche il benessere spirituale risulta essere uno degli aspetti piùdisattesi. “Quando si parla di persona – continua la Ripamonti– quando cioè si parla di noi, si considera il corpo, la mente, lapsiche, l’anima e le relazioni. Nella nostra pratica clinica utiliz-ziamo quasi sempre strumenti di valutazione della qualità dellavita dei nostri pazienti che considerano i sintomi fisici, emozio-nali e il rapporto con le altre persone. Un recente studio mostrache anche la dimensione spirituale deve essere valutata se vo-gliamo avere un approccio ‘olistico’ nei confronti del benesse-re dei nostri pazienti. Anche del nostro”. E se vogliamo comu-nicare, aggiungo io.

Queste giuste considerazioni, insieme ad altre relative al-l’aiuto ai minori colpiti da k e agli adulti inguaribili o morenti,con i quali bisogna pur continuare a comunicare, le ho tratte daun altro importante convegno che ha messo a confronto “gua-ritori del corpo e guaritori dell’anima” e ha loro chiesto: cosa fa-te per informare e aiutare i malati “terminali” e i loro familiari adare un senso alla malattia e alla vita, senza sottostare ad “acca-

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In visita a Gerusalemme (1995)

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nimento terapeutico” o ricorrere a “eutanasia”? Nel frastuonodei diritti si è ricordato che morire è anche un dovere, biologi-co e sociale, cui corrisponde il dovere di aiutarci reciproca-mente a vivere meglio possibile sino alla fine e a morire con di-gnità. Sarebbe utile un consenso informato personalizzato emagari – come ha proposto l’oncologa pediatrica Franca Fos-sati – che tutti gli oncologi passassero un periodo in pediatria,tra i bambini malati di k e i loro familiari: forse imparerebberoche cosa vuol dire comunicare? Sono intervenuto anche lì perchiedere: possibile che si debba morire da piccoli, troppo pre-sto, o arrivare troppo tardi, vicini alla morte, per sperare uma-namente di essere trattati in ospedale da persone vive, intere,sensate, e non da pezzi, cose senza valore? Purtroppo anche ildestino di molti animali è di passare dalla fattoria alla factory,diventando pezzi di carne. La differenza tra umani e manufattiè che noi abbiamo un punto di vista, il diritto a formarci il no-stro punto di vista soggettivo. Il problema è farlo diventare ilnostro punto di vita. Possibile, ancora mi chiedo qui, ora, chenon ci siano negli ospedali operatori altrettanto degni di quelliche partecipavano a quel convegno? E se ci sono, se ci siete,perché non siete contagiosi?

Reciproca fiduciaDa qualche anno, come paziente che continua a fare ricercasulla propria malattia, apparentemente infausta, ho capito il ri-schio di essere ridotto al dato biologico, alla malattia, se nonagli organi colpiti, a volte nemmeno considerati insieme: unavolta sono una vescica, un tumore alla vescica, un’altra sonouna ex prostata, un tumore alla prostata. Quasi mai mi sentotrattato come una persona che soffre di un male curabile an-che se inguaribile. Ho capito che quello che mi serve non è unrapporto materno, caritatevole, amicale, e tantomeno un rap-porto formale, meramente contrattuale. Quello che mi serve,che ci serve – come pazienti e come medici – è un nuovo pat-to scientifico e morale, cioè politico. Una autentica collabora-zione che parta senza demagogia dalla presa d’atto delle asim-metrie di potere e dei rischi di reciproca sudditanza, attuale opotenziale, per dar vita a un nuovo “giuramento” che superi ilimiti unilaterali di quello ippocratico. Un patto che si basi sul-la reciproca fiducia (O’Neill, 2003) senza ricadere nelle tenta-zioni prometeiche del delirio di onnipotenza che aleggia sullanostra attività di ogni giorno.

Il problema del riconoscimento reciproco e della fiducia èimportante, decisivo, fondante non solo per il rapporto medicopaziente ma più in generale. Aver fiducia è una condizione es-senziale della convivenza (Roniger, 1992) e della democrazia(Sztompka, 1996). La mancanza di riconoscimento è un atten-tato alla fiducia (Honneth, 1993). Nel contesto ospedaliero si

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pone innanzitutto come richiamo alla collaborazione tra voimedici, al consulto reciproco, al lavoro di squadra (come av-viene nella famosa Mayo Clinic di Rochester, Usa). Ma imme-diatamente dopo ripropone la delicata e centrale questione de-gli/delle infermieri/e, del loro rapporto con voi medici da unaparte e con noi malati dall’altra, del loro essere cerniera e filtronella relazione medici pazienti. Oltreché della collaborazionetra loro, della loro organizzazione del lavoro. Anche la profes-sione infermieristica, il “gigante dormiente” (Kuhse, 2000), ètra le più moralizzate, dotata di collaudatissimi codici deonto-logici, ma resta tra le meno studiate. Eppure non credo si possaparlare di recupero del riconoscimento, della fiducia, insommadella comunicazione tra medici e pazienti senza passare perquesto nodo (Delfino, 2001).

Helga Kuhse, nota bioeticista, ha messo in discussione la re-lazione tradizionale tra medici e infermiere, mostrando che“l’esclusione delle infermiere dalla decisione non costituisceun buon servizio per i pazienti” e sollevando la questione mo-rale delle responsabilità connesse ai ruoli tradizionali (con par-ticolare riferimento al tema della sospensione delle cure). Sen-za contrapporre al vostro paternalismo di medici una sorta dimaternalismo delle infermiere, la Kuhse sottolinea l’importan-za che il prendersi cura, ovvero il “senso di disponibilità eapertura a conoscere la realtà connessa alla salute dell’altro” in-teso come individuo (e non come un oggetto o come “l’appen-dicectomia in corsia tre”), non esaurisca l’etica della cura infer-mieristica. “Né i principi né la cura bastano da soli a dare indi-cazioni su come agire nelle singole situazioni; è necessaria in-vece una loro integrazione... Cura e giustizia sono nozionicomplementari” (Sala, 2003). Se la cura è un aspetto fonda-mentale delle relazioni umane, l’etica deve rimanere una “im-presa sociale”: è a questo livello che vanno rivisitati i rapporticon i medici (Sala, 2003).

A che punto è la notte?In sintesi, caro dottore, il rispetto dell’autonomia delle infer-miere, così come del rifiuto delle cure da parte di qualche pa-ziente, (il rifiuto informato, strettamente collegato al consensoinformato), mi sembra il primo passo per riuscire a rispettarealtre decisioni come l’aborto e l’eutanasia. Per tornare a chie-dersi, con la Bibbia e con Shakespeare: a che punto è la notte?Ovvero cercare, confrontare, costruire insieme un giudizio divalore sulla qualità del rifiuto e della vita. Che per voi vuol dire,dato che si presume abbiate più “scienza e coscienza” di noimalati, prendervi la responsabilità personale di aprire e tenereaperto un colloquio. Senza rifugiarvi nell’alibi dell’obiezione dicoscienza, che nel codice deontologico è ribadita a 360 gradi,un privilegio che spalanca le porte sul baratro della irresponsa-

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bilità morale (Santosuosso, 1996). Nell’ordinamento giuridico,l’obiezione è consentita solo in due casi: il servizio militare ob-bligatorio e l’interruzione di gravidanza. A me non è mai pia-ciuta, soprattutto quando ha significato solo astensione dalprendersi delle chiare, personali, faticose responsabilità. Dabright, splendente di luce propria senza illuminazione sopran-naturale né boria illuministica, la lascio ai credenti e la rispettoin loro. Anche la “regola aurea” della reciprocità preferisco co-niugarla e, se possibile, praticarla in modo attivo invece chepassivo: fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te.

Non credo che il fine giustifichi i mezzi. Se il fine è buono imezzi devono essere adeguati al fine e non possono contrad-dirlo. Non ti posso ammazzare per il tuo bene. Dio ci scampidallo “Stato etico” che pretende di sapere quel che è bene pernoi senza chiedercelo. Un po’ come per secoli avete fatto damedici paterni e paternalisti con i malati. C’è forse, nella pres-sione che emerge dalle corti di giustizia, nel magma vulcanicoche rischia di bruciare ogni speranza di comunicazione tra me-dici e pazienti, un bisogno atavico di resa dei conti? Si, è proba-bile, non vale nasconderselo.

Uscire dalla rassegnazioneDa paziente esigente, innanzitutto con me stesso, spero e ope-ro perché i malati, meglio se organizzati, si ricordino che il pri-mo dovere del paziente – se si vuole davvero rinnovare unpatto epocale come quello che ci sta davanti – è quello diprendersi la propria parte di responsabilità della malattia edella cura. Il primo dovere è quello di informarsi, di uscire dal-la rassegnazione comunicativa che consente e alimenta la vo-stra arroganza comunicativa.

Io mi sono iscritto al Master in bioetica della “Sapienza”. Ungrande investimento: non solo ho capito che senza etica nonc’è scienza e viceversa. Ma sto altresì verificando che lo studiorigoroso e la lotta trasparente, cioè una sana conflittualità nonviolenta per riuscire a conquistare e ricucire brandelli di comu-nicazione autentica – ossia di comune ricerca, vera e buona –con i miei curanti, è attività terapeutica. E grazie a ciò sono orain grado di “perdonare” non solo le loro esitazioni, le loro sup-ponenze, i loro errori, ma anche le loro indifferenze, queste sìveramente letali. E di ricordare loro – meglio, dimostrare e nonsolo dichiarare – che l’efficienza, come l’informazione, è con-dizione necessaria ma non sufficiente.

La nostra consapevolezza richiede informazione, sicura-mente, ma questa ha una ampiezza e un significato più limita-ti rispetto alla comunicazione. “Per altro verso è soltanto unmezzo o uno strumento per raggiungere la consapevolezzadella propria situazione, che non è detto che si raggiunga an-che se si è informati pienamente e in modo formale” (Santo-

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suosso, 1996). Non solo. Grazie alla comunicazione con altripazienti esigenti, ho potuto acquisire un ulteriore elemento diconsapevolezza, che vorrei spiegarle brevemente – caro dot-tore – perché generalmente voi mostrate di esserne totalmen-te privi: quella non tanto del mio diritto a essere preso in cura,a essere informato e ascoltato, o della mia competenza prima-ria a esprimermi sul modo in cui vivo la malattia, quanto delmio diritto-dovere di contribuire ad accrescere – proprio co-me paziente – la scientificità della relazione terapeutica. In-somma: non “più umanità e meno scienza”, bensì più umanitàe più scienza. Vorrei spiegarglielo con le parole di alcunescienziate femministe.

Come scrive la fisica Enrichetta Susi, la relazione terapeuti-ca (“il momento e il luogo in cui avviene la mediazione tra leconoscenze disciplinari, basate sui grandi numeri, e la perso-na particolare, con il suo corpo e la sua storia unica e irripetibi-le”) avviene in un rapporto diretto e dispari tra persone: “Mol-ti critici dipingono questo rapporto come una contrapposizio-ne tra il senso della malattia, che è proprio del malato, e la co-noscenza scientifica, di cui è portatore il medico”; in realtà an-che per il medico “esiste un senso della malattia, che di solitonon è lo stesso del malato (e non è detto che debbano neces-sariamente coincidere); così come, almeno nella nostra socie-tà, il malato ha normalmente un livello più o meno ampio diinformazioni scientifiche”.

Lo scopo suo e delle altre ricercatrici del gruppo Ipazia è diandare oltre la consapevolezza, forse ormai acquisita, “che l’ef-ficacia di una cura sia legata al buon funzionamento del rap-porto con i pazienti”, per mostrare che “questo rapporto, quan-

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Insieme al suo grande amico il maestro Cesare Malservisi

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do funziona, non produce solo una cura, ma anche un saperela cui utilizzazione e circolazione non è codificata, ma seguespesso vie inattese”. Mostrare cioè che la relazione terapeuticaè “uno snodo essenziale in cui si incontrano la ricerca scientifi-ca e la clinica, e si gioca la possibilità per la medicina di essereveramente una scienza perché entrano in campo due compe-tenze, quella di chi cura e quella di chi chiede di essere curato”,senza peraltro ignorare la disparità di ruoli e di competenze: “Ilcompito principale è della medica, che deve trovare la media-zione adeguata al contesto specifico [fatta di] disponibilità adascoltare... più un lavoro di interpretazione” (alla “ineliminabi-le discrezionalità della medica” corrisponde un “livello di con-trattazione più o meno esplicito, in cui la paziente gioca il suosapere di sé”); tuttavia “quando la relazione terapeutica è effi-cace, si produce un sapere nuovo avvertito come tale dalle dueparti... prodotto dell’incontro tra la competenza disciplinare e ilsapere di sé” (Susi, 1997).

Risvegliare la coscienzaIn questo quadro risalta non solo “la complessità delle figureche hanno il compito della cura, e l’importanza di figure comequella delle infermiere, considerate di solito secondarie e cheinvece.. sono la figura più diretta di mediazione con l’istituzio-ne ospedaliera”, ma anche il ruolo di “un fenomeno nuovo emolto ampio come quello delle associazioni di pazienti che...contribuiscono a cambiare la percezione sociale degli sviluppidella medicina e costituiscono già un canale di circolazionedelle informazioni e di valutazione della efficacia delle cure”(Susi, 1997). Dalle testimonianze emergono persuasivi esempidell’incontro e del prendersi cura come ricerca e capacità di “ri-svegliare la coscienza perché l’interessato possa sviluppare ipropri sistemi di guarigione o di miglioramento”: più capacitàpalpatoria, di capire e mettersi in sintonia, di prendersi respon-sabilità, di trovare aggregazioni. “Il curare viene molto dopo”(Cometti-Alloli, 1997). C’è il confronto tra l’Università, doveimpari “che è importante la definizione nosologica di ogni ma-lattia, indipendentemente dalla persona, dal suo vissuto e dalsuo modo unico, peculiare e irripetibile di ammalare”, o ap-prendi la logica del protocollo da seguire “rigido e schematiconell’anamnesi come nella terapia (la prognosi è approssimati-va, soprattutto nelle malattie croniche)”, e la multiforme realtàdei pazienti, la difficoltà ad ascoltarli, a mettersi in relazionecon tutti: con la loro competenza anche silenziosa.

“Oggi non ho più dubbi sul fatto che una relazione tera-peutica, perché possa chiamarsi relazione, necessita di dueparti con la loro specifica competenza e che l’una non puòfunzionare senza l’altra. La mia competenza è quella di ascol-tare il più possibile senza pregiudizi... la competenza del/del-

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la paziente sta nel definire in maniera il più possibile precisa ilsuo dolore. Non è semplice, perché noi non siamo cresciuticon l’idea che ciò che noi sentiamo è verità. In generale ciòche sente il/la paziente deve rientrare in schemi preconfezio-nati... Alcuni medici hanno rinunciato alla loro responsabilitàdi sentire con le loro orecchie e mani e di vedere con i loro oc-chi, sono diventati esecutori anonimi delle industrie farma-ceutiche e dei macchinari diagnostici... Si sono, in una parola,spogliati della loro competenza: come possono sospettare chei loro pazienti ne abbiano una?” (Pomposelli, 1997). Caro dot-tore, non la riguarda?

Detto altrimenti: “Il controllo e il dominio sono elementiprimari cui si affida il medico. È quindi più difficoltoso per luiuscire da questa modalità, a meno che non abbia fatto un lavo-ro di riflessione che lo abbia portato a rimettere in primo pianola relazione con il paziente, piuttosto che con la sua malattia...La relazione è sempre fonte di nuova conoscenza, non solosulla realtà dell’altro, ma anche per sé” (Boaria, Antonelli e Pa-squali, 1997). Anche le infermiere mostrano la stessa maturaconsapevolezza. Per una di loro, l’aver messo al centro dell’esi-stenza personale e professionale la pratica di relazione, realiz-zando una continuità tra stile di vita e stile di lavoro, ha consen-tito di prendere iniziative, cambiare area di lavoro, studiare, ac-quisire una autorità personale e professionale e di modificare“il ruolo storicamente subalterno e ancillare” dell’infermiera:“Si va alla formazione di équipe medico-infermieristiche omo-genee, condizione ottimale per tentare nuove esperienze. Glistessi pazienti, accolti con interesse e attenzione autentici, ven-gono attivamente coinvolti nella gestione del reparto. È quasisempre possibile trovare la soluzione ottimale, se solo ci si da –ci è dato – il tempo per pensarla e attuarla... per misurarci con imedici, che hanno una certa tendenza ad applicare quel che sisa teoricamente, come pure le varie diagnosi, mettendolo ad-dosso alla persona come un vestito già fatto”; anche se è duro“dover continuamente contrattare spazi di autonomia e ricono-scimento”, specie in questi tempi in cui è premiata più la quan-tità della qualità (Riboli, 1997).

Contrattare spaziPer un’altra l’approdo è dall’ospedale, in cui il lavoro è “fare”senza tanto pensare, a un consultorio in cui dar vita allo “spa-zio pesata” (appuntamento settimanale con le giovani puerpe-re “in cui passano rassicurazione, conferma, comunicazioni”)e allo “spazio adolescenti” per aiutarle a scegliere, e inventarsila modulistica per l’informazione sulle vaccinazioni, sino a fa-re educazione sanitaria nelle scuole (Pontillo, 1997). E le pa-zienti? Una affetta dalla sindrome da attacchi di panico, l’altrada depressione e poi anche da un k, narrano i rispettivi viaggi

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alla ricerca di senso e di comunicazione maieutica. Afferma laprima, ricercatrice: “Ho toccato con mano quanto la mancanzadi una disposizione alla ricerca renda nei fatti scarsamentescientifica la medicina”: la pratica di includere la persona ma-lata, anzi una sua parte, all’interno di uno schema già prefissa-to di catalogazione “prescinde dalla relazione come luogo emomento in cui si sperimenta un metodo, un’ipotesi, cioè si faricerca”. E aggiunge: “Ho pensato a lungo se, come paziente,avessi anch’io qualche tipo di competenza; questa vicenda miinduce a credere che esiste. Molti medici hanno scoperto la re-lazione col paziente, nella quale ci si impone di essere gentili,mostrare disponibilità e comprensione, ascolto, ma il più del-le volte ciò si traduce in un modo formale e distaccato di resta-re ognuno al proprio posto. Una vera e propria capacità di let-tura relazionale, importante tanto quanto quella chimico-fisi-ca, e una propensione per la ricerca, è un patrimonio scientifi-co di pochi. La disumanizzazione in campo medico non è frut-to di un eccesso di scientificità, bensì di un difetto. Sperimen-tare, decidendone i criteri, mettendo alla prova le proprie co-noscenze, affinché queste riescano a contenere anche quel ca-so unico, che non è solo sintomi, ma un insieme di vissuto,memoria, esperienza, che proviene da un passato e che avràun futuro, significa trovare le parole per dire ciò che spesso giàavviene nella pratica clinica. Trovato il modo di dirlo, è possi-bile poi diffondere i risultati perché diventino sapere condivi-so e misura fra quanti operano nelle stesse condizioni, evitan-do che tutto rimanga circoscritto in un inutile soggettivismo:non è questo che fa ogni ricercatore con la propria comunitàscientifica?” (Molena, 1997).

Sapere condivisoLa seconda paziente, un’insegnante, dopo aver riconosciutoche esiste anche una “arroganza del paziente” (chi sa già in an-ticipo quel che vuole sentirsi dire, vuole una riconferma, inve-ce di incominciare un viaggio a due), parla della cura, appunto,come un viaggio, “un cammino dove si va avanti, ma con soste,inciampi, cadute e attimi di nero sconforto” (Lazzerini, 1997).Un percorso tanto più terapeutico quanto più in compagnia.Ecco il contesto più nuovo e propositivo: nelle associazioni dipazienti non si trova solo uno sbocco alla solitudine e all’isola-mento che spesso accompagnano tante malattie, più o menodevastanti, più o meno rare; non si trova solo ascolto e com-prensione, senza essere giudicati. “La relazione trova in questoambito un ruolo primario: nello scoprirsi davanti ad altri, chehanno lo stesso problema di fondo, si impara a prendere co-scienza del proprio bisogno di aiuto, dei propri limiti, ma an-che delle proprie risorse... si impara col tempo a convivere conun problema che, con molto impegno, può anche diventare

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una risorsa nuova e diversa”. L’esperienza della malattia e leconoscenze acquisite vengono diffuse per diventare “saperecondiviso”: si parte da piccoli gruppi omogenei, gruppi di self-help in cui domina il racconto, individuando tratti comuni e dif-ferenze “che formeranno la base per elevare il livello di consa-pevolezza, a partire dal quale pensare interventi, terapie, stra-de diverse. Pratiche che conosciamo abbastanza bene e cheabbiamo sperimentato per anni nei gruppi di autocoscienzafemministi negli anni Settanta” (Molena-Pasquali, 1997).

Da quei collettivi sono nati i primi consultori autogestiti (aMilano, Padova, Torino e poi a Roma, intorno alla bella figuradi Simonetta Tosi) e varie organizzazioni che hanno contribui-to a far approvare nel 1978 la legge 194 contro gli aborti clande-stini, prima, e a rivendicarne e controllarne l’applicazione, poi,di fronte al sabotaggio della corporazione medica che praticòin massa l’obiezione di coscienza (Damiani, Graziosi, Moretti,Pivetta, Re, Stella e Zito, 1981). Anche questa è stata una impor-tante esperienza di “validazione consensuale”.

Luogo di mediazioneLe associazioni sono diventate “luogo di mediazione tra pa-zienti e medicina”, svolgono un ruolo attivo, critico, propositi-vo: “Sono depositarie di conoscenze direttamente collegatecon le esperienze concrete”, danno nuovo impulso alla ricerca(anche sulla base dei dati epidemiologici dei propri soci). In-somma: “Noi crediamo che medici e ricercatori abbiano unafortuna insperata ad avere una fonte così mirata di informazio-ni... un impegno... da cui nasce un tipo di competenza di cuipuò avvalersi anche il medico” (Molena-Pasquali, 1997).

Due sono le esperienze narrate, quella in una associazionetra le persone affette da DAP e quella con una organizzazionedi solidarietà tra e con le persone sieropositive. A propositodell’Aids le associazioni si sono trovate ad assumersi il compitodi una attenta vigilanza, facendo da tramite con autorità pub-bliche e scientifiche, intervenendo anche nel dibattito scientifi-co a rappresentare il punto di vista dei malati: questo ruolo leha arricchite di competenze peculiari, tanto più preziose quan-to più la malattia comincia a tendere verso una cronicizzazio-ne, grazie ai progressi terapeutici ottenuti anche con l’intera-zione “tra il sapere scientifico e il sapere acquisito dalle perso-ne coinvolte nell’evento Aids”.

“La relazione e la comunicazione tra pazienti affetti dallastessa malattia, che pur nelle loro differenze sono accomunatida quella comune condizione, è radicalmente diversa da quel-la tra medici e pazienti (anche la più illuminata) e può contri-buire al rafforzamento dei più deboli tra questi, a migliorare lacomprensione della propria situazione, di quel che gli vieneproposto, e via di seguito” (Botti, 2000). Non solo. “C’è chi con-

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sidera... che il rafforzamento della posizione del paziente, cheè necessario per dare un consenso effettivo... debba consegui-re anche dalla relazione con altri pazienti: in questo senso van-no le richieste di consenso collettivo o il riconoscimento delruolo di gruppi di auto-aiuto”. Anche per la richiesta del con-senso informato, da parte delle istituzioni sarebbe possibilefornire le informazioni rilevanti alle comunità o associazioni dipazienti, mettendo a disposizione degli spazi per consentire laconsultazione: “Tra l’altro il ricorso a questa pratica (cara agliattivisti Aids), che nel mondo anglosassone va sotto il nome dicommunity consultations, può non solo aprire la possibilità diun rafforzamento reciproco, ma anche contribuire a un riequi-librio della disparità di potere e forze tra professionisti della sa-lute e pazienti”.

È possibile comunicareChe non si tratti solo di un lontano riferimento comparativo odi un auspicio teorico, sta a dimostrarlo un’altra esperienza inatto – sia pure in via sperimentale – presso la Sesta Unità opera-tiva di Oncologia polmonare dell’Ospedale Forlanini di Roma,animata dalla responsabile infermiera Lucia Mitello. La qualecosì l’ha esposta al Master in bioetica: “Un consultorio familiare(sul tipo dei self-help o delle community consultations) apertodue volte al mese, dove medici e infermieri danno informazio-ni ai pazienti e ai loro parenti sulla malattia, sulle cure, sullecomplicanze delle cure e sulla qualità di vita, dove c’è la possi-bilità di un consolidamento del rapporto e uno scambio reci-proco di informazioni per migliorare l’assistenza ai pazienti on-cologici”. Dunque è possibile comunicare.

Oggi, ci ha ricordato lo storico della medicina MirkoGrmek, si parla di informazione come portatrice di senso, delsenso della vita. La comunicazione è elemento costitutivo nonsolo della cultura ma anche della natura, del mondo, dell’uni-verso. Ma l’informazione non esiste per se stessa. Un messag-gio, come quello del genoma, non ha senso se non c’è qualco-sa o qualcuno (la cellula vivente) che possa leggerlo e decifrar-lo. Oggi si è capito che il dolore è un “messaggio informatico”,che anche il k rappresenta una “patologia della comunicazio-ne” (Biava, 2002) sulla quale si può intervenire. Sono allo stu-dio terapie genetiche personalizzate.

Ma occorre tener presente che anche la migliore terapia ge-netica, antibatterica o antivirale non servirebbero a niente inassenza di una giusta comunicazione relazionale tra curanti ecurati. Anzi, potrebbero essere controproducenti, perfino ia-trogene. La cura della comunicazione biologica o genetica pre-suppone, richiede e alimenta la cura della comunicazione bio-grafica, spirituale. Inoltre, come ci ricorda Grmek, possiamocurarci meglio, con più forza e meno dolore, con più efficienza

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e sapienza, ma non basta. Si possono curare sempre più mali,“vincere sempre più battaglie, ma non la guerra contro le ma-lattie: che restano un modo inevitabile di esistenza, una espe-rienza dura e inevitabile della vita”. La quale assume senso evalore solo se è animata di informazione, di buona e vera co-municazione, di etica relazionale. Come quella che è circolatanei convegni a cui ho partecipato. E ve ne sono grato.

Buon lavoro, dottore. n

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Alle gentili infermiere

Scritta il 26 dicembre 2004 a Rocca di Mezzo (L’Aquila)

Gentili infermiere del Day Hospital Oncologico di Piove diSacco (Padova), dice a noi? Vi chiederete. Sì, proprio a voi,di cui ancora non conosco i nomi. Ricordo soltanto quellodel bonario volontario che ci intrattiene durante le cure,

Pietro, perché è lo stesso del mio primo figlio e poi perché loleggo ogni volta sul suo cartellino. Nessun nome, dunque, matanti sguardi cordiali e accoglienti. E l’immancabile sorriso. E labravura professionale, sia nelle prestazioni di cura sia in quelledi informazione e di formazione.

Di formazione? Vi chiederete ora. Sì, a me sembrate un po’le maestre montessoriane delle mie nipotine. Avete cioè la pro-pensione a favorire la collaborazione dei malati, a risvegliare lenostre risorse interne, a non scoraggiare lo spirito di iniziativa.Fosse anche solo quello di autoregolare il flusso di una flebo…

E perché ci scrive? Potreste a questo punto domandarvi. Nonsolo perché c’è ancora aria di Natale (anzi, qui in montagna cen’è fin troppa, una vera tempesta di neve) e anche i non creden-ti come me rispettano le tradizioni e rinnovano i buoni proposi-ti, insieme ai figli e alle nipotine... Ma soprattutto perché mi sie-te venute in mente mentre leggevo – specie su “Repubblica” –articoli e lettere polemiche sulla vostra professione.

Molte persone lamentano di aver subito trattamenti sgarba-ti, rozzi e arroganti. Altre rispondono che sono soltanto residuidovuti all’ignoranza, che tutto si risolverà con i nuovi titoli distudio e i nuovi mansionari. Ci ho pensato su, anche alla lucedella mia esperienza in ospedali di varie zone. Non credo chesi tratti esclusivamente di un problema di titoli o di mansioni,di tecniche. E nemmeno di virtù personali. La comunicazionecon i pazienti resta soprattutto una questione di etica pratica, divalori vissuti nei comportamenti quotidiani dagli addetti allecure e dalla organizzazione in cui sono inseriti.

È anche per questo che, nonostante le perplessità e i consi-gli di amici, medici e non, preoccupati per le metastasi alla miacolonna, ho scelto di cominciare da voi quest’altro giro di gio-stra offerto dalla chemioterapia e di rimanere “pellegrin che

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vien da Roma”. Possibile – mi dicono – che in tutta Roma non cisia un’oncologia dignitosa dove poter fare la chemio senzasobbarcarsi ogni volta a un viaggio di andata e ritorno lungo,faticoso e dispendioso? Certo che sì – rispondo – ma non so se,oltre le cure, troverei lo stesso clima positivo e comunicativoche ho percepito fin dal primo approccio, dalla prima visita deldottor Fornasiero.

E che ho ritrovato in tutti gli incontri successivi in cui, primadi ogni terapia, vengo riconosciuto e accolto da voi cortesi per-sone, addette anche alla segreteria; poi vengo ascoltato, au-scultato e visitato con scrupolo dai medici. Magari dopo un belpo’ di attesa, ma questo è il pegno doveroso quando si ha il be-neficio di essere seguiti direttamente dal primario. Il quale – edè la prima volta che mi capita nella mia pur notevole carriera dipaziente – si è offerto di mettersi personalmente in contattocon altri specialisti che si sono occupati di me, come i radiote-rapisti di Roma (oltre che con gli urologi di Padova che mi han-no indirizzato a lui), per consultarsi circa i trattamenti migliorida prescrivere, invece di ignorare o criticare le loro opinioni.Così come ascolta anche la mia, aiutandomi nel faticoso tenta-tivo di restare parte attiva dell’équipe che mi cura, invece chesuo oggetto passivo.

Direttore d’orchestraMa non c’è solo il dottor Fornasiero. Lui è solo il direttore d’or-chestra. Ci sono i musicisti e i coristi, medici e infermiere: unavolta una, una volta l’altra o le altre, ma tutte con uno stile che èsi di efficienza (condizione necessaria ma non sufficiente), e in-sieme è anche di garbo, simpatia, attenzione e presenza.

