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Contenuti di italiano - Classe V on line MODULI UNITÀ DIDATTICHE 1_ l’Età del Realismo U.D. 1 Il Positivismo (quadro generale) U.D. 2 Il Naturalismo (quadro generale) U.D. 3 Il Verismo italiano (quadro generale) U.D. 4 Giovanni Verga (vita, opere e poetica) U.D. 5 Luigi Capuana (vita, opere e poetica) U.D. 6 Federico De Roberto (vita, opere e poetica) MODULI UNITÀ DIDATTICHE 2_ Il Decadentismo italiano U.D. 1 Il simbolismo francese (quadro generale) U.D. 2 Il Decadentismo (quadro di riferimento; il romanzo decadente) U.D. 3 Giovanni Pascoli (vita, opere, poetica) U.D. 4 Gabriele D’Annunzio (vita, poetica, opere) U.D. 5 Italo Svevo (vita, poetica, opere) U.D. 6 Luigi Pirandello (vita, opere, poetica) MODULI UNITÀ DIDATTICHE 3_ Le Avanguardie U.D. 1 Il Crepuscolarismo: quadro generale e autori principali (Sergio Corazzino, Guido Gozzano, Marino Moretti) U.D. 2 Il Futurismo: quadro generale e autori principali (Corrado Covoni, Aldo Palazzeschi, Filippo Tommaso Marinetti) U.D. 3 Le Avanguardie e le Riviste (quadro generale) Giuseppe Antonio Borghese (vita, poetica, opere) MODULI UNITÀ DIDATTICHE 4_ Gli scrittori tra le due guerre U.D. 4 Ermetismo U.D. 5 Giuseppe Ungaretti (vita, opere e poetica) U.D. 6 Umberto Saba (vita, opere e poetica) U.D. 7 Eugenio Montale (vita, opere, poetica) U.D. 8 Salvatore Quasimodo (vita, opere, poetica) MODULI UNITÀ DIDATTICHE 5_ Dal dopoguerra ai nostri giorni U.D. 1 Società e cultura del II dopoguerra (quadro generale) U.D. 2 Elio Vittorini (vita, opere, poetica) U.D. 3 Cesare Pavese (vita, opere, poetica) U.D. 4 Alberto Moravia (vita, opere, poetica) U.D. 5 Vitaliano Brancati (vita, opere, poetica) U.D. 6 Primo Levi (vita, opere e poetica) U.D. 7 Giuseppe Tomasi di Lampedusa (vita, opera, poetica) U.D. 8 Leonardo Sciascia (vita, opere, poetica) U.D. 9 Le narratrici: Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Anna Banti, Lalla Romano, Anna Maria Ortese. U.D. 10 Italo Calvino (vita, opere, poetica)

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Contenuti di italiano - Classe V on line

MODULI UNITÀ DIDATTICHE

1_ l’Età del Realismo

U.D. 1 Il Positivismo (quadro generale) U.D. 2 Il Naturalismo (quadro generale) U.D. 3 Il Verismo italiano (quadro generale) U.D. 4 Giovanni Verga (vita, opere e poetica) U.D. 5 Luigi Capuana (vita, opere e poetica) U.D. 6 Federico De Roberto (vita, opere e poetica)

MODULI UNITÀ DIDATTICHE

2_ Il Decadentismo italiano

U.D. 1 Il simbolismo francese (quadro generale) U.D. 2 Il Decadentismo (quadro di riferimento; il romanzo decadente) U.D. 3 Giovanni Pascoli (vita, opere, poetica) U.D. 4 Gabriele D’Annunzio (vita, poetica, opere) U.D. 5 Italo Svevo (vita, poetica, opere) U.D. 6 Luigi Pirandello (vita, opere, poetica)

MODULI UNITÀ DIDATTICHE

3_ Le Avanguardie

U.D. 1 Il Crepuscolarismo: quadro generale e autori principali (Sergio Corazzino, Guido Gozzano, Marino Moretti) U.D. 2 Il Futurismo: quadro generale e autori principali (Corrado Covoni, Aldo Palazzeschi, Filippo Tommaso Marinetti) U.D. 3 Le Avanguardie e le Riviste (quadro generale) Giuseppe Antonio Borghese (vita, poetica, opere)

MODULI UNITÀ DIDATTICHE

4_ Gli scrittori tra le due guerre

U.D. 4 Ermetismo U.D. 5 Giuseppe Ungaretti (vita, opere e poetica) U.D. 6 Umberto Saba (vita, opere e poetica) U.D. 7 Eugenio Montale (vita, opere, poetica) U.D. 8 Salvatore Quasimodo (vita, opere, poetica)

MODULI UNITÀ DIDATTICHE

5_ Dal dopoguerra ai nostri giorni

U.D. 1 Società e cultura del II dopoguerra (quadro generale) U.D. 2 Elio Vittorini (vita, opere, poetica) U.D. 3 Cesare Pavese (vita, opere, poetica) U.D. 4 Alberto Moravia (vita, opere, poetica) U.D. 5 Vitaliano Brancati (vita, opere, poetica) U.D. 6 Primo Levi (vita, opere e poetica) U.D. 7 Giuseppe Tomasi di Lampedusa (vita, opera, poetica) U.D. 8 Leonardo Sciascia (vita, opere, poetica) U.D. 9 Le narratrici: Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Anna Banti, Lalla Romano, Anna Maria Ortese. U.D. 10 Italo Calvino (vita, opere, poetica)

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Modulo 1_ L’età del Realismo

U.D. 2_ Naturalismo

Il quadro storico:

Grazie ad uno straordinario sviluppo della scienza e all'evoluzione della

tecnica, dalla metà del secolo XIX in poi, macchine a vapore, ferrovie,

industrie, elettricità cambiarono la vita dell'uomo. Le condizioni generali di vita

migliorarono; un po' ovunque si diffuse una visione ottimistica dell'avvenire e

nelle classi borghesi crebbe il senso di fiducia nelle possibilità creatrici

dell'uomo. In questo periodo la scienza diviene l'unica guida accettata della

vita; Charles Darwin propone la teoria della selezione naturale, dando un

taglio alla concezione teologica dell'universo e ponendo le basi per una teoria

laica e scientifica dell'origine dell'uomo. Tuttavia non tutto va come

sembrerebbe. In lontananza si intravedono già nubi che si faranno

minacciose. Il problema sociale delle masse operaie è aspro in tutta l'Europa

e dà origine ad una serie di problemi difficili da risolvere: nascono così

scontento, tumulti, disordini; sorgono organizzazioni e partiti operai e

contadini; spuntano nuove dottrine economiche e sociali (anarchismo e

marxismo) che condizionano la mentalità e il comportamento di tutte le classi

sociali e che influenzano la cultura e la letteratura. Movimento letterario nato

in Francia nella seconda metà del XIX secolo, il naturalismo assegnava

all'opera narrativa il compito di attenersi a una descrizione oggettiva e

impersonale della materia rappresentata. In altre parole: mentre lo scrittore

realista intendeva rispecchiare nella sua opera un'immagine fedele della

natura, lo scrittore naturalista sceglie un "caso", una «tranche de vie», e lo

analizza come fa uno scienziato quando lavora in laboratorio. Il termine fu

usato per la prima volta nel 1858 da H. A. Taine in un saggio su Balzac. Il

naturalismo, più che un movimento, è una corrente di opinione, nata in

Francia durante la grande rivoluzione industriale, per l'influenza del pensiero

scientifico e filosofico (positivismo) e delle nuove ideologie politiche e sociali.

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I massimi esiti della narrativa naturalista si ebbero, ovviamente, essendo il

paese dove esso cominciò, in Francia. In Germania il naturalismo giunse più

tardi, nel 1885, con la rivista Die Gesellschaft fondata a Monaco da Michael

Georg Conrad, ma già da qualche anno i fratelli Heinrich e J. Hart, a Berlino,

si erano schierati a favore del naturalismo. La formulazione teorica del

naturalismo tedesco venne data più tardi da Arno Holz, che insieme al poeta

J. Schlaf, scrisse la raccolta di novelle Papa Hamlet (1889). In Italia il

naturalismo giunse alla fine degli anni settanta e si diffuse rapidamente con il

nome di Verismo.

In definitiva il Naturalismo fu in tutti i Paesi d'Europa, come fenomeno diffuso

oppure con dei casi isolati, come Gissing e Bennett in Inghilterra, Palacio-

Valdes e la Pardo-Bazan in Spagna, Eηa de Queiros in Portogallo. Negli Stati

Uniti il Naturalismo fu introdotto da E. Watson Howe e accompagnò lo

svilupparsi della giovane letteratura americana.

Le caratteristiche del naturalismo:

- Concepisce l'arte come studio scientifico e impersonale della natura.

- E' volto allo studio e alla rappresentazione della realtà umana nei suoi

aspetti più concreti e a volte brutali (bassifondi delle grandi città,

l'esistenza miserabile delle classi operaie).

- Gli autori si sforzano di essere aperti alle realtà, in particolare alla realtà

dell'improvviso sviluppo della borghesia industriale che apre le porte al

problema sociale delle masse operaie.

- La natura è assunta non solo come oggetto della riflessione filosofica

ma anche e soprattutto come punto di riferimento determinante e

assoluto per quanto riguarda la vita e gli interessi dell'uomo.