Mi ha colpito in particolare un curioso episodio, accadutodopo l’ultima cura, il 17 scorso, e che mi è ricomparso vivido efresco proprio ora, mentre leggo sui giornali peste e corna sul-le infermiere scortesi e meschine (se non assassine). Quandoquella di voi che era in servizio nel pomeriggio mi ha chiesto sesarei tornato prima delle feste, ho risposto che sarei tornato so-lo a gennaio, grazie al rinvio concordato con il medico. Allorami ha sollecitato a passare da lei subito dopo la terapia, primadi scappare a prendere l’autobus. Ebbene, confesso di averpensato: “Ecco, anche qui succederà che mi chiederanno diaderire all’ennesima sottoscrizione benefica…”. E invece no.Con mia grande sorpresa mi sono visto invitare a scegliere undono da parte vostra. Si, vabbé, un dono simbolico... ma pursempre il contrario di quanto avviene negli ospedali, dove i“doni” sono di solito quelli dei pazienti, accettati e a volte solle-citati dal personale. Dunque un dono virtuale ma virtuoso, piùvero di certi omaggi dei pazienti al potere dei curanti. Ecco per-ché mi è venuta voglia di scrivervi, anche se nemmeno so co-me vi chiamate di nome. Il vostro atto mi ha commosso, mi

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sembra un segnale di conferma di quello stile armonico e tera-peutico che dicevo. E che mi induce ogni volta a venire (alme-no finché ce la farò e i medici lo valuteranno opportuno). Cer-to che tornerò a Roma magari più stanco, ma ogni volta più se-reno, rinfrancato e rafforzato nella volontà di curarmi nono-stante i disagi della cura.

Molte persone si stupiscono del mio stato “positivo”, delmio reggere bene anche alla chemio. Se è per questo, anch’iomi meraviglio. Ma so che ciò è dovuto, oltre che ai nuovi medi-cinali, al buon rapporto con la vostra équipe. E ve ne sono gra-to. E cerco di ricambiarvi scrivendo, perché è una delle coseche ancora so fare.

Grazie dunque a tutte voi e auguri di buon lavoro anche perl’anno nuovo. n

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Ascolto montessoriano,attenzione e azionePubblicata sul n.89/2006 del “Quaderno Montessori”,dedicata a Virginia Ciuffini (morta il 10 settembre 2005)

Alle parole di Myriam David (Quaderno n.87): “La madreha cura del bambino perché lo ama, l’educatrice lo amaperché ne ha cura”, aggiungerei queste: l’amico cura ilmalato perché lo ama, il medico lo ama perché ne ha cura.

Ricorda dottore il detto “se ascolto dimentico, se vedo ri-cordo, se faccio capisco”? Noi malati, come gli alunni ascuola, in ospedale sentiamo qualcosa, vediamo poco efacciamo quasi niente. Così usciamo, quando va bene,

che non abbiamo capito un gran che della nostra salute. Chespreco... Mentre ogni classe, ogni corsia, ogni ambulatorio po-trebbe essere un laboratorio, per dirla con il pedagogista Fran-cesco De Bartolomeis.

E conosce dottore, a proposito di pedagogia, quella mon-tessoriana? Potrei dire in sintesi, avendola garantita fin dalla na-scita ai miei figli, i quali ora la estendono alle nipotine, che è unmisto di ascolto, attenzione e azione.

Ascolto rispettoso e non distratto o sospettoso – per dirlacon l’analista Luciana Nissim Momigliano, sopravvissuta adAuschwitz – com’è ancora quello di molti medici. Saper ascol-tare è un’arte, ci ricorda l’antropologa Marianella Sclavi, cheparla di ascolto attivo, sperimentale.

Attenzione affettuosa e, come l’ascolto attivo, attivante, ma-gari proattiva. Il contrario di quanto avviene nei vostri ambien-ti, dove compaiono sempre più tv a renderci passivi. Anche incorsia, senza nemmeno le cuffie per renderle meno invadenti.Dove ho fatto la chemioterapia c’era una camera senza tv:quando ho sentito che l’avrebbero piazzata anche lì, ho prega-to di lasciare uno spazio per chi vuole pensare, leggere, osser-vare, comunicare con i compagni di viaggio.

Azione maieutica, quella che favorisce e cura l’emersione,l’uso e lo sviluppo delle potenzialità e delle risorse interne, deibimbi come dei malati.

La regola Montessori “aiutami a fare da solo” vale anche pernoi pazienti. Chi impara è più contento, mantiene il cuore vigi-

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le, per dirla con un altro sopravvissuto ai lager nazisti, lo psi-chiatra Bruno Bettelheim. Montessoriano è il medico che aiutail paziente a curarsi da sé, grazie all’ascolto vero, terapeutico,reciproco; che ricerca e sperimenta, non limitandosi ad argo-mentare un po’ di più. Che comunica, per costruire un terrenocomune di partecipazione responsabile e di protagonismocreativo, aiutandoci a far parte dell’èquipe che ci cura, a prati-care autonomia, libertà e democrazia come forma di vita quoti-diana anche negli ospedali.

Il malato che sta in voiMa vede, dottore, per riuscirci dovreste riconoscere nel rap-porto con noi il malato che sta in voi, così come maestre emaestri cercano di preservare, nel rapporto con i bambini, ilbambino che è dentro di loro. Di più, potreste riconoscere innoi il forte bisogno infantile di un valido interlocutore di riferi-mento, che infonda sicurezza, che aiuti ad affrontare i cambia-menti, non sempre attesi o graditi. Anche a noi, soprattuttoquando cadiamo in una malattia grave o in un suo aggrava-mento – e torniamo bambini, deboli e impauriti – serve il ri-spetto di quello che Grazia Honegger Fresco chiama il “perio-do sensitivo dell’orientamento”. Perché fate così fatica ad ave-re consapevolezza della comune matrice umana, corporea emortale, che ci unisce al di là dei ruoli? A comportarvi da gua-ritori feriti, come dice il filosofo Hans-Georg Gadamer, se-guendo l’invito di pazienti esigenti e preziosi come i giornalistiGigi Ghirotti e Virginia Ciuffini?

Il 27 giugno 2005, Rai Educational ha trasmesso un serviziodi Paolo Barnard intitolato “Nemesi medica”, come il noto librodi Ivan Illich: interviste a quattro luminari colpiti da tumore oda ictus (pubblicate parzialmente nel libro “Dall’altra parte”edito da Rizzoli). Sono cambiati, hanno perso distacco e certez-ze. Uno afferma: “Essere malato è più forte che essere medico”.

Ma io mi chiedo: perché dover attendere il male? Perché ne-mesi e non speranza o riconversione?

E se provassimo a rileggere Maria Montessori? n

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Autobiografia

“Nato a Berceto, nella zona dell’Appennino sita tra le collineparmensi, le Alpi Apuane e le Cinque Terre. Studia al ‘Maria Luigia’ di Parma, poi a Roma, dove risiedecon due figli e tre nipoti. Collabora con Unione ItalianaCiechi, Presidenza del Consiglio dei ministri, Ragioneriagenerale dello Stato e Inps. Attivista politico (Pci, Avanguardia operaia) e sindacale(F.I.D.Enti Pubblici-Cgil) si laurea in Sociologia con tesisulle forme di lotta alternative allo sciopero nei servizi,pubblicata con il titolo ‘Scioperare stanca’ (Adda, 1986).Al 1997 risale la diagnosi del primo tumore (vescica), al 2000 il secondo (prostata: curato inutilmente con terapiachirurgica, ormoni, radio e chemio sistemica).Nel 2004 consegue il primo Master in bioetica ed eticapratica della Sapienza con una tesi intitolata “Per unavalidazione consensuale in ospedale”.Dal 3 giugno 2006 ricoverato in cure palliative all’HospiceAntea di Roma per una paralisi dovuta a cedimentomidollare da metastasi vertebrali”.

“Ho fatto studi seri di sociologia e bioetica; ho assuntoresponsabilità politiche e sindacali anche ad alto livello;ho contribuito a tirar su una famiglia tutt’altro cheparassitaria e consumista. Insomma, davanti al cancroe alle metastasi ossee avrei avuto, forse, non dico il dirittoma almeno l’opportunità di tirare i remi in barcae barcamenarmi un po’. Invece no”.

Gianni è morto alle 15.20 di martedì 6 febbraio 2007.È sepolto nel piccolo cimitero del suo paese natale. Sulla lapide c’è scritto: “Uomo generoso, sempre”.

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Cronologia

Datinome Giovanni Grassi (detto Gianni)nato a Berceto (Parma) il 18 ottobre 1939morto a Roma (hospice Antea) il 6 febbraio 2007padre grande invalido cieco di guerra (dec. 1956)madre ex docente di economia domestica (dec. 2008)fratelli Maurizio (dec. 1944) e Giorgioconiuge Silvia Arbicone, ex docente diritto ed economiafigli Pietro (1964) informatico e Lorenzo (1966) giornalistanipoti Giorgia (1994), Michela (2000) e Irene (2003)paziente oncologico e pensionato Inps

Titoli1958 diploma al liceo classico “Maria Luigia” di Parma1986 laurea con lode alla “Sapienza” in Sociologia, tesi “Il lavo-ro arbitrario nei servizi come forma di lotta alternativa”, pubbli-cata con il titolo Scioperare stanca, una tesi sulle forme di lottanella società dei servizi (Adda, Roma)2004 master con lode alla “Sapienza” in Bioetica ed etica prati-ca, tesi “Per una validazione consensuale in ospedale”2005 socio onorario Associazione radioterapia oncologica2006 socio onorario Società italiana di Psico-oncologia2006 giornalista pubblicista (Ordine del Lazio)

Attività1958 assistente di un docente grande invalido cieco di guerra1960/64 correttore e redattore rivista giuridica “Montecitorio”1962 vincitore premio giornalistico Uic sui problemi dei ciechi 1963/1976 militante del Pci e dirigente di Avanguardia operaia1964/1979 funzionario nell’ente pubblico Unione ciechi1968/1978 sindacalista nella Fidep-Cgil (Federazione italiana

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dipendenti Enti pubblici) e nella Camera del lavoro di Roma1976/1986 direttore della rivista “Bisogni e servizi sociali”, pe-riodico del Consiglio unitario delegati Uic1979 curatore e conduttore della trasmissione Assistenza e lot-ta di classe su Radio Città Futura1980/1997 funzionario Inps con assegnazione Presidenza delConsiglio dei ministri, segreteria ruoli unici e Ragioneria gene-rale dello Stato, ufficio liquidazione enti; poi responsabile piani-ficazione e controllo in sedi zonali e sede regionale Lazio2002/2007 redattore della rivista “l’Incontro”, periodico del-l’Associazione italiana ciechi di guerra

Pubblicazioni principali1961 Equivalenza sociale per i ciechi (“Montecitorio”, nn.9-10)1961 I ciechi e il lavoro (“Montecitorio”, n.11)1962 I ciechi e il lavoro in Italia (“La Parola del Popolo”, n.57)1964 Orientamenti in tema di collocamento della manodopera(“Montecitorio”, nn.7-9)1976 Dipendenti pubblici e controllo popolare (“L’altra Ro-ma”, nn.6-7)1984 La via italiana alla autoregolamentazione (“Quaderni diRassegna sindacale”, n.111)1985 Le forme di lotta in “Cgil, bilancio di quarant’anni” (Qua-derni di Rassegna sindacale, n.114-115)1986 Scioperare stanca. Una tesi sulle forme di lotta nella so-cietà dei servizi (Adda, Roma)1994 L’Inps, un laboratorio a cielo aperto in “Pubblica ammini-strazione e cambiamento organizzativo. La danza degli elefan-ti” (“Sociologia del lavoro” n. 54, con Antonio Zazzetta)2006 Le persone cieche e la comunicazione (“l’Incontro”)2006 Lettera a un ospedaliere (“Il quaderno Montessori”)2006 I Professional (commenti al libro di fumetti di Cesare Mal-servisi pubblicato dall’Antea)

L’elenco integrale delle pubblicazioni di Gianniè consultabile, insieme al suo “curriculum oncologico”,sul sito internet www.giannigrassi.it

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Testamento biologico

Dicembre 2006Giovanni (Gianni) Grassi, nato a Berceto (Pr) il 18/10/1939,residente a Roma, domiciliato nell’Hospice Antea,in possesso della facoltà di intendere e di voleredispone che il figlio Pietro (sostituto fiduciario)

Prima della morteIn caso di crisi di emergenza,con o senza perdita della facoltà di intendere e volere:

non lo affidi al 118 o a un pronto soccorso, ospedale o clini-ca, ma lo trattenga dove si fosse verificata l’emergenza, contat-tando immediatamente l’UOCP dell’Antea e applicandone leistruzioni, compreso l’eventuale trasferimento nell’Hospice;

non lasci effettuare: tracheotomia, rianimazione cardiopol-monare, ventilazione assistita, alimentazione artificiale tramitesondino naso gastrico e/o infissione di aghi, ovvero qualsiasiforma di accanimento (ma acconsenta all’aggattimento: reidra-tazione, purché non comporti un danno ulteriore e non sia re-sponsabile del prolungamento del processo della mia agonia;e, in caso di depressione respiratoria o di riacutizzazione dolo-rosa o di sintomi da astinenza da oppioidi, alle contromisureper alleviare le sofferenze);

non chieda e non conceda assenso ad alcuna forma di assi-stenza e/o rappresentanza per fede (ideologica e/o religiosa).

Dopo la morte Segnali la scomparsasul sito www.giannigrassi.it e sui giornali:

“Gianni Grassi, paziente esigente, è morto il (...) lasciandoquesto messaggio: sono arrivato a 67 anni. A chi m’ha curatobene (medici, infermieri, operatori e volontari) con pazienza,competenza e affetto chiedo di aiutare mia madre a morire condignità e le nipotine a serbare il ricordo del nonno. Benché ab-bia l’impressione d’aver raccolto il seminato (pur con difficoltà,incomprensioni e sbagli in famiglia, nel lavoro, nell’attività po-litica e sindacale, negli studi) ripeto ai professionisti della salu-te: attenti, informazione, efficienza, consenso informato, evi-denza scientifica sono condizioni necessarie ma non sufficien-ti, ci vuole anche la comunicazione, per ottenere validazioneconsensuale, cioè un rapporto reciproco di relazioni terapeuti-che tendenzialmente paritarie tra curanti e curati”.

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Svolga le pratiche funerarie(cremazione, trasferimento ceneri) e queste esequie:

nessuna omelia di preti;con la salma in bara, prima di cremarla, i familiari credenti ce-

lebrino il funerale, affidando la parte non musicale a Maria Tere-sa Carani (Amici di Villa Ada), a Livia Crozzoli (Gruppo Eventi),al dr. Luigi De Salvia e al prof. Giuseppe Piazza; quella musicalealla dr.ssa Paola Pacileo, al coniuge maestro Juan Paradell Solè,al mezzosoprano Marilena Licitra figlia di Maria Occhipinti;

con l’urna cineraria, si possa fare una cerimonia laica brighta Roma, sotto forma di rievocazione di quel che ho cercato didire e fare per la comunicazione tra curanti e curati, magari al-lietata da musiche, letture e proiezioni, coinvolgendo personeamiche come Silverio Corvisieri;

l’urna dovrebbe poi transitare per Rocca di Mezzo (L’Aqui-la) e consentire altra cerimonia funebre (biblioteca, oratorio oparrocchia) con gli interessati, allietata da musiche, letture eproiezioni con l’aiuto della pianista Luisa Prayer, del prof. Ma-rio Arpea, del bibliotecario Liberato Di Sano;

l’urna dovrebbe quindi fermarsi al teatro delle Ariette (vallerio Marzatore, Castello di Serravalle), per eventuale inserimen-to in edizione speciale dello spettacolo estate-fine;

infine l’urna arriverà a Berceto per la tumulazione (con osenza cerimonia funebre, da concordare con la Grande, Giam-piero Bernini e la Pupa Agnetti).

Garantisca che ogni provento derivante da utilizzazionedei miei scritti sia destinato all’Antea o, in caso di cessazionedelle attività di cure palliative, a un’organizzazione similareche, a suo giudizio, meriti tale destinazione. n

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L’incontro con il presidente Ciampi insieme ai ciechi di guerra (2003)

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Pensate che bel paradosso: dover aspettare di essere sul punto di morire, di “lasciare la vita”, per diventareconsapevoli e magari (soggetti morali) attivatori di facoltà mai prima esercitate. Altro che risorse residue… A me sembra un po’ comediventare sciamano proprio quando torno polvere, senza altro domani di quello che, da bright,“splendente di luce propria”, avrò seminato sotto forma di memoria condivisa

“Vorresti dirmi che strada devo prendere, per favore?”“Dipende, in genere, da dove vuoi andare” rispose saggiamente il Gatto.“Dove, non m’importa molto” disse Alice.“Allora qualsiasi strada va bene” rispose il Gatto.“... purché arrivi in qualche posto”aggiunse Alice per spiegarsi meglio.“Per questo puoi stare tranquilla” disse il Gatto.“Basta che non ti stanchi di camminare”

Lewis Carroll (“Alice nel Paese delle Meraviglie”)

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L’ultimo evento. Ma non disperato 51Il dovere, difficilissimo, di perdonare 53Garantire sino alla fine le scelte fatte in vita 54Bisogna essere Papa per farsi rispettare? 57La vera buona morte non è staccare la spina 59Dialoghi sulle ultime volontà e per morire bene 60La speranza di morire vivo 63

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Davanti alla baita assolata dell’Alpe di Siusi dopo una sciata di fondo

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Parlare della morte, propria ealtrui, è sempre stata – nellanostra cultura – un’espe-rienza difficile. Ancor più,

parlare del morire. Molto, moltopiù difficile, e sempre più rara, èl’esperienza di prendersi cura –non per mestiere – di una perso-na morente. E di saperla comu-nicare, come ha fatto RossanaRossanda ne La vita breve (Pra-tiche, 1996). Di morte spettaco-lo ce n’è tanta, al cinema e in tv.Ma in concreto si muore perstrada e in ospedale. Si muoremale, si muore soli, anche se –come ricorda Filippo Gentiloninel libro scritto insieme a Ros-sanda – non sempre e non tuttiallo stesso modo: anche il mori-re è un fatto politico.

In una lettera mai spedita,pubblicata ne Il nespolo (BollatiBoringhieri, 2001) Luigi Pintor,con la figlia “vicina alla mortesenza difesa né contro il male nécontro la sofferenza”, rivolgevaa un professore questa “forse in-debita” domanda: esiste un mo-do e un luogo per morire degna-mente? È la stessa che anch’ioavevo scritto a un pur bravo me-dico ospedaliero mentre, esa-sperato e impotente, assistevoalla morte dolorosa di un amico,

diversi anni fa. Possibile che an-cora non si percepisca una ri-sposta accettabile?

Eppure già nel 1990 i familia-ri di un altro amico morente, Au-gusto Ciuffini, avuta notizia diun’organizzazione di assistenzaa domicilio (animata dal medicoGiovanni Creton) l’avevano uti-lizzata. E in un’altra lettera, pub-blicata su il manifesto, con altricompagni li avevo ringraziatiper avergli saputo garantire unamorte serena e dignitosa. Manon approfondimmo più di tan-to: si trattava della morte di Au-gusto, non della nostra mortalitào – come preferisce dire PatriziaValduga nelle Quartine (Einau-di, 2001) – “moribilità”.

Anni dopo, anch’io sono sta-to colpito dal male che, in unadelle sue varianti, aveva uccisoAugusto e poi, in un’altra, impe-gnato sua figlia Virginia in unadura battaglia, che lei ha rac-contato in Vento forte sulla casarosa (Sperling & Kupfer, 1995) eprosegue tuttora affinché i “pa-zienti” diventino esigenti. Sonostato così richiamato alla lotta ealla coscienza della mia “mori-bilità” con più attenzione. Nonsolo ho capito, grazie alla testi-monianza di Remo Girone sul

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L’ultimo evento.Ma non disperatoRecensione al libro “Sarà così lasciare la vita?” pubblicatasul quotidiano “il manifesto” del 20 giugno 2001

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Notiziario Airc (gennaio 1997),dove conveniva che mi rivol-gessi per farmi curare; ma hopure scoperto che sempre piùgruppi e associazioni si con-frontano e si danno da fare perlenire la fase finale della vita,nelle sue dimensioni materiali espirituali: assistenza fisica e psi-cologica, sostegno pratico emorale, a domicilio e in ospeda-le. Insomma, quanto è necessa-rio per aiutare a soffrire di me-no, a chiudere i conti della pro-pria esistenza e prepararsi alcommiato. Uno di questi orga-nismi l’ho anche frequentato. Èil “Gruppo eventi”, animato aRoma dalla psicologa LiviaCrozzoli Aite, dalla cui plurien-nale attività sono scaturiti scam-bi di esperienze e adesioni alleassociazioni di volontariato.

Molte delle relazioni agli in-contri – svolte da medici, psico-terapeuti, docenti, rappresen-tanti dei gruppi – sono pubblica-

te in un volume intitolato Saràcosì lasciare la vita? (Paoline,2001), destinato a diventare untesto di riferimento e uno stru-mento di formazione, come iben noti Sulla morte e il moriredi E. Kubler-Ross (Red, 1981),La morte amica di M. de Henne-zel (Rizzoli, 1996), Come moria-mo di S. Nuland (Mondadori,1995) e Chi muore? di S. Levine(Sensibili alle foglie, 2000).

Diritti da diffondereQuesto libro prova a formulareuna risposta alla domanda ini-ziale (esiste un modo e un luogoper lasciare la vita degnamen-te?). “Morire mantenendo la pro-pria dignità di essere umano,non da soli, senza dolore o inuti-li sofferenze – ha scritto VirginiaCiuffini – non è più solo unasperanza, è un diritto. Da difen-dere, da diffondere”. Anche coniniziative come questa del“Gruppo eventi”. n

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Lungo i sentieri a picco sul mare delle Cinque Terre (1995)

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Il dovere, difficilissimo, di perdonareDa un volantino distribuito il 28 ottobre 2003 al convegno “Dolore, cure palliative, eutanasia”promosso dall’Istituto nazionale tumori a Milano

Di fronte a tanta ricchezza, atanta bellezza, a tanta veritàe (lo dico da malato di can-cro sopravvivente, ma non

credente in dio onnipotente etantomeno nell’onnipotenza deimedici) di fronte a tanta spiritua-lità competente, avevo deciso diseguire l’invito del filosofo Witt-genstein (“Se qualcuno ha qual-cosa da dire, si faccia avanti. Etaccia”). Ma non ho resistito a fa-re pubblicamente una domandaai medici, a me stesso e a tuttinoi insieme.

Oggi il frastuono dei diritti cifa dimenticare che morire è an-che un dovere, biologico e so-ciale, cui corrisponde il doveredi aiutarci reciprocamente amorire il meglio possibile. (Ivecchi di quest’estate li ha am-mazzati non tanto il caldo, l’ar-sura della natura, quanto ilfreddo, l’aridità della società: lasolitudine, l’assenza delle fami-glie. Ma dov’erano i medici “difamiglia”?).

Morire bene, ci è stato ricor-dato, vuol dire anche riuscire aperdonare i torti dei familiari. Al-lora chiedo ai medici: ricordate

la domanda onirica dell’esami-natore al vecchio medico de “Ilposto delle fragole” di IngmarBergman? Insisteva: “Qual è ilprimo dovere del medico?”. E, difronte al suo imbarazzo, ricorda-te la risposta? “È chiedere perdo-no”. Penso che sia giusto. Ma sobene che è duro, difficile.

E a me stesso chiedo: qual èil mio primo dovere di malato?Non è forse quello – tanto piùdifficile, perché è più duro dareche chiedere perdono – di riu-scire a perdonare ai miei curantinon solo le loro esitazioni, le lo-ro supponenze, i loro errori, maanche e soprattutto le loro letaliindifferenze? So bene che è diffi-cilissimo, quasi impossibile. Maè un passaggio obbligato per ar-rivare a comunicare.

Altrimenti il bambino che re-sta in me, e le mie amate nipoti-ne, ci chiederebbero: signore esignori, è possibile che si debbamorire da piccoli, troppo presto,o arrivare troppo tardi, vicino al-la morte, per sperare umana-mente di essere trattati da perso-ne vive, intere, sensate, e non dapezzi, cose senza valore? n

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Garantire sino alla finele scelte fatte in vitaIntervento (non fatto) al convegno “Al limite della vita, percorsi di cura” organizzato a Roma il 4 dicembre 2004 (ma successivamente svolto al “Gruppo Eventi”)

Tra i bisogni esistenziali allafine della vita secondo mec’è, insieme con quelli del-l’accompagnamento e del-

l’alleviamento del dolore, quellodel rispetto della propria volon-tà. Virginio Bonito, che cura ma-lati affetti da Sclerosi lateraleamiotrofica, scrive: “L’interven-to medico trova il suo fonda-mento e il suo limite nella richie-sta di aiuto espressa dal malato eil prolungamento della vita nonbasta a giustificarlo. Il rispettodella volontà del malato non ècerto il fine della relazione tera-peutica ma ne costituisce il pre-requisito che la rende lecita”.

Di recente sono circolati duefilm che hanno provocato di-scussioni: Il mare dentro e Leinvasioni barbariche. Il primonarra di un uomo paralizzatoche, dopo una vana battaglia le-gale, trova fuori dalla famigliauna persona disposta ad aiutar-lo a suicidarsi con un veleno. Ilsecondo narra di un professoremalato di cancro che, dopo trat-tamento palliativo e con l’aiutodi parenti e amici, decide di sui-cidarsi con una overdose dieroina. In entrambi i casi esisteun ambito familiare premurosoe accogliente: nonostante il

quale, il primo decide di andar-sene comunque da una vita perlui insopportabile; grazie alquale, invece, il secondo decidedi aver chiuso bene i conti e dipotersene andare. Forse lascia-re la vita come questo professo-re piacerebbe a molti, me com-preso (anche se del film dispia-ce che il diritto a una morte di-gnitosa scada in privilegio ga-rantito dal denaro). Ma una si-tuazione del genere è rara a pre-scindere dai soldi.

Come risulta dai censimenti,sempre più si vive soli e poi simuore soli, in ospedale, allamercé dei medici; i quali nell’in-certezza preferiscono fare piùche omettere (dal momento cheil codice deontologico vieta l’ac-canimento ma la sanzione giuri-dica è per l’omissione di soccor-so). Tuttavia, secondo una notaricerca, almeno una volta suquattro la morte è l’esito di unaprecisa, anche se non semprepienamente consapevole, deci-sione del medico. Franco Tosca-ni, direttore d’un Istituto di me-dicina palliativa, riferendo sullarivista Bioetica del convegno “Ilrispetto per il morire” tenuto nelmaggio scorso dalla RegioneToscana, scrive: “Il concetto, o

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meglio, l’illusione che esista unasorta di morte naturale chegiungerebbe quando i tempifossero maturi, per decreto deldestino, della natura o dellaprovvidenza, è in molti casi illu-sorio. Tranne che per le mortiaccidentali o improvvise, lascienza medica ha pressochésempre la possibilità di anticipa-re o rimandare il momento dellamorte, di poco o di tanto che sia,e la scelta del medico... di fattodecide il momento della morte.È quindi cruciale chiedersi co-me e perché vengono presequeste decisioni: e se il perché èconvincente, se i fatti e le inter-pretazioni concordano nell’indi-viduare situazioni nelle quali èopportuno, buono e giusto chela morte giunga prontamente,perché mai il momento giustonon dovrebbe essere indicatodallo stesso malato e la sua deci-sione rispettata?”.

Anch’io, come altre personemalate inguaribili, mi porto den-tro insieme due esigenze appa-rentemente contraddittorie, oforse no: a) la volontà di garanti-re a me stesso di poter decidereautonomamente quando e co-me lasciare la vita; b) la speranzadi essere aiutato a non averne bi-sogno, grazie a una rete di fidu-cia, cioè di relazioni etiche,scientifiche e affettive che mi ga-rantiscano dignità sino alla fine.Però volontà e speranza, al mo-mento buono, sono spessosvuotate dalla assenza di un am-bito familiare collaborativo o diun ambiente ospedaliero rispet-toso. Ecco perché sarebbero im-portanti le direttive (o, come lechiama non casualmente il Co-mitato nazionale di bioetica, che

le vuole depotenziare, le dichia-razioni) anticipate, e una perso-na di fiducia che le faccia valere.Però, secondo il Comitato, nonpossono avere carattere vinco-lante: sarebbe un attacco allaprofessionalità del medico, chepuò essere obbligato solo aprenderle in considerazione e amotivare la sua decisione di at-tuarle o non. Come se la profes-sionalità fosse in insanabile op-posizione con l’autonomia delpaziente. A mio parere le espres-sioni di volontà contenute nelledirettive dovrebbero essere mo-ralmente vincolanti, al pari diquelle rilasciate da ogni personain possesso della piena capacitàdecisionale.

Volontà vincolantiCercando, ho trovato più mo-delli di direttive: alcuni specifici(come quelle degli Ospedali diBergamo dove lavora il dottorBonito, sulla ventilazione artifi-ciale); altri generali: le “disposi-zioni cristiane preventive” dellaConferenza episcopale tedescae della Chiesa evangelica (cheammettono ogni “aiuto passivoo indiretto a morire” col con-senso della persona malata); le“disposizioni sulla propria fine”della Società canadese “morirecon dignità”; la “Carta di auto-determinazione” della Consultadi bioetica di Milano (che perme resta il migliore); sino al “te-stamento biologico” di “Exit Ita-lia per il diritto a una morte di-gnitosa” di Torino (l’unico chepreveda l’eutanasia). Tutti pro-pongono la nomina di fiduciariper la cura del rispetto delleproprie volontà. Anche il Comi-tato di bioetica ritiene opportu-

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no che le dichiarazioni conten-gano i nomi di uno o più fidu-ciari “da coinvolgere obbligato-riamente da parte dei medicinei processi decisionali a caricodei pazienti divenuti incapacidi intendere e di volere”, maesclude di nuovo che le loro va-lutazioni possano avere unaforza vincolante.

Non a caso da noi le direttivenon partono, non hanno ancorariconoscimento legale, in Fran-cia ora sì, in America hanno laforma del living will. La loro au-spicabile codificazione dovreb-be consentire a ognuno suffi-ciente libertà per decidere il mo-do in cui esercitare, direttamen-

te o tramite fiduciari, scelte mo-ralmente significative circa lecure cui intende sottoporsi e lemodalità della propria morte.

È vero che il nostro ordina-mento giuridico non riconosce ilprincipio della disponibilitàdella vita, ma Eugenio Lecalda-no, nel suo Dizionario di bioe-tica, ci ricorda che disporredella vita “è un prerequisitoper individuare i modi respon-sabili ed eticamente accettabiliper dare a essa una continuitàe un senso”. Dunque, unbuon accompagnamento allamorte dovrebbe garantire sinoalla fine anche il rispetto dellescelte morali fatte in vita. n

Con Silvia alla festa della castagna di Corchia (1971)

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Bisogna essere Papaper farsi rispettare?Dall’intervento tenuto il 18 marzo 2006 dopo la tavola rotonda“Giurisprudenza e giudizio” al convegno del Comitato di Eticasu “Il consenso informato: dal mito alla realtà” presso l’Aziendaospedaliera “Ospedale maggiore” di Crema

Voglio fare alcune precisazio-ni: il ministro Giovanardi,quando paragona la norma-tiva olandese sull’eutanasia

alla eutanazia nazista, si dimo-stra non solo un cattolico inte-gralista ma un ignorante integra-le. Eutanasia significa aiuto ri-chiesto da una persona per eli-minare la propria vita da lei rite-nuta non sopportabile. Eutana-zia è stata l’eliminazione non ri-chiesta di persone ritenute nonsopportabili dallo Stato etico na-zista. C’è una bella differenza,infatti, tra etica e Stato etico (co-me tra bioetica e medico etico).

Lo Stato etico è quello che salui, che decide lui qual è il benedei cittadini e glielo impone (co-sì come il medico etico fa neiconfronti dei malati). Ma eticanon è imporre regole ugualiper tutti, bensì è dare ragioniplausibili per tutti. Compito deldiritto è dare regole uguali pertutti, compito della giustizia èapplicarle in modo uguale pertutti. Ma possono esistere, esi-stono purtroppo, leggi immo-rali e sentenze ingiuste. L’eticasta prima e sopra il diritto. Allaluce delle regole morali possia-mo e dobbiamo valutare quellelegali. Alla luce della nostra one-

stà di ricercatori possiamo edobbiamo descriverne l’appli-cazione, spiegarla se ne siamocapaci e poi valutarla.

Se questo è vero, o almenoplausibile, chiariamoci innanzi-tutto sul “testamento biologico”.Sembra di stare a teatro, al-l’aspettando Godot di SamuelBeckett. Tutti ad aspettare la leg-ge. Ma vi ricordate cosa dicevaEnnio Flaiano dei principali viziitalici? Il primo lo definiva “cor-rere in soccorso del vincitore”:l’opportunismo, il servilismooggi tanto di moda. Il secondo èil nominalismo: nominato il pro-blema, cioè fatta la legge, risoltoil problema. Magari fosse.

In realtà non c’è buona leggeche tenga se prima non c’è l’in-formazione, la partecipazione,la condivisione, la sperimenta-zione, insomma una cultura co-mune. E vi pare che possa basta-re una legge sul rispetto dellevolontà di fine vita dei pazientise prima non riusciamo a garan-tire negli ospedali, nella clinica,nel rapporto con i curanti il ri-spetto della nostra autonomia edella nostra dignità? Rischiamoaltrimenti, se si aggiungono ipo-crisia e illusioni, di alimentaredevastanti disillusioni.

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Già il codice deontologico deimedici è un capolavoro di ipo-crisia. Come ha rivelato il giuri-sta Santosuosso, prevede il pri-vilegio dell’obiezione di co-scienza ben al di là dell’unicafattispecie legale rimasta nel no-stro ordinamento, che – dopol’abolizione della leva militareobbligatoria – è quella nei con-fronti della interruzione volon-taria di gravidanza. Insomma,un comodo alibi per far finta dicambiare le parole e invececambiare niente o poco nella re-altà dei rapporti di potere tra cu-ranti e curati.

Vorrei chiudere con un com-mento all’affermazione di unodei magistrati, Benito Mel-chionna, circa la presenza nel-l’ordinamento italiano del dirit-to dei cittadini malati a essere ri-spettati ma l’assenza del dirittoalla disponibilità della vita. Seguardiamo solo le norme è così.Però, se guardiamo dietro lenorme, nelle pieghe e nelle pia-ghe della società, scopriamouna realtà ben diversa. E l’ordi-namento non è fatto solo dellalettera delle norme: si parla per-fino di una Costituzione “for-male” e di una “materiale”. In-nanzitutto ricordiamoci del pic-colo particolare che – come fi-nalmente anche in Italia ci mo-strano studi autorevoli – si muo-re più nelle corsie ospedaliere,per errori diagnostici e terapeu-tici, chirurgici e farmacologici,che nelle corsie autostradali.Chi dispone della nostra vita?Non solo. Altri studi seri mostra-no che in ospedale si dispone,

eccome, anche della nostra finevita: i medici, e non da soli, in-tervengono molto spesso a de-cidere tempi e modi – anticipatie/o posticipati, più o meno utilie/o rispettosi – della morte del-le persone ricoverate. Ormai loriconoscono quasi tutti, sareb-be sciocco nasconderselo.

Un dato illuminanteMa pure a noi poveri pazientiqualcosa è consentito disporre:per esempio, il rifiuto non solodi amputazioni ritenute neces-sarie, ma anche di cure ritenute“salvavita”, fino alla respirazio-ne artificiale e ad altre forme co-siddette di “accanimento tera-peutico”. Certo, conosco an-ch’io il parere del Comitato na-zionale di bioetica che nega sianella disponibilità dei malati, eperciò dei sanitari, il rifiuto di in-terventi come la alimentazioneartificiale, definiti atti “non me-dici” bensì vitali.

Ma il Comitato (o meglio, lasua maggioranza che tende a im-porre le regole del suo credo an-che ai non credenti, piuttosto chea discutere regole plausibili pertutti) ha dimenticato un dato difatto illuminante: non il piccoloGianni Grassi, ma il grande PapaGiovanni Paolo II ha rifiutatol’alimentazione artificiale e hachiesto ai medici del “Gemelli” diessere lasciato morire in pace.Quei medici avrebbero dunqueviolato le regole o hanno, ben-ché cattolici conclamati, rispetta-to la volontà dell’augusto pazien-te? Bisogna essere Papa per farsirispettare in ospedale? n

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La vera buona mortenon è staccare la spinaArticolo pubblicato sul quotidiano “Metro” il 21 dicembre 2006

Sono nelle condizioni del si-gnor Welby. Morire non ècosa buona o cattiva, è undovere biologico e sociale:

a farlo rispettare ci pensa la na-tura. Morire bene, invece, è undiritto alla cui osservanza do-vrebbe pensare la cultura, lasocietà: il diritto di non essereabbandonati al dolore e alla so-litudine. Ma, mentre il doveredi morire viene esercitato perlo più in ospedale, dove si eser-cita il diritto di morire bene? Epoi, è un vero diritto o restauna speranza?

Io lo sto esercitando da 6 me-si nell’Hospice Antea di Roma.Non è un ospedale, è il luogo (etroppo pochi ce ne sono) dove,se dichiarato “inguaribile”, puoipassare alle cure “palliative”:quelle che, oltre a lenire il dolo-re inutile, ti aiutano a tirar fuorile risorse residue, sino alla fine.L’Hospice da cui scrivo è statofondato dal dr. Casale, lo stessoche voleva ricoverare anche ilsignor Welby, che però ha rifiu-tato. Perché? Forse perché sem-bra desiderare, più che una“buona morte” (eutanasia) perse stesso, lo spazio di una buonabattaglia ideologica per il diritto

dei morenti a veder rispettatadai medici la propria volontà?Per dare un senso alla propriamorte? Cioè: no all’accanimentoe sì all’eutanasia? Ma allora checosa significa eutanasia?

Io avevo detto: no all’accani-mento, sì all’aggattimento, cioèal rispetto della mia volontàscritta nel “testamento biologi-co”. E stavo in buona compa-gnia: dal famoso don Verzè, fon-datore dell’ospedale San Raffae-le di Milano, al noto oncologoprof. Veronesi. Entrambi criticatidal movimento “per la vita”,quello che io chiamo “per l’altruisopravvivenza a ogni costo”, etuttora dai fanatici della “sacrali-tà” della vita, anche solo biologi-ca. Ricordiamo quanto ha scrittoSanta Teresa: “Cos’è scriverebelle cose sulla sofferenza? Nul-la, nulla. Bisogna esserci per sa-pere”. Il vero atto d’amore per ilsignor Welby non è “staccare laspina” (lo farebbe solo soffrire),bensì dargli i sedativi giusti e ac-compagnarlo sino alla fine.Questo a me pare il significato dieutanasia: non una forma di sui-cidio assistito ma una “buonamorte” senza dolore. E senza fa-natismi ideologici. n

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Dialoghi sulle ultime volontàe per morire benePubblicati fra l’ottobre 2006 e il gennaio 2007 sull’inserto “Salute”di “Repubblica” con questa premessa: “Gianni Grassi, ‘pazienteesigente’, è un malato che pone interrogativi e dialoga con ilpersonale sanitario, ma pone domande anche a tutti i ‘sani’”

PParlano tutti di eutanasia.Chiedo a un’amica, suorC., già medico responsabi-le di un Hospice a Milano,

che cosa ne pensa.

Bisogna evitare un approccioemotivo al problema. Se è veroche la vita ci appartiene, è altret-tanto vero che il morire è eventodella vita e ha diritto di essereassunto responsabilmente dachi lo vive in prima persona.L’eutanasia è il contrario, il risul-tato di un brutto accanimentodiagnostico e/o terapeutico, chespesso è preteso proprio dai fa-miliari che non si arrendono allamorte del loro caro.

Sarà.Ma vi ricordo comunqueche l’accanimento lo decidetevoi medici.Noi al massimo pos-siamo chiederlo o respingerlo.Nelle mie “disposizioni di finevita”chiedo, al posto dell’acca-nimento, l’aggattimento tera-peutico: ovvero meno macchi-ne e più coccole.

Bella battuta. Ma perché l’hamessa nel “testamento biologi-co”, cioè nelle “disposizioni difine vita”? Non sa che, finchénon ci sarà una legge a dargli

potere nei confronti dei sanitari,resterà un pio desiderio?

L’ho rivolto innanzitutto ai fa-miliari.Ho nominato un figlio“sostituto fiduciario” nei con-fronti di chiunque dovrà occu-parsi di me durante una crisigrave. Dell’Antea mi fido: nonmi terrete in vita a tutti i costi,mi aiuterete a morire bene, ri-spetterete le mie volontà. Manegli ospedali non va così.È im-portante che quanti più malatifacciano il testamento biologi-co per far capire ai medici chenon possono decidere tutto dasoli.L’accanimento protegge so-lo chi lo fa, lo rassicura di averfatto tutto per mantenere in vi-ta il malato senza chiedergli seera quello che avrebbe volutonei suoi ultimi giorni.

Con Gianni ci siamo conosciutitre anni fa a un convegno del-l’Istituto nazionale tumori. Ri-cordo che distribuì un volantinoe ci sottopose il caso di un’amicacieca e malata di Sclerosi lateraleamiotrofica che gli aveva chie-sto di aiutarla a morire. Quel-l’amica è per caso la persona incarrozzina che stava uscendodalla stanza?

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Sì, è lei. Oggi è una bella ecce-zione alle statistiche sanitarieche la vorrebbero spacciata edè venuta a trovarmi.Cerco an-ch’io di sfuggire alle statistichedei malati di cancro.Ce la met-to tutta per riuscire a sensibiliz-zare i sani e a cambiare la si-tuazione dei malati negli ospe-dali e negli ambulatori.

Sono convinta che, se ci fosseropiù équipes e Hospice comequesto dell’Antea, magari fi-nanziati dal Fondo per i non au-tosufficienti, e fossero approva-te le norme sul testamento bio-logico, non ci sarebbe bisognodi eutanasia. Che c’entra pococon le cure palliative e gli Ho-spice, anche se sta al centro deldibattito politico, troppo emoti-vo e ideologico. Meglio parlaredell’accanimento e dei modiper evitarlo.

Interviene un’infermiera: Noidell’Antea all’accanimento con-trapponiamo competenza, qua-lità e passione. A volte ci arriva-no malati con piaghe incredibili,buttati fuori dagli ospedali. Quinon si abbandona nessuno. Enon facciamo business.

La morte di Piergiorgio Welbyha risollevato il dibattito sullaeutanasia, con schieramentipro e contro.Voi operatori dovevi collocate?

Primo infermiere: Dipende. Secon eutanasia s’intende l’omici-dio o il suicidio assistito di unpaziente, come nel caso del si-gnor Welby, allora siamo contra-ri: nel senso che qui non la prati-chiamo, né ci è richiesta. I mala-ti che altrove sono ricorsi a talisoluzioni sono persone in stato

di abbandono o, come il signorWelby, impegnate in campagneideologiche. Qui non si è maiabbandonato né strumentaliz-zato alcun paziente.

Prima infermiera: La campagnafatta dai Radicali per depenaliz-zare il reato di chi assiste unaspirante suicida è legittima.Non capisco infatti perché unapersona possa suicidarsi men-tre, se non è in grado di farlo dasola, si debba incriminare chil’aiuta. Ma è una campagna cheva chiamata con il suo nome:suicidio assistito. Chiamarla eu-tanasia è un errore.

Secondo infermiere: Sì, perchéla vera eutanasia la facciamoqui, recuperando il senso origi-nario della parola. Eutanasianon vuol dire “uccidere senzadolore”, vuol dire “morire be-ne”. Nell’Hospice e al loro do-micilio noi facciamo morire be-ne i malati. Cioè pratichiamo lecure palliative. Innanzitutto peraiutarli contro il dolore inutile:è il primo sintomo da eliminarecon medicine adeguate, a basedi morfina.

Il ministro della Salute ha in-sediato una commissione “sul-la terapia del dolore, le curepalliative e la dignità di finevita”. C’è una vostra collegadell’Antea. Quando ascoltereteanche i malati?

Seconda infermiera: Molti pen-sano che le cure palliative si ri-ducano al dolore, che è un sin-tomo e non una malattia da cu-rare solo nell’Hospice. Sarebbebene che l’alleviamento dei do-lori psico-fisici cominciasse pri-ma, nei reparti e ambulatori in

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cui si accolgono i malati oncolo-gici. Le cure palliative potrebbe-ro così indirizzarsi verso la pre-venzione e la cura delle altre for-me di sofferenza di origine nonpsico-fisica ma organizzativa,sociale: cioè spirituale, nel sen-so di non corporea. Ma ancheverso la ricerca e la valorizzazio-ne delle residue risorse dei mo-renti come lei.

Terzo infermiere: Veramente sidiscute più in tv. Il dottor Me-lazzini, in carrozzella perché

colpito da Sclerosi lateraleamiotrofica, come “guaritoreferito”, cioè medico passatodall’altra parte, ha criticato Ric-cio, il medico che ha staccato ilrespiratore a Welby: “Non bastaattuare la volontà del pazientein modo burocratico. Bisognaascoltarlo e prenderne in caricoi bisogni reali, condividendo unlungo percorso”. Lui ha creatouna associazione di malati diSla. Se lei la farà con i malati dicancro alla prostata forse saràascoltato. n

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La speranza di morire vivo

Testo dell’intervista nel documentario “Intorno alle ultime cose”realizzato nel 2007 dalla regista Francesca Catarci e trasmessoil 12 giugno 2008 su Rai Tre nell’ambito del programma Doc3.Il documentario è visibile nell’archivio Rai su internet (www.rai.tv)

Sono ricoverato in questoluogo che si chiama Hospi-ce. Se resisto e se ancora hoqualche chance di farla di-

ventare da una disavventuraun’opportunità, qual è il mio sti-le di vita di fronte alle esperien-ze negative, lo devo al fatto diessere qui. Penso, spero, in que-sta situazione di riuscire a mori-re vivo, non di arrivare pre-mor-to alla fine, ma di arrivarci vivo.E questa secondo me, per ora, èuna speranza che posso alimen-tare solo qui.

Hospice ce n’è pochi in Italia,ma sono quei luoghi dove si col-tiva una cultura diversa, che è lacultura dell’assistenza, del pren-dersi cura dei malati – sempre dipiù – dichiarati “inguaribili”.Spesso si parla di quelli oncolo-gici, come me, che una volta ve-nivano abbandonati perché rap-presentavano la sconfitta dellamedicina; ma siccome stiamo di-ventando una maggioranza – co-me un po’ nei sindacati, conti-nuano a dire sindacati dei lavo-ratori ma sono sindacati dei pen-sionati – così qui noi siamo lamaggioranza: i malati sono cro-nici. Soltanto che rimangonodue tabù rispetto a questa realtà:da una parte il tabù degli errori,

che è un tabù eccezionale – per-ché i medici hanno così paura diaffrontare il discorso degli errori?– l’altro è la morte. Questo dellamorte, che poi è il più grande er-rore che fanno, secondo loro,quello di lasciarci morire (comese non dovessimo tutti morire: èun dovere biologico, sociale).

Paura della solitudinePerché c’è chi chiede l’eutana-sia? Non è la morte in sé che fapaura, normalmente. Non è lapaura del dolore, quella che co-pre tutte le altre. No, perché og-gi si può essere curati anche daldolore. Oddio, se sei fortunato,se capiti qui. Se capiti in ospe-dali, anche di eccellenza, puòdarsi che al dolore della malattiaaggiungano quello delle pia-ghe. Io sono qui da sei mesi enon ho una piaga.

Voglio dire, c’è tutta una lottada fare sul dolore, sul fatto chesiamo tra gli ultimi Paesi cheusano la morfina, ma queste co-se si sanno. Per andare proprioal sodo, qual è la vera paura? Lapaura della solitudine, l’abban-dono. Allora, sono sempre piùconvinto che ognuno muore co-me ha vissuto: se hai seminatomolto, raccogli molto. E cosa

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raccogli? Relazioni. Sono con-vinto sempre di più che la vita èrelazione, che la cura è relazio-ne, che il 75 per cento delle cureterapeutiche sono fatte di rela-zioni terapeutiche, il 25 per cen-to poi è biologia, tecnologia, far-macologia, statistiche.

Seminare relazioniPerché se tu medicina, tu medi-ci, sai – o dovresti sapere – tuttosulla malattia, sulla singola ma-lattia, sulla mia malattia, su co-me io la vivo e la soffro sono iol’unico competente, o no? Allorao è un confronto, una trattativa,uno scontro tra due competen-ze, o l’una riconosce l’altra, op-pure non è scienza la medicina.

Una paura che invece nonho, fin da adesso, è che – nono-stante la pesantezza del male –io penso, spero, di avere garan-tita una tale rete di rapporti, direlazioni, di affetto che mi aiute-rà a morire come spero io. Silviami chiedeva prima: ‘Allora detta-mi se non riesci a scrivere’. Be-ne, io vorrei morire scrivendo.

Già questo mi consola e miobbliga, mi aiuta a non appro-fondire più di tanto la ricercastupida – la definisco ‘stupida’perché mi fa soffrire – di cosa sa-ranno i sintomi della mia morte:se sarà la stipsi o se sarà la diffi-coltà a respirare. Chi se ne frega:voglio essere lucido, però nonvoglio essere lucido al punto ta-le da prevedere tutto. No, qual-cosa deve rimanere misterioso.

Che cosa significa allora av-vicinarsi alla morte, avere laconsapevolezza di questo per-corso? Da una parte tutte le mat-tine sempre più mi chiedo: chegiornata sarà oggi? Varrà la pena

di essere vissuta? Sento subitoquesta stanchezza preventiva, lastanchezza di vivere, che micondiziona e mi lascia un po’ insospeso; dall’altra parte, però,contemporaneamente – e a vol-te, poi, subentra e mi fa viveremolto meglio – sorge una do-manda e una sensazione di que-sto tipo: sarà un altro momentodi ‘soddisfazione’, di pienezza,che andrà a riempire la mia vita?

Tanto è vero che io sono arri-vato a ridurre tutti i miei proget-ti, perché è un fatto non soltantodi tempo (i miei tempi ormai sisono ridotti a tempi soggettivi, lanozione di tempo oggettivo miè sparita); allora in questoaspetto soggettivo del tempo,che sento piano piano restrin-gersi, vorrei salvare un proget-to. È un progetto bello, vero, vi-vificante ed è quello di riraccon-tare la mia vita alle nipotine. Es-sere capace di rivedere tutta lamia vita nei suoi tre grumi – in-fanzia, maturità, malattia – rac-contandola però a loro.

E sarebbe anche il modo mi-gliore da una parte di esseresemplice e vero, perché con ibambini non puoi che essereautentico e se non ti capisconote lo dicono e se dici una bugiaa maggior ragione; dall’altra diaiutarle, di aiutarmi a perdermi,a lasciarmi andare.

L’altro polo è quello, para-dossale, del rapporto con la per-sona più anziana che oggi esistenella mia vita, cioè mia madreche ha quasi 93 anni. Il bello èche l’altro giorno se n’è uscita inquesti termini, dice: ‘Gianni tunon preghi, non hai chiesa, nonci credi a dio però non sei catti-vo sei buono, sei tanto buono

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che secondo me andrai in para-diso’. Ho detto: ‘Vabbè mammase vuoi, anche se preferirei l’in-ferno dove c’è gente più interes-sante…’. A parte gli scherzi, lacosa importante invece è que-sta. A un certo punto se n’è usci-ta dicendo: ‘Tu andrai in paradi-so, ne sono convinta. Tanto èvero che quando poi morirò tiverrò a cercare in paradiso per-ché tu mi faccia da guida’.

Non so se mia madre se ne èresa conto sino in fondo, maquesto è stato un bellissimo se-gnale che mi ha dato, nel qualemi ha già detto che ha colto ilmio stato ed è disponibile ad ac-cettare che io muoia prima di lei,togliendomi da una prospettivadi sofferenza – Come faccio adirglielo? Come faccio a morireprima di lei? A farle vivere que-sta vergogna di sopravvivere aipropri figli? – ecco adesso sonopiù sereno. Quando è che sonodiventato morente? Guardate,

apparentemente non era cam-biato niente, non avevo nem-meno la gamba gonfia; però hocominciato a sentirlo. Io partivoda questa ricerca di autenticità enel sentirmi io stesso più auten-tico. E ho colto immediatamenteche questa bella, importante si-tuazione umana però è la ripro-va che stai morendo.

Potrei morire adessoÈ come se fosse successo unoscatto: è bello, lo vivrai una voltasola, però è un gradino in piùche fai nella discesa ineluttabile.Questa duplice consapevolezzami porta a volte a dire: oh comepotrei morire adesso, oggi, inquesto momento, bello. Peròpoi mi accorgo che la realtà è“rugosa”, come diceva Pavese,cioè non puoi anteporre i tuoidesideri alla realtà, non puoiconfondere i tuoi sogni con larealtà, nemmeno nel modo e neitempi della tua morte. n

Insieme alla madre Mariolina sul lungomare di Anzio (2000)

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Faccio parte della minoranza (37% dei malati) che sa la diagnosi, e di quella ancora più esigua (12,5%) che sa anche la prognosi. Anzi, sono forse uno dei pochimalati non ricchi e potenti che non solo le conosce ma cerca pure di contrattarle con i curanti: una specie di mozzo che, attraverso i raggi, congiunge vari specialistiche gli ruotano intorno ma non comunicano tra loro;aspiro a diventare un onco-sindacalista o sindacalistaoncologico. Anche perché ho cercato di organizzare i malati come me, restii a dichiararsi e riottosi a impegnarsi

“(Gli Assiri) non avendo medici portanosulla pubblica piazza i loro infermi. Chi si avvicina al malato esprime un parere sulla sua malattia,se per caso ha avuto gli stessi sintomi o se ha saputo di qualcuno che li abbia avuti. Dunque si accostano per dar consigli e ciascuno esortaa fare ciò che lui stesso ha fatto o visto farea un altro per guarire da una analoga affezione.Non è consentito passare oltre in silenziosenza chiedere all’infermo di quale malattia soffra”

Erodoto(“Le storie”)

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comunicazione

Per una “validazione consensuale” in ospedale 69Due per sapere, due per curare 74C’è bisogno di costruire una bioetica quotidiana 86Un terreno comune di ascolto attivo 88Il dito di Caravaggio nella piaga della ricerca 92

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La famiglia Grassi durante una vacanza in Puglia (1977)

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nePer una “validazione consensuale” in ospedaleDalla tesi del Master in bioetica (gennaio 2004)

Perché questo tema? Ancorami meraviglia constatareche si è venuta configuran-do una bioetica “di frontie-

ra” nella quale “si privilegia il ri-ferimento ai casi che rappre-sentano situazioni limite” (Az-zone, 2003), come “riflessionespecifica nata dai cambiamentiindotti dalle innovazioni tecno-logiche”. Temo che, concen-trando l’attenzione sugli estre-mi, si trascuri il centro della cur-va: la relazione medico pazien-te, esperienza quotidiana e dimassa. Così ordinaria, nella suadrammaticità, da essere consi-derata “naturalmente” connatu-rata al progresso della medici-na. Senza che se ne percepiscalo spessore bioetico, se non sal-tuariamente, per vicende per-sonali o tragici errori o sensibi-lità di artisti.

Perché questo titolo? Avreipotuto parlare di “consenso in-formato”, di più facile com-prensione, inducendo peròun’interpretazione riduttivadelle mie intenzioni: invece distimolare domande avrebbepotuto favorire risposte sconta-te. Chi ha sentito parlare delconsenso informato o ne ha fat-to diretta esperienza in ospeda-

le crede di sapere di che cosa sitratti: un modulo, più o menolungo e complicato, che ti fan-no firmare dopo averti spiegatol’intervento che stai per subire.A volte senza nemmeno spie-gartelo, a volte dopo che l’inter-vento è stato effettuato. Co-munque, nell’immaginario col-lettivo, è necessario forse più aimedici che ai malati.

Una relativa novità, certo, madavvero importante? Ebbene sì,è importante. Perché è l’occasio-ne che ha il paziente, a volte laprima, a volte l’unica, per faredomande: tanto più ampie, nu-merose e approfondite quantopiù si sia preventivamente pre-parato. Sembra un paradosso,invece è la semplice realtà: aimedici puoi chiedere e dai me-dici puoi ricevere maggiore emigliore informazione, quantopiù e meglio ti sia già informato,da colleghi di corsia o di sventu-ra, libri, riviste, radio-tv, inter-net. Magari da altri medici e in-fermieri, se è cominciata la tran-sumanza da un istituto all’altro.

Il consenso informato puòricondursi a un pezzo di carta oa un puzzle di parole, dueaspetti di un rapporto funziona-le. È solo un anello, a volte il

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primo, della catena comunicati-va tra curanti e curati, che nonsi esaurisce in esso ma richiedepreparazione e continua manu-tenzione, fatta di ascolto, atten-zione, comprensione reciprocae verificata, basata su osserva-zioni oggettive e valutazionisoggettive. Un po’ come è av-venuto in fabbrica sulla nocivi-tà, tra operai e tecnici al serviziodei proprietari, nella stagioneche va dagli anni ’60 alla nascitadei consigli, fino alla conquistadelle 150 ore da dedicare allostudio e pagate come lavoro.Ecco perché, per rifarmi in mo-do esplicito a un’esperienzaoperaia così definita dai tecnicial servizio dei lavoratori, hopreferito parlare di validazioneconsensuale.

Per capire quella vicenda bi-sogna rifarsi al 1977. Dopoquell’anno, la spinta propulsivaè andata scemando tanto da es-sere dimenticata. Sono cambia-ti infatti, in modo repentino eapparentemente irresistibile, irapporti sociali di produzione edi riproduzione: all’unità e allesolidarietà diffuse, magari unpo’ superficiali, si sono sostitui-te le diversità e le soggettività,la precarietà e il mercato. Nel1977 uscirono due testi, uno dalversante medico (Oddone, Re,Briante) e l’altro da quello sin-dacale (Oddone, Marri, Gloria,Briante, Chiattella, Re), curatidallo stesso gruppo di tecniciche nei primi anni ’60 aveva co-minciato a collaborare con gliorganismi sindacali più sensibi-li al problema.

Dopo anni di studi e propo-ste, nel 1967 era nato un “mo-dello di questionario di grup-

po” per le indagini ambientali.Ma fu nel 1969, grazie anche aun sindacalista ex operaio conuna conoscenza precisa di mol-ti processi produttivi, che essodivenne una preziosa dispensainformativa e formativa, “per ri-solvere in fabbrica questo pro-blema fondamentale: permet-tere la comunicazione nei duesensi, dai medici agli operai edagli operai ai medici”. Non èforse lo stesso problema, tutto-ra irrisolto, che si pone in ospe-dale tra medici e malati?

La “non delega”La dispensa analizzava i fattorinocivi dell’ambiente di lavoro:quelli generici e quelli tipicidella produzione, la fatica fisi-ca e quella psico-fisica ormaiprevalente. Alla tendenza pa-dronale di modificare gli stru-menti senza cambiare le condi-zioni di lavoro nocive, contrap-poneva quella operaia: modifi-care l’ambiente e il modo diproduzione per controllare edeliminare la nocività (Berlin-guer, 1969). Rivendicava unprotagonismo operaio nella ri-cerca scientifica, con strumentidi controllo alternativi e senzala delega a medici, psicologi eigienisti, utilizzabili come con-fronto e conforto.La “validazione consensuale” ela “non delega” – affermava –“non si realizzano spontanea-mente. All’interno della fabbri-ca il sindacato deve: individua-re i gruppi operai omogenei,fornire i modelli di analisi dellarealtà ambientale, strutturaresu questo modello l’informa-zione raccolta dal gruppo intermini di osservazione spon-

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tanea, utilizzare i questionari,verificare attraverso la valida-zione consensuale i momentidella nocività vissuti come fon-damentali dal gruppo, ricerca-re col gruppo le soluzioni, co-struire nella contestazione enella contrattazione il sistemadi controllo permanente”.

Dunque, il problema dellanocività si pose prima di tuttocome problema di comunica-zione. Si passò da linguaggi emodelli elementari ad altri piùarticolati e condivisi. E nonmancarono i risultati: lo “Statu-to dei diritti dei lavoratori” nel1970 sancì il principio della“non delega” nel processo di ri-cerca, controllo ed eliminazio-ne delle cause di nocività; neirinnovi contrattuali andò dimi-nuendo l’aspetto compensati-vo, la “monetizzazione” dellanocività, il contrario di quelloche avviene oggi.

Ne risentì anche la ricercasugli infortuni e le malattieprofessionali, quasi ferma aglistudi di Ramazzini del ’700. Lostesso Servizio sanitario nazio-nale basato sulla Usl (oggiAzienda sanitaria locale), tra-dotto in legge nel 1978, vieneda quella esperienza che ha inparte modificato i modelli del-la medicina legale e di quelladel lavoro, dell’igiene e dellapsicologia: i cui manuali inse-gnavano modi di operare cheescludevano la partecipazionedei lavoratori, ai quali eranoinutili sia per il linguaggio cheper l’impostazione settoriale. Imedici del lavoro non avevanorapporti con gli operai se nonin corsia: la struttura deputataa rispondere alle richieste di

cura e d’informazione sulla no-cività di una sostanza.