- Ripudio della metafisica ma anche del realismo perché si limita a

riprodurre un'immagine fedele della natura, affondando in una visione

pessimistica e materialistica del mondo.

- Il linguaggio deve essere realistico quando non addirittura mimetico.

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- Fiducia nella scienza e nel progresso.

- I fenomeni psicologici e sociali sono considerati prodotti dall'attività

biologica fisiologica e psicologica dell'individuo e dei rapporti tra gli

individui.

Scriveva Hippolyte Taine che l'individuo è la risultante del concorso di

tre fattori determinanti:

l'ambiente (mileu), il momento storico (moment historique), la razza

d'appartenenza (race).

- Una visione fortemente negativa della realtà sociale attuale (nuova

società industrializzata) è

associata ad un ottimismo fondato sul progresso della scienza.

Le regole:

• Il naturalismo applica alla letteratura il metodo sperimentale che è alla

base del movimento filosofico del positivismo: l'opera narrativa diventa

così un laboratorio per l'osservazione fredda e distaccata della realtà, di

cui lo scrittore, al pari di uno scienziato, deve registrare impassibilmente

i fenomeni: il narratore non interviene nè si manifesta nel racconto

(scompare il suo punto di vista). Si deve limitare ad osservare e a

riportare il punto di vista dei suoi personaggi.

• Questo movimento letterario respinge ogni eccesso della fantasia e del

sentimento; l'obiettivo finale è quello di avere un'opera d'arte oggettiva,

in cui l'autore si limita ad una narrazione impassibile delle varie vicende

della vita quotidiana. Il fattore dominante è quindi rappresentato dal

canone dell'impersonalità dell'opera d'arte.

• Vi è inoltre una riduzione dell'opera d'arte a documento scientifico: il

naturalismo va verso l'identificazione dell'arte con la scienza (la

psicologia umana è trattata in letteratura con la stessa imparzialità e lo

stesso rigore con cui le scienze si applicano alla classificazione dei

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fenomeni). Applicando all'arte i metodi e i risultati della scienza, si può

riprodurre la realtà con una perfetta obiettività.

• L'opera dello scrittore deve sottolineare la dipendenza dell'uomo dalle

condizioni ambientali: l'attenzione è puntata non tanto sulla natura

quanto sulla società, intesa come meccanismo di sopraffazione e di

abbrutimento dei singoli. Fondamentale è la tesi che il male e la

malattia siano causa del deterioramento delle strutture sociali.

• Il romanziere naturalista deve «affondare il suo bisturi» nella società

umana indagandone le passioni e i comportamenti e risalendo alla

cause che li determinano (la descrizione di una condizione è quindi

condotta con il rigore dell'analisi clinica).

• Il Naturalismo privilegia il romanzo in quanto solo nel romanzo possono

essere distesamente affrontate le condizioni umane. Il romanzo

sperimentale mette in luce le manifestazioni passionali e intellettuali

dell'individuo e rappresenta l'uomo nell'ambiente sociale che lui stesso

ha creato trasformandolo incessantemente e lasciandosi a sua volta

trasformare.

Il Naturalismo è volto principalmente allo studio e alla rappresentazione della

realtà umana colta nei suoi aspetti più concreti (tutti fenomeni correlati

all'industrializzazione: le metropoli industriali, le plebi cittadine, la condizione

miserabile di alcune classi sociali, ecc.). I protagonisti dei romanzi

appartengono in prevalenza alle classi subalterne, alla piccola borghesia e al

proletariato, per convenzione sempre trascurati dal dominio della letteratura.

Descrivere l'ambiente è per gli scrittori naturalisti una necessità, perchè i

comportamenti dei personaggi sono "determinati" dall'ambiente stesso,

dall'ereditarietà e dalla razza: milieu, moment e race, secondo la

teorizzazione di H. Taine. Le vicende della vita sociale e collettiva, che

costituiscono il tema dominante della narrativa naturalista, sono osservate e

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narrate secondo i più rigidi canoni dell'oggettività: lo scrittore rimane

distaccato e impassibile dinanzi alla storia che racconta.

Il naturalismo ebbe i suoi interpreti più autentici e dotati in Balzac,

Maupassant, Flaubert, nei fratelli de Goncourt, in Daudet e in Huysmans; il

suo rappresentante più coerente è certamente Zola. A tali narratori va poi

accostata l'interessante figura del teorico letterario francese Taine.

Positivismo

Gli scrittori veristi italiani, nell’elaborare le loro teorie letterarie e nello scrivere

le loro opere, presero le mosse, con sensibili divergenze, dal Naturalismo,

movimento culturale che si afferma in Francia negli anni settanta. Per capire il

fenomeno italiano occorre dunque esaminare quello francese, il cui retroterra

culturale e filosofico è il Positivismo.

Il Positivismo è quel movimento di pensiero che si diffonde a partire dalla

metà dell’Ottocento, ed è l’espressione ideologica della nuova organizzazione

industriale della società borghese del conseguente sviluppo della ricerca

scientifica e delle applicazioni tecnologiche, che porta al rifiuto di ogni visione

di tipo religioso, metafisico, idealistico e alla convinzione che tutto il reale sia

un gioco di forze materiali, fisiche, chimiche, biologiche, regolate da ferree

leggi meccaniche, spiegabili scientificamente.

Il Positivismo influenzò gran parte del pensiero filosofico, scientifico, storico e

letterario. Esso fonda la conoscenza sui fatti reali e deriva la certezza

esclusivamente dall'osservazione, che propria delle scienze sperimentali.

Le origini del positivismo sono da ricercarsi nell'Illuminismo inglese e

francese: dal primo esso dedurrà le matrici empiristica e utilitaristica, dal

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secondo il principio che il progresso di tutta la conoscenza dipende dal

progresso della scienza positiva. Il pensiero positivista trovò un ambiente

favorevole al suo sviluppo a partire dal 1830: progresso delle scienze

naturali, prime applicazioni tecniche delle scoperte scientifiche e loro

riflessioni in campi sociali ed economici.

Il maggiore rappresentante del positivismo fu il francese Auguste Comte,

ma il positivismo si diffuse anche in Inghilterra, soprattutto per merito di John

Stuart Mill, impegnato a sottrarre la scienza morale alle sue consuete

incertezze per stabilire invece per essa un fermo complesso di regole. Il

maggiore esponente in Inghilterra fu Charles Darwin, ma una certa

importanza ebbe anche Herbert Spencer.

In Germania il positivismo si colloca in una posizione più propriamente

definita «materialismo»: deriva dal positivismo franco-inglese e dal forte

progresso compiuto dalle scienze naturali e dalla biologia.

In Italia seguaci del positivismo furono Carlo Cattaneo e Roberto Ardigò, il

quale concepì la filosofia come disciplina dell'organizzazione dei dati

scientifici e operò un'originale riforma delle dottrine evoluzionistiche dello

Spencer.

Le caratteristiche del Positivismo sono:

- Reazione e opposizione agli esiti irrazionalistici del romanticismo e la

ripresa di alcune istanze della riflessione illuministica.

- Fiducia nella ragione, nella scienza e concezione deterministica

dell'agire umano.

- Estensione del metodo sperimentale a campi in passato di pertinenza

della morale o della metafisica.

- Fondazione di nuove discipline, come la sociologia o il rinnovamento

metodologico di varie discipline aventi per oggetto l'uomo, quali

medicina, fisiologia, biologia e psicologia.

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- Nozioni quali evoluzione, lotta per la sopravvivenza ed ereditarietà o

presupposti culturali quali il determinismo, il metodo sperimentale e la

dipendenza dei comportamenti umani dalle condizioni ambientali.

- Assunzione della razionalità scientifica a unico paradigma, criterio e

modello del sapere.

- Il sapere scientifico, dicono i positivisti, si basa sui fatti e non su

intuizioni irrazionali e arbitrarie o su idee vaghe e confuse metafisiche.

La nuova scienza non vuole scoprire il "perché" dell'esistenza di un

comportamento, ma più concretamente il "come" e quali ne siano le

leggi di funzionamento.

- Il positivismo considera l'uomo e lo spirito come fenomeni da studiare

con lo stesso distacco e obiettività con cui sono osservati i fenomeni

fisici e chimici. Il tema principale del positivismo è il progresso: la

convinzione cioè che lo sviluppo dell'umanità proceda secondo uno

schema implicante il raggiungimento di gradi di conoscenza scientifica

e di benessere socioeconomico via via più elevati. Di conseguenza, le

estetiche e le poetiche direttamente connesse con esso privilegiarono

gli aspetti sociali del fenomeno artistico e individuarono come

essenziale al poeta e all'artista l'impegno sociale (con inevitabile

riduzione del diritto all'espressione individuale).

- L'uso del termine "positivo" rivela un'ideologia o un programma d'azione

economica, sociale, politica che vede nella scienza e nella tecnica il

fondamento dei suoi ideali e lo strumento per realizzarli (ogni

conoscenza riguardante questioni di fatto è basata, quindi, sui dati

"positivi" dell'esperienza). La sua fede assoluta e quasi mistica nella

scienza lo fa diventare, in certi casi, come la metafisica (infatti

considera la scienza come unica conoscenza valida e efficace).