Da allora si è sviluppata laricerca epidemiologica e sonocominciate a cambiare le do-mande ai medici, che spessoperò continuano a fornire ri-sposte inadeguate. È stata unaprima esperienza di collabora-zione e confronto con i tecniciaziendali, le loro diagnosi, le lo-ro soluzioni, ma insieme disperimentazione di quelle ela-borate dagli operai.

Competenza ignorataNon è forse la stessa esperienzache si proponeva con i “gruppidi autocoscienza” femministi,che si è riproposta con i primigruppi omogenei di self help tramalati da cui sono nate le loroassociazioni, che riemergequotidianamente tra scienzadel medico, che sa o dovrebbesapere tutto o quasi sulla malat-tia, e scienza del malato, l’unicoa sapere come vive e soffre lamalattia? Eppure questa com-petenza è ignorata, né trova po-sto nel consenso informato.

Peraltro, il percorso deglioperai per creare rapporti cheproducessero un nuovo model-lo di conoscenza, non è statofacile né lineare. La sequenzapotrebbe essere riassunta così:all’inizio si notava unicamente,spesso passivamente, la rela-zione tra nocività e salute, ma-gari per riuscire a monetizzarla;poi sono cresciute le denuncedelle condizioni di lavoro infabbrica insieme al rifiuto deicompromessi. Attraverso ten-tativi autonomi di soluzione emigliori rapporti con i tecnici,le proteste hanno cominciato a

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tramutarsi in proposte, anche dimetodo, sul controllo dellecondizioni ambientali e di salu-te: si è così imparato che senzaconoscenza non c’è controllo eviceversa. Solo a questo puntosi è capito il valore dell’espe-rienza e del patrimonio di os-servazioni del gruppo operaioomogeneo, da tradurre in lin-gua e scienza condivise con itecnici, per puntare al control-lo etico e scientifico dei modidi produrre e della produzione:di beni benefici o malefici? Divita o di morte?

Un modello alternativoSi è acquisito che non si potevaeliminare la nocività da lavorose non si cambiava l’organizza-zione del lavoro molecolar-mente, giorno per giorno: siarecuperando esperienza e re-sponsabilità come lavoratori,sia riappropriandosi dellascienza dei tecnici e aiutandolia recuperare la propria coscien-za. Un modo diverso di farescienza e di comunicare. Si co-minciava a capire che il gruppooperaio omogeneo possedevaun patrimonio culturale, la sto-ria epidemiologica del medesi-mo ambiente e della medesimanocività, che sopravvive allavariabilità dei componenti se sitrovano le forme di trasmissio-ne. Diventava necessario ela-borare, attraverso la validazio-ne consensuale, un modello dimalattia alternativo e comple-mentare a quello dei tecnici,collegando elementi dell’am-biente e disagi psico-fisici indi-viduali e collettivi. Insomma, ilprocesso di validazione con-sensuale, per non restare un

anelito di conoscenza, avrebbedovuto coinvolgere diagnosi eprognosi, analisi critiche e au-tonome proposte.

Ma non ci si è arrivati. Quan-do sembrava che le gocce so-spese stessero per precipitarein una pioggia rinfrescante,l’esperienza si è rappresa innebbia opaca. Perché? Sarebbestato possibile continuare sullastrada intrapresa se all’esternosi fosse costruito un sistema co-noscitivo e organizzativo coe-rente con quello proposto e avolte attuato in fabbrica? Sareb-be bastato “esportare” la pro-pria esperienza di soluzioni,senza riproporre quella di me-todo, il processo di cambia-mento? Sta di fatto che, anchese il modello di analisi era vali-do (“la nocività è una, comeunico e indivisibile è l’uomonel momento in cui patisce ildanno”) la sua attuabilità si è ri-velata più ardua del prevedibi-le. Nel frattempo la fabbrica egli operai sono cambiati, ma inaltra direzione.

Un grande antropologo me-dico si è chiesto: “Possiamo di-fendere seriamente un atteggia-mento epistemologico – ed eti-co – che non privilegi le pretesedi conoscenza proprie dellabiomedicina e delle scienzebiomediche?” (Good, 1999).

Da piccolo “antropologopaziente”, ancor troppo igno-rante e forse un po’ impaziente,mi chiedo: è ragionevolmentesostenibile l’ipotesi che il mo-dello della validazione consen-suale, adeguatamente rivisto erivitalizzato, si addica all’ospe-dale? Il consenso informato po-trebbe costituirne la chiave di

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accesso in questa istituzione“totale”, che la “forza d’animo”oggi può aprire e denudare?

Danza comunicativaForse, ma con un’avvertenza:gli operai non avevano bisognodi tecnici amici o compagni,che li aiutassero a recuperare laloro soggettività, così ai malatinon servono medici amici ocompagni, bensì operatori ca-paci di osservare e ascoltare,

informare e comunicare, con-sapevoli che si è “due per sape-re, due per guarire”: curanti ecurati. La danza comunicativacomprende anche il consensoinformato, purché non si riducaa balletto liturgico. La fiduciareciproca è l’elemento che ren-de reale la partecipazione. Al-trimenti ogni singola responsa-bilità viene annegata inun’astratta e irreperibile re-sponsabilità sociale. n

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Due per sapere, due per curareDalla “lezione” tenuta il 16 febbraio 2004 all’Istituto di Urologiadel Policlinico universitario di Padova

Mentre festeggiavo con amicila conclusione del Masterin bioetica alla “Sapienza”,dove ho discusso una tesi

su la validazione consensuale inospedale, parlavo della “lettura”che avrei tenuto ai miei curantisulla comunicazione tra medicie pazienti. Uno ha detto: “Ma,non c’è un conflitto d’interessi?”.Ho ripensato a questa battuta:no, non c’è conflitto, abbiamo lostesso interesse, la miglior salutepossibile. Casomai potrebbe es-serci un conflitto interno, tra ilmio essere un paziente e un ri-cercatore: da una parte, ricono-scente (perché mi è stata salvatala vita) e sofferente (l’ansia perla recidiva, insomma il doverconvivere con la malattia). Dal-l’altra, insofferente dei ritardi,delle superficialità, degli erroricomunicativi.

Ma a ben guardare è piutto-sto una contraddizione vitale trail mio bisogno naturale come pa-ziente di credervi, darvi fiducia,e quello culturale – come socio-logo – di criticarvi, diffidare dellevostre manchevolezze e dellemie stesse debolezze. Di più. Èuna tensione che mi accompa-gna da quando vi frequento co-me paziente un po’ speciale.

Cioè un ricercatore che ha recu-perato nei vostri confronti lacompetenza e l’identità profes-sionali preesistenti alla malattia,e insieme un paziente che nellacomune esperienza con voi harielaborato una competenza eun’identità più mature.

Attribuisco al rapporto tera-peutico il fatto di sentirmi be-ne, tanto da avere il coraggio divenirvi a parlare, nonostante ledifese immunitarie calate e ilmarcatore tumorale in crescita.Vorrei che vi rendeste conto,come prima cosa, che l’invito atenere questa conversazione ela disponibilità ad ascoltarmiin quanto paziente (magariparziale e indisponente), hacostituito una medicina straor-dinariamente efficace nell’aiu-tarmi a dare un senso anche al-la malattia, a farne un’opportu-nità di ricerca, dunque di vita.L’invito ha contribuito a solleci-tare le mie risorse interne, arinforzarmi nella scelta – ano-mala e apparentemente futilealla mia età – di allargare i mieiinteressi all’etica e alla biolo-gia. Da questa stagione di studivi riporterò alcune domande,proposte e consigli. Cominciocon questi.

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Il primo è un film, tanto belloquanto sconosciuto, del registaMike Nichols e con EmmaThompson: “Wit” (forza di spiri-to e senso dell’umorismo, matradotto “La forza della mente”).Narra il dramma di una docenteuniversitaria, dalla diagnosi dicancro alla sua morte in ospeda-le: dramma di una persona ma,insieme, della mancanza di co-municazione tra medici e pa-zienti. Il secondo consiglio ri-guarda quattro libretti.

Quattro librettiFra le tante pubblicazioni cheinvadono gli scaffali delle libre-rie, ho scelto queste per l’esigui-tà delle dimensioni e la ricchez-za dei contenuti. Di una ho giàfatto dono ad alcuni di voi per-ché è preziosa: si intitola “Medi-ci impazienti. Cinque storieamericane su medicina e mora-le”. Non si trova facilmente. Lealtre due sono: la prima sui ri-schi e gli errori, “Per un ospeda-le sicuro”; la seconda “Chi deci-

de in medicina”, uno dei testipiù chiari finora scritti sul con-senso informato. L’autore, San-dro Spinsanti, lo presenta così:“Questo libretto è dedicato aimedici che hanno poco tempo...L’etica ha molto da dire sul pro-filo che deve assumere la nuovarelazione terapeutica. Ma nonsaranno gli esperti di etica a rea-lizzarla: gli artefici potranno es-sere solo i professionisti sanitari.Questo sapere pratico è loro”. Ei malati? chiedo io.

Infine, la splendida “Lettera aun medico sulla cura degli uo-mini”, scritta da Giorgio Cosma-cini, storico della medicina, eRoberto Satolli, giornalistascientifico, che dovrebbe esserefornita a tutti i giovani medici. Ilterzo e ultimo consiglio è, in uncd realizzato dalla cantautriceLuisa Rossaro, la canzone “Ve-de, dottore…”. Questo il testo:Scusi, infermiera / aspetto dadue ore, / non son la sola / conme c’è almeno una trentina dipersone / tutte col ticket pagato /

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Con il figlio Lorenzo in braccio (1968)

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tutte con la prenotazione, / ionon vorrei sembrarle scortese /ma ogni minuto, qui dentrosembra un mese. Signor dotto-re, / lei è davvero ben gentile / avisitarmi / con tutto quello, tut-to quello che ha da fare, / ma-gari potesse farmi la cortesia /di chiudere la porta dello studio/ finché son senza, sono senzabiancheria. Vede, anche il do-lore / diventa niente / in mezzoa questo andirivieni di gente, /vede, sono io, sono io con il miomale / questo corpo che lei devevisitare. Grazie dottore, / è statomolto chiaro / e il suo ospedale /è una struttura efficiente, effi-ciente e funzionale, / solo che io/ mi sento come una barca nel-le onde, / tutti mi parlano / manon c’è mai nessuno che davve-ro mi raggiunge. Vede, la ma-lattia / non è un incidente, / oc-cupa gli angoli più scuri dellamente. / Vede, dottore / dietro ipensieri sciocchi, se si fermasse/ vedrebbe i miei occhi.

Angoli scuri della menteLa canzone ci dice che l’infor-mazione non è tutto. Ci ricordache, se è vero che la salute è og-gi soprattutto informazione econsapevolezza, il consenso in-formato è solo un passo, impor-tante ma non esaustivo, delladanza comunicativa. Nella qua-le non bastano le virtù, la sensi-bilità umana, e non è tanto que-stione di tecniche. È solo unacanzone, ma si sente che è vis-suta, viene da un’esperienzapersonale. Così come i pazientisentono se di fronte a loro sta unmedico pervaso di onnipotenza,oppure dotato di quella matura-zione personale che – come

scrivono Cosmacini e Satolli –“passa anche attraverso la co-gnizione del dolore, della soffe-renza e della morte”.

Uno di quelli che il filosofoGadamer ha chiamato i “guari-tori feriti”, cioè i curanti consa-pevoli “della comune matriceumana, corporea e mortale, cheunisce, al di là dei ruoli, medicoe paziente”. Io ne ho trovatotraccia in alcune testimonianze.Per esempio, il giornalista GigiGhirotti, raccontando il suoviaggio “nel tunnel della malat-tia”, ha detto l’amara esperien-za d’un amico primario ricove-ratosi in corsia. Oppure il film“Un medico, un uomo”, conWilliam Hurt nella parte di unaltro primario che, una volta di-ventato paziente, cambia dra-sticamente l’organizzazione delreparto. Di “guaritori feriti” neho incontrati alcuni in carne eossa. Anche qui.

Eppure sarebbe mostruosodover attendere che, per riuscirea comunicare con un malato, ilmedico si ammali e sappia checosa significa avere un cancro.Quella consapevolezza può edeve passare anche attraversoun percorso di maturazione fat-to di una diversa formazione,una pratica clinica più completa,una versione aggiornata del fa-moso binomio “scienza e co-scienza”. Al quale, piaccia o nonpiaccia, corrisponde sempremeno quello di un paziente ca-pace solo di incoscienza e rico-noscenza. I malati, a loro volta,ha scritto Virginia Ciuffini, do-vrebbero essere “feriti guaritori”e sono mediamente meno pro-fani e più proclivi alla pretesache all’attesa. Capita più spesso

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che all’arroganza comunicativa,che da sempre contraddistin-gue il paternalismo medico, pe-raltro fondata sulla rassegnazio-ne comunicativa dei malati,vengano a contrapporsi atteg-giamenti speculari. Col rischiodi copiare dagli Usa la prospet-tiva di avere più avvocati che in-fermieri al capezzale.

Domandiamoci: c’è forse,nella pressione che emerge dal-le corti di giustizia, nel magmache rischia di bruciare le speran-ze di comunicazione tra medicie pazienti, un qualche bisognoatavico di resa dei conti? Forsesì, è probabile, non vale nascon-derselo. E allora, come si fa a co-municare, a intendersi senza liti-gare tra “camici & pigiami”?

Come ho scritto nella Letteraa un ospedaliere pubblicata nellibro “Assenza, più acuta pre-senza”, occorre che impariamoanzitutto a comunicare con noistessi, come persone e come ca-tegorie. I camici, chiamati a farei conti con il tabù degli errori e ilmancato confronto con gli altruipareri, a cominciare dagli infer-mieri. I pigiami, chiamati a darconto della propria ignoranza,che idolatra i dottori, passandoda “amore e timore” al rancore.

Uno dei paradossi della co-municazione è che l’ipercon-trollo biomedico e amministrati-vo induce la perdita di controllocomplessivo dell’iter di cura.Mentre il paziente ha un’esigen-za di affidamento fortissima cheperò non è disposto a concede-re a priori, il medico per nego-ziare la fiducia avrebbe bisognodi molto tempo che però l’azien-da non concede. Soprattutto og-gi che la relazione si è allargata:

con l’ingresso dei media nellainformazione sanitaria s’è fattatriangolare. E voi medici dovre-ste fare anche i divulgatori, edu-carci ad autoeducarci, per nonrimanere autodidatti forzati.Tanto più che il modello dellamalattia come parentesi chiusadalla guarigione, cui corrispon-de il malato che “comincia aguarire quando obbedisce almedico”, funziona solo in unaminoranza di situazioni, le acu-zie. Ormai, il 70-80% di tutti i ri-coverati hanno più patologie. Enell’80% dei casi la “guarigione”è quella sufficiente per conti-nuare a vivere, cioè a conviverecon una malattia cronica: cuicorrisponde il medico “montes-soriano” che aiuta il malato a cu-rarsi da sé: grazie all’ascolto atti-vo e terapeutico, reciproco.

Cronici e acutiEppure il problema dell’assi-stenza ai malati cronici e a quellinon autosufficienti è ancora tra-scurato da una medicina alla ri-cerca di prestigio personale egratificazione economica e dauna struttura della spesa note-volmente sbilanciata verso lacomponente per malati acuti.

Non solo. Se è vero che l’in-formazione è circolare e il pa-ziente non è un vaso da riempi-re, è pur vero che quando ciammaliamo regrediamo, fisio-logicamente e psicologicamen-te. Torniamo neonati, pieni diansie e aspettative, a volte diterrore, bisognosi di aiuto e pro-tezione. Possiamo recuperare,certo, ma all’inizio e in ogni ri-caduta è proprio così. Voi sape-te bene che non c’è peggior sor-do di chi soffre e ha paura e che

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il non detto condiziona il risul-tato della consultazione. Inol-tre, c’è anche la vostra fragilità,la fatica dei tecnici. Uno psi-chiatra, dopo aver intervistatomolti medici, ha individuato unaltro paradosso: “Fare il medicoaumenta la paura di morte equesta paura la si attenua facen-do il medico che guarisce”.

Il “British Medical Journal”ha aperto un dibattito: “Perché imedici sono tanto infelici?”. Larisposta più diffusa è stata la co-siddetta sindrome del criceto, lasensazione di “dover correresempre più in fretta per rimane-re fermi”, ovvero “la divaricazio-ne tra gli obiettivi per cui i medi-ci sono stati addestrati e ciò che ipazienti si aspettano da loro”.

Sindrome del cricetoRicerche svolte in Svizzera, pae-se con una medicina efficiente(per esempio: sugli “Annals ofOncology” si legge che il tassodi sopravvivenza per il tumorealla prostata lì arriva al 71,4% ri-spetto al nostro 47,4), rivelanoche i medici locali, per sé e i fa-miliari, ricorrono al chirurgo as-sai meno di altre categorie, e ad-dirittura che la frequenza deisuicidi tra loro supera del 70% lamedia della popolazione. Possi-bile che l’efficienza abbia questicosti? I risultati della medicinavanno valutati da due versanti:le risorse investite (l’efficienza)e gli obiettivi (l’efficacia).L’obiettivo della sopravvivenzadei malati può prescindere daquella dei curanti?

Ma lasciamo le domande eveniamo alle proposte. Sicco-me resta poco tempo, non trat-terò una serie di aspetti che è

quasi scontato collegare allacomunicazione per soffermar-mi su quello, assai meno scon-tato, su cui ho chiesto di titola-re questo incontro. Mi limito acitarli, sempre visti dalla partedel paziente, il secondo di cor-data. Alla base di tutto ci sonola formazione e il linguaggio.La prima è carente, spesso an-cora assente sul piano bioeticoe comunicativo. Occorre mi-gliorare innanzitutto quellauniversitaria, certo. Ma secon-do me non esistono un luogo eun tempo deputati alla forma-zione: bensì è nella pratica cli-nica, in quella ospedaliera inparticolare, l’esperienza conti-nua di formazione.

È qui, nel contatto e nel-l’ascolto quotidiano, che potre-ste e dovreste rimediare al vuo-to curricolare. Qui, dove la for-mazione o è reciproca, cioè vo-stra e dei vostri pazienti, o nonè. Da questo punto di vista il ri-covero è tuttora un grande spre-co. Anche a causa del linguag-gio: il vostro, che dovrebbe es-sere terapeutico, è un gergocriptico, retorico, usa parole diguerra invece che di consola-zione. All’università si imparache “è importante la definizionenosologica di ogni malattia, in-dipendentemente dalla perso-na, dal suo vissuto e dal suo mo-do unico, peculiare e irripetibiledi ammalare”.

La vostra pratica, che è fattadi poche certezze e molti pareri,nega l’errore e ignora il consul-to, il confronto con altri speciali-sti, medici di base, tecnici e in-fermieri. Così il nostro linguag-gio, quello dei malati, resta mi-sero e dipendente. La nostra

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pratica quella del credente. Dinorma siete disposti a ricono-scere che i pazienti possiedano,appunto, credenze ma noncompetenze.

Un grande antropologo me-dico, Byron Good, ha dedicatostudi a “come la medicina co-struisce i propri oggetti”, cioè“descrive il corpo umano e lamalattia secondo tratti cultural-mente peculiari”: le pratichedella conoscenza degli studentidi medicina, dice, sono “modispecializzati di vedere, scriveree parlare” che “formulano la re-altà in un’ottica specificamentemedica”, cioè biologica.

Per esempio: l’anamnesi,centrale nel processo comunica-tivo, spesso unica occasione diun vero incontro tra medico emalato, si riduce a una prassisciatta, burocratico/poliziesca eriduttiva, da affibbiare agli ultimiarrivati invece che da affidare aipiù esperti nell’arte dell’ascoltomaieutico, quello che aiuta il pa-ziente a narrare la sua malattia.

Oppure le presentazioni al girovisita, in cui “il soggetto dellasofferenza viene rappresentatocome il luogo della malattiapiuttosto che come agente nar-rante”, della cui presenza e par-tecipazione si può anche fare ameno. Ancora, la scrittura dellacartella clinica, tuttora affare ri-servato escludente la compren-sione del paziente e la responsa-bilità degli infermieri.

Cartelle escludentiLe stesse perplessità permango-no verso il consenso informato.Oggi non viene più considerato“un’americanata che non ci ri-guarda”, però spesso resta“qualcosa che, nella miglioredelle ipotesi, è da aggiungerealle proprie idee e alla propriaprassi, ma che comunque nonpare scalfirle minimamente”. Èvissuto alternativamente comecapestro o come copertura le-gale, cioè scarico di responsabi-lità; tanto che un noto medicolegale sostiene che “bisogne-

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Preso alle spalle dal famelico e goloso gatto Artù (2000)

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rebbe addirittura abolire i mo-duli e imporre, invece, la docu-mentazione di un rapporto rea-le, di un’informazione precisa”.Per fortuna stanno uscendosempre più lavori seri, ancheper l’urologia, che aiutano a ela-borare meglio i modelli.

Come ricercatore ho ricevu-to materiale informativo eccel-lente che come paziente nonavevo mai conosciuto. Ma, dalpunto di vista etico, è essenzialel’effettività dell’informazione,non la sua forma: non ci sonomodelli fotocopia di consensoperché non ci sono modelli fo-tocopia di paziente.

Alcune proposteEccomi dunque alle proposteconclusive. La prima riguarda ilcontrollo e l’analisi dei rischi edegli incidenti, per trattare l’er-rore non come colpa del singoloma come sintomo di una disfun-zione organizzativa, a volte si-stemica. Saper riconoscere unproprio errore è un elementoimportante della fiducia che de-ve alimentare il rapporto tera-peutico. Ma saper trasformarel’errore in esperienza è ancorapiù importante.

Il sistema medico americanoha saputo farne “un punto diforza della crescita della praticaclinica”, grazie alle Conferenzesettimanali sulle malattie e lamortalità in cui si esaminano leprocedure che hanno portato al-la morte di un paziente e le tera-pie che non hanno dato i risulta-ti attesi: nessuno viene colpevo-lizzato e tutti vengono aiutati anon ripetere gli sbagli. Perchénon farle anche qui?

La seconda riguarda i rap-

porti con i pazienti una volta di-messi: esiti istologici, terapie, in-dicatori di qualità della vita, in-formazioni varie e reciprocheche a volte sarebbero urgenti.Anche qui si tratta di costruire emantenere un ponte tra l’unitàsofferente, la sua comunità el’unità curante (per me e per imiei io sono unico, per voi sonouno, uno dei tanti).

Già due anni fa, da pazienteresidente lontano che faticavaa comunicare con stabili inter-locutori, mi rivolgevo al diret-tore in questi termini: “La notaefficienza della Clinica Urolo-gica, che ha l’ambizione e ilmerito di richiamare malati daogni regione, esige una capaci-tà comunicativa adeguata:chiara, completa e tempestiva.Ritardi e disguidi, come quellicapitati a me, stridono con lafelice produttività terapeutica einsidiano l’affidabilità”.

Esiste un telefono per certiorari, ma ai pazienti sarebbe ne-cessario un presidio con piùcontinuità e flessibilità deglistrumenti comunicativi: unamail reattiva e autorevole; unuso più disinvolto di fax e telefo-no; un sito internet davvero di-sponibile che, con le dovute ga-ranzie, consenta e favorisca lacollaborazione tra i vari medicicuranti. Altrimenti il pazientecontinua a sentirsi come unmozzo che, attraverso i raggi,congiunge vari specialisti che gliruotano intorno ma non comu-nicano tra loro.

La terza e ultima proposta sipuò sintetizzare in modo scher-zoso per arrivare a concluderecon considerazioni serie: perchénon organizzate, non organiz-

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ziamo, una bella associazione dioperati di tumore alla prostata?

Esistono enti meritori, manon ho ancora trovato organismicome quelli cui hanno dato vitale donne operate al seno e lepersone “stomizzate”. Una in piùfarebbe bene a tutti, ai pazienticome ai medici. E spiego perché.Le critiche alla medicina comeesercizio di potere si sono con-centrate sul medico da due ver-santi: quello verso i pazienti(“padre padrone”) e quello ver-so i potenti produttori di farmacio tecnologie e i gestori di azien-de di cura o assicurazione (“ser-vitore di due padroni”).

La cultura anti-autoritaria,nell’incontro con quella anglo-sassone dei diritti e dell’autono-mia, ha dato vita al consenso in-formato. La diffusa istanza di“umanizzazione” della medicinasembra invocare meno tecnica emeno scienza. In realtà occorro-no più umanità e più scienza. Lavostra scienza va arricchita con il“sapere delle relazioni”, che nonè esterno alla professione medi-ca. Il vissuto dei pazienti li fa di-versi uno dall’altro e comportarisposte diverse al medesimoprotocollo. “L’ostacolo maggio-re alla comprensione reciprocaconsiste nella natura intrinseca-mente statistica della conoscen-za e ancor più del ragionamen-to medico”, che fa correre il ri-schio di trascurare come rumo-re di fondo informazioni essen-ziali e di perdere la ricchezza disapere che ogni caso individua-le porta con sé.

Inoltre, nella mia esperien-za di ricercatore ho compreso ilrischio di ridurre le ipotesi, i ra-gionevoli dubbi, a idealtipi.

Cioè di innamorarmi della dia-gnosi del fenomeno da me ela-borata e di non cogliere più isegnali divergenti. È quello chespesso capita anche a voi.Mentre è proprio al dato diver-gente che bisognerebbe dedi-care il massimo di sensibilità eattenzione, cercando di falsifi-care le ipotesi per vedere sereggono, invece di accanirsi averificarle, ignorando ciò chele contraddice.

Una persona interaUn altro rischio che corre il pa-ziente è quello di essere ridottoal dato biologico, alla malattia,se non agli organi colpiti: unavolta la vescica, un’altra la pro-stata; di non sentirsi trattato co-me una persona intera, dotatadi corpo e spiritualità. Si discutesempre più e meglio del “doloreinutile”. Ma la sofferenza va ol-tre il dolore fisico. L’indifferen-za è la causa delle più acute sof-ferenze di tanti malati come ditanti curanti. Secondo un’onco-loga dell’Istituto nazionale tu-mori, sarebbe necessario racco-gliere e incorporare la storia spi-rituale dei malati all’interno del-la storia medica standard.

“Le opinioni dei medici e deiprofani sulle cause e i significatidelle malattie sono lontane”;ma “le idee dei pazienti, perquanto divergenti, non sonosenza capo né coda; anzi... con-sentono di dare un senso allasalute e alla sua perdita”. Di più.Se il medico è competente sullamalattia, il malato è l’unicocompetente a dire come la vivee la soffre, il miglior esperto dise stesso, più di ciò che è in gra-do di esprimere.

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Se il malato deve saper impara-re dal medico le informazionisulla malattia e la cura, il medi-co deve saper imparare dal ma-lato le informazioni su come luivive la malattia e la cura. Il no-stro può diventare un incontrotra esperti con diverse compe-tenze: quella di ascoltare il piùpossibile senza pregiudizi equella di definire in maniera ilpiù possibile precisa il propriomalessere. Altrimenti non sispiega la crescita costante di pa-zienti che si rivolgono ad altri“santuari”, alle medicine nonconvenzionali. Ma perché? For-se perché in quel contesto cu-rante e curato s’interrogano in-sieme sul male e la cura?

Un paziente che cresceTuttavia non si tratta solo delmio diritto a essere preso in cu-ra, a essere informato e ascolta-to, a esprimermi sul modo in cuivivo la malattia. C’è anche il miodiritto/dovere di contribuire adaccrescere, proprio come pa-ziente, la scientificità della rela-zione terapeutica. La quale“quando funziona, non producesolo una cura ma anche un sa-pere, la cui utilizzazione e circo-lazione non è codificata”, un sa-pere nuovo, condiviso, prodot-to dell’incontro tra competenzadisciplinare e sapere di sé. Nellarelazione “si gioca la possibilitàper la medicina di essere vera-mente una scienza perché entra-no in campo due competenze”.Purché si tengano presenti la di-sparità di ruoli e la pari necessitàdi garantire due condizioni: au-tonomia e ricerca.

Autonomia: per riuscire a ri-spettarla nei malati dovreste es-

sere aiutati a riconoscere e recu-perare la vostra, innanzitutto neiconfronti del mercato della salu-te. Come ha scritto una dottores-sa del gruppo Ipazia nel libroche mi ha suggerito il titolo diquesta conversazione: “Alcunimedici hanno rinunciato alla re-sponsabilità di sentire con le lo-ro orecchie e mani e di vederecon i loro occhi, sono diventatiesecutori anonimi delle indu-strie farmaceutiche e dei mac-chinari diagnostici. Si sono, inuna parola, spogliati della lorocompetenza: come possono so-spettare che i loro pazienti neabbiano una?”.

Ricerca: senza spirito di ri-cerca, si finisce per “appiattireun universo umano su pocheregole generali”. Un’altra delleautrici del libro, scienziata delCNR e malata, scrive: “Ho toc-cato con mano quanto la man-canza di una disposizione allaricerca renda nei fatti scarsa-mente scientifica la medicina”:la pratica di includere la perso-na malata, anzi una sua parte,all’interno di uno schema giàprefissato di catalogazione“prescinde dalla relazione co-me luogo e momento in cui sisperimenta un metodo, un’ipo-tesi, cioè si fa ricerca”.

E aggiunge: “Ho pensato alungo se, come paziente, avessianch’io qualche tipo di compe-tenza; la mia vicenda mi inducea credere che esiste. Molti medi-ci hanno scoperto la relazionecol paziente, nella quale ci siimpone di essere gentili, mo-strare disponibilità e compren-sione, ascolto, ma il più dellevolte ciò si traduce in un modoformale e distaccato di restare

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ognuno al proprio posto. Unavera e propria capacità di letturarelazionale, importante tantoquanto quella chimico-fisica, euna propensione per la ricerca,è un patrimonio scientifico dipochi. La disumanizzazione incampo medico non è frutto diun eccesso di scientificità, bensìdi un difetto. Sperimentare, de-cidendone i criteri, mettendo al-la prova le proprie conoscenze,affinché queste riescano a con-tenere anche quel caso unico,che non è solo sintomi, ma uninsieme di vissuto, memoria,esperienza, che proviene da unpassato e che avrà un futuro, si-gnifica trovare le parole per direciò che spesso già avviene nellapratica clinica. Trovato il mododi dirlo, è possibile poi diffon-dere i risultati perché diventinosapere condiviso e misura fraquanti operano nelle stessecondizioni, evitando che tuttorimanga circoscritto in un inuti-le soggettivismo: non è questoche fa ogni ricercatore?”.

E torniamo alle organizzazionidei pazienti. Se ai medici servi-rebbe potenziare più la forma-zione che la deontologia profes-sionale, a noi pazienti serve co-municare sia verticalmente cheorizzontalmente tra noi.

L’arte di trattareNon solo per imparare l’arte ditrattare col medico, per rassicu-rarci e rafforzarci, che già ci fa-rebbe bene. Bensì per elevare illivello di consapevolezza e co-struire un patrimonio culturalecondiviso, fatto di esperienze dicura e comunicazione, che con-senta di ridurre l’ignoranza, diavere un confronto con la scien-za medica, di pensare interventi,terapie, strade diverse, nel meri-to e nel metodo di cura e di co-municazione. Non è utopia.

L’hanno fatto operai e tecnicinelle lotte contro la nocività infabbrica, l’hanno sperimentatole donne nelle lotte contro gliaborti clandestini e nei consul-tori, lo stanno facendo gli attivi-

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Insieme al fratello Giorgio (2003)

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sti Aids nei centri di studio e cu-ra di vari Paesi: i progressi tera-peutici sono stati ottenuti anchecon l’interazione tra il saperescientifico e il sapere acquisitodai malati. In quanto personedotate di conoscenze (in merito,per esempio, agli effetti dei far-maci sul loro organismo), hannotrasformato diversi aspetti dellaprassi scientifica, anche il modoin cui si guarda alla malattia. Ingenerale tutte le associazioni dimalati sono un “luogo di media-zione tra pazienti e medicina”,svolgono un ruolo propositivo,danno un impulso alla ricercaanche sulla base dei dati epide-miologici dei propri soci.

Il senso della vitaInsomma, medici e ricercatorihanno una fortuna insperata adavere una fonte così mirata diinformazioni, un impegno dacui nasce un tipo di competen-za di cui pure qui potreste av-valervi. Ecco il senso della miaproposta. Ci proviamo? Conclu-

do con un auspicio. All’ultimoincontro scientifico su “il lin-guaggio della ricerca”, nellaGiornata nazionale per la ricer-ca sul cancro, ci è stato spiegatoche anche il cancro rappresentauna patologia della comunica-zione molecolare su cui si puòintervenire e che sono allo stu-dio terapie genetiche persona-lizzate. Sono intervenuto perchiedere agli eminenti scienzia-ti: “Che ne sarà delle migliori te-rapie (genetica, antibatterica oantivirale), in assenza di unagiusta comunicazione relazio-nale tra curanti e curati, tra ope-ratori e operati? Potrebbero es-sere controproducenti. Siccomenoi – come dice il poeta – siamoun colloquio, siamo fatti di genie relazioni, di biologia e biogra-fia, la cura della comunicazionegenetica non presuppone e nonrichiede anche quella della co-municazione bioetica?”.

Secondo lo storico della me-dicina Mirko Grmek oggi si par-la di informazione come porta-

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In piazza del Campidoglio (1997)

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trice di senso, del senso della vi-ta. La comunicazione è elemen-to costitutivo non solo della cul-tura ma anche della natura, delmondo, dell’universo. Ma l’in-formazione non esiste per sestessa. Un messaggio, comequello del genoma, non ha sen-so se non c’è qualcosa o qualcu-no (la cellula vivente) che possaleggerlo e decifrarlo. Inoltre, sipossono curare sempre più ma-li, “vincere sempre più battaglie,ma non la guerra contro le ma-lattie: che restano un modo ine-vitabile di esistenza, una espe-rienza dura e inevitabile della vi-ta”. La quale assume senso e va-lore solo se è animata di autenti-ca comunicazione.

Quello che serve tra pazien-ti e medici non è un rapportomaterno, caritatevole, amicale,e tantomeno un rapporto for-male, meramente contrattuale,ma un nuovo patto scientifico emorale (il “British MedicalJournal” ha parlato di nuovo“contratto sociale”). Una colla-borazione che parta senza de-magogia dalla presa d’atto del-le asimmetrie di potere e dei ri-schi di reciproca sudditanza,per dar vita a un patto basatosulla reciproca fiducia, che aiu-ti i pazienti a far parte dell’équi-pe che li cura. Cosmacini e Sa-tolli citano il film “Il posto dellefragole” di Ingmar Bergman. Alprotagonista viene chiesto qualè il primo dovere del medico enon sa la risposta. L’esaminato-

re gli ricorda: “È chiedere per-dono”. Perché? Forse per “ilprivilegio di nutrirsi della ric-chezza dei pazienti, entrandonelle loro vite attraverso laporta della sofferenza”? Nonso, così come non so se “per-dono” sia la parola giusta. Lostesso “British Medical Jour-nal” ha preferito “etica del-l’ignoranza”, cioè la coscienzadei limiti e delle carenze, per-sonali e della medicina.

Da paziente esigente vorreiche i malati, meglio se organiz-zati, si ricordassero che il loroprimo dovere – se si vuole dav-vero rinnovare un patto epocalecome quello che ci sta davanti –è quello di “concedere il perdo-no”: cioè prendersi la propriaparte di responsabilità della ma-lattia e della cura, informarsi,uscire dall’ignoranza e dalla ras-segnazione comunicativa.

Sana conflittualitàIo per riuscirci ho fatto il Master.Ho capito che senza etica nonc’è scienza e viceversa e ho veri-ficato che lo studio rigoroso euna sana conflittualità, traspa-rente, non violenta, per riuscirea conquistare brandelli di comu-nicazione autentica – ossia dicomune ricerca, vera e buonacon i miei curanti – è attività te-rapeutica. E grazie a ciò sono ingrado di “perdonare” esitazioni,errori e indifferenze.

Sperando che perdoniate lamia supponenza. n

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C’è bisogno di costruireuna bioetica quotidianaDalla relazione tenuta il 13 giugno 2004 al “Gruppo Eventi”

Frequentare il “GruppoEventi” mi ha fatto capireche se morire è un dovere,sociale e biologico, morire

bene è un diritto, sociale ebioetico: una speranza morale,non ancora un’istanza legale.Per renderla effettiva occorrecambiare gli atteggiamenti so-ciali nei confronti della morte edei morenti. E siccome le stati-stiche dicono che si muore perlo più in ospedale, occorrecambiare quelli degli operatoriospedalieri, soprattutto dei me-dici (abbiamo il primato mon-diale: 607 medici ogni 100.000abitanti).

Per arrivarci, però, occorreconoscere e cambiare il loro at-teggiamento nei confronti deipazienti malati, prima che di-ventino morenti, per agire sullestrutture e sui bisogni della so-cietà. La comunicazione tra me-dici e pazienti è un grosso nodoetico, prima che un problema divirtù personali, di tecniche co-municative e di organizzazioneassistenziale. L’ennesimo scan-dalo del comparaggio farma-ceutico è qui a ricordarcelo. Ep-pure, nei miei recenti studi misono accorto, con meraviglia,che la bioetica si è venuta confi-

gurando come un’etica di fron-tiera, reattiva alle novità scienti-fiche e tecnologiche. Le possibi-lità di incidere per via tecnologi-ca sulla vita umana procedonopiù rapidamente di quanto nonavvenga per la riflessione etica.

In una ideale curva gaussia-na (che rappresenta l’andamen-to probabilistico medio dei fe-nomeni sociali) potremmo ve-derla concentrata sulle codeestreme: da una parte l’iniziodella vita, la sua definizione, laprocreazione assistita, sino allaclonazione; dall’altra la finedella vita, la definizione di mor-te, sino all’accanimento tera-peutico e all’eutanasia. E ilgrosso della curva, il viverequotidiano, il rapporto con ildolore, la sofferenza, la cura?L’esperienza della malattia edell’ospedale? Credo vi sia bi-sogno di una bioetica quotidia-na che ci aiuti ad affrontare pro-prio lo spessore di questi aspettiordinari, di massa.

Mi trovo oggi a vivere una si-tuazione in cui, alla carenza dienergie si sovrappone una sortadi penuria di ottimismo. E ciònon solo perché è difficile resta-re ottimisti di questi tempi, sem-pre più inquinati da violenze,

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menzogne e paure, in cui le ra-gioni della forza vengono spac-ciate per la forza della ragione ela lotta al terrore con altro terroresta provocando – come dice Am-nesty International – “il più gra-ve attacco ai diritti umani” e allaconvivenza globale.

Ma anche per un motivo per-sonale alquanto deprimente: ri-spetto a quattro mesi fa ho inizia-to un altro giro di giostra nel mioviaggio terapeutico, un lungo ci-clo di radioterapia con effetti de-vastanti in termini di dolore e av-vilimento. Soffro una fiacchezzafisica e morale, anche perchénon sono convinto che ne valgala pena. Come diceva il grandeAlbert Schweitzer “il pazientenon lo sa, ma il vero medico èquello che ha dentro di sé. E noi

abbiamo successo quando dia-mo a quel medico la possibilitàdi fare il suo lavoro”.

Sento la fragilitàIl fatto è che io lo so, ma sentoche il mio medico interiore, il si-stema immunitario fisio-psichi-co, non sta lavorando. Mi spiace,ma dovevo dirvelo, anche perrendervi onestamente partecipidella fragilità, precarietà e re-versibilità delle acquisizioni chesembrano reggere un rapportoterapeutico. Comunque, an-che se le mie convinzioni va-cillano, mi sorregge la serenaconsapevolezza dei limiti dellavita, maturata grazie al “Grup-po Eventi”, insieme alla fondatasperanza di solidarietà e di curesino alla sua fine. n

Sorridendo al figlio Pietro in culla (1965)

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Un terreno comune di ascolto attivoTestimonianza tenuta il 25 maggio 2006 alla tavola rotonda“Il passaggio di comunicazione tra oncologia e cure palliative:si comunica allo stesso modo?” (Master Antea)

Comunicare non è solo que-stione di virtù personali e ditecniche formative, è innan-zitutto un problema di co-

raggio morale. Prendersi delleresponsabilità personali nei rap-porti di lavoro, senza nascon-dersi dietro lo scudo della di-pendenza da parte di chi riven-dica la propria professionalità, èil minimo che si richiede per es-sere credibili. E così nei rapportisindacali: il fine non giustifica imezzi, non penso che per rifor-mare la Sanità sia giusto paraliz-zarla con uno sciopero che col-pisce solo i malati, mi pare siapiù corretto sperimentare formedi lotta rovesciate che contenga-no più proposta che protesta,più tensione morale che asten-sione fisica, più attenzione ai pa-zienti che ai regolamenti e agliemolumenti. O sbaglio?

Il mio look attuale, con il col-lare nuovo fiammante, dice dipiù sul mio stato di tante parole.Sono alle cure palliative, sto ve-dendomela con il dolore. Avevosmesso le terapie, stufo di curar-mi dei danni delle cure, ma nonho la vocazione del martire cri-stiano o maomettano: il collareserve ad alleviarlo, insieme alcerotto alla morfina e magari al-

la Giornata nazionale sul sollie-vo. A me l’ha prescritto l’oncolo-go del Gemelli lunedì scorso,con un nuovo busto e nuove ap-plicazioni radioterapiche. Soloche, abituato a farlo per via in-fraospedaliera, mi ha indicato ilmodello ma non mi ha detto do-ve procurarmelo. Così fino a ierisono impazzito a cercarlo in giroper Roma, finché il solito figlioinformatico non ha rintracciatol’unico centro di vendita.

La vostra domanda è “Comee quando si comunica?”. Io ag-giungo: basta preoccuparsi del-la diagnosi e della prognosi, op-pure sarebbe meglio occuparsianche di certe piccole cose cheperò incidono sulla qualità dellavita del paziente? E poi mi chie-do: il collare, nel “passaggio dicomunicazione” tra oncologia ecure palliative, è un prodottodell’orto oncologia o un prodot-to dell’orto cure palliative? Ionon lo so, ma credete forse cheil saperlo cambierebbe qualcosanella mia predisposizione a su-birne il fastidio?

E così siamo entrati subito inargomento. Scusate se ho messoi piedi nel piatto, ma il collare miimpedisce di abbassare bene latesta. Per fortuna non mi impe-

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disce di leggere e di scrivere. Lamorfina è già più insidiosa: stofaticosamente sperimentandoun fragile equilibrio tra il massi-mo di dolore sopportabile e ilminimo di torpore accettabile.Per questo ieri sera mi sonoscritto questi appunti: la preca-rietà è ormai la mia signora, nonpotevo sapere se oggi sarei statoin grado di intervenire, megliogarantirsi. E se poi va bene e rie-sco a vivere un’altra intera gior-nata in modo decente, sai chebella soddisfazione: è un piace-re che prima ignoravo, dandoloquasi per scontato, come faccia-mo per tante cose della vita fin-ché non vengono messe in for-se, magari da un cancro.

Mistero rinnovatoHa ragione Tiziano Terzaniquando scrive, in “Un altro girodi giostra”, che il cancro non èun nemico e tantomeno un ami-co: è, può essere, “un baluardocontro la banalità del quotidia-no”. E di questa banalità fa parteindubbiamente la tendenza adare per scontate tante cose, di-rei di più: a dare per scontata lavita stessa. Che invece è un mi-stero, un dono continuamenterinnovato e, spesso, ampiamen-te meritato.

Forse comincio a capire, conil Galileo di Bertolt Brecht (ri-preso da monsignor GianfrancoRavasi nel suo “mattutino”sull’Avvenire di domenica scor-sa), una cosa importante: nonsempre è vero “che la strada piùdiritta e sbrigativa sia la più effi-cace per superare un ostacolo.Più produttivo può risultare inalcuni casi l’accerchiamento pa-ziente, la strategia lenta e minu-

ziosa, la curva progressiva di av-vicinamento rispetto alla marciafrontale di sfondamento, la sa-pienza dell’attesa, la pazienza, lapacatezza, la riflessività rispettoall’irritazione iraconda”.

Mentre forse è vero – per ci-tare una frase del romanziere Ju-les Renard, anch’essa ripresa daRavasi – che “se si vuol costruirela casa della felicità, è bene ri-cordare che la stanza più grandedev’essere la sala d’attesa”. Inmaniera diversa, con le parole diFrank Ostaseski (fondatore e di-rettore del Zen Hospice Projectdi San Francisco) riprese dal suo“Saper accompagnare” (OscarMondadori, 2006), potrei dirlacosì: “Quando consideriamo lamorte vicina, a portata di mano,il nostro bisogno di gratificazio-ne diventa meno ossessivo. Im-pariamo a prendere noi stessi ele nostre idee un po’ meno sulserio, o a lasciar perdere conpiù facilità. Ci apriamo di più al-la generosità e all’amore, ci sen-tiamo più disposti alla gentilez-za reciproca”.

So di essere un paziente infase avanzata di malattia, grave(non direi “terminale”, vorrei es-sere un’eccezione alle vostrestatistiche). So, insieme, di esse-re fortunato, perché finora nonho avuto bisogno di droghe, difedi, di psicoterapie, di compar-se tv, e perché ho tre nipotineche mi tengono sempre inna-morato della vita. Ma so anchedi essere un privilegiato, di ave-re delle responsabilità morali ecomunicative dovute al mio ba-gaglio culturale e all’esperienzapolitico-sindacale che mi hatemprato. Noblesse oblige. Vorreiessere contagioso, un “antivi-

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rus” contro il virus dell’indiffe-renza (individuale e organizzati-va) che tutti ci opprime e depri-me negli ospedali. Vorrei fare evincere insieme a voi quella chei responsabili della Società italia-na cure palliative hanno chia-mato “la battaglia contro l’indif-ferenza”. Vorrei riuscire a faredella mia sofferenza personale,della mia disavventura privata,un’opportunità di ricerca pub-blica, politica, sulla e per la co-municazione tra curanti e curati.

Avrei l’ambizione non solo dilasciare una preziosa testimo-nianza, come il grande giornali-sta Tiziano Terzani, ma di contri-buire già da vivo, nel mio picco-lo, a fare della clinica medicauna esperienza più umana e in-sieme più scientifica: una scien-za delle relazioni terapeutiche.

Nuova MedicinaLa terapia è fatta soprattutto direlazioni autentiche, di comuni-cazione vera e buona. Perché sevoi sapete o dovreste sapere tut-to o quasi sulla malattia, sul can-cro, sulla morte da cancro, soloio so o almeno dovrei saperetutto o quasi su come vivo e sof-fro il mio cancro e le vostre cure,su come immagino ed esploro ilpercorso del mio morire. Insie-me dovremmo riuscire a faremergere le nostre rispettive,migliori, risorse interne, le no-stre potenzialità e a costruire lamigliore ricerca e la migliore te-rapia. È solo dall’incontro – cer-to non scontato, certo difficile eancora non sufficientementesperimentato – delle nostre ri-spettive competenze, partendodalle enormi differenze (tra voie noi, tra ogni cancro, tra ogni

malato di cancro) ma non re-standovi impigliati, cercando unterreno comune di ascolto atti-vo, di attenzione “montessoria-na”, di comprensione, di comu-nicazione maieutica, di ricono-scimento fiducioso e non fidei-stico, di azione coerente, chepotrà nascere una nuova Medi-cina (anche palliativa), comenuova scienza condivisa.

So bene che i “guaritori feri-ti”, cioè i medici che hanno sof-ferto una malattia grave sono ipiù adatti. Io li annuso imme-diatamente in ospedale. Ma nonaccetto, perché sarebbe mo-struoso, che per imparare a co-municare con un malato di can-cro anche il medico debba am-malarsi di cancro. Anche l’em-patia si impara, si coltiva e si in-naffia tutti i giorni in corsia, sicostruisce insieme.

State attenti, vi prego, specieora che state diventando un’im-portante istituzione, a non tra-sformarvi da umili missionaripalliativisti in superbi dignitari“pantativisti”, a non voler strafa-re (magari arrivando a dare a unpaziente il numero di cellulareche poi rimane muto nel mo-mento del dolore). Perché chi dinoi da utile diventa indispensa-bile rischia di degenerare, di di-ventare insieme padrone eschiavo del proprio lavoro.

Mentre il vostro delicato eprezioso servizio per aiutarci avivere e a morire nel rispettodella nostra autonomia e dellanostra dignità, cioè da personelibere, anche se malate, richiede– come ricorda un grande cura-tore greco – medici liberi e nonschiavi, operatori liberi che sap-piano ascoltarci e valorizzarci,

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che sappiano dirsi gli errori etrarne utili lezioni, che sappianoriprendere tempo, comunicaretra loro per collaborare e pren-dersi cura di noi, aiutarci a narra-re la nostra malattia, a tirar fuoritutte le nostre risorse interne:che sono la prima terapia. Chesappiano insomma farci entrarea pieno titolo, da pari, nell’équi-pe che ci cura (e non solo in una

semplice tavola rotonda), pur ri-cordando che siamo e restiamopazienti, cioè persone che sof-frono. “Il fondamento più im-portante della medicina – hascritto il grande medico Paracel-so – è l’amore. Se il nostro amo-re è grande, grande sarà il fruttoche la medicina otterrà da lui. Seè piccolo, anche i nostri frutti sa-ranno piccoli”. n

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Il dito di Caravaggionella piaga della ricercaSpiegazione della scelta del quadro “L’Incredulità di SanTommaso” per la prima pagina del sito www.giannigrassi.it.“Non intendo farlo diventare un blog fra i tanti – metteva inchiaro Gianni – deve restare una cassetta degli attrezzi permigliorare la comunicazione tra camici e pigiami.Pare che serva anche a curarsi meglio”

Oltre a “paziente esigente”,avevo messo nell’intestazio-ne del sito anche Sociologo,diventato poi Socio-gioco-

logo. Cioè? Un sociologo delgioco? Un sociologo che gioca?Che si prende gioco anche dellamalattia? No, piuttosto unamante della Sociologia che simette in gioco. Che si prende lesue responsabilità personali an-che come paziente. Pazienteesigente, pertanto, con se stes-so prima che con i compagni diviaggio e con le controparti,mediche e non solo.

L’Incredulità di San Tom-maso: si tende a interpretarlocome “un manifesto della na-scente cultura sperimentale”,della volontà di verifica, dell’ac-certamento per prova. Preferi-sco l’interpretazione di RobertoSatolli, presidente del Comitatoetico nell’Istituto tumori di Mi-lano, nell’articolo Il dito di Ca-ravaggio nella piaga della ri-cerca (“Bollettino d’informa-zione sui farmaci”, n. 4/2005).Egli osserva “la concentrazionedel racconto: il volto dolente diCristo reclinato in ombra, quasivergognoso della penetrazio-ne, e la mano sovrapposta aguidare e trattenere il gesto

maldestro. L’uomo del quadroconcede ai discepoli di fareesperienza, cioè di apprendere,letteralmente sulla propria pel-le”. Ma aggiunge: “Nel quadro èil ditaccio con le unghie spor-che dell’apostolo che rischia diinfettare una ferita miracolosa-mente pulita. Agli occhi di unmedico, il gesto indagatore puòrichiamare l’agire del clinicodeciso ad andare sino in fondonell’accertamento del male. Al-lora la mano che lo trattiene(mentre l’altra scosta la veste inun gesto di accondiscendenza)rappresenta la volontà del pa-ziente che dà il suo consenso aessere scrutato e curato, ma chemantiene sempre la possibilitàdi decidere dove e quando ilcurante deve fermarsi”.

Ricerca con l’uomoRicorda l’invito di Giulio Macca-caro a “non fare ricerca sull’uo-mo, ma con l’uomo” e si chiede:“un’utopia fuori dalla realtà?”.Risponde che oggi “quell’utopiaè forse più lontana di allora... siè affermata una sottile forma diprevaricazione, che consistenello sfruttare la buona fede deipazienti per arruolarli in ricer-che che nulla hanno a che vede-

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re con il desiderio di conoscen-ze, o con la salute della gente,ma che sono concepite e con-dotte a scopo di profitto. Secon-do Richard Smith, ex direttoredel British Medical Journal, leriviste scientifiche sono ridottea estensione del ramo marke-ting delle compagnie farma-ceutiche. Soprattutto in campobiomedico la ricerca non ha piùle caratteristiche di un’impresadisinteressata e collaborativa,come era stata definita dal so-ciologo della scienza RobertMerton. E secondo il premio No-bel per la medicina Karis Mullisprobabilmente lo sviluppo scien-tifico più importante del XX se-colo è che l’interesse economicoha rimpiazzato la curiosità co-me forza trainante della ricer-ca”. Satolli conclude dichiaran-

do il “panorama scoraggiante”dall’interno dei Comitati etici,che pure sono stati individuaticome “un possibile argine allaprepotente invadenza del mer-cato nel mondo della scienza”.

Buona volontà“Risulta molto difficile, se nonquasi impossibile, proporre eottenere correzioni sostanzialidei protocolli – chiarisce Rober-to Satolli – serve un maggiorscambio di informazioni e pare-ri tra i diversi Comitati... tutto sifonda per ora sulla buona vo-lontà dei singoli”.

Bene. Cioè, male, malissimo.Allora con questo piccolo sito dibuona volontà vorrei contribui-re, come paziente, a difendere lasalute, il diritto a vivere e – per-ché no? – a morire bene. n

L’Incredulità di San Tommaso del Caravaggio

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Non ho la grazia della fede, né in un dio soprannaturale,né in quella sua caricatura terrena che ancora oggi troppi medici credono di incarnare.Ma serbo la grazia della fiducia in me stesso e negli umani, ovvero nella ricerca della comunicazionecon i compagni di viaggio e chi si prende cura di noi. Non parlo delle domande a un dio, ma al dio che dimora in ciascuno di noi, non in un tempio ma nel nostro corpo, nella nostra umanità, nella nostra “comune compassione”

“Perché piangi? Soffri?”“No, sono contento”“Cosa è successo?”“Ho incontrato la mia fragilità”“E cosa ti ha detto?”“Ben arrivato, amico mio”

Tapa Sudana(Attore balinese)

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guaritori feriti

La nemesi di stare dall’altra parte 97“Vo’ a casa a morire”. In memoria di Bartoccioni 100

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Arrampicato sulla cima di un albero (1991)

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La nemesi di stare dall’altra parteDalla recensione al libro “Dall’altra parte” di Sandro Bartoccioni,Gianni Bonadonna e Francesco Sartori (a cura di Paolo Barnard)

Malato di cancro con meta-stasi ossee, so cosa vuoldire stare “dall’altra parte”.Ho letto il libro così intito-

lato, dopo aver visto il servizio“Nemesi medica” realizzato daPaolo Barnard per “La storia sia-mo noi” di Rai Educational, il 27giugno 2005. E ne ho parlato inalcuni convegni medici. Ancheil 25 maggio 2006, al corso di cu-re palliative organizzato dall’An-tea, associazione romana cheassiste malati oncologici in faseavanzata, con varie équipes di as-sistenza domiciliare e un Hospi-ce: quello in cui sono ora ospiteper una improvvisa paralisi.

Nel pomeriggio dello stessogiorno avevo fatto in tempo apartecipare alla presentazionedel libro e a conoscere di per-sona i tre autori. Due si eranodovuti recare in carrozzella al-l’appuntamento: l’oncologoGianni Bonadonna e il cardio-chirurgo Sandro Bartoccioni.Questi aveva appena subitol’ennesimo intervento riparato-re degli effetti nocivi delle che-mioterapie sperimentali che, daanni, con una specie di auto-ac-canimento terapeutico, stavatentando su se stesso. Ora èmorto (a lui andrebbe intitolato

l’ospedale “Silvestrini” di Peru-gia, la città cui tanto ha dato eche tanto l’ha fatto soffrire).Avevano accettato l’invito diPaolo Barnard a incontrarsi eparlare pubblicamente della lo-ro sofferenza, ma anche dellemanchevolezze del Servizio Sa-nitario Nazionale. Questa voltaperò riscontrate dall’altra parte,quella del paziente.

Chiudere la distanzaL’idea di Barnard è stata quelladi “chiudere la distanza tra me-dici e malattia, per coniugarescienza e sofferenza”: i medicimalati, sostiene, soffrono moltodi più dei malati normali. Io in-vece, da paziente esigente, pen-so che il parere dei medici nonpossa prevalere anche quandosi ammalano. Né mi piace il ter-mine “nemesi”: mi pare mo-struoso che un medico, per co-municare con me, debba amma-larsi di cancro. Basterebbe si ri-cordasse della sua potenzialemorbilità e della sua certa “mori-bilità”. Sento ripetere che allaMedicina servirebbe “più uma-nità e meno scienza”. Ritengoinvece che diventerà più umanae più scientifica solo quandoriuscirà a riconoscere proprio

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l’umanità e la “scienza” dei ma-lati, tuttora non ascoltata né ac-cettata. Infatti, se il medico sa odovrebbe sapere tutto sulla ma-lattia, sul cancro, solo il malatosa tutto su come vive e soffre lasua malattia, il suo cancro.

Bisogna essere in due, con lerisorse esterne (biologia, farma-cologia, tecnologia, epidemio-logia) e con quelle interne, chesono la prima medicina. Quan-to dovremo aspettare e soffrireper cominciare a capirlo tutti in-sieme? Gli autori di questo testol’hanno capito bene. Hannodetto cose semplici e chiare, diuna autenticità disarmante cheha reso il libro contagioso, in unbocca a bocca pari a quello di“Un altro giro di giostra” di Ti-ziano Terzani.

Commiato alla moglieA mio parere, le parti più belle ecommoventi sono: il commiatodi Sandro Bartoccioni alla mo-glie (“la gelosia”): “A me hai da-to tutto quello che potevi, oragodi al massimo la vita che ti ri-mane. Pensa un po’ a te stessa esii per una volta un po’ egoista.Ti seguirò con amore e sarò feli-ce solo se ti vedrò felice, nonpiangere per me. Ti aspetto” (alui ho dedicato un ricordo nellarubrica “Se ne sono andati” su“Diario della settimana”, n.25del 23 giugno); il prologo diGianni Bonadonna ai lettori: “Cel’ho messa tutta per far capireche è importante non lasciarsiandare, anche se la tentazionedi abbandonarsi è spesso cre-scente quando il cervello non hapiù un corpo che lo segue comenei tempi migliori. Questo mioscritto vuole essere la testimo-

nianza che molti malati posso-no tornare a riempire il mondocon la propria umanità. È scon-tato che è dura. Ma abbiamo bi-sogno di questi uomini e donneche, imboccato un tunnel chesembrava senza uscita, hannosaputo trovare la forza di rivede-re la luce”; la conclusione diFrancesco Sartori, che precede il“decalogo” finale, cioè una pro-posta per rifare una Sanità checuri davvero, anche chi non puòessere guarito: “Sento purtrop-po di far parte di un mondo,quello sanitario, che è una partedella nostra Italia malata”.

“Il giorno che i treni arrive-ranno in orario, trasportandopersone e non zecche – elencaSartori – il giorno che la nostraGiustizia ci garantirà processi ra-pidi con la condanna anche diqualche colpevole, quando lamafia, collusa con la politica, sa-rà sconfitta, quando non ci saràpiù lavoro nero ed evasione fi-scale, quando infine il sentimen-to della ragione (o dell’etica?)avrà prevalso su ogni egoismo,anche la nostra Sanità comince-rà a funzionare e potremo diredi vivere in un Paese civile. Èuna speranza utopica? Forse. Manon è stato Oscar Wilde a direche il progresso è il superamen-to dell’utopia?”.

Che cosa aggiungere? Chiu-do con le parole di un altro gran-de medico, Ignazio R. Marino,chirurgo di fama mondiale, spe-cialista in trapianti d’organo, orapresidente della CommissioneSanità del Senato della Repub-blica. Nel suo stupendo “Crede-re e curare”, prezioso perchésintetico, quindi adatto ai mediciche leggono poco, scrive: “Per-

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sonalmente credo di aver capitoun po’ di più di quello che acca-de nella mente di un malato edelle aspettative che si creanonei confronti dei medici, nelmomento in cui mi sono trovatodall’altra parte della barricata,steso in un letto di ospedale, difronte alla prospettiva di un in-tervento chirurgico a cui sotto-pormi con urgenza. A distanzadi undici anni, penso sia stata inqualche modo la provvidenzaad avermi fatto ammalare, co-stringendomi a provare sullamia pelle almeno una parte del-le sofferenze che io infliggoogni giorno ai miei pazienti percercare di portarli sulla via dellaguarigione”.

“È stato in quella occasioneche ho compreso davvero il si-gnificato di tante cose che nonsono scritte nei libri di medicina– prosegue Ignazio Marino – Hovissuto l’ansia che si provaquando l’anestesista ti preparaper la sala operatoria. Ho capitoil dolore e la paura di chi si risve-glia dopo un intervento chirur-gico con un tubo di plastica ingola e un altro nel naso che fasentire la sua fastidiosa presenzaogni volta che si deglutisce. Hocapito il bruciore che si prova a

causa del catetere urinario e ildolore nelle braccia dovuto aibuchi ripetuti delle iniezioni odei prelievi di sangue. Ho capitoperché alcuni pazienti si ribella-no a queste imposizioni e cerca-no di togliersi da soli tubi e dre-naggi. L’ho fatto anch’io”.