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IL POSITIVISMO SOCIALE DI A. COMTE

- La scienza, cioè la ricerca delle leggi che regolano il mondo fenomenico, è

l'unica forma di conoscenza possibile, e l'unico metodo valido per

l'indagine è quello oggettivo, sperimentale; la metafisica è priva di ogni

fondamento;

- I fenomeni sono in relazione fra loro, legati da un rapporto costante di

causa ed effetto;

- Tra scienza e progresso vi è un rapporto inscindibile, la scienza deve porsi

a fondamento di tutto l'ordine sociale (è di questo periodo la nascita della

sociologia).

- Sul piano ideologico la borghesia trovava in questi principi la conferma

della sua ottimistica aspirazione ad un progresso continuo della società,

da attuarsi pacificamente, senza traumi o scontri di classi. Fu questo

l'aspetto che più incise e più ampiamente fu recepito.

LA DOTTRINA EVOLUZIONISTA DI C. DARWIN:

- Nelle sue opere Darwin sostiene che la specie si evolve positivamente

e indefinitamente nel tempo, a prezzo però di una lotta feroce che gli

individui e i gruppi combattono per la sopravvivenza e che elimina i più

deboli.

- Sul piano ideologico, l'evoluzionismo di Darwin da una parte sembrò

offrire la giustificazione della prevaricazione dei potenti a danno degli

inermi, sia in politica interna sia in politica internazionale (colonialismo e

imperialismo); dall'altra parve confermare le ipotesi socialiste di lotta di

classe.

- Sul piano letterario, molti naturalisti e veristi costruirono sulla base di

questi fattori esterni la psicologia dei loro personaggi, molti traendo dal

darwinismo conclusioni pessimistiche: le leggi della selezione naturale

condizionano spietatamente gli uomini.

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Il DETERMINISMO:

- Secondo alcuni esponenti del positivismo la concezione deterministica

vale non solo per i fenomeni naturali e per la vita singola e associata,

ma anche per i fatti stessi della coscienza umana, che perciò vanno

visti in rapporto con fattori biologici, ereditari e ambientali (determinismo

psicologico).

CHE COS’È SCIENZA PER IL POSITIVISMO?

Sono scientifiche le affermazioni che rispettano i criteri seguenti:

1) Osservazione sperimentale dei fatti e raccolta dei dati relativi a un certo

fenomeno.

2) Formulazioni di leggi di spiegazione del fenomeno.

3) Verifica sperimentale di queste leggi.

4) Rifiuto delle ipotesi non verificate.

Tutte le altre affermazioni, per esempio quelle dell'arte, della religione, della

filosofia non positiva, sono legittime, ma non scientifiche, cioè non

appartengono alla vera conoscenza; lo stesso vale per tutti i tentativi di

rispondere a domande "ultime" attraverso ipotesi evidentemente non

verificabili.

Da questa pretesa del positivismo di fornire un criterio per distinguere ciò che

fa parte del sapere da ciò che ne è escluso deriva un'importante

conseguenza: se vi è una conoscenza vera, vi sarà anche un modo giusto,

cioè scientifico, per condurre le azioni dell'uomo. La scienza diventa così la

guida più sicura nella vita pratica, il che spiega lo straordinario successo che

questa dottrina incontrò nella società del suo tempo.

La tesi fondamentale del positivismo sostiene che il metodo scientifico è

unitario e in linea di principio non dipende dall'oggetto che si studia: sarà

quindi possibile costruire delle scienze umani e sociali, rivolte all'analisi dei

comportamenti individuali e collettivi del tutto simili a quelle naturali e dotate

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di eguale valore scientifico. In prospettiva, ciò consentirà di spiegare e

prevedere il comportamento dell'uomo e della società così come si fa per un

pianeta o per una cellula.

Anche lo studio dell'uomo, secondo i positivisti, va sottratto all'influenza della

religione e della metafisica, così come era già accaduto per i fenomeni

naturali: in questo modo si potranno realizzare grandi progressi, controllando

e regolando la vita sociale in modo scientifico e razionale.

U.D. 3_ Verismo

IL QUADRO STORICO

L'Italia era appena costituita in unità e i problemi esistenti diventavano più

acuti e pressanti perché il nuovo stato era prima diviso in tanti staterelli

diversissimi tra loro per condizioni politiche, economiche e culturali.

In Italia la questione sociale dei rapporti fra patronato e masse lavoratrici era

complicata:

a. dalle differenze sociali ed economiche fra Nord e Sud (la "questione

meridionale");

b. dalla scarsa partecipazione della plebe rurale al Risorgimento che

aveva sentito come un fatto borghese, estraneo ai suoi interessi;

c. dalla riluttanza delle masse contadine alla nuova struttura politico–

sociale (il "brigantaggio" dell'Italia meridionale);

d. dalle difficoltà di bilancio;

e. dalla tendenza delle classi egemoni e dei gruppi industriali a costituire,

a spese delle masse meridionali e contadine, l'accumulazione del

capitale per fondare l'industria italiana.

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Il Verismo è un movimento letterario e artistico italiano che ispirandosi al

Naturalismo francese e al Positivismo teorizza una rigorosa fedeltà alla realtà

effettiva (al «vero») delle situazioni, dei fatti, degli ambienti, dei personaggi e

una corrispondenza con il sentire e il parlare dei soggetti che vengono

rappresentati. Richiamandosi al naturalismo francese delle opere di Emile

Zola, ma anche ad Alessandro Manzoni e alla scapigliatura, il movimento

tende a descrivere la vita della gente umile, dei reietti dalla società che si

affannano nella lotta per la sopravvivenza, contro la fatalità del destino.

Il verismo si sviluppa negli anni successivi all'Unità e prosegue fino al primo

decennio del Novecento, raggiungendo la piena maturità nell'ultimo

trentennio dell'Ottocento. Fu elaborato nell'ambito del vivace ambiente

milanese dove erano assai forti gli influssi della cultura europea, ma si allargò

a tutta l'Italia diffondendosi in alcune regioni più che in altre:

Sicilia (De Roberto; Capuana; Verga)

Campania (Serao; Di Giacomo);

Sardegna (Deledda)

Calabria (Misasi)

Toscana (Fucini; Pratesi; Lorenzini)

Piemonte (Cagna; Giacosa; De Marchi; De Amicis)

Friuli e Veneto (Dall'Ongaro, Caterina Percoto)

La diversa diffusione del verismo dipende dalla posizione delle regioni in

Italia, in quanto la scoperta della realtà dei veristi riguarda le due situazioni

socio-geografiche estreme presenti sul piano nazionale: da un lato Firenze,

capitale provvisoria fino al 1871 e centro politico italiano, dall'altro la Sicilia

arretrata, semifeudale e a un livello ancora rurale. Successivamente a

Firenze, dove sono nate le prime pagine dei tanti romanzi veristi, si affianca

Milano, che è la città più importante dell'economia imprenditoriale nazionale.

E' assai caratteristico che i maggiori veristi siano siciliani (Verga e Capuana)

e, nel contempo, la loro formazione avvenga in ambiente settentrionale,

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soprattutto a Milano: nel centro culturale più attivo della penisola vengono a

contatto con le proposte del naturalismo francese e prendono coscienza della

loro autentica vocazione di scrittori.

I caratteri del Verismo: Accettazione delle leggi scientifiche che regolano la vita associata e i

comportamenti: lo scrittore cerca di scoprire le leggi che regolano la società

umana, muovendo dalle forme sociali più basse verso quelle più alte, come

fa lo scienziato in laboratorio quando cerca di scoprire le leggi fisiche che

stanno dietro ad un fenomeno;

attenzione alla realtà nella dimensione del quotidiano: lo scrittore predilige

una narrazione realistica e scientifica degli ambienti e dei soggetti della

narrazione;

piuttosto che raccontare emozioni, lo scrittore presenta la situazione

quotidiana come una indagine scientifica, ricercando le cause del suo

evolversi, che sono sempre naturali e determinate (determinismo o

darwinismo sociale); anche la vita interiore dell'uomo, spiegabile in termini

psico–fisiologici, può essere oggetto di uno studio scientifico o sociale: ...

l'oggetto sono i "documenti umani", cioè fatti veri, storici; e l'analisi di tali

documenti dev'essere condotta con "scrupolo scientifico" ... (G. Verga)

l'artista deve ispirarsi unicamente al vero cioè desumere la materia della

propria opera da avvenimenti realmente accaduti e preferibilmente

contemporanei, limitandosi a ricostruirli obiettivamente ovvero

rispecchiando la realtà in tutti i suoi aspetti e a tutti i livelli sociali;

necessità di una riproduzione obiettiva ed integrale della realtà, secondo

quel canone dell'impersonalità che è l'applicazione in letteratura del

principio scientifico della non interferenza dell'osservatore sugli oggetti

osservati (deriva dal Positivismo);

a causa delle diversità regionali rappresentate dagli scrittori anche il modo

di scrivere cambia nel verismo dando spazio ai dialetti, eliminando tutte le

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forme di raffinatezza retorica e accademica e introducendo la mimesi

linguistica.