Una dose di dolore“Troppo spesso il medico impo-ne queste sofferenze senza ren-dersene conto e, dall’alto dellasua professionalità, somministraassieme alle terapie anche unabuona dose di dolore – insisteMarino – da cui non può che de-rivare disagio e uno stato d’ansianel paziente. Un’ansia destinataa raddoppiare in assenza di dia-logo col medico. Ho capito be-ne anche l’attesa e le aspettativeper quei minuti che il medicotrascorre con te ogni giorno,spiegandoti cosa deve esserefatto e perché, affinché tu possaritornare a fare ciò che faceviprima di ammalarti”.

Da parte mia non aggiungoparole. Posso solo ripetere, conil Wittghenstein del Tractatus:“Tutto quello che si può direpuò essere detto chiaramente.Su ciò di cui non si può parlare sideve tacere”. n

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“Vo’ a casa a morire”.In memoria di BartoccioniSabato 3 giugno 2006 a Città di Castello si sono svolti i funerali del professor Sandro Bartoccioni (59 anni) in una chiesastracolma di gente e di pazienti da lui salvati. All’offertorio si èlevata la musica di Vincenzo Cerami da “La vita è bella”

Pochi giorni prima in una li-breria romana lo avevo co-nosciuto quando, con ladolce moglie Zaira e i figli

Cinzia e Filippo, era giunto incarrozzella dall’ospedale Ge-melli, reduce dall’ennesimointervento dovuto all’ennesi-ma chemioterapia sperimenta-le cui si era sottoposto. Un ve-ro auto-accanimento terapeu-tico, tributo personale alla ri-cerca contro il cancro. Che lui,come Terzani, non riteneva unamico e tantomeno un nemi-co, ma semplicemente un “ba-luardo contro la banalità delquotidiano”. Semplice a dirsima difficile a farsi.

È ospite ma non rompaEppure Bartoccioni, grande me-dico e cardiochirurgo di fama in-ternazionale, chiamava il cancroBeppino, con un’ironia pari aquella di un altro medico straor-dinario Eugenio Picano (diretto-re del laboratorio di ecocardio-grafia a Pisa, autore de “La duravita del beato porco”, edito dalPensiero scientifico e definito daPaolo Cornaglia Ferraris “un as-soluto capolavoro umoristico”).In libreria, pur morente, Bartoc-cioni ci ha fatto ridere dicendo

sul cancro: “Va beh, è un ospite,ma non può rompere i coglionipiù di tanto”. Si stava presentan-do un altro libro fondamentale:“Dall’altra parte” (Bur Rizzoli),in cui Sandro, insieme a France-sco Sartori, primario di chirurgiatoracica a Padova e al famosooncologo Gianni Bonadonna,racconta cosa vuol dire per unmedico cadere gravementemalato, diventare un “guarito-re ferito”: di cancro o di ictus(Bonadonna, appunto, che neha parlato anche nel suo “Co-raggio, ricominciamo” edito daBaldini Castoldi Dalai).

Il libro è curato da PaoloBarnard, autore del servizio“Nemesi medica” trasmesso eora più volte replicato da Mino-li nella rubrica “La storia siamonoi” di Rai Educational. Altrimedici “feriti” si erano rifiutatidi partecipare: “Non sono an-cora un uomo finito”, avevanodetto. Loro tre no, hanno volu-to testimoniare che – come hascritto monsignor GianfrancoRavasi nel “Mattutino” sull’Av-venire, proprio parlando del-l’ictus di Gianni Bonadonna –“è solo dalla perdita di una real-tà viva e amata che si riesce aintuirne il valore”. Anch’io, se

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mi è consentita una notazionepersonale, ora so cosa vuol di-re. Non sono un medico, sonosolo un paziente “esigente” chevuol fare della sua disavventuraprivata e della sua sofferenzapersonale (un cancro allo sta-dio finale) l’occasione per unaricerca pubblica per una mi-gliore comunicazione tra medi-ci e pazienti. Il 27 maggio eroandato ad abbracciarlo al suo

capezzale al Gemelli e mi avevasussurrato: “Gianni, men vo’ acasa a morire”.

Un abbraccioPurtroppo non ho potuto parte-cipare alle esequie: lo stessogiorno sono stato ricoverato,per un’improvvisa paralisi, al-l’Hospice Antea di Roma. Ma an-che da un letto “terminale” vo-glio onorare la sua memoria. n

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Durante un viaggio a Salisburgo (estate 1989)

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Io soffro per me, e già mi basta e avanza,soffrirò e morirò per me, non certo per far piacere a qualcuno. Altro che dolore “altruistico”.Morendo, vorrei poter recuperare un po’ di sanoegoismo, circondato e aiutato dall’amore degli altri

“L’hospice non è solo un edificio, un modo per proseguirele cure domiciliari quando a casa è impossibile.Sono le persone che lo gestiscono, la medicina che vi si può praticare, la formazione che si puòerogare. Occorre vigilare perché i soldi non servano solo a cambiare il nome a dei cronicari ristrutturati”

Giovanni Creton

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hospice e cure

Maria Occhipinti, appartenevo ai sofferenti 105Cure complementari e mobilitazione dell’anima 107Come riuscire a dare un significato al dolore 110Una ricerca di senso, speranza e amore 113Mi sto talmente reinnamorando della vita 115Canne, dolore e buona morte 119Dialoghi su cure palliative e hospice 120Volando in trance sul parco di Villa Ada 122Diventare sciamano quando torno polvere 125

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All’Hospice Antea leggendo favole alle nipotine Irene e Michela (2006)

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Appartenevo ai sofferenti. La lezione di OcchipintiDall’intervento tenuto nel novembre 2004 al convegno“Dolore, malattia e cura nella vita di Maria Occhipinti”

Intervengo sul rapporto diMaria Occhipinti con il dolo-re, il suo “appartenere ai sof-ferenti”, sia come oggetto di

mali (le malattie, la maledizio-ne paterna) sia come soggettoche si è preso cura di malati edi ideali. Ne parlo non per do-vere di definizione, cioè per ilfatto di essere il “curatore” deisuoi scritti per la Sellerio o per-ché Maria mi ha collocato, con idue medici anomali Brunori eGiardini, tra i suoi “soccorrito-ri”. Bensì per dovere di testimo-nianza, nel senso che Maria miha passato il testimone: dopo lasua morte infatti, alla conclusio-ne di una parabola che l’avevavista passare da infermiera a in-ferma, anch’io ho conosciuto lamalattia e ho imparato cosavuol dire diventare un pazien-te. Come Maria è stata una cu-rante un po’ speciale così an-ch’io cerco di essere un malatoun po’ speciale.

Facendo mia la sua lezione,ho cercato di dare un senso allamalattia, di farne una opportuni-tà per una migliore comunica-zione tra medici e pazienti. I pri-mi, chiamati a dar conto dellapropria arroganza comunicati-va, basata sul tabù degli errori e

sul mancato ascolto del parerealtrui, a cominciare da quellodegli infermieri. I secondi, chia-mati a dar conto della propriarassegnazione comunicativa,basata sull’ignoranza che idola-tra i dottori e sul mancato rispet-to della propria competenza.

Una vita generosaLa comunicazione è tale solo seè reciproca. Comunicare, nelsenso di ricercare e ridare veritàe speranza, è stato il motivo con-duttore della generosa vita diMaria Occhipinti. Il dolore, lasofferenza e il loro lenimentohanno avuto una parte impor-tante, direi fondante.

Che cosa si può distillare dal-la sua vita generosa e dalla suadolorosa parabola? Le intuizionifondamentali di Maria, le sue an-ticipazioni maieutiche, da cuisto cercando io stesso di trarrelezione, per tentare di farle di-ventare patrimonio condivisotra “camici e pigiami”, mi paresiano tre. Prima: il rapporto tera-peutico è innanzitutto un rap-porto etico, poi è anche un pro-blema di virtù personali, di tec-niche comunicative e operative,di organizzazione assistenziale.Il rapporto terapeutico è tale se

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è fondato sulla fiducia reciprocae non sulla fede nell’onnipoten-za biomedica. Altrimenti si ri-corre ai miracoli e si rincorronole mode.

Seconda: in ogni personamalata persistono speranze, po-tenzialità e autonome risorse in-terne. Compito del curante è in-nanzitutto quello di farle emer-gere, di aiutare il paziente a cu-rarsi da sé, a far parte della équi-pe terapeutica: ascoltandolo einsegnandogli a definire bene ilproprio malessere. Se il medicoè competente sulla malattia, il

malato è l’unico competente adire come la soffre, il miglioreesperto di se stesso.

Guaritrice feritaTerza: la sofferenza è qualcosadi più del dolore fisico e i mi-gliori curanti sono quelli che unfilosofo ha definito i “guaritoriferiti”, cioè consapevoli – maga-ri per esperienza personale disofferenza – della comune ma-trice umana, corporea e morta-le, che li unisce, al di là dei ruoli,ai pazienti. Maria è stata unagrande guaritrice ferita. n

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Cure complementarie mobilitazione dell’animaDall’intervento tenuto il 16 dicembre 2005 al convegno“Trattamenti non convenzionali per i malati di cancro. Gli strumenti per un’informazione corretta” organizzatodall’Istituto Superiore di Sanità

Per venire a me, che tera-peuticamente sono un falli-mento: nel 2000, dopo untumore alla vescica, ho fat-

to la chirurgia radicale dellaprostata, poi l’ormonoterapiacui mi sono rivelato resistente,poi la radioterapia che mi hafatto soffrire, poi oltre un annodi chemioterapia che ho appe-na deciso di sospendere, d’ac-cordo con i curanti, perché lemetastasi alla colonna restanostazionarie mentre aumentano idanni delle cure.

Come mai io che sono allafrutta, alle cure palliative, misento bene e sto qui a parlarviinvece di stare a casa a pianger-mi addosso? Forse perché misono rivolto a una medicina “al-ternativa”? In effetti – anche sesono riuscito a non inciamparenella terapia Di Bella – tuttavia,per venire incontro alle insi-stenze di mia moglie, ho fre-quentato due esponenti dellamedicina “cinese”, uno psico-neuroendocrinoimmunologo eun oncologo.

Ma è durata poco e mi è ri-masta una certa diffidenza. Per-ché? Primo perché i curanti, purbravi e buoni, non hanno com-pilato nemmeno una cartella

sulla mia situazione (mentre io,ogni volta che mi presento auno dei vari specialisti che si oc-cupano di me, e che purtropposolo raramente si sentono tra lo-ro, porto una scheda completa eaggiornata della mia carriera on-cologica): e che si credono di es-sere, Pico della Mirandola?

Privilegio immoraleSecondo, perché mi hanno pre-scritto analisi raffinate e medici-ne simpatiche (non la pillola in-trisa di piscio gettata via da Ter-zani) ma non coperte dal SSN,troppo care, per una spesa tota-le costosissima. Sono riuscito asostenerla, vivendola però co-me un privilegio (immorale, co-me tutti i privilegi, qual era se-condo me anche la bella fine delprotagonista del film di DenysArcand Le invasioni barbari-che): e che si credono, che sia-mo tutti Re Mida, al dritto o al ro-vescio, come Berlusconi? No,non ho proseguito.

Ma sto cominciando a capireche forse stiamo sperimentandouna terza via: un nuovo paradig-ma delle cure alternative, cheanch’io preferisco chiamare“complementari”. Un tipo di cu-ra che, casomai, si potrebbe dire

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alternativo alle cure “esterne” –classiche, tradizionali o nonconvenzionali – e che mobilitapiuttosto delle cure “interne”,interne a noi malati e forse an-che a voi curanti. Cioè le nostrepotenzialità e risorse, quelle cheemergono nelle situazioni diemergenza. Tuttora mi chiedo:“Quanto sarebbero benefichequeste risorse interne se cono-sciute e potenziate dai medici invia ordinaria attraverso le rela-zioni terapeutiche quotidiane?”.

Non solo cuoreNon mi riferisco solo agli affetti,al “bacino di affettività” per dirlacon Tagliaferri. Nel suo stupen-do testamento morale e spiritua-le, Un altro giro di giostra, Ter-zani accenna a una cosa “che lascienza non è in grado di capire:il solo pensiero di una persona,la cui esistenza giustifica la pro-pria, è di per sé una medicinache prolunga la vita”.

Ebbene, anch’io ho una ma-dre anziana, ultra novantenne, epenso che l’impegno morale esentimentale di garantirle unamorte serena, come quella chevorrei per me, sia un formidabi-le motivo per non andarmeneprima di lei. Inoltre godo dellapresenza di ben tre nipotine,“frammenti di eternità”, e sentoche la loro esistenza spiega per-ché – nonostante le cure m’ab-biano sottratto la libido – io siasempre innamorato e non abbiaalcuna voglia di morire primadel tempo (anche se cerco diprepararle pian piano alla miascomparsa. Casomai sono ioche, nonostante tutta l’apparen-te “scienza e coscienza”, mi sen-to del tutto impreparato al-

l’eventualità che sia una di loro ascomparire. Non so se riuscirei asopravvivere). Non è dunquesolo una questione di cuore.

È piuttosto una terapia dimobilitazione di tutte le poten-zialità e le risorse, sentimentali erazionali, affettive e intellettuali,biologiche e bioetiche, immuni-tarie e comunitarie, corporee espirituali: forse è la “luce del-l’anima” di cui parla Tagliaferri?Non ho timore a chiamare ani-ma la comunicazione vera, bellae buona tra curanti e curati, epenso che le risorse da far emer-gere possano essere sia quelledei malati sia quelle dei terapeu-ti, troppo spesso ignorate e ri-mosse, tranne quelle tecnico-ra-zionali, professionali.

Anche perché, secondo me,le persone che cercano di curar-ci farebbero bene a capire e ac-cettare una cosa: che non si de-vono preoccupare tanto di gua-rirci quanto di aiutarci a fare dasoli, a curarci un poco insieme aloro e un poco da soli (secondol’aurea regola montessoriana).Dovrebbero convenire che nonsi tratta tanto di “combattere” odi “vincere” il tumore, quanto –almeno da un certo punto in poi– di convincerci (noi e i tumori)a convivere al meglio e il più alungo possibile, con una sanaconflittualità ma senza stupidi“accanimenti terapeutici”.

La malattia, anche il cancro, èuna parte di noi così come lamorte fa parte della vita. È la no-stra parte malata. Non è un ami-co, come non credo possa defi-nirsi la morte, ma non è neppureun nemico. Non è da amare(“beata” sofferenza? Macché,non ho la vocazione del martire

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cristiano o maomettano), ma ne-anche da odiare, come fa la po-vera Oriana Fallaci che, odiandocome nemico una parte di sé(paradossalmente, le sue cellule“immortali”) rischia di odiarenon solo il mondo musulmanoma addirittura tutto il mondo.

Io mi sono trovato a esserepiuttosto d’accordo con Terzani:anche per me il cancro, pur co-stituendo una disavventura, unagrave disavventura (inutile na-sconderselo), può rappresenta-re una opportunità, una grandeopportunità: “Una sorta di ba-luardo contro la banalità delquotidiano”. Dunque, per con-cludere, qual è la novità? Qualeil paradigma che presuntuosa-

mente cerco di presentarvi? Pen-so, si parva licet, che sia lo stes-so che ha permesso a Primo Levie a Bruno Bettelheim di resistereal lager, e che il secondo hachiamato “il cuore vigile”, quel-lo che li ha aiutati a sopravvivereall’universo concentrazionario eperfino ad Auschwitz.

Spirito di ricercaCioè un misto di autonomiamorale e di wit (per dirla con ilgrande film di Mike Nichols edEmma Thompson): presenza dispirito, spirito di ricerca. Riusci-re a portare quanti più elementidi autonomia e di ricerca nel no-stro lavoro, nella nostra vita, dicurati e di curanti. n

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Abbracciato alla nipotina Michela (2003)

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Come riuscire a dare un significato al doloreIntervento tenuto il 27 aprile 2006 al tredicesimo convegnodella Società Italiana di Cure Palliative

Da piccolo paziente esigen-te che ancora si sente unpo’ profeta disarmato, vor-rei dire un’altra piccola ve-

rità marginale alla grande So-cietà Italiana di Cure Palliative.Scrivono bene Zucco e Carace-ni: il ricordo di Cicely Saundersdeve motivare i soci a non sen-tirsi solo perenni “profeti” maanche umili “artigiani” che “allameticolosità e alla fatica di ognigiorno aggiungono semprecreatività ed entusiasmo perciò che fanno. Dobbiamo sem-pre ricordare – aggiungono –che la nostra energia morale eprofessionale si fonda sul nonperdere mai di vista gli obiettivie i protagonisti delle nostre at-tività: le persone malate e le lo-ro famiglie”.

Ma state attenti, vi prego, orache siete diventati un’importan-te istituzione, a recuperare lamissione spirituale originaria.Altrimenti rischiate di tracimarenella infida e mefitica palude delmercato, rischiate di trattarci daconsumatori invece che da pa-zienti. David Frati, nel sito delPensiero scientifico editore, cital’antropologo Kalman Ap-plbaum il quale scrive che “nellanostra rincorsa a uno stato quasi

utopico di salute perfetta, senzacolpo ferire, abbiamo conse-gnato a delle aziende commer-ciali il controllo di alcuni tra iprincipali strumenti di libertà intema di sanità: l’obiettività dellaricerca scientifica, l’etica nell’as-sistenza sanitaria, il privilegio disomministrare medicine e la li-bertà di lavorare in autonomiaper il bene dei malati”.

Domande di ascoltoRischiate di parlare tanto di noima poco con noi, di essere fra-stornati più dal fragore delle vo-stre risposte, dal frangersi delleonde in superficie, che dall’as-sordante silenzio delle nostredomande più intime, quelle che– come dice la cantautrice LuisaRossaro nella sua canzone “Ve-de, dottore...” – occupano “gliangoli più scuri della mente”,gli abissi più profondi dell’ani-mo. Sono le domande di ascol-to e riconoscimento, di verità eautenticità, insomma di senso.

E, a proposito di senso, chiu-do accennando a come provo e,qualche volta, riesco a dare unsenso anche alla mia malattia e,da qualche tempo, ai suoi mes-saggi di dolore. Questo VenerdìSanto ho vissuto una vera e pro-

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pria notte di passione: per la pri-ma volta in vita mia ho avutouna vera cognizione del dolore.Eppure ho una soglia alta di tol-leranza e sono allenato da unannoso appuntamento con de-vastanti attacchi di emicrania,oltre che dalla dura esperienzadella guerra sulla “linea gotica”(che ci tolse il fratellino minore econtemporaneamente ha lascia-to noi orfani e mia madre vedo-va a soli 40 anni di un uomo giàridotto a grande invalido cieco eamputato, costringendomi aconcorrere per ben otto anni auna borsa di studio che mi hagarantito di essere rinchiuso nelConvitto nazionale di Parma perproseguire gli studi).

Dapprima sono rimasto pre-da, come direbbe il professorCampione, della mia animalità,della insensatezza di un doloreinsopportabile e insieme dellainsopportabilità di un dolore in-sensato. Ma, contrariamente allasua ricetta (si può recuperare unsenso a un simile dolore solo fa-cendolo diventare altruista, cioèsoffrendo per una persona chesi ama), ho cercato quasi istinti-vamente e poi razionalmenteun’altra strada: dallo sgomento edalla rabbia iniziali, dovuti allasorpresa notturna, un vero eproprio agguato dopo due gior-ni sereni e stupendi trascorsicon gli amici del Teatro delleAriette proprio qui vicino, nellacollina bolognese, sono passatoa un tentativo di recupero disenso (di spiritualità?).

Ma perché? mi chiedevo, gi-randomi e rigirandomi inutil-mente, anzi dannosamente, nelletto e nella stanza della locandain cui ero unico ospite. Non me

lo merito, dio bono, sono statoattento, mi sono riguardato, pri-ma di coricarmi ho perfino pre-so la bustina di Aulin che tenevodi scorta. Ma perché? Ripetevotra i lamenti. Dapprima sono ar-rivato all’aberrazione di accen-dere la tv, pur di infliggermi unfastidio che speravo peggioredel male, pur di cercare un’eva-sione visiva, una diversionementale. Ma non è servito, hopreferito fare i conti direttamen-te con la sofferenza.

Poi ho cominciato a pensareche sì, mi stava rovinando la bel-la esperienza fatta con le bellepersone del teatro, la dolce na-tura del luogo e – direbberoZucco e Caraceni – il buon “piat-to caldo e fumante di tortellini alragù, innaffiati da un corposoSangiovese”, e però, se fossesuccesso prima non sarebbe sta-to peggio? Meglio dopo la “baz-za” che durante lo spettacolo, ono? Finora almeno me la son go-duta... E così ho cominciato a ri-vivere qualcuno dei bei mo-menti vissuti, a regalarmi attimidi anestesia corporal-spirituale.

Un’ora senza doloreAnche oggi, mie care e miei cari,sapeste come mi godo ognigiornata, ogni ora trascorse sen-za dolore. Ho acquisito un pia-cere più raffinato, più intimo,meno banale, meno scontato.Perfino riuscire a defecare senzapena sta ridiventando una grangioia, come quando da piccolosoffrivo di stitichezza.

Insomma, caro professorCampione, il dolore – anchequello che sembra insopporta-bile e apparentemente insensa-to – non può aiutare a ridare un

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senso alla vita? E poi mi dica, leiche è esperto di “tanatologia”:qual è mai oggi il dolore che sia-mo disposti a sopportare? Siamosempre più immersi in una so-cietà anestetizzata, dunque me-dicalizzata, forse proprio perchémedicalizzata.

Una società moralmente fra-gile, piena di paure, che scaricadomande di sicurezza sulla me-dicina o su altre fedi, e in cui –come ha scritto Umberto Galim-berti sull’inserto Donna di “Re-pubblica” – esiste l’imperativoterapeutico: “Esperienze ritenu-te fino a ieri normali oggi vengo-no rubricate tra le sindromi psi-cologiche” per “creare in noi tut-

ti un senso di vulnerabilità equindi un bisogno di protezio-ne, di tutela, quando non addi-rittura di cura”. E infine, lo dicofuori dai denti, ma per alleviarela propria sofferenza insensata,bisogna proprio aggiungere do-lore a dolore, soffrire anche peruna persona amata?

Io soffro per meIo soffro per me, e già mi basta eavanza, soffrirò e morirò perme, non certo per far piacere aqualcuno. Altro che dolore “al-truistico”. Morendo, vorrei poterrecuperare un po’ di sano egoi-smo, circondato e aiutato dal-l’amore degli altri. n

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Alla chiesetta della Civita sull’Isola di Ponza (1998)

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Una ricerca di senso, speranza e amoreDall’intervento tenuto il 19 maggio 2006, alla Casa delleLetterature di Roma, per la presentazione del libro della psicologaLucia Aite “Culla di parole. Come accogliere gli inizi difficili dellavita” (Bollati Boringhieri), storie di genitori di bimbi conmalformazioni genetiche operati alla nascita al “Bambino Gesù”

Questo libro, queste storie co-sì amorevolmente raccolte,ci ricordano una verità fon-damentale. La guarigione,

quando c’è, e comunque la curaefficace, non sono dovute sol-tanto alla tecnologia, alla biolo-gia, alla farmacologia, alla com-petenza di tutti i curanti: dal me-dico di famiglia al ginecologo,dall’ecografista all’ostetrico, dalpediatra neonatologo al chirur-go, dallo psicologo all’infermie-re, dal volontario all’assistentespirituale. Sono dovute piutto-sto alle loro capacità relazionali:fatte di ascolto attivo e di infor-mazione chiara, precisa e tem-pestiva (quale differenza abissa-le tra avere la cattiva notizia ingravidanza e averla solo al mo-mento del parto!). Sono dovutealle capacità di accoglienza e ri-spetto, di fiducia, riconoscimen-to ed empatia. Insomma di co-municazione vera e buona, an-che se a volte nei nostri ospedaliservirebbe ancora un po’ dibuona educazione.

Anch’io – che ho scopertoproprio in questi giorni l’impor-tanza di un’altra cosa che primadavo per scontata: una giornatasenza dolore – nella mia carrieraoncologica ho sperimentato e

memorizzato l’importanza vitaledelle relazioni terapeutiche. Lequali sono fatte insieme di curadel corpo (la malattia, il dolore)e di cura dell’anima (il sensodella malattia, la sofferenza). Enon ho remore a usare questotermine, anima, come metaforadella comunicazione, proprio ioche non ho la grazia della fede.

Prendersi curaUna cura (oggi si dice “un pren-dersi cura”) che riguarda sial’équipe curante, la difficile col-laborazione con tutti e fra tuttigli operatori interni ed esterniall’ospedale, compresi quellitecnici e amministrativi, lo stu-dio degli errori, sia l’unità soffe-rente: per aiutarla a tirar fuoritutte le risorse interne – che so-no la prima medicina – e a con-frontarsi, sostenersi e organiz-zarsi con le altre unità sofferenti(che è la seconda medicina).Questo libro di Lucia Aite dimo-stra che ciò, che questo proget-to (che mi piace chiamare “pro-getto Orzalesi”), insieme perso-nale e istituzionale, non è piùun sogno, è ormai – per dirlacon i compianti Marco Lombar-do Radice e Alex Langer – una“utopia concreta”.

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Pochi giorni fa è morto in tera-pia intensiva al Policlinico Um-berto I di Roma un mio caro an-ziano parente. Il problema èche, a mio parere, è morto male,in modo indegno, a causa del-l’accanimento e del sequestrodella sua vita operato dai medi-ci: ha subito più operazioni conanestesia totale, ha finito i suoigiorni legato perché non sistrappasse i tubicini che lo tene-vano collegato alle macchine,mentre le persone, i parenti, so-no stati relegati a un rigido e mi-nimo orario di visita individuale,bardati come marziani. Quei te-rapisti, insieme purtroppo a tan-ti altri in giro per l’Italia, ignora-

no non solo l’esperienza del“Bambino Gesù” di Roma maanche quella dell’ospedale Ca-reggi di Firenze che poco tempofa è emersa sulle migliori rivistescientifiche: una seria ricercaappena conclusa ha dimostratola grande utilità terapeutica del-la vicinanza degli affetti anche interapia intensiva, rispetto al ri-schio delle infezioni.

Gli affetti prevalgonoGli affetti reali prevalgono suipotenziali infetti, sono terapeu-tici. Grande lezione! Ebbene,questo grande libricino di LuciaAite lo dimostra meglio di qual-siasi paludata ricerca. n

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Gianni e Silvia con il figlio Pietro (1966)

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Mi sto talmente reinnamorando della vitaIntervento sul tema “Ha senso la riabilitazione in un malatoterminale?”, tenuto il 22 giugno 2006 al seminario Antea Formad“La riabilitazione nelle cure palliative: rivoluzione o conferma?”

Articolerò la mia risposta intre modi: uno di ordine fat-tuale, uno di disordine ludi-co e il terzo in stile didasca-

lico-etico. Primo: i fatti. Il pa-ziente Gianni Grassi, sessanta-seienne (l’età di Terzani quandoè morto) da dieci anni è portato-re consapevole di cancro allavescica, da sei spostatosi allaprostata e subito rivelatosi mor-tale, cioè con metastasi ai linfo-nodi, oggi estese a tutto il rachi-de e alle coste; aderente consa-pevole a tutte le prescrizionimediche e farmacologiche of-ferte dal SSN (chirurgia parzia-le e radicale, ormonoterapia,radioterapia, chemioterapia to-pica e sistemica, cure palliati-ve), nonché di quelle dieteti-che, di regime di vita e degliesami periodici di monitorag-gio (cistoscopie, scintigrafie os-see, radiografie, ecografie, tac,pet e pet-tc, ecodoppler, rmn,test urodinamici).

Da venti giorni paralizzatodal costato in giù, per infiltra-zione metastatica al midollo spi-nale, definita inoperabile e irre-versibile al pronto soccorso delGemelli dal dott. Tamburrelli,sabato 3 giugno 2006, e dallostesso giorno ricoverato (attoni-

to, dolorante e un po’ incazza-to) nell’Hospice Antea... ebbe-ne, ora è qui. La risposta sta nelfatto stesso della sua presenzaal convegno: sì, la riabilitazionenelle cure palliative ha senso.Infatti, in forza di che cosa e gra-zie a chi il paziente sta qui?

Passiamo al secondo modo,quello ludico. Vorrei far finta diessere un naufrago stanco estremato, forse disperato. Comecertamente sarei se non fossi ap-prodato all’Hospice. Vedo un fa-ro che illumina la scritta Antea.Che vorrà dire? Mi informo. Tan-to per cominciare, è il nome diun quadro del Parmigianino, fa-moso pittore parmense, che ri-trae forse la sua amante: Antea.

Bene. La metafora si addicealla mia situazione. Anch’io so-no di Parma e l’Antea onlus stadiventando la mia amante. Ilrapporto con lei mi ha ridato lavoglia – che dico? – il piacere divivere dopo l’assedio del doloree il trauma dell’immobilità. E diquesto piacere è componentecentrale la speranza che mi in-fonde il fisioterapista ogni voltache mi sposta dal letto e mi famuovere, sia pure in carrozzel-la. Mi pare di volare, ho ripreso asognare. Ma, ditemi voi, anche

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se questo fosse solo un modoper me di morire bene, da vivo,in dignità e completezza, vi parepoco? A quest’ora, dopo soliventi giorni, in qualsiasi ospeda-le, fosse pure il Gemelli, temosarei distrutto dal dolore e dallepiaghe. Forse avrei chiesto inva-no di essere aiutato a morire pri-ma? Perciò la mia risposta è, loribadisco: sì, la riabilitazionenelle cure palliative ha senso.

Stare a pruaNon so se sia una rivoluzione ouna conferma, ma so che a mela vostra scelta, moralmente escientificamente coraggiosa,appare paradossalmente rivo-luzionaria proprio perché con-servatrice dei valori più profon-di della vita umana. Ma andia-mo avanti con il gioco del no-me: Antea. Acribico come so-no, l’ho cercato sul vocabola-rio, però non ho trovato la pa-rola. Credo comunque di aver-ne trovato il senso. Infatti siscrive Antea ma andrebbe scrit-ta così: ‘Ante a’, cioè “prima diqualcosa o qualcuno”. Comepuò un paziente dare un valoremetaforico a questo bel nome?È presto detto: ‘Ante a’ sta a si-gnificare un’organizzazione diprua, che sta avanti, che vieneprima, che anticipa i bisogni deimalati finora definiti “termina-li”, cominciando con l’opporsial dolore, per invertirne la tragi-ca situazione di isolamento eabbandono alla morte anticipa-ta. Vi pare poco?

Ma continuiamo il gioco. Ilnaufrago è approdato fiduciosoe, come sapete, nella vita, tantopiù a fine vita, nelle cure pallia-tive, la fiducia è la componente

fondamentale. Altrimenti, ve loassicuro, resteremmo paralizza-ti nei gelidi flutti della paura,dell’angoscia, della morte in-combente. E, credetemi, perquanto novellino, ne parlo concognizione di causa: di recenteho già avuto la mia prima crisi diregressione e disperazione. Enon sarà l’ultima. Però, se sonoqui a narrarla, addirittura in mo-do ironico, vuol dire che sonostato aiutato a superarla, alme-no in parte.

Il bello è che in Hospice, gra-zie al paradosso della mobilizza-zione rivoluzionaria/conservatri-ce, pur consapevole di esseregiunto forse alla fine della vita, mitrovo a godere insieme un altroparadosso, quello di due pro-spettive apparentemente antiteti-che. Vediamole insieme. Da unaparte, una sana sensazione di ap-pagamento. Anche morendo, incerti momenti mi sentirei sereno,potrei esclamare: “Ma che bellamorte!”, circondato da affetto,curiosità intellettuale, un vero ce-nacolo di idee e sentimenti. Enon parlo solo di amici e parenti,troppo facile. Mi riferisco anche esoprattutto agli operatori.

Vi assicuro che la loro pre-senza rispettosa, il loro spirito diricerca, la loro empatia, la dispo-nibilità a comunicare con que-sto paziente rompicoglioni, so-no essenziali. Per uno come me,che amava affibbiarsi orgoglio-samente la definizione di Erri DeLuca, “un albero che cammina”,perché aveva fatto del movi-mento fisico e intellettuale la suaragione esistenziale, pensare dilasciare la vita in questo modo,in tale compagnia, sarebbe giàconsolatorio. Anche se, al dun-

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que, si muore soli, come ci ha ri-cordato Norbert Elias ne “La so-litudine del morente”. Ma la no-tizia è un’altra.

Il bello viene adesso. In certimomenti mi sto talmente rein-namorando della vita, sto tal-mente riassaporando – oltre l’ot-timo vitto – il mio stile di vitaprecedente alla tragedia, chetutta questa voglia di morire sva-nisce. La sete di ricerca riappare,sembra quasi inesauribile, vali-damente sorretta da mani auda-ci ed esperte e da ruote di car-rozzella ben gonfiate.

A volte dunque i grandi pro-blemi teorici di fine vita, le“scelte morali” (ben trattate daEugenio Lecaldano, il direttoredel Master di bioetica ed eticapratica da me conseguito), unavolta eliminato il dolore fisico –quello che Sergio Zavoli ha de-finito “il dolore inutile” – si pos-sono ripresentare come pro-blemi pratici di riavvio della vi-ta, e magari di una vita ancorpiù interessante di quella di pri-

ma. E così posso dire anch’io,con l’amato Terzani, “la fine è ilmio inizio”. Anche se non mivoglio ridurre al testamento,preferisco essere contagiosoprima di andarmene, una spe-cie – si parva licet – di “Gandhidei malati”.

Un Gandhi dei malatiHo però verificato che anche lamisura e la terapia del dolore fi-sico sono una condizione neces-saria ma non sufficiente. L’ave-vo già intuito da ricoverato nellaclinica chirurgica dell’ospedalecivile di Parma venti anni fa. Orasono ancor più consapevole cheoccorre attrezzarsi, scientifica-mente e umanamente, per pre-vedere, ascoltare e alleviare lasofferenza spirituale: quellaspesso indotta proprio dall’or-ganizzazione distratta o indiffe-rente oppure da familiari so-spettosi o prepotenti, magaricon le migliori intenzioni.

E passo al terzo modo. Caricuranti dell’Hospice, ci tenevo a

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Con Silvia nei boschi di Pizzo Deta (1998)

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essere presente al convegno.Non per esibire la mia forza dispirito, bensì per aiutarvi a rico-noscere la mia e la vostra debo-lezza. Sembra un altro parados-so, ma penso che la frana che ciha travolto nella mia ultima crisie la reciproca ammissione diaver toppato in una situazionedi emergenza con un pazientespeciale, possa restituirvi lo spi-rito originario, aiutandovi a mi-gliorare. Specie ora che state perfare un salto quantitativo, saltoche deve essere anche e soprat-tutto qualitativo.

Insomma, ancora una volta:rivoluzione e conservazione in-sieme. Per questo, da osservato-

re impaziente – che affida allavostra pazienza la sua inermenudità, le sue copiose urine e leodorose cacche, giorno e notte,senza mai cogliere un cenno,non dico di fastidio, ma financodi sopportazione, al massimo unsegno di stanchezza – mi sonosforzato di distillare la rabbia.Che poi, diciamocelo pure, noncesserà subito.

Non è questione di buonemaniere. È che non so se potrò,se saprò mai accettare la con-danna alla dipendenza e, forse,l’avvicinarsi della morte. Chenon credo si possa esorcizzarecon una bella definizione: “dol-ce”, “amica” o quant’altro. n

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Canne, dolore e buona morteArticolo pubblicato sul quotidiano “Metro” il 24 ottobre 2006

Dopo il via del Governo c’èchi dice: “Liberi di farsi lecanne”. Sciocchezze. Me-glio inserirle nel Monopolio

con una tassa: risolveremmo laFinanziaria. Ve lo dice un pa-ziente paralizzato e ricoveratonell’Hospice Antea per metastasivertebrali, ma in cure palliative,quelle che leniscono il dolore seil cancro non è guaribile. Per ga-rantire una vita dignitosa sino al-la fine servono medicine efficaciche l’Italia è tra gli ultimi a usare.L’indifferenza burocratica versole sofferenze altrui e i pregiudizihanno accumulato barriere con-tro i medicinali oppioidi.

Finalmente il ministro dellaSalute fa una vera opera di sem-plificazione: inserisce due medi-cinali cannabinoidi tra gli stu-pefacenti a uso terapeutico (eraora, il principio della cannabis èefficace con nausea e vomito dachemioterapia e altri tipi di dolo-re: contrattura muscolare, emi-crania...). Consente di prescrive-re gli oppioidi con il ricettarionormale, senza ricorrere a quellispeciali, e ne prevede l’uso an-che per altre malattie cronicheinvalidanti. Se pensiamo checon lo stesso provvedimento

vengono eliminati 5 milioni dicertificati inutili, ci rendiamoconto della grandiosità dell’ope-razione. Basta?

Hospice e Comitati eticiCome paziente esigente che, al-la fine della “carriera”, è protettodal dolore in uno dei pochi veriHospice italiani, propongo a sa-ni e malati due obiettivi: un Ho-spice in ogni ospedale, in cuicontinuare a prendersi cura deimalati dimessi perché inguaribi-li o da cui seguirli a domiciliocon èquipes di cure palliative;un Comitato etico in ogni ospe-dale per difenderci dall’accani-mento, cioè dal tenerci attaccatiai tubi per farci sopravvivere aogni costo.

Invece dell’accanimento ser-ve un po’ di aggattimento: me-no macchine e più coccole. Pro-prio così: chi si avvicina allamorte sente il bisogno di genti-lezza, come dice la protagonistadel film di Mike Nichols “La for-za della mente”. Se molti scrives-sero questa volontà e i medici larispettassero, chi chiederebbel’eutanasia, cioè una buona fi-ne? Casomai una buona cannadal Monopolio. n

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Dialoghi su cure palliative e hospiceDagli articoli in forma dialogica scritti fra l’ottobre 2006 e il gennaio 2007 per l’inserto Salute di “Repubblica”.Botta e risposta con una giovane dottoressa dell’Antea di Roma

Quali cure garantite in Hospice?Le cure “palliative” a dieci per-sone. Ma le garantiamo anche aldomicilio di molti malati gravi.

E cosa sono le cure “palliative”?Il contrario di quello che ha det-to il ministro Di Pietro quando èintervenuto sulla Finanziaria:“Se c’è un malato, non gli si puòdare un palliativo, bisogna cu-rarlo”. Le nostre “cure” non sonole caramelle. Noi ci prendiamocura delle persone con un tumo-re inguaribile, quando il malenon risponde più alle terapieoncologiche: radio, chemio. Ecuriamo soprattutto i sintomi,cioè il dolore.

Ma palliativo non vuol dire“placebo”, cioè inutile?La radice “pallium” vuol diremantello. Non per coprire o,peggio, nascondere. Bensì uti-le per accompagnare e proteg-gere, per esempio, dal doloreinutile.

Mi viene in mente il “tabarro”dei montanari. Ma anche lamantella dei preti…Sì, era il classico mantello. Quel-la dei preti probabilmente l’asso-cia al fatto che fino a poco tempo

fa dell’assistenza ai morenti se neoccupavano solo loro.

Mentre oggi? Oggi esistono strutture comequesto Hospice per accogliere imalati che una volta si definiva-no “terminali” e assisterli, garan-tendo loro una vita dignitosa si-no alla fine. Sono gestite da as-sociazioni come la nostra, conéquipes multiprofessionali cheoperano per lo più a casa deimalati. Qui si viene quando a ca-sa emerge una crisi.

E come mai lei, che è giovane,ha scelto di lavorare qui, dove imalati non guariscono?È vero, ancora pochi anni fa unmedico “palliativista” era consi-derato un fallito perché cura gliinguaribili e spesso deve farsicarico dei “fallimenti” altrui.

Ma, secondo lei, la vita finiscequando non si può più guariredal cancro? Oppure cominciaproprio in quel momento unodei periodi più importanti del-l’esistenza?La mia esperienza mi fa dire che ècosì, e non solo per i malati, maanche per noi medici. Ho impara-to molto più qui che all’università.

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“Hospice” vuol dire: ospizio,ospedale o “day hospital”?No, non è per mania di parlareinglese. All’origine c’è CecilSaunders, una meravigliosa in-fermiera che 40 anni fa a Londranon abbandonò i malati persidalla medicina, cioè quelli conmalattie croniche “terminali”.Negli ospizi si assistevano i vec-chi; negli ospedali si curavano imalati acuti, ma solo finchèc’era speranza di guarigione. Leifondò l’Hospice per accogliere ecurare gli “inguaribili”.

Possibile curare tutte le malat-tie inguaribili? La medicina “palliativa” è statadefinita negli anni ’80: per affer-mare il valore della vita, nonprolungandola o abbreviandolaa ogni costo. Per considerare lamorte un evento naturale, nonuna sconfitta della medicina. Peralleviare il dolore aiutando i pa-zienti a vivere il più attivamentepossibile sino alla fine e le fami-glie a convivere con la malattiagrave, poi con il lutto.

In un Hospice o anche a casa?Innanzitutto a domicilio, evitan-do ricoveri in ospedale. Casapropria è il luogo di cure piùambito, per favorire il recuperodelle capacità di autonomia delmalato e delle competenze deifamiliari. Lo facciamo giorno enotte con équipes formate damedico, infermiere, fisioterapi-sta e psicologa.

Ma se la famiglia non regge ointerviene una crisi?Allora subentra l’Hospice. Per-ché non c’è tanto la paura di mo-rire quanto di morire “male”, sof-

frendo inutilmente. Quello chegenera più disperazione non ètanto la malattia, la sofferenza ola morte, quanto la solitudineche prende quando non c’è piùchi ti accompagni alla fine.

E voi, così giovani, come ac-compagnate la morte?Noi non accompagniamo lamorte ma le persone. Offriamocure e farmaci adeguati, terapieriabilitative. C’è un desiderio divita che ognuno conserva sinoall’ultimo, anche nelle situazionidi malattia estrema, e che puòessere custodito solo a condizio-ne di essere assistiti e sostenutiinsieme alla famiglia. Il nostronon è solo un rapporto di com-petenza o di carità: è di civiltà.Lavorare in Hospice significaoperare al confine della vita, cheresta sempre e comunque vita.Accompagnare vuol dire conti-nuare a dare speranza quandotutto gioca contro, rispettando lescelte morali fatte dalla personamorente.

Cioè le “disposizioni di fine vi-ta”? Servono qui?In Italia non vale il principio giu-ridico della disponibilità dellavita. Ma, secondo autorevoli ri-cerche, troppe volte la scelta delmedico di fatto decide il mo-mento della morte. Nel Dizio-nario di bioetica, il filosofo Le-caldano ricorda che disporredella vita con direttive moral-mente vincolanti serve al malatoper “individuare i modi respon-sabili ed eticamente accettabiliper dare a essa una continuità,un senso”. Le “disposizioni di fi-ne vita” per ora hanno questoimportante valore morale. n

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Volando in trance sul parco di Villa AdaDall’intervento tenuto il 25 gennaio 2007 al convegno Antea“Psicoterapia ipnotica come ‘auto ipnosi’ nelle cure palliative”

Se proprio devo definirmi, al-l’espressione malato termi-nale preferisco quella dimorente: fin da quando na-

sciamo siamo tutti morituri, eprima o poi diventiamo quasitutti moribondi e agonizzanti.Definendomi morente intendorivendicare il mio essere unsoggetto morale che, cono-scendo la diagnosi e la progno-si che lo riguardano, sa di esse-re alla fine della propria vita ecerca di adeguare coerente-mente l’una all’altra.

Prima di provarla, non avevoidea di cosa fosse la psicotera-pia ipnotica sotto forma di autoipnosi. Pensavo fosse una formadi riabilitazione psicologica.Non m’era noto il significato tec-nico-scientifico di auto ipnosi,ma non lo identificavo conquello divulgato dal circo me-diatico televisivo.

Inoltre, mantenevo ampiadiffidenza verso le tecniche psi-coterapiche, eccetto il “giocodella sabbia”. Primo, perché holetto il saggio di Paolo Aite “Pae-saggi della psiche” e gli inter-venti di Livia Crozzoli Aite nei li-bri curati per il Gruppo Eventi;inoltre, per averlo positivamen-te sperimentato su me stesso in

preparazione di un gruppo diauto mutuo aiuto fra malati dicancro, poi non realizzato.

Il gruppo non si era formato,ma la “sabbia” aveva mostratoche dopo ben 50 anni non ave-vo ancora elaborato il lutto pa-terno. Insomma, non ero la per-sona più facile da convincerecon proposte di auto ipnosi,rappresentando essa per mepiuttosto una sfida: una provo-cazione, più intellettuale cheemotiva, da raccogliere, da sma-scherare magari, senza farmiguidare dai pregiudizi e mante-nendo una certa sana curiosità,insieme a una buona voglia disperimentare novità e tecnicheper distaccarmi dalle tensioni.Ora, dopo averla provata, pensoche sia una tecnica utile, ma nonda sola, e non per me solo.

Lo stile metodologico e ope-rativo della psicoterapeuta (cosìcome quello del fisioterapista)mi pare avviato nella direzionedi osservare, recuperare, valoriz-zare e riabilitare tutte le residuerisorse interne dei malati affidatialle loro cure. Scherzando, dicoche fa parte di uno dei modi dipensare e di agire esistenti eoperanti tra i familiari, gli amici ei curanti intorno a me. Le defini-

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sco così: 1) agevolare; 2) agire;3) fuggire. Della prima fannoparte coloro che cercano di con-vogliare in un alveo facilitanteogni sintomo positivo o negati-vo, ogni spiegazione, ogni indi-catore. Un alveo scivoloso in cuilasciarsi andare, facendo – ap-punto – metaforicamente il mor-to, per morire addormentati.

Della seconda fanno partecoloro che, avendo individuatola mia esigenza di fondo di intel-lettuale, quella di resistere permorire vivo, lucido, mi aiutano aresistere, cioè a nuotare il dop-pio solo per rimanere fermo alpunto in cui sono, vivo: non pernon morire, bensì per morire lu-cido. Della terza scuola possodire che non si tratta di una dra-stica differenziazione dalle altre,né di una fuga totale dal difficileappuntamento con la propriamorte oltre che con la mia: sitratta più spesso di una fuga par-ziale, nel tempo e nei modi. Unalto e basso che sta coinvolgen-do anche me. Li capisco.

Con la psicoterapia ipnoticaper me è cambiato abbastanza,ma proprio in quanto mi è capi-tato di rimanere all’Hospice, dinon tornare a casa. Mi pare uti-le e indispensabile poter usu-fruire, nella situazione in cui mitrovo, di un supporto del gene-re. Finora le tracce fornitemi –visiva, sonora, immaginativa,respiratoria e manipolatoria (lasabbia) – per distanziarmi edestraniarmi dal dolore fisio-psi-chico e dalle preoccupazioniconnesse, nonchè per ridimen-sionare fastidi come ansia, ver-tigini e dispnea, hanno funzio-nato. Fin dalla prima occasione,subito dopo l’inizio dell’ap-

proccio psicologico, quando leho usate per ridimensionare esostenere i disagi del viaggio inambulanza, dall’Hospice al-l’ospedale San Giovanni-Addo-lorata e viceversa, e dell’esameall’interno dell’ambulatorio ra-diologico. Era una risonanzamagnetica total body partico-larmente faticosa, i cui tempi sisono rivelati inaspettatamentelunghi rispetto a quelli attesi epredisposti dal primario.

Sui sentieri del SirenteI fastidiosi rumori della proce-dura Rmn consistono in tonidapprima molto differenziati,poi martellanti e continui, poi dinuovo caotici con alternanze ditensione e di durata. Ebbene, irumori sono “diventati” rispetti-vamente: dapprima quello delmotore di un aereoplanino sulquale immaginavo di sorvolareVilla Ada, parco romano a mecaro; poi quello di una carovanadi muli carichi di legna e dotatidi campanacci, che immaginavoinerpicata sui sentieri del Siren-te, una montagna abruzzese an-ch’essa a me cara; poi quello de-gli squilli telefonici delle chia-mate più affettuose ricevute nel-le ore precedenti la prova.

Infine, sono riuscito ad alle-viare l’insopportabile duratadella prova concentrandomisulla respirazione, come le par-torienti, al limite del disagio: hoassunto infatti un respiro con-vulso, addirittura mi sono mos-so, tanto da costringere il tecni-co a rifare alcuni esami.

Inoltre, nella serie delle crisiinterfamiliari, che hanno poicoinvolto l’Antea, importante èstato un altro ruolo della psico-

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loga: ha ascoltato e ci ha aiutato,svolgendo – non so quanto con-sapevolmente sino in fondo –una funzione di mediazione efavorendo il recupero di risorseinterne alla famiglia come unitàsofferente e non solo a me. Così,con mia moglie, ho provato amanipolare la creta, a disegnaree dipingere con le tempere, aleggere poesie, a scriverle. Inciò favorito piuttosto che solle-citato, in un processo non linea-re, fino alla trance: nei primitempi un mero riposo, un chiu-dere gli occhi, una ricerca di si-lenzio, buio, ritiro, intimità (avolte di pianto), poi via via dimaggior benessere. Di questopiacere si è rivelata componentela speranza indotta dalla terapiale volte che, pur facendomi ri-lassare, mi ha aiutato a spostar-mi metaforicamente dal letto al-la carrozzella, ovvero a sedermisul letto, dal periodo in cui nonmi sentivo più in grado di poter-lo fare sino ad oggi.

Saltando sulle sassaiePrima di concludere desiderofar riferimento al nuovo materia-le “auto ipnotico” recentementeintrodotto dalla psicologa: sitratta di frammenti profumati,dotati di un particolare colore ecapaci di produrre rumore. Inun primo tempo mi hanno ri-chiamato certe spiagge con unasabbia eccessivamente granulo-sa, ma poi mi hanno evocato

certe “sassaie” da attraversare inalta montagna, specie sotto lepareti: un pietrisco in cui è pos-sibile saltare a piè pari per scen-dere e attraversare in sicurezza.Basta non soffrire di paure.

Ebbene, l’associazione tra lemie esperienze dolomitiche e lanuova esperienza di rievocazio-ne delle sassaie, grazie a questatecnica auto ipnotica, mi ha per-messo di trarne un beneficio im-portante: l’aiuto per riuscire asuperare la pesante crisi deter-minata dalla necessità di pren-dere atto del blocco definitivo diogni movimento (paralisi “ino-perabile” e “irreversibile”).

La mia conclusione è questa:sì, la psicoterapia ipnotica (autoipnosi) ha senso nelle cure pal-liative. Non so se sia una rivolu-zione o una conferma rispetto alpassato, ma so che la scelta –moralmente coraggiosa – appa-re rivoluzionaria perché con-servatrice dei valori della vita si-no alla sua fine. Come pazienteche si autodefinisce esigente emorente, cioè consapevole del-la forza di spirito di cui è porta-tore e della rete di sostegno af-fettivo, ringrazio i garanti di que-sta performance. A partire dalladirezione dell’Antea e dai suoibracci operativi (la psicotera-peuta Monia Belletti e il fisiote-rapista Claudio Pellegrini) per fi-nire a tutti i curanti: medici, tec-nici, infermieri e operatori, com-presi i volontari. n

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Diventare sciamano quando torno polvereIntervento pubblicato postumo sulla rivista “Fisioterapisti”n.20 Gennaio-Febbraio 2007

Sulla vostra rivista (n.18 delSettembre/Ottobre 2006) èuscito un interessante artico-lo di Patrizia Brugnoli, della

“Fondazione italiana di lenitera-pia” di Firenze, con il titolo “Tra-sparenza, informazione, con-senso. Cure palliative: quale eti-ca?”. Ho avuto l’occasione dileggerlo presso l’Hospice Anteadi Roma, che mi assiste per unaparalisi midollare dovuta a me-tastasi della colonna vertebrale.Infatti, sono un malato oncolo-gico in fase terminale.

Il mio primo cancro (alla ve-scica) risale al 1997, e tuttora stain fase di remissione; il secondo(alla prostata) è emerso nel2000, ma fin dall’inizio si è rive-lato violento e veloce: esatta-mente il contrario di quello chesuccede nella maggioranza deicasi. Infatti il cancro alla prosta-ta ha una progressione lenta esilente, tanto è vero che nel-l’ambiente gira una battuta diquesto tipo: “Si muore col can-cro alla prostata, ma non di can-cro alla prostata”. Su di me pos-so dirvi poche altre cose: ho 67anni e sono sposato da oltrequaranta. Abbiamo due figli,uno informatico e l’altro giorna-lista, con tre nipotine.

I miei studi più recenti sono statidi bioetica. Ho partecipato alMaster in bioetica ed etica prati-ca organizzato all’università LaSapienza. Dunque, mi sono tro-vato ad affrontare questi temicome studioso e come paziente.Mi sono in seguito coniatoun’autodefinizione che riunissele due identità: paziente esigen-te, intendendo esigente innanzi-tutto con me stesso. Potete cosìimmaginare i motivi del mio in-teresse per l’articolo casual-mente incontrato sui tavoli del-l’Hospice. Soprattutto laddovesi afferma giustamente che“nessuno può rivendicare la su-periorità della propria etica ri-spetto a un’altra”.

Tale affermazione si riferisceai grandi temi della bioetica (ini-zio vita, disposizioni di fine vitao direttive anticipate, eutanasia)e ribadisce una mia convinzionein proposito. Fin dai primi studi,infatti, mi ha colpito la diversaimportanza che si era venutaconquistando l’etica cosiddetta“di frontiera”, quella appunto le-gata alle scoperte scientifiche etecnologiche, rispetto all’eticache chiamerei “quotidiana”,quella cioè legata alla malattia,al dolore, al ricovero ospedalie-

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ro, al parto, al rapporto medici-pazienti,ecc. Per cui anch’io misono chiesto se per caso qual-cuno possa rivendicare la su-periorità della propria moralerispetto a un’altra, e anch’io so-no convinto (come l’autricedell’articolo sulla vostra rivista)che in materia di morale ciòche conta sono i comporta-menti concreti, piuttosto che gliatteggiamenti o i meri convinci-menti.

Regole e codiciInfatti, a che servono le pocheregole reciprocamente plausi-bili che bastano a fondareun’etica “comune”? Servono agarantire una convivenza paci-fica e civile tra persone, comu-nità e società che si riconosco-no in norme morali diverse. Peresempio, non è detto che ai ma-lati vadano bene le regole del“Codice deontologico” che sisono dati unilateralmente i me-dici e gli infermieri (quelle cheun grande bioeticista ha defini-to “etichette”, per distinguerledalle regole condivise). Altroesempio: non è detto che a tuttivadano bene le norme desunteda una morale religiosa oppureideologica, per cui possono be-nissimo convivere persone chele regole le traggono da una fe-de e persone che invece (nonavendo la “grazia” della fede,come me), se le costruisconoogni giorno e ogni giorno… simettono in gioco.

L’autrice, peraltro, non si ri-ferisce al rapporto tra una qual-siasi comunità e/o società, bensìa quello assai delicato tra i sin-goli fisioterapisti (“davanti al tri-bunale della propria coscien-

za”) e “il proprio gruppo di lavo-ro, nel quale un posto privilegia-to è occupato dal paziente e dal-la sua famiglia”. Ecco perché misono sentito tirato in ballo e misono permesso di scrivervi lamia opinione.

Tanto più che l’autrice, sotto-lineata l’importanza che ogniscelta operativa di ciascun pro-fessionista “riveste in relazioneal tempo e alle risorse che il pa-ziente ha a sua disposizione”, ri-corda alcuni punti saldi stabilitidalle società internazionali dicure palliative, da un lato, e dalmovimento hospice, dall’altro:a) che il malato e la sua famigliapartecipano all’équipe; b) che ladefinizione di cure palliative“pone ogni nostra scelta all’in-terno di una cornice dai contor-ni più definiti”.

In particolare Patrizia Bru-gnoli richiama l’attenzione sulvalore etico della trasparenzadell’intervento terapeuticonell’ambito delle cure palliati-ve. Tanto più che ancora nonesistono protocolli o linee gui-da circa lo specifico interventodel fisioterapista “nella gestio-ne dei bisogni di una personain fase avanzata di malattia”.Esistono insomma ampi margi-ni di discrezionalità, a frontedella carenza di un metodo esoprattutto dei princìpi moraliche lo fondano.

Per concludere, mentre finqui ho concordato con le osser-vazioni dell’autrice, da qui nonmi ritrovo nelle sue definizioni:per esempio, ella definisce “effi-cace” l’intervento che “rappre-senta una risorsa conoscitiva pergli altri operatori” e “inefficace”o inutile quello che “spreca tem-

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po prezioso per le persone chepotrebbero utilizzarlo altrimen-ti”. Mi spiace, ma a me proprionon pare che le cose stiano così.“Inefficace” qui sta per “ineffi-ciente”: l’efficienza, così comel’informazione (il “consenso in-formato”) e la stessa medicina“basata sull’evidenza”, costitui-scono “condizioni necessariema non sufficienti” per un’au-tentica comunicazione tra cu-ranti e curati.

Di più. Che senso ha parlaredi spreco di tempo prezioso rife-rendosi solo agli operatori eignorando noi malati terminalie/o morenti (cioè consapevolidella propria terminalità)? Lamancanza di condivisione di talimotivazioni colpisce sia il mala-to, le sue aspettative, sia il fisio-terapista: impedisce un’eticadella fisioterapia per le cure pal-liative. Ovvero per quella fasedella vita in cui interventi tera-

peutici (come la fisioterapia emagari la psicoterapia sotto for-ma di auto-ipnosi) apparente-mente superflui, si rivelano in-vece utili e maieutici: utili, peraiutarci a vivere sino in fondo lanostra vita, e maieutici, per con-sentirci di scoprire, valorizzare evivere sino in fondo le potenzia-lità e le risorse.

Un bel paradossoPensate che bel paradosso: do-ver aspettare di essere sul puntodi morire, di “lasciare la vita”,per diventare consapevoli e ma-gari (soggetti morali) attivatoridi facoltà mai prima esercitate.Altro che risorse residue… A mesembra un po’… come diventa-re sciamano proprio quandotorno polvere, senza altro do-mani di quello che, da bright,“splendente di luce propria”,avrò seminato sotto forma dimemoria condivisa. n

Coccolando la nipotina Giorgia (1995)

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memoria

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Alla manifestazione del 25 Aprile a Roma (1987)

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Un eroe mite

Eroismo è una parola che può provocare irritazioni cutaneeper l’abuso che se ne è fatto (soprattutto a destra, ma an-che a sinistra). Non riesco tuttavia a trovare un termine piùadatto per definire il comportamento di Gianni Grassi nel-

la sua ultima battaglia, quella condotta nei lunghissimi ottomesi della fase terminale della sua malattia. Paralizzato dal co-stato in giù, dipendente da uomini e strumenti sanitari permolte funzioni vitali e anche per il più piccolo movimento,piagato e bucherellato, con il corpo deformato a causa delleterapie in corso da dieci anni, Gianni ha dato il meglio di sestesso nel perseguire quello che da tempo era diventato ilsuo obiettivo primario: l’“utopia concreta” – così l’aveva de-finita – di rivoluzionare la comunicazione tra medici e pa-zienti, una autentica “lotta di liberazione” da “padroni” (ca-mici più o meno arroganti, idoli onnipotenti e indifferenti) eda “dipendenti” (pigiami più o meno ignoranti, credenti im-potenti e rassegnati) allo scopo di trasformare, gli uni e glialtri, in “collaboratori nella ricerca del comune sapere, nelrispetto della reciproca autonomia, nella cura delle rispettivemanchevolezze e potenzialità”.

Nelle notti insonni, febbrilmente impegnato a pensare e ascrivere analisi, proposte, invettive, divagazioni poetiche, iro-nie emiliane, così come nelle ore del giorno vorticosamenteriempite da un incessante confronto dialettico con i medici e dadialoghi stimolanti con familiari, amici, vecchi e nuovi compa-gni, personalità impegnate nei temi “etici”, Gianni ha continua-to a testimoniare e a battersi, fino all’ultimo istante, per consen-tire a tutti di vivere e morire con dignità. Quest’ultima era la fra-se che ripeteva più spesso nelle ultime settimane.

Tutta una vita d’impegno politico e civile (come militante diAvanguardia operaia, sindacalista, pacifista, ambientalista, so-ciologo, pubblicista, organizzatore culturale, studioso dellacondizione dei non vedenti) ha così trovato coronamento inuna battaglia che era, al tempo stesso, spirituale e materiale, inuna visione di “religiosità laica”. Amava dire che rispetto agli

Silverio Corvisieri

Ha lottato per consentire a tutti di vivere e morire con dignità

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anni giovanili, di cui nulla rinnegava, aveva “più fiducia che fe-de, più ideali che ideologia”.

Eroe, dunque, ma eroe mite che ancora alla vigilia dellamorte progettava di scrivere favole per bambini e si preoccu-pava di donare a una futura madre un libro utile alla sua creatu-ra. Ricordo che due anni fa, al termine di una faticosa ascesa alrifugio Sebastiani, in Abruzzo, quando già il suo corpo era mi-nato dalle metastasi, anzichè tirare il fiato e ammirare il paesag-gio, trascorse più di due ore a raccontare favole e a conversarecon un bimbetto che viveva lassù e che, in mancanza di coeta-nei, l’aveva atteso con impazienza.