Le regole della poetica del verismo: L'artista deve ispirarsi unicamente al vero, cioè deve desumere la materia

della propria opera da avvenimenti realmente accaduti e preferibilmente

contemporanei, limitandosi a ricostruirli obiettivamente rispecchiando la

realtà in tutti i suoi aspetti e a tutti i livelli sociali; è la teoria verghiana

dell'impersonalità: il narratore entra pienamente nei suoi personaggi per

raccontare documenti umani;

Il narratore è colui che raccoglie il fremito delle passioni, delle sofferenze e

lo rivela, impassibile, senza biasimi o esaltazioni, mettendosi in parte per

lasciar parlare l'evidenza dei fatti, la logica delle cose: teoria verghiana

dell'impersonalità;

L'autore deve mettersi nella pelle dei suoi personaggi, vedere le cose con i

loro occhi ed esprimerle con le loro parole. In tal modo la sua mano

«rimarrà assolutamente invisibile» nell'opera. Il lettore avrà così

l'impressione non di sentire un racconto di fatti, ma di assistere a fatti che

si svolgono sotto i suoi occhi;

Il narratore, nel far parlare i suoi personaggi, usa il loro linguaggio: uno stile

stringato, una sintassi semplice e disadorna, una lingua paesana e viva,

continuamente intercalata da espressioni popolaresche e proverbiali che

mettono in luce l'oggettività della narrazione (senza intrusioni

autobiografiche);

La lingua e lo stile devono essere aderenti ai personaggi, agli ambienti,

attingendo possibilmente alle risorse dei dialetti regionali. Il linguaggio è

liberato da ogni raffinatezza teorica e accademica.

Al riguardo si parla di mimesi linguistica dell'autore (mimetizzazione =

nascondersi nell'ambiente circostante in modo da risultare non–visibile).

Capuana respinge la subordinazione della letteratura a scopi estrinsechi

quale la dimostrazione "sperimentale" di tesi scientifiche e l'impegno

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politico e sociale. La "scientificità" non deve consistere nel trasformare la

narrazione in esperimento per dimostrare le tesi scientifiche, ma nella

tecnica con cui lo scrittore rappresenta, che è simile al metodo

dell'osservazione scientifica. La scientificità insomma si manifesta solo

nella forma artistica, nella maniera con cui l'artista crea le sue figure e

organizza i suoi materiali espressivi.

Secondo Verga, la rappresentazione artistica deve possedere "l'efficacia

dell'esser stato", deve conferire al racconto l'impronta di cosa realmente

avvenuta; per far questo deve riportare "documenti umani". Neppure basta

che ciò che viene raccontato sia reale e documentato, deve anche essere

raccontato in modo da porre il lettore faccia a faccia col fatto nudo e

schietto, in modo che non abbia l'impressione di vederlo attraverso la "lente

dello scrittore". Per questo lo scrittore deve "eclissarsi", cioè non deve

comparire nel narrato con le sue reazioni soggettive e con le sue riflessioni.

Lo scrittore verista: si occupa di situazioni quotidiane reali, vissute cioè nella scottante realtà

nazionale: le plebi meridionali, il lavoro minorile, l'emigrazione;

cerca il vero attraverso l'analisi delle classi subalterne, però la verità non

porta al progresso ma svela una condanna a morte;

predilige gli ambienti delle plebi rurali perché non ancora contaminate dai

pregiudizi della convenzione sociale;

predilige gli ambienti regionali e gli strati sociali piccolo–borghesi;

gli ambienti sociali sono in maggioranza cittadine di provincia, di

campagna, miniere o ambienti di piccola e media borghesia e di

aristocratici decaduti.

Il verismo italiano ebbe una forte caratterizzazione regionale e, poiché le

realtà regionali italiane erano profondamente diversificate, diversi furono

pure i temi e gli ambienti rappresentati dai veristi.

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Al nord, la maggiore articolazione della compagine sociale, con

l'affermarsi, accanto ai ceti elitari, di una media e piccola borghesia

costituita da professionisti e da ceti impiegatizi legati all'apparato

industriale, porta all'ampliamento della "base sociale" della letteratura, cioè

al numero degli autori e dei lettori, parallelamente a nuove a varietà

letterarie, dal romanzo di consumo al romanzo di appendice. La nuova

cultura positivista, i nuovi usi e modelli di comportamento legati alla

rivoluzione tecnologica, spostano l'attenzione su nuovi tipi umani e su

nuovi problemi: protagonista dei romanzi e del teatro, accanto al contadino

e al pescatore, è l'impiegato (De Marchi). Nuovi eroi, come è stato

osservato, sono l'industriale, lo scienziato, il medico e il maestro (De

Amicis). I nuovi temi sono quelli della famiglia, fondamentale cellula della

società e quelli dell'adulterio e della prostituzione.

Al sud, il verismo, non essendovi un proletariato urbano o i bassifondi di

una capitale tentacolare da "studiare", si interessò all'umile vita dei

contadini e dei pastori con le loro passioni elementari. Ad un mondo

«pressoché vergine e ignoto, il mondo del meridione e delle isole, delle

plebi contadine e artigiane, chiuse nella loro opaca renitenza alle forme e

agli statuti della civiltà moderna, affioranti per così dire dal buio di una

civiltà arcaica, stranamente sopravvissuta dietro le barriere di una secolare

solitudine». Questa fu infine la vocazione del verismo italiano, e nel ritrarre

la vita dei contadini e delle plebi il verismo ottenne i suoi migliori risultati.

Non a caso gli scrittori più rappresentativi della corrente, da Verga a

Capuana, da De Roberto alla Deledda, furono meridionali o isolani.

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U.D. 4_ Scrittori veristi siciliani

(Giovanni Verga, Luigi Capuana, Federico De Roberto)

Nasce a Catania il 2 settembre del 1840 in una famiglia di agiate condizioni

economiche e di origine nobiliare. La prima educazione è, sul piano politico,

patriottica risorgimentale e, sul piano letterario, sostanzialmente romantica.

Si iscrive alla facoltà di legge ma non termina gli studi, tutto preso dalle

vicende storico-politiche (dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia). Di questa

educazione testimoniano le prime prove narrative: l'inedito Amore e patria,

ispirato alla rivoluzione americana e scritto a 17 anni, I carbonari della

montagna pubblicato nel 1861 a spese dell'autore, il quale vi impegnò la

somma destinata al proseguimento degli studi di giurisprudenza, che infatti

interruppe. Nello stesso anno si arruola nella guardia nazionale di Catania e

svolse un’intensa attività di giornalista (fu tra i fondatori e i redattori di tre

giornali, il primo dal titolo assai significativo, «Roma degli Italiani», che

ebbero tutti una breve durata). Nel 1863 il periodico fiorentino "Nuova

Europa" pubblica a puntate il romanzo Sulle lagune, Una peccatrice (1866) e

Storia di una capinera (1871).

Dopo la morte del padre, nel 1865 si stabilisce a Firenze dove frequenta

l'ambiente letterario della città, conosce diverse figure intellettuali e con i

romanzi Una peccatrice (1866) e Storia di una capinera (1871)diventa un

autore di successo. Fondamentale, negli anni fiorentini, è l'incontro con LUIGI

CAPUANA con il quale inizia un rapporto d'amicizia e un sodalizio letterario.

Così scriveva ai familiari: «Firenze è davvero il centro della vita politica e

intellettuale d’Italia; qui si vive in un'altra atmosfera.»

Nel 1872 si trasferisce a Milano, città in cui sono vivacissimi gli scambi

letterari: nasce in quegli anni la Scapigliatura; sono attivi, negli stessi anni,

Giuseppe Giacosa e FEDERICO DE ROBERTO.

Tra il 1873 e il 1876 escono i romanzi Eva, Tigre reale, Eros, la raccolta di

novelle Primavera e altri racconti, e, nel 1874, il bozzetto di ambiente siciliano

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Nedda in cui, per la prima volta, la tematica mondana viene abbandonata.

Nella seconda metà degli anni Settanta la sua scrittura diventa una scrittura

narrativa come "ricerca di verità".

Nel 1877 Capuana inizia una battaglia letteraria per il Verismo e comincia a

scrivere il romanzo Giacinta che appunto a quella poetica si ispira.

Nel 1878 in una lettera all'amico Salvatore Paola, Verga esprime quella che

sarà la tematica dei Malavoglia: "un lavoro" che sia "una specie di

fantasmagoria della lotta per la vita che si estende dal cenciaiolo al ministro e

all'artista..."

Nel 1881, preceduto dalle novelle di Fantasticheria (1880) e di Vita dei campi

(1878), appare il romanzo I Malavoglia. All’inizio però sarà un insuccesso, in

quanto il pubblico è ancora legato ad altri schemi e generi letterari.

Pur scoraggiato, Verga continua a pubblicare: I ricordi del capitano D'Arce

(1881), Il marito di Elena (1882), le raccolte di novelle: Novelle rusticane

(1883), Per le vie (1883, ispirate all'esistenza squallida della plebe cittadina e

della gente della metropoli lombarda), Drammi intimi (1884).

Intanto inizia la nuova attività di autore per il teatro con alterne vicende di

successi e di fiaschi: Cavalleria rusticana (interpretata da Eleonora Duse)

trionfa a Torino, mentre con l’opera In portineria conquista un insuccesso a

Milano.

Nel 1887 scrive Vagabondaggio (raccolta di novelle che riprende il tema delle

novelle «Per le vie») e l'anno dopo esce a puntate su "Nuova Antologia"

Mastro-don Gesualdo.

Nel 1893 si ritira nella sua Catania dopo aver vinto una causa (contro il

musicista Pietro Mascagni) per i diritti d'autore di Cavalleria rusticana: la cifra,

cospicua, gli permette di ripianare i debiti. Vive in una sorta di isolamento

scontroso, geloso dell'esagerata ammirazione che i suoi concittadini avevano

per il poeta Mario Rapisardi (1884–1912). La sua naturale avversione agli

intrighi che vedeva trionfare nel mondo letterario, e poi alcuni dispiaceri e lutti

familiari, lo allontanarono sempre più dall'esercizio dell'arte.

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Nel 1894 si stabilisce definitivamente a Catania, con brevi soggiorni a Milano

e a Roma dove, nel 1895 si incontra, insieme a Capuana, con Zola, maestro

del Naturalismo francese.

Prosegue la produzione per il teatro: La Lupa è rappresentata a Torino nel

1896.

Con l'andare degli anni si fa sempre più vivo in lui l'interesse per le vicende

politiche: fedele alle sue idealità patriottiche e unitarie, si oppone al

movimento separatista dei "Fasci siciliani" e nel 1896 si fa sostenitore della

necessità, per l'Italia, di una rivincita africana e di una più incisiva politica

coloniale. Nel 1911 accoglie con entusiasmo la decisione della campagna

libica e nel 1912 aderisce al partito nazionalista.

Nel 1911 riprende a lavorare alla Duchessa di Leyra, il terzo romanzo del

"CICLO DEI VINTI" ma scrive un solo capitolo, che sarà pubblicato postumo.

Negli anni che precedono la prima guerra mondiale, in un clima letterario che

continua a preferire autori del post–verismo, le opere di Verga perdono

interesse, ma dopo la guerra, in seguito al saggio "Giovanni Verga" di Luigi

Russo (1919), il riconoscimento dei suoi meriti si fa sempre più largo e

unanime e l'arte verghiana comincia ad essere apprezzata in quello che ha di

più originale e di più vivo.

Nel 1920 è solennemente festeggiato a Roma e a Catania in occasione del

suo ottantesimo compleanno: le onoranze hanno il loro coronamento nella

nomina a senatore il 3 ottobre.

Muore a Catania il 27 gennaio 1922, colto da una paralisi cerebrale.

L'attività letteraria di Verga può essere divisa in tre fasi:

_1 la narrativa storico-patriottica degli esordi;

_2 i romanzi mondani;

_3 la produzione verista.

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In Sicilia ebbe una formazione letteraria provinciale, come si nota leggendo i

suoi tre romanzi giovanili. In particolare, I carbonari della montagna (1861) è

un romanzo storico (un genere che stava ormai passando di moda) che

Verga dedicò ai suoi modelli di allora, Francesco Domenico Guerrazzi e

Alexandre Dumas.

Fondamentale nel suo cambiamento di interessi fu l'abbandono dell'isola nel

1869, quando Verga partì per Firenze. Introdotto dal poeta Francesco

Dall'Ongaro nella buona società cittadina, si dedicò allo studio della vita

borghese che aveva davanti agli occhi, con un particolare interesse per le

figure femminili e le vicende sentimentali, come si può capire dai titoli dei

romanzi che scrisse in questo secondo periodo "mondano": Una peccatrice

(1866), Eva (1873), Eros (1875). Grande successo riscosse in particolare

Storia di una capinera (1871), il racconto della monacazione forzata della

protagonista che, innamorata del marito della sorella, muore in preda alla

disperazione.

Se il romanzo Il marito di Elena (1882) continuò lungo questa linea di ricerca

espressiva, la produzione successiva a quella fiorentina prese un'altra strada.

Nel 1872, quando si trasferì a Milano, capitale dell'editoria, frequentò gli

scapigliati Arrigo Boigo e Giuseppe Giacosa, grazie anche all'appoggio di

Salvatore Farina, uno scrittore allora molto celebre. Qui fu raggiunto

dall'amico Luigi Capuana, scrittore e critico letterario teorico del verismo.

La svolta letteraria si può datare al 1874, l'anno in cui fu pubblicata una

novella intitolata Nedda, definita dall'autore un "bozzetto siciliano".

L'ambiente non è più urbano ma rurale; la storia non è più ambientata al Nord

ma in Sicilia; i protagonisti sono umili contadini. Anche qui protagonista della

vicenda è una donna, ma la sua situazione è tragica e concreta, non astratta

e sentimentale.

Da quel momento in poi la Sicilia contadina con la sua antica cultura fu al

centro del lavoro dello scrittore catanese, sia nelle novelle, sia nei romanzi.

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I due volumi di racconti Vita dei campi (1880) e Novelle rusticane (1883)

contengono alcuni dei capolavori verghiani, testi divenuti celebri come La

lupa, La roba (storia di Mazzarò, un contadino diventato proprietario terriero,

ma rimasto vecchio e solo, ridotto alle soglie della pazzia), Rosso Malpelo (un

ragazzo destinato a lavorare e a morire in miniera, ricalcando il tragico

destino del padre), Cavalleria rusticana (racconto di un duello mortale

scatenato dalla gelosia).

I romanzi della maturità:

I Malavoglia (1881) racconta la storia di una famiglia di pescatori che vive

e lavora ad Acitrezza, un piccolo paese vicino a Catania. Protagonista del

romanzo è tutto il paese, fatto di personaggi uniti da una stessa cultura ma

divisi da antiche rivalità. Grazie a una scrittura sapiente che riproduce alcune

caratteristiche del dialetto e che riesce ad adattarsi ai diversi punti di vista dei

vari personaggi, il romanzo crea l'illusione che a parlare sia il mondo

raccontato, rinunciando così alla presenza in "prima linea" dell'autore.

Mastro-don Gesualdo (1889), invece, mette in risalto la storia del

protagonista che dà il titolo al romanzo. Di origini modeste, Gesualdo riesce a

vincere il suo destino di miseria e diventa ricco. Il matrimonio con la nobile

Bianca Trao non cancella la sua modesta estrazione sociale: persino la figlia

Isabella si vergogna del padre. Rimasto solo, Gesualdo muore nel palazzo

ducale di Palermo, abbandonato dai suoi e ignorato dalla servitù che si

prende gioco di lui. Anche qui l'ambiente è siciliano (il romanzo è ambientato

a Vizzini) e la lingua rispecchia in modo tecnicamente molto raffinato la realtà

che fa da sfondo al romanzo. Fu un insuccesso inatteso e Verga,

amareggiato, si ritirò a Catania abbandonando la scrittura. Il progettato "CICLO

DEI VINTI", cioè coloro che nella lotta per l'esistenza sono destinati ad essere

sconfitti, che prevedeva altri tre romanzi ambientati a un livello sociale

progressivamente superiore (La duchessa di Leyra, L'onorevole Scipioni e

L'uomo di lusso), restò così incompiuto.

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Il successo arrivò a Verga per altre vie.

- Cavalleria rusticana, di cui lo stesso Verga elaborò una versione teatrale

(rappresentata nel 1884 con discreto consenso di pubblico), fu musicata da

Pietro Mascagni (1890) e fu un successo che continua tutt'ora.

- I Malavoglia offrirono lo spunto per il film La terra trema (1948) di Luchino

Visconti, momento importante del cinema neorealista.

- Oggi tutti gli studiosi di letteratura sono unanimi nel riconoscere allo scrittore

siciliano grandissima statura narrativa.

Lo stile di Verga:

Per riprodurre la società nel modo più "vero", Verga la osserva

scrupolosamente, studiando l'ambiente fisico ed il dialetto, documentandosi

sui mestieri e sulle tradizioni; inoltre usa uno stile impersonale in modo che il

lettore si trovi - come dice lui stesso - «faccia a faccia col fatto nudo e

schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro attraverso la lente dello

scrittore». Così sembra che i personaggi e le vicende si presentino da sé e

chi legge ha l'impressione di essere messo a diretto confronto con la realtà di

cui si parla.

Per ottenere l'impersonalità Verga adotta il punto di vista della gente, di chi fa

parte dell'ambiente che sta descrivendo, evita cioè di esprimere il suo

personale giudizio e i suoi sentimenti. E per rendere ancora più vera e

impersonale la rappresentazione, lo scrittore costruisce una lingua nuova: è

la lingua nazionale (non usa il dialetto siciliano perchè vuole che le sue opere

siano lette in tutta l'Italia) arricchita di termini di origine dialettale, di modi di

dire e proverbi, di una sintassi modellata sul ritmo della lingua parlata dal

popolo. I MALAVOGLIA

E' il primo romanzo del "CICLO DEI VINTI" rimasto incompiuto, in cui lo scrittore

manifesta la sua visione amara della vita. Il romanzo narra le disavventure di

una famiglia umile di pescatori di Acitrezza (Catania) che cerca di migliorare

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le sue condizioni economiche. «I Malavoglia» raccontano la storia amara di

una sconfitta nella quale si esprime il pessimismo radicale di Verga. Non c’è

speranza di cambiamento per gli oppressi, soggetti ad una legge di natura,

quella della vittoria del più forte e della selezione naturale, che essi non

possono controllare. E questa condizione degli umili diventa emblematica di

quella dell’intera umanità. L’unico valore positivo che si afferma nel mondo

verghiano è quello della dignità umile ed eroica con cui l’uomo sopporta il

proprio destino, rinunciando a inutili ribellioni.

Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente

devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini

pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola,

vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell'ignoto,

l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.

Il centro di tutto è una barca da pesca: la tartana dei Malavoglia chiamata

"Provvidenza". La "Provvidenza" è la barca più vecchia del villaggio, ma

aveva il nome di buon augurio. Era anche essa una persona nella famiglia

esemplare dei Malavoglia, la più onesta e compatta del paese. Intorno al gran

tronco, il nonno Padron 'Ntoni, testa della casa, si stringono altre sette

persone appartenenti a tre generazioni. Padron 'Ntoni e la Provvidenza sono i

due poli di quel mondo domestico. Quando il maggiore dei nipoti, 'Ntoni, è

tolto al lavoro per la leva di mare, il nonno tenta un affare, compra a credito

una grossa partita di lupini, li carica sulla barca e li affida al figlio Bastianazzo

perché li vada a vendere a Riposto. La barca di notte naufraga, Bastianazzo

annega, i lupini sono perduti. La "Provvidenza" è gettata inutile sulla spiaggia.

A Padron 'Ntoni rimane il debito dei lupini.

Dopo quella triplice sciagura, tutto sembra accanirsi contro i Toscano-

Malavoglia: Luca, il secondo dei nipoti, muore nella battaglia di Lissa;

Maruzza, la nuora, muore nel colera del '67. Il debito dei lupini si mangia la

casa, la cara «casa del nespolo» che era l'orgoglio, la ragione di vita del

vecchio; e già il debito aveva impedito le nozze della nipote, la Mena,

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creatura di silenzio e sacrificio. Non è finita: un nuovo naufragio della

"Provvidenza" rattoppata lascia Padron 'Ntoni inabile al lavoro. Il primogenito

'Ntoni, che da quando ha fatto servizio militare in continente non si rassegna

alla miseria dei pescatori, si dà al contrabbando e finisce in galera dopo aver

ferito un doganiere. Lia, la sorella minore, abbandona il paese e non torna

più. Mena dovrà rinunciare a sposarsi con compare Alfio e rimarrà in casa ad

accudire i figli di Alessi, il minore dei fratelli, che continuando a fare il

pescatore, ricostruirà la famiglia e potrà ricomprare la «casa del nespolo» che

era stata venduta. Quando 'Ntoni, uscito di prigione, torna al paese, si rende

conto di non poter restare perché si sente indegno del focolare domestico di

cui ha profanato le leggi e la sacralità.

Gli Elementi e i Temi:

- La presenza di un folla di personaggi tra i quali non emerge un protagonista

singolo, a sottolineare un tipo di organizzazione sociale semplice ancora

basato sulla famiglia patriarcale;

- Il desiderio di star meglio che spinge padron 'Ntoni a tentare l’affare dei

lupini e il giovane 'Ntoni a cercare fortuna lontano: tentativi entrambi falliti di

uscire dalla condizione assegnata dal destino;

- La brutalità della lotta per la sopravvivenza, dominata da un’ineluttabile

legge economica;

- La religione della famiglia, l’attaccamento al focolare e agli affetti, unica

difesa possibile contro l’avidità del mondo, a patto che si accontenti di quello

che si ha;

- L’impossibilità di staccarsi dal proprio ambiente e dalla propria condizione,

pena la rovina.

MASTRO-DON GESUALDO

E’ il secondo romanzo del "Ciclo dei Vinti", che doveva comporsi di cinque

romanzi; in realtà l’autore si limitò ai primi due pensando di aver già

dimostrato in essi la tesi che si era proposto: l’uomo, qualunque sia la sua

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posizione nella vita, è un vinto della vita stessa e deve sottomettersi al

destino.

Ne è un esempio Mastro-don Gesualdo, un manovale che è diventato ricco e

rispettato a forza di duro lavoro e di sacrifici. Si innalza anche socialmente,

sposando la nobile Bianca Trao che lo sposa per riparare ad uno sbaglio, ma

non lo ama. Nasce Isabella che non è figlia di Gesualdo, ma egli considera la

bimba come sua e la fa educare nei collegi più aristocratici.

Morta Bianca, che a poco a poco si era affezionata al marito, Isabella si

mostra ostile al padre sebbene egli sia disposto a soddisfare tutti i suoi

capricci, anche quello di sposare un duca squattrinato che dissipa il

patrimonio di Gesualdo, accumulato in tutta la vita. Quando Gesualdo si

ammala, Isabella lo relega in una stanzetta del suo palazzo dove muore solo,

sognando la sua casa e i suoi poderi, e rimpiangendo quella roba destinata a

persone che non lo amano, come suo genero, il duca Leyra.

Le Novelle Rusticane: è una raccolta di novelle che descrivono con

precisione la gente e gli ambienti siciliani.

Vita dei Campi (1880): è una raccolta di novelle, in cui, con stile asciutto e

colorito, Verga ritrae la vita rude della sua gente di Sicilia. Nei nove racconti,

tra cui La lupa, Cavalleria rusticana, Fantasticheria, Jeli il pastore, Rosso

Malpelo, L’amante di Gramigna, il principio dell’impersonalità trova la sua

prima espressione compiuta attraverso la rappresentazione obiettiva, anche

se umanamente partecipe, dei meccanismi che regolano la vita, delle lotte

feroci che essa impone.

Tuttavia emerge ancora dalla raccolta la sacralità di certi principi elementari

del mondo contadino della sua terra che Verga vede inviolati: principi che si

manifestano in modo ancora mitico, attraverso una sorta di arcaica liturgia. La

Lupa, nella novella omonima, sa che il genero, col quale ha stretto un legame

incestuoso, la ucciderà, ma quando vede lontano la falce dell’uomo brillare al

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sole, va consapevole incontro alla morte, che accetta come necessaria

conseguenza della sua aberrante passione. Anche in Cavalleria rusticana la

legge dell’onore si mescola a quella del sangue, secondo un rituale

antichissimo, residuo di una civiltà primitiva, agli albori della storia.

Talvolta la lotta per l’esistenza si configura come conflitto tra l’individuo,

originalmente buono, e la società corrotta e corruttrice, perché intessuta di un

gioco di egoismi che tendono a soverchiarsi. Ma il "primitivo" verghiano, pur

ribellandosi ai comportamenti di questa società, è un vinto in partenza: Jeli il

pastore si ribella al "signorino", che gli ha rubato la moglie e l’onore, e lo

uccide, ma andrà in galera; Rosso Malpelo riesce in apparenza ad adeguarsi

alle leggi della giungla (e si chiede perché la madre di Ranocchio morendo si

disperi "come se il figlio fosse di quelli che guadagnano dieci lire la

settimana"), ma alla fine si rassegna alla sconfitta, e sparisce nella cava

durante un’esplorazione.

LUIGI CAPUANA

Nato a Mineo in provincia di Catania nel 1839, da una famiglia di proprietari

terrieri, trascorse buona parte della giovinezza impegnandosi nell'attività

politica in favore di Garibaldi e dell'unità d'Italia prima e come ispettore

scolastico dopo il 1871.

Tra il 1864 e il 1868 visse a Firenze svolgendo attività di critico teatrale per il

giornale fiorentino "La Nazione". Lavorò come giornalista anche a Milano

(1877-1882) presso il "Corriere della Sera" e a Roma (1882-1884) dove

diresse "Il Fanfulla della domenica". Sulla sua formazione letteraria influì sia il

soggiorno fiorentino, dove entrò in contatto con letterati famosi (Prati, Aleardi,

Fusinato, Capponi) e conobbe Verga, sia il soggiorno milanese durante il

quale, insieme a Verga, frequentò l'ambiente degli scapigliati. A Roma

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conobbe un altro grande conterraneo, Luigi Pirandello, il quale, dopo aver

iniziata l'attività letteraria come poeta, scoprì la sua autentica vena di

narratore proprio per i suggerimenti di Capuana.

Rimase a Roma come professore di letteratura italiana all'Istituto Superiore di

Magistero sino al 1884, quindi passò ad insegnare estetica e stilistica

all'Università di Catania, città nella quale si stabilì definitivamente. Rientrato a

Mineo si dedicò agli studi teorici sulla letteratura, oltre che alle opere

filosofiche di Hegel e ai testi del Positivismo. Morì a Catania nel 1915.

Capuana fu il teorico e il divulgatore del verismo; a lui si deve il primo

romanzo verista Giacinta (1879). Scritto dopo la lettura di Madame Bovary di

Flaubert ispirandosi a un caso di vita vera, il racconto, che è dominato dal

canone verista dell'impersonalità, presenta l'analisi minuziosa e quasi clinica

della vita dei singoli personaggi. Ma il suo capolavoro è Il Marchese di

Roccaverdina (1901). Pregevoli sono anche dei racconti per l'infanzia e molto

importanti gli studi critici che fanno di Capuana il miglior critico letterario

dell'Italia del suo tempo.

Fondatore del verismo insieme a Giovanni Verga, Capuana fu superiore a

Verga come teorico ma inferiore come scrittore. Infatti, mentre Verga è

riuscito a dare una rappresentazione storicamente precisa ma soprattutto

intimamente umana degli umili, visti come portatori di una civiltà degnissima

di rispetto, Capuana è rimasto legato per certi versi agli aspetti scientifici del

naturalismo francese. Ne deriva un gusto (evidente in Giacinta) per il caso

patologico e per la precisa ricostruzione storica e ambientale. Anche nel

Marchese di Roccaverdina l'aspetto patologico (la pazzia) e la minuta

descrizione dell'ambiente sono strettamente collegati all'analisi psicologica

del personaggio principale.

La sua prima opera letteraria fu essenzialmente poetica: un dramma in versi,

Garibaldi (1861), e Vanitas vanitatum (1863). Alla poesia ritornò vent'anni

dopo con Parodie (1884), parodie dei pometti di Mario Rapisardi, e con

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Semiritmi (1888), il cui titolo evidenzia una ricerca metrica originale di verso

libero.

Con Profili di donne, in cui ancora è evidente la matrice romantico-

sentimentale, con il romanzo Giacinta e con le novelle Le appassionate

scopre le possibilità espressive del verismo e scrive numerosi saggi per

mezzo dei quali si fa promontore della nuova corrente letteraria, sostenendo il

"metodo sperimentale", la necessità cioè di una rappresentazione obiettiva e

distaccata del mondo e dell'uomo.

Dei romanzi, oltre ai più noti Giacinta (1879) e Il Marchese di Roccaverdina

(1901), sono apprezzati La sfinge (1897), Profumo (1891), Rassegnazione

(1906).

Delicate sono alcune novelle della raccolta Le paesane e assai piacevoli le

fiabe per i bambini di C'era una volta... Fiabe (1882), Il regno delle fate

(1883), Raccontafiabe, seguito al C'era una volta (1894), Chi vuol fiabe, chi

vuol? (1908).

Tra gli scritti teorici: Studi sulla letteratura contemporanea (1880,1882), Per

l'arte (1885), Gli "ismi" contemporanei (1898), Cronache letterarie (1899). Si

interessò al teatro non solo come critico sulle pagine dei giornali e come

autore de Il teatro italiano contemporaneo (1872), ma anche come autore di

adattamenti teatrali e di commedie in dialetto.

LA PRODUZIONE NARRATIVA:

GIACINTA (1879). Giacinta, figlia di un padre inetto e di una madre intrigante,

avida di denaro e di godimento, è violentata, ancora bambina, da un

giovanetto, servo di casa. Solo più tardi, da fanciulla, attraverso le

chiacchiere delle domestiche, ella conosce la sciagura, della quale aveva

perduto perfino la memoria.

La rivelazione provoca in lei una disperata aberrazione: ella non vorrà mai

sposare l'uomo che ama, Andrea, e sarà invece la sua devota e

appassionata amante fin dal giorno delle sue nozze con un vecchio conte

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Giulio, il quale accetta di vivere fraternamente con la moglie, senza

inquietarsi della continua presenza, in casa, di Andrea. Giacinta ostenta quasi

la sua passione per Andrea, che dopo la nascita di una bambina le sembra

consacrata per sempre.

Quando la madre di lei, preoccupata della sua condotta, riesce, per salvare le

apparenze, a far traslocare Andrea, Giacinta obbliga l'amante a dare le

dimissioni dall'impiego e ad accettare, per vivere, il danaro che ella gli offre.

Da quel momento Andrea, in cui l'amore cominciava ad affievolirsi, sente

nella nuova situazione falsa ed avvilente aumentare l'insofferenza del suo

legame con Giacinta senza però trovare la forza di rompere. La bambina

intanto si ammala di difterite e muore; l'indifferenza di Andrea di fronte alla

sventura, fa comprendere a Giacinta come sia irreparabilmente finito

quell'amore a cui si era abbandonata con una foga testarda; e poiché la vita

ormai, per lei, non ha più senso, si uccide.

Alcuni critici hanno sostenuto che manca a questo romanzo la dignità di stile

e la forza rappresentativa necessarie a salvare la narrazione dalle strette del

caso patologico e dello scandalo. Preoccupato soltanto di serbar fede al

canone naturalista, l'autore non si sarebbe accorto che fra tanti particolari di

vita reale, minuzie quasi cliniche, i suoi personaggi rimanevano anonimi,

vaghi, privi della necessaria vita fantastica.

IL MARCHESE DI ROCCAVERDINA (1901). Il marchese di Roccaverdina

vive nelle sue terre di Sicilia, con la prepotenza, la cocciutaggine, gli arbitri

dei suoi bisavoli che furono soprannominati i Maluomini. Nel palazzotto dove

abita solo con la vecchia balia, mamma Grazia, egli è cresciuto per dieci anni

con Agrippina Solmo, una contadina che gli dedicò gioventù, bellezza,

purezza, con animo di innamorata e di schiava. Per non correre il rischio di

disonorare il nobile casato sposandola, il marchese la dà in moglie a un suo

devoto fattore, Rocco Criscione, esigendo però che entrambi giurino davanti

al crocifisso di vivere come fratello e sorella.

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Quando però, qualche tempo dopo le nozze, gli nasce il dubbio che Rocco e

Agrippina abbiano violato il giuramento, il marchese si apposta di notte dietro

una siepe e mentre Rocco Criscione passa sulla mula lo uccide con una

fucilata; del delitto viene accusato Neli Casaccio, che già aveva minacciato

Rocco perchè apparentemente gli insidiava la moglie.

Il romanzo inizia a questo punto, essendo la storia della lotta segreta e feroce

fra il marchese e il suo rimorso. L'antefatto è vivo e presente il tutta la

vicenda, riflesso come in uno specchio stregato nella coscienza del marchese

che cerca di liberarsene prima nella confessione, e, quando l'assoluzione gli

è rifiutata, con lo strappare da sè ogni fede religiosa.

Dopo il delitto, l'amore per Agrippina, che gli è rimasto nel sangue, ha

qualche volta sapore di odio, è un tormento in più: per vincerlo, il marchese

decide di sposare Zosima Mugnos che ha amato nell'adolescenza e che ora,

a trentadue anni, vive con la madre e la sorella nella miseria in cui le ha

ridotte la prodigalità del padre. Poi, mentre Agrippina Solmo passa a seconde

nozze con un pastore dei monti, il marchese si dà a una vita piena di attività

in contrasto con l'isolamento caro alla sua indole. Ma il ricordo del suo delitto

ritorna a lui di continuo, nell'immagine di un Crocifisso abbandonato in casa,

nei racconti dei contadini che vedono riapparire Rocco sul luogo

dell'assassinio.

Lo scenario di questa lotta è un paese arso e immiserito da sedici mesi di

siccità che screpola la terra, decima uomini e bestie. L'angoscia si fa da una

pagina all'altra più spietata e incalzante, si confonde all'attesa della pioggia

che i fedeli invocano in processione, flagellandosi. Finalmente le nubi salgono

sul cielo di Ràbbato e la pioggia scroscia, la terra verdeggia e fiorisce,

Zosima diviene marchesa di Roccaverdina, l'innocente Neli Casaccio muore

in carcere, muore anche don Silvio La Ciura, il santo prete che in

confessionale ha conosciuto il delitto del marchese.

Solo il marchese, sebbene libero da ogni timore e da ogni testimone, non può

sottrarsi al suo giudice segreto che lo assedia e lo spinge alla pazzia.

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Zosima, che dalla follia del marito apprende il suo delitto, lo abbandona. A

soccorrerlo, pietosa della sua miseria umana, accorre vicino a lui, tutta amore

e dolore, Agrippina Solmo, che gli sta al fianco finché alla pazzia furiosa

succede il presentimento della morte.

Federico De Roberto

Nacque a Napoli nel 1861 e vi rimase fino ai nove anni quando la famiglia si

trasferì a Catania, dove visse per il resto della sua vita, pur soggiornando per

alcuni periodi a Firenze, a Milano e a Roma. A vent'anni abbandonò gli studi

universitari di matematica e fisica per dedicarsi esclusivamente all'attività

letteraria e giornalistica. Collaborò attivamente a molti quotidiani con

recensioni e articoli. Vicino al verismo, considerò come maestri Verga e

Capuana, con il quale strinse un fitto scambio epistolare.

Nel 1887 esordì con le poesie di Encelado, ma i racconti di La sorte e i

successivi tre volumi di novelle (Documenti umani, 1888; Processi verbali e

L'albero della scienza, 1890) attestano come la ricerca di De Roberto si fosse

indirizzata subito verso la narrativa: di lì a poco, infatti, nel 1889, pubblicò il

suo primo romanzo, Ermanno Reali.

Trasferitosi a Milano, fu introdotto da Verga negli ambienti letterari: conobbe

scrittori scapigliati (Arrigo Boito), giornalisti, musicisti e uomini di teatro, tra i

quali Giovanni Camerana, Giuseppe Giacosa, Gerolamo Rovetta, Luigi

Albertini. Il romanzo L'illusione apparve a Milano nel 1891. Il suo capolavoro,

I vicerè, considerato uno dei maggiori romanzi dell'Ottocento italiano, è del

1894, mentre il successivo Imperio rimase incompiuto.

In quel periodo, con Spasimo, pubblicato in volume nel 1897, iniziarono a

comparire alcuni suoi romanzi d'appendice sul Corriere della Sera. Nel 1911

vennero raccolti e stampati i racconti di La messa di nozze, mentre alle

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collaborazioni al Corriere si sostituirono quelle al Giornale d'Italia. Si recò di

frequente a Roma, anche per studiare la vita parlamentare in vista di una

ripresa e rielaborazione dell'Imperio, mentre l'ultima e appartata fase della

sua vita si svolse a Catania. Fra le altre opere meritano di essere ricordate il

testo teatrale Il rosario (1913), la monografia critica Leopardi (1898), il volume

di estetica L'arte (1901). De Roberto morì nel 1927.

Il suo capolavoro sta nel grande progetto di un ciclo narrativo dedicato alla

famiglia nobile degli Uzeda, grande affresco della Sicilia alla fine del dominio

borbonico e nei primi decenni dell'unità, costruito secondo il modello zoliano

della saga familiare.

I VICERÉ : considerato il suo capolavoro, è una vasta narrazione storica di

tre generazioni della famiglia siciliana Uzeda di Francalanza, dai primi moti

rivoluzionari siciliani agli ultimi decenni del secolo. Le vicende si svolgono a

Catania dove la famiglia Uzeda si è trapiantata da alcuni secoli.

Alla morte della principessa Teresa, più temuta che amata anche dai figli, il

principe Gaspare, divenuto padrone della cospicua sostanza, egoista e

chiuso a ogni impulso generoso, mette in giro la voce che i beni lasciati dalla

madre sono gravati da forti debiti per cui occorrono sacrifici da parte di tutti.

Da qui lotte, liti, miserie, che si intrecciano alla quotidiana vicenda dei vari

rami dei Francalanza.

Di fronte al principe Gaspare che sposa prima Isabella Grazzeri per volontà

della madre, e poi la cugina Graziella, e viene educando i due figliuoli

Consalco e Teresa senza affetto e senza idealità, sta il fratello Raimondo

che, anch'egli infedele alla prima moglie, sposa un'avvenente palermitana.

Ma la nuova unione, pur saldata dalla nascita di altri figli, non fa cambiare

tenore di vita a Raimondo il quale, instabile nei suoi sentimenti, non

abbandona la sua vita di libertino.

I fratelli Uzeda vivono nella cornice che a essi fanno gli zii, primo fra tutti don

Blasco, pettegolo, sensuale e corrotto, fiero avversario delle idee liberali, ma

pronto a sfruttarle dopo la rivoluzione del 1860, acquistando terre e feudi

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degli ordini religiosi. Vicina spiritualmente a lui, e pur tanto odiata, è donna

Ferdinanda, avara, ignorante, tutta chiusa nel suo feroce odio per le idee

nuove.

Ma il più abile e più autorevole degli zii è il duca Raimondo il quale, per avere

timidamente amoreggiato coi liberali, dopo la rivoluzione siciliana, riesce ad

acquistare sempre più vasta popolarità e finalmente a farsi eleggere primo

deputato di Catania al Parlamento di Torino. Alla sua scuola si viene

educando l'ultimo rampollo degli Uzeda, Consalvo, il quale, dopo avere rotto

col padre, sempre più violento contro il figlio per la sua vita disordinata, va a

vivere lontano dal resto della famiglia, tutto preso dal sogno ambizioso di

ereditare il posto del vecchio zio Raimondo. Accanto a lui sta la mite sorella

Teresa che cerca invano di conciliare il padre e il fratello e finisce col fare un

matrimonio senza amore.

La vita familiare degli Uzeda si chiude in un destino di sciagure e di lutti.

Consalvo, rotto a ogni arte di dominio, riuscito con raggiri e corruzioni a

essere eletto deputato, non è soddisfatto né della vittoria né della nuova

posizione. Egli stesso definisce il suo destino, che è quello degli Uzeda: di

comandare, prima col denaro, la violenza e l'ignoranza, ora col tradimento e

la finzione. Nulla è innovato nella secolare famiglia.

n.b. per ogni autore c’è una piccola scelta antologica (vedi allegati al

modulo_1 U.D. 4 seguente)

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Allegati al Modulo 1_ L’età del Realismo

U.D. 4_ Scrittori veristi siciliani

(3 novelle di Giovanni Verga: L’amante di Gramigna con prefazione a

Salvatore Farina; La Lupa; La Roba)

(1 novella di Capuana: Delfina tratto da Profili di Donna)

(1 novella di Federico De Roberto: I Vecchi tratta da Processi Verbali)

L’amante di Gramigna A Salvatore Farina.

Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico — un documento umano, come dicono oggi — interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotteraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d’arrivo; e per te basterà, — e un giorno forse basterà per tutti. Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi? Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente

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invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d’origine. Parecchi anni or sono, laggiù lungo il Simeto, davano la caccia a un brigante, certo Gramigna, se non erro, un nome maledetto come l’erba che lo porta, il quale da un capo all’altro della provincia s’era lasciato dietro il terrore della sua fama. Carabinieri, soldati, e militi a cavallo, lo inseguivano da due mesi, senza esser riesciti a mettergli le unghie addosso: era solo, ma valeva per dieci, e la mala pianta minacciava di moltiplicarsi. Per giunta si approssimava il tempo della messe, tutta la raccolta dell’annata in man di Dio, ché i proprietarii non s’arrischiavano a uscir dal paese pel timor di Gramigna; sicché le lagnanze erano generali. Il prefetto fece chiamare tutti quei signori della questura, dei carabinieri, dei compagni d’armi, e subito in moto pattuglie, squadriglie, vedette per ogni fossato, e dietro ogni muricciolo: se lo cacciavano dinanzi come una mala bestia per tutta una provincia, di giorno, di notte, a piedi, a cavallo, col telegrafo. Gramigna sgusciava loro di mano, o rispondeva a schioppettate, se gli camminavano un po’ troppo sulle calcagna. Nelle campagne, nei villaggi, per le fattorie, sotto le frasche delle osterie, nei luoghi di ritrovo, non si parlava d’altro che di lui, di Gramigna, di quella caccia accanita, di quella fuga disperata. I cavalli dei carabinieri cascavano stanchi morti; i compagni d’armi si buttavano rifiniti per terra, in tutte le stalle; le pattuglie dormivano all’impiedi; egli solo, Gramigna, non era stanco mai, non dormiva mai, combatteva sempre, s’arrampicava sui precipizi, strisciava fra le messi, correva carponi nel folto dei fichidindia, sgattajolava come un lupo nel letto asciutto dei torrenti. Per duecento miglia all’intorno, correva la leggenda delle sue gesta, del suo coraggio, della sua forza, di quella lotta disperata, lui solo contro mille, stanco, affamato, arso dalla sete, nella pianura immensa, arsa, sotto il sole di giugno. Peppa, una delle più belle ragazze di Licodia, doveva sposare in quel tempo compare Finu «candela di sego» che aveva terre al sole e una mula baia in stalla, ed era un giovanotto grande e bello come il sole, che portava lo stendardo di Santa Margherita come fosse un pilastro, senza piegare le reni. La madre di Peppa piangeva dalla contentezza per la gran fortuna toccata alla figliuola, e passava il tempo a voltare e rivoltare nel baule il corredo della sposa, «tutto di roba bianca a quattro» come quella di una regina, e orecchini che le arrivavano alle spalle, e anelli d’oro per le dieci dita delle mani: dell’oro ne aveva quanto ne poteva avere Santa Margherita, e dovevano sposarsi giusto per Santa Margherita, che cadeva in giugno, dopo la mietitura del fieno. «Candela di sego» nel tornare ogni sera dalla campagna, lasciava la mula all’uscio della Peppa, e veniva a dirle che i seminati erano un incanto, se Gramigna non vi appiccava il fuoco, e il graticcio di contro al letto non sarebbe bastato a contenere tutto il grano della raccolta, che gli pareva mill’anni di condursi la sposa in casa, in groppa alla mula baia. Ma Peppa un bel giorno gli disse: — La vostra mula lasciatela stare, perché non voglio maritarmi —. Figurati il putiferio! La vecchia si strappava i capelli, «Candela di sego» era rimasto a bocca aperta. Che è, che non è, Peppa s’era scaldata la testa per Gramigna, senza conoscerlo neppure. Quello sì, ch’era un uomo! — Che ne sai? — Dove l’hai visto? — Nulla. Peppa non rispondeva neppure, colla testa bassa, la faccia

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dura, senza pietà per la mamma che faceva come una pazza, coi capelli grigi al vento, e pareva una strega. — Ah! quel demonio è venuto sin qui a stregarmi la mia figliuola! — Le comari che avevano invidiato a Peppa il seminato prosperoso, la mula baia, e il bel giovanotto che portava lo stendardo di Santa Margherita senza piegar le reni, andavano dicendo ogni sorta di brutte storie, che Gramigna veniva a trovare la ragazza di notte in cucina, e che glielo avevano visto nascosto sotto il letto. La povera madre teneva accesa una lampada alle anime del purgatorio, e persino il curato era andato in casa di Peppa, a toccarle il cuore colla stola, onde