Non c’è dunque da stupirsi se per i malati terminali Gianniinvocasse l’aggattimento terapeutico al posto dell’accanimento:tenerezza, finezza psicologica, gentilezza e anche farmaci anti-dolore, insomma “meno macchine e più coccole” come avevafelicemente sintetizzato in uno dei suoi ultimi articoli. I suoi fu-rori e i suoi sdegni contro ingiustizie, ipocrisie, arroganze, me-schinità, soprusi e persino, a volte, nei confronti delle persone edelle cose più amate, erano l’altra faccia della medaglia di unuomo sempre pronto a pagare di persona e a dare tutto se stes-so. Lo voglio ringraziare ancora una volta, perché purtroppo vi-viamo in un mondo che ha ancora bisogno di eroi. n

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Pacato, labbra fine, sguardo chiaro,Più resistente der cement’armato,Lui nemmanco la morte l’ha piegatoÈ questo Gianni Grassi, amico caro,

Disponibbile a tutte le richiesteMa sempre e soprattutto intransigenteNer tutelà i diritti della genteContro ‘r Potere, ch’è la vera peste

Concludendo però con il sorrisoD’un cuore trasparente come ‘r vetro.E se per caso esiste ‘r ParadisoQuello vero, no quello dei prelati,Lo vedo già a discute co’ San PietroPe’ difenne i diritti dei Beati.

Carlo Misiano

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Le cerimonie

La mattina del 6 febbraio 2008, ad un anno dalla morte,con una cerimonia alla quale erano presenti un centinaiodi persone è stata inaugurata la targa toponomasticacon la quale è stato intitolato a Gianni un largo nel parcoromano di Villa Ada. Prima che venisse scoperta la targaha suonato il sassofonista Nicola Alesini. Per il Campidoglioerano presenti gli assessori all’Ambiente e alla Cultura,Dario Esposito e Silvio Di Francia.Nel pomeriggio si è tenuta una seconda commemorazionecon un incontro nella Sala della Pace della Provinciadi Roma a Palazzo Valentini – grazie alla disponibilitàdell’assessore alla Cultura, Vincenzo Vita – dove è statoproiettato il documentario “Intorno alle ultime cose”,realizzato dalla regista di Rai3 Francesca Catarci.Anche il 7 febbraio 2009, nonostante il tempo inclemente,una cinquantina di persone hanno partecipato allacerimonia in ricordo che si è tenuta nel largo di Villa Ada.Ha suonato nuovamente il sassofonista Nicola Alesinie alla fine tutti i partecipanti – dai bambini sino ai piùanziani – si sono dati la mano in silenzio, indirizzandoun pensiero a Gianni e formando una catena umana,un inedito girotondo con gli ombrelli sotto la pioggia.

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Il largo di Villa Ada

Il largo intitolato a Gianni dentro Villa Ada (Roma) si trovanella parte alta del parco, raggiungibile dalle entrate su viaSalaria. Da queste si scende sino al laghetto superiore, pren-dendo poi una scalinata che porta ad una stradina in terra

battuta che conduce al largo. Sulla targa c’è scritto:Largo Gianni Grassi - Sociologo e giornalista (1939-2007)

È bello legare il ricordo di Gianni al prato, alle panchine,agli alberi, ai cespugli, ai tronchi caduti mentre nuovi bambini,ragazzi, coppie, individui ripetono passi liberi e gesti intimi...

Questa frase dell’amica Elvira Guida ben sintetizza lo spiritoche ha spinto oltre mille persone a sostenere la proposta di inti-tolazione di un luogo di Villa Ada alla memoria di Gianni, luiche tanto amava e frequentava il parco. L’idea è stata subito ac-colta dall’assessore all’Ambiente del Comune di Roma, DarioEsposito, che ha scritto: “Mi unisco con entusiasmo alla richie-sta, sottoscritta già da tanti cittadini che hanno avuto, come me,la fortuna di aver conosciuto personalmente Gianni e le sue bat-taglie. Il vuoto che ha lasciato è incolmabile ma far rivivere il suonome, legandolo al luogo che gli era più caro in assoluto, po-trebbe rappresentare un piccolo risarcimento per tutti coloroche lo hanno perso e un tributo di riconoscenza da parte di que-sta città, per questa Villa che tanto ha contribuito a tutelare”.

Immediato anche l’appoggio dell’assessore alla Cultura, SilvioDi Francia, così come quello del presidente vicario del Consiglioregionale Lazio di Italia Nostra, Franco Medici, con queste parole:“Sosteniamo con convinzione la richiesta di intitolazione alla me-moria di Gianni Grassi di un largo di Villa Ada, già sottoscritta datanti cittadini che hanno conosciuto il suo lungo e generoso im-pegno ambientalista (e non solo). Legare il nome di Gianni Gras-si ad un luogo di Villa Ada significa riconoscere la passione el’onestà morale con la quale si è sempre battuto in difesa di que-sto storico parco urbano. Significa anche dare valore nella memo-ria collettiva di Roma a quei cittadini che si sono spesi per la col-lettività, con coerente spirito civico e raro altruismo”. n

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Il largo intitolato a Gianni nel parco romano di Villa Ada

Un momento della cerimonia in ricordo tenuta nel febbraio 2009

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Lorenzo Grassi

Un sogno realizzato

Per noi famigliari oggi si realizza un bellissimo sogno, delquale ringraziamo di cuore Silvio Di Francia e Dario Espo-sito, che hanno subito accolto e sostenuto la nostra idea.Quando abbiamo lanciato la proposta di dedicare a Gianni

un luogo del parco di Villa Ada, neanche noi potevamo imma-ginare il grande seguito che avrebbe avuto. Per questo ringra-ziamo i tanti che hanno firmato la richiesta e i molti amici di Vil-la Ada. Per noi era solo una speranza pensare di riuscire a inau-gurare questa targa nel primo anniversario della scomparsa diGianni. Invece, tutti insieme, ci siamo riusciti.

Abbiamo proposto di ricordarlo qui – come ha scritto conpoesia un’amica – perché “è bello legare il ricordo di Gianni aiprati, alle panchine, agli alberi, ai cespugli, ai tronchi caduti diVilla Ada… mentre nuovi bambini, ragazzi, coppie, individuiripetono passi liberi e gesti intimi”. Gianni si è sempre battuto –con generosa passione, coerenza e intransigenza – per difen-dere questo parco dagli inquinamenti “morali e materiali”, adesempio contro l’invadenza delle auto o per chiedere, concre-tamente, dei gabinetti.

Questo è un parco al quale siamo legati da profondi ricordipersonali. Con la mia famiglia, con mio fratello, a Villa Ada cisiamo cresciuti e andati a scuola. Frequentavamo questo slargosin da piccoli e lo chiamavamo le “tre altalene”, perché un tem-po ospitava dei giochi per bambini. Nei prati qui vicino abbia-mo passato, con allegri pic-nic, molti degli ultimi momenti bel-li con nostro padre, prima della sua paralisi. Qui intorno “non-no” Gianni ha tenuto per mano le nipotine che muovevano ti-midi passi, ha giocato con loro a nascondino dietro gli alberi.Qui ha fatto l’ultima passeggiata sulle sue gambe.

È un luogo raccolto e tranquillo: per chi ha voluto e vuolebene a Gianni (che riposa nel cimitero di Berceto, suo paesenatale sull’Appennino parmense) sarà bello poterlo venire aricordare anche qui in mezzo ai prati. Sono state messe dellepanchine – che non c’erano più da anni o erano rotte – dovepoter sostare, leggere e riflettere in serenità. In futuro, forse,

Discorso all’inaugurazione di largo Gianni Grassi

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si potrebbero rimettere anche le altalene, per rendere vivoquesto largo con le voci dei bambini, che Gianni avrebbe vo-luto vicini e dai quali era amatissimo, perché li incantava confavole e giochi infiniti.

Gianni è stato così tante cose insieme che quando abbiamopensato a quale scrivere sulla targa ci siamo smarriti: forse “pa-ziente esigente”, per la sua tenace ricerca di un rapporto parita-rio tra medico e malato e le sue battaglie contro il dolore inuti-le, per il diritto/dovere di morire bene, con dignità, di ‘morirevivi’ come diceva lui. E ancora: libero pensatore, ecologista,uomo di pace (ma critico con i pacifisti)... e tante altre ancora.Abbiamo scelto Sociologo nel senso più ampio di ‘studioso eindagatore dei rapporti e dei fenomeni sociali’: nella sanità, nelsindacato come nella politica. E Giornalista. Lo era diventatoufficialmente solo pochi mesi prima di morire, ma lo era statoda sempre: nel fondare e promuovere riviste, quotidiani e ra-dio, nel culto della scrittura e nella sua sconfinata curiosità.

Gianni – che un amico ha definito un “eroe mite” – amavaricordare che alla fine della vita si raccoglie quanto si è semina-to durante l’arco dell’intera esistenza, soprattutto in termini direlazioni e amicizie. I tantissimi amici presenti qui, oggi, testi-moniano quanto abbia seminato bene. Ancora grazie di cuorea tutti e a quanti hanno reso possibile questo sogno. n

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Farò dei flash in modo che ognuno possa ritrovare i suoi ri-cordi e se desidera condividerli. Persa e in qualche modoliberata, così mi sentivo subito dopo la morte di Gianni;adesso prevale il senso di perdita “se ami un uomo o una

donna che muoiono prima di te, allora conosci la vera solitudi-ne”, dice il nonno al nipote in un film russo. Al centro dell’at-tenzione di Gianni c’era la persona (“facevi sentire tutti esseripensanti”, così ha scritto la donna che gli puliva la stanza), so-prattutto se era più debole: dai ciechi (il padre era diventatocieco, quando lui era piccolo, e sino alla fine ha scritto per la lo-ro rivista); ai bambini handicappati per inserirli nella scuolaelementare (“hanno la scusa della cacca cioè di chi li dovrebbeaccompagnare al bagno” diceva); agli stranieri per regolariz-zarli; ai malati; ai morenti. In tutti individuava limiti ma ancherisorse da attivare, insieme, nel Gruppo Eventi come all’Antea.

Forse si ricordava di quando, appena nato, sua zia Pina ave-va esclamato “l’è brut ma l’è simpatic!”, o di quando era in col-legio a Parma. Era stato in collegio dalla prima media al terzo li-ceo, dove aveva scoperto le differenze di classe, costretto a rac-cogliere dal cestino i quaderni, appena usati, che i ricchi butta-vano, lui che era lì con la borsa di studio, perché i suoi non ave-vano i soldi per farlo studiare. Il padre cieco non aveva ancorala pensione e lo stipendio della madre insegnante non bastava:anche se la madre si era opposta con tutte le sue forze, perchéanche lei era dovuta andare in collegio.

In collegio era soprannominato “muscoli zero”, per la suamagrezza, come risposta si era messo a fare atletica, correndosugli 800 metri. La rapidità di riflessi gli era rimasta e gli avevapermesso di scappare dai fascisti, che lo volevano picchiare,dopo un comizio che aveva tenuto a piazza Tuscolo. Nessunoaveva avuto il coraggio di farlo e lui si era offerto.

Il suo più importante modello di riferimento dopo il padre(per la dignità e per la sua intransigenza con sé stesso e con glialtri) è stato lo zio emigrato in America, dove era diventato co-munista, morto di leucemia a Roma – Gianni lo aveva accom-

Silvia Arbicone

Seguiamo il suo esempio

Discorso alla cerimonia del 7 febbraio 2009 a Villa Ada

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pagnato a visitare la città e fino alla morte – che gli aveva inse-gnato a non arrendersi Anche qui risorse e limiti indissolubili.Gianni impostava le relazioni sul dialogo, sull’uguaglianza e ilrispetto reciproco: quando era studente di Giurisprudenza nonera riuscito a laurearsi, perché pretendeva di essere interrogatodal titolare e di esprimere il suo giudizio, più che ripetere ilcontenuto del libro. Così era il suo rapporto con i medici, dura-to ben dieci anni, per non farsi medicalizzare, per garantirsi ilpiù possibile una qualità della vita, (“poca morfina, perché dor-mire è morire”). Più aggattimento e meno accanimento tera-peutico è stato il suo slogan finale.

Studio e ricerca continuiAveva una sua cartella clinica, che aggiornava prima di ogni vi-sita e che dava al medico, spesso ringraziato (“facessero tutticosì!” dicevano alcuni, altri invece si preoccupavano del loropotere assoluto messo in discussione da un “paziente esigen-te”, come soleva definirsi). Prima di ogni visita preparavamoinsieme le domande da fare, per evitare di dimenticarle.

Questo lo obbligava ad uno studio e ricerca continui (in col-legio doveva, la sera, quando chiudevano le luci, leggere conuna piccola pila sotto le coperte), dalla laurea in Sociologia, nel1985 a 46 anni, con la tesi, diventata poi il libro Scioperare stan-ca, dedicata alla lotta che aveva fatto per sciogliere gli enti inu-tili (in particolare l’Unione italiana ciechi dove lavorava) cer-cando forme alternative allo sciopero, fino all’ultimo Master inbioetica. Intellettuale intransigente, scrutatore di anime, ha fat-to sua la sua vita, non tollerando ipocrisia, falsità, imbrogli,mantenendo le promesse. Curioso per tutte le forme di cultura,

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In barca a Palinuro (2005)

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dalla poesia, al teatro, alla danza (mi faceva ridere la sera,quando dopo uno spettacolo, provava a rifare quello che ave-vamo visto), alla musica (aveva studiato da piccolo il violino egli sarebbe piaciuto poterlo ancora studiare insieme al sassofo-no). Aveva interessi enciclopedici che spesso gli permettevanodi essere in anticipo sui tempi e di vedere lontano (in monta-gna lo prendevamo in giro quando intravvedeva sentieri spi-nosi, per noi inesistenti, li chiamavamo “i sentieri di GianniGrassi” che delle volte ci avevano obbligato a tornare indietroo a fare testa a testa con gli stambecchi).

Ascolto con empatiaL’ascolto, l’empatia, la solidarietà (ricordo che era andato persolidarietà con Radio donna, a Radio città futura, dopo l’atten-tato, a tenere una trasmissione notturna), la disponibilità finoall’annullamento di sé (spesso motivo dei nostri conflitti) eranole sue caratteristiche. Viveva senza orologio né portafoglio: ilsuo tempo era soggettivo e senza interesse per i soldi. Le sueradici contadine e di paese sempre valorizzate con l’interesseper la natura e per un turismo di qualità dalle Cinque Terre, aSabaudia, a Ponza, Rocca di Mezzo, Alpe di Siusi. I viaggi nonlo attiravano quando lo sguardo rimaneva esterno: ma Gerusa-lemme e il giro ipnotico, al suono delle tablas, intorno al tem-pio d’oro in India lo avevano colpito.

Quando l’ho conosciuto aveva 22 anni, si professava esi-stenzialista, era a Roma da poco, ma la conosceva più di me,perché appena arrivato in un agosto torrido, l’aveva studiata afondo con la sua caparbietà. Sant’Ivo alla Sapienza l’aveva affa-scinato per sempre, anche se la fontana delle tartarughe lo at-traeva nello stesso modo. C’eravamo incontrati all’università,alla sezione del Psi del quartiere dove il professor De Marchi fa-ceva conversazioni sull’educazione sessuale e soprattutto sullalegalizzazione dei preservativi e poi ad una festa a casa dei mieizii (dove per ballare il rock and roll gli ero saltata addosso, inmodo inatteso, facendolo cadere...). Insomma per farla breve...si iscrisse al Pci per amore nei miei confronti (io facevo attivitàpolitica già dall’età di 14 anni) e lo dovette pure dichiarare pub-blicamente in assemblea, come si usava fare per i nuovi iscritti.

Nel 1964 ci sposammo. Usciti sulla piazza del Campidogliochiedemmo alla compagna che ci aveva sposati a che puntoera la legge sul divorzio, per ribadire il desiderio di una liberascelta quotidiana di stare insieme, contro l’indissolubilità.Avemmo subito i due figli (li avevamo sognati vedendo duebambini che giocavano sul mare), ci facemmo aiutare dal Cen-tro nascita Montessori, diretto allora da Elena Giannini Belotti,per prepararci, insieme agli altri, al difficile compito. Poi ven-nero i centri Rousseau per passare le vacanze in gruppo. Unacoppia di lunga durata, amore, conflitti ma tenacia e resistenza

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nella fiducia e nell’amore. Cominciò una lunga attività politica:io nella scuola, lui nel pubblico impiego (si definiva “civil ser-vant”), nel sindacato e nel Pci, poi nel 1968 lo lasciammo.Gianni si impegnò a costituire Avanguardia operaia a Roma,occupandosi soprattutto del giornale e del finanziamento. Poicon la crisi dei gruppi (avrebbe voluto fare un’inchiesta per sa-pere dove erano finiti i suoi compagni) ha cominciato a faresempre di più della sua vita personale un’attività politica (giàavevamo cercato di farlo per la famiglia, tentando di trasfor-marla in una “pattuglia di combattimento”), occupandosi di pa-ce andando in Bosnia, di ambiente, partecipando al Forum so-ciale a Firenze. Così, nell’ultimo periodo, con l’aiuto di unacompagna ex Avanguardia operaia, Virginia Ciuffini, è riuscitoanche a considerare la malattia come un manifestarsi della ve-rità della vita, come uno strumento di crescita per sé e per gli al-tri, come un modo per continuare a fare politica, aiutato dallasua grande facilità nello scrivere.

Noi eravamo i suoi tesori: io la sua volpe argentata, Pietrol’adorato, Lorenzo il cocco segreto (per evitare le gelosie delprimo), la madre riscoperta, morta a maggio, il fratello custodedei suoi ricordi più antichi, le nuore che avevano superato ildifficile esame di custodire i suoi tesori e che gli avevano dona-to il regalo più bello: tre splendide nipoti che garantivano lanostra immortalità, diceva Gianni, per le quali avrebbe volutoavere il tempo di scrivere la sua vita.

Insieme a tutti gli amici, come voi, che gli hanno permessodi morire “vivo” come desiderava. Una persona straordinariacome molte persone comuni, consapevoli di sé stesse nel mon-do, con il desiderio di trasformarsi e trasformare il mondo.

Diamoci da fare seguendo il suo esempio. n

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Un bercetese a Roma

Gianni Grassi non era famoso, ma è diventato “grande”. Nonera uomo comune: era “paziente” e “esigente”. A sottoli-neare queste caratteristiche, la sua coerenza. Gianni Grassiera grande perché si è semplicemente fatto voler bene. Da

tutti. La testimonianza, ad un anno esatto dalla morte, arriva dauna città che ha amato – ricambiato – e da un luogo che haadottato, come un figlio, il “polmone” verde di Roma, verde etranquillo come la sua amata Berceto: il parco di Villa Ada.

Si sono attivate più di mille persone perché uno spazio diquesto parco fosse dedicato a lui. Ieri l’intitolazione ufficiale.Una targa che porta il suo nome è lì dove lui passeggiava, dovei suoi figli sono cresciuti tra giochi e chiacchierate e dove le suenipoti corrono. Un luogo che ha imparato ad amare grazie allamoglie Silvia, romana doc. Compagna di una vita da cui ha an-che assorbito la passione per la politica. L’assessore alla topo-nomastica del Comune di Roma, Silvio Di Francia, sottolinea:“Non siamo stati noi a voler intitolare questo spazio a GianniGrassi, è stata la gente”. Parenti, amici, colleghi di lavoro maanche chi, fino all’ultimo, ha visto spegnere un vero e propriovulcano di iniziative e energie dedicandole al prossimo, eranolì a commuoversi ma anche a sorridere pensando a quantoGianni ha speso e dato per tutti.

Villa Ada compresa: fu proprio lui a raccogliere migliaia emigliaia di firme, con la meticolosità che lo caratterizzava, af-finché lo spazio privato del parco diventasse pubblico. Così èstato, e la rete che segnava il confine era lì, a pochi metri dallatarga. Ieri pomeriggio, la giornata era stupenda, il sole facevacapolino tra i rami di un parco incantevole. “Largo Gianni Gras-si” è nel cuore di Villa Ada, il silenzio è suggestivo, rotto daqualche ragazzino che grida. Nicola Alesini con il sax intona“Bella ciao”, “La ballata dell’eroe” e “La guerra di Piero”, CarloMisiano ricorda Gianni con una poesia. Roma ha reso onore aquesto bercetese che, come ricorda il fratello Giorgio, seguen-do un vero e proprio codice genetico di famiglia, “era sempre acaccia della verità e della giustizia. Divenne sociologo e, poco

Matteo Scipioni

Articolo pubblicato il 7 febbraio 2008 sulla Gazzetta di Parma

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prima di morire, giornalista. Fece il sindacalista, ma non glipiacque e smise: era per le cose giuste, cercava la verità. Erauno che le cose le voleva cambiare, come mio padre”. Gianniha voluto essere sepolto a Berceto, ha scelto lui il posto: “che‘guardasse’ la casa dov’era nato”, spiega il fratello Giorgio.

La parmigianitàUn curriculum di pubblicazioni, quello di Grassi, lunghissimo;sterminati i suoi interventi e gli articoli. Dopo il trasferimento aRoma non ha mai voluto staccare il cordone ombelicale con lasua terra: “Ritornavamo tre volte l’anno – ricorda il figlio Pietro,quello che, più di tutti, ha ereditato la parmigianità del padre –Sapendo che mio padre lavorava all’Inps, tutti venivano da luia raccontare disguidi e problemi: mai un ‘no’. Si portava le pra-tiche da esaminare anche a casa”.

Ci sono i colleghi più stretti, quelli che con l’accento roma-no sorridono e ti dicono “Gianni... il parmigiano? Ci riempiva difunghi e castagne”, ci sono anche quelli che con lui avevanorapporti saltuari, ma ieri non hanno voluto mancare: “Una per-sona straordinaria: limpida e coerente, una vera fortuna averavuto a che fare con lui”. n

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Sei poesie

Grazie Wit(Per un ospite dell’Hospice Antea)

La vita, la tua di certo, è corta.Ma tu sai corteggiarlaperché ti renda amoreprima che passi il tempoe ti arrenda alla morte.Ma non al dolore:a quello ci pensa il dottore.

Dopo una giornata serena

“Chi muore tace,chi vive si da pace”l’interpreto così:la pace eternasinonimo di morte,la pace terrenasintomo di vita,la vita, appunto, in pace.Quella che mi piace.

All’Hospice(da Catullo, carme 68)

Illa domusQui è la mia casaIlla mihi sedesQuesta è la mia dimoraIllic mea carpitur aetasQui la mia vita continuae si consuma.

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Fine stagione

Come se fossi morto mi ricordola nostra primavera, la sua luceesultante che dura tutto un giorno, la meraviglia di un giorno che passa.

Il mio dolore è quietosta con me, non va via,mi fa compagnia.Vive nell’ultima stagionedell’anno e della vita…

Giorno che te ne vaie nulla sai di me, della violettache tanto amoe del ramonudo del castagno.

Giorno non andar via...

Altri giorni verranno e tornerànel turno delle stagioni un temposimile a quello che ci fa sentireil primo freddo, il soave moriredell’anno, come un uccellinosi ripara nella siepe arruffata.Pesano gli anni sulle spalle che ami.

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A Pantelleria (1998)

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Alla madre

Vieni, andiamo, è ora di lasciarese al Gran Paradiso vuoi arrivare.Io mi fermo alla soglia,voglio un’esequia spogliama un gran bel funerale.

Perdonami di averti ingannata,ignorata, forse disprezzata,di averti sentita inadeguataal Cervino paterno, al monte Bianco.

Vuoi venire con me, urne appaiate,nel gran tour del ritorno bercetese?Alla Rocca, alle Ariette al Marzatoree finalmente a casa al cimiterosotto il Sardello, senza più fardello?

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In passeggiata sull’isola di Ponza

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A Silvia

È l’alba.Dal cortile dell’Hospice il canto di un uccello.Sempre quello.Ogni mattina mi richiama alla vita.Quella vita che non voglio lasciare.

Tra poco la stanza splenderàdel tuo sguardo solare.E poi verranno i figli, i parenti, gli amici.È bello saperlo, ma non trattengo il piantoe mi compiango.

È duro mostrarsi sereno tutto il giorno:forse non rivedrò, da Ponza, Palmarola;l’Altipiano delle Rocche e i Rocchigiani.Non vedrò i fiordi dal postale norvegese,né dal cargo le torri di New York.

Non ho registrato le fiabe per le bimbe,né le storie raccolte all’ospedale;non ho finito di leggere Terzani,né di scrivere sul lutto al “Gruppo Eventi”.Quante cose non fatte, quante ne restano da fare.

Roba da disperare.Uscirò dallo scrigno ovattato dell’Hospice?A farcela senza affetti e competenze,senza tecniche e virtùetiche, estetiche ed erotiche?

Non lo so, ma speranze ne ho.In te soprattutto.Che non vuoi lasciarmi solo sette giorni.Tu, proprio tu, che per strada m’hai lasciatoo a Villa Ada, nella vita di prima.

Non vuoi lasciarmi solo a questionar con lorosenza il filtro del tuo paziente amore?Grazie, ma mi fa incazzare:io vorrei andare al mare a Palinuro,magari in carrozzella.

Anche al mio funerale.Per godermelo in paceinsieme a te.

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Ho molto apprezzato i suoi scritti, così vicini al mio pensieroe al mio impegno rivolto ad una sempre maggioresensibilizzazione verso la necessità di instaurare unrapporto medico-paziente che sottenda empatia e unacondivisione del vissuto umano ed emozionale del malato.Allora in quest’ottica anche l’informazione chiara, correttae puntuale, il comunicare – fatto di tanti come, finoa che punto e quando – pur prendendo in considerazioneil problema o gli eventi, deve in qualche modo spostareil suo fuoco di attenzione centrandosi, orientandosi primadi tutto sulla persona. Infatti, come lei, credo che la malattiadebba essere vissuta con dignità e che il morire bene sia peril paziente – e cito le sue parole – un diritto sociale e bioetico.Un impegno che, la scienza prima e il medico poi, devonoportare avanti con determinazione per difendere dallasofferenza inutile che tradirebbe – in una fase delicatadella vita – l’integrità intellettuale e morale dell’uomo.Non vi è confine allo sforzo di limitare il dolore, non vi èconfine alla necessità di privare i volti dei malati dai segninon solo fisici, ma soprattutto psicologici e spirituali, lasciatidalla malattia e dal dolore fisico, dalla cattiva comunicazione.Non vi è confine di fronte al rispetto della vita, non vi èconfine che freni nell’obiettivo non solo di “curare”il paziente e il dolore ma di “prendersene cura”, perchéla malattia e la sofferenza – seppure parte del naturale ciclovitale – non devono diventare esperienza mortificantee avvilente per la dignità di ogni creatura umana.

Umberto Veronesi(Milano, 30 dicembre 2004)

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Sen. Umberto VeronesiChirurgo • Direttore scientifico Istituto Europeo di Oncologia

Caro signor Grassi, mi permetta di rinnovarle ancora unavolta la stima per la figura di suo padre. La ringrazio peravermi segnalato il sito nel quale sono raccolti gli scritti diquest’uomo pieno d’amore per la vita. Non sono riuscito a

soffermarmi su tutti i brani, ma quelli che ho letto mi hannotoccato per la profonda attenzione alla dignità del morire, perla lucidità con cui ha analizzato gli aspetti filosofici, etici, biolo-gici e giuridici della fine della vita.

Condivido pienamente l’importanza di informare il malato,la necessità di instaurare un rapporto empatico tra medico epaziente, il diritto e il rispetto delle scelte di fine vita. Principiche, vivendo quotidianamente insieme alle mie pazienti la sof-ferenza e il dolore, ho sempre difeso e sostenuto.

La sua proposta di redigere una breve postfazione a questaraccolta di scritti, mi creda, mi ha onorato e insieme commosso.A malincuore, proprio per il sentimento che ho maturato, devotuttavia dirle di non essere in grado di poterlo fare. Vi ho riflet-tuto a lungo e penso che il tempo che ad essi potrei dedicare,poche righe scritte tra un impegno e l’altro, non darebbero pre-gio al valore intellettuale, morale ed umano di suo padre.

Sono certo che non sarà la mancanza della mia postfazionea privarlo del doveroso merito. Chiunque si accosterà al lavorodi suo padre con cuore limpido e aperto ne resterà impressio-nato e saprà coglierne la profonda essenza.

(Milano, 30 ottobre 2009)

Pieno d’amore per la vita

A Lorenzo Grassi

POSTFAZIONE

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indi

ce

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Passando il confine di Ignazio Marino 5

Lettere a un ospedaliere 7Un dolore ingiusto, indegno, ignobile 9Noi siamo un colloquio 11La goccia scava la roccia 13Alle gentili infermiere 38Ascolto montessoriano, attenzione e azione 41

Autobiografia 43Cronologia 44Testamento biologico 46Fine vita 49L’ultimo evento. Ma non disperato 51Il dovere, difficilissimo, di perdonare 53Garantire sino alla fine le scelte fatte in vita 54Bisogna essere Papa per farsi rispettare? 57La vera buona morte non è staccare la spina 59Dialoghi sulle ultime volontà e per morire bene 60La speranza di morire vivo 63

Comunicazione 67Per una “validazione consensuale” in ospedale 69Due per sapere, due per curare 74C’è bisogno di costruire una bioetica quotidiana 86Un terreno comune di ascolto attivo 88Il dito di Caravaggio nella piaga della ricerca 92

Guaritori feriti 95La nemesi di stare dall’altra parte 97“Vo’ a casa a morire”. In memoria di Bartoccioni 100

Hospice e cure 103Maria Occhipinti, appartenevo ai sofferenti 105Cure complementari e mobilitazione dell’anima 107Come riuscire a dare un significato al dolore 110Una ricerca di senso, speranza e amore 113Mi sto talmente reinnamorando della vita 115Canne, dolore e buona morte 119Dialoghi su cure palliative e hospice 120Volando in trance sul parco di Villa Ada 122Diventare sciamano quando torno polvere 125

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Memoria 128Un eroe mite di Silverio Corvisieri 131Le cerimonie 133Il largo di Villa Ada 134Un sogno realizzato di Lorenzo Grassi 136Seguiamo il suo esempio di Silvia Arbicone 138Un bercetese a Roma di Matteo Scipioni 142Sei poesie 144

Pieno d’amore per la vita di Umberto Veronesi 149

Grafica e layout • Maria Luisa [email protected]

Le illustrazioni del libro sono di Pino Lena

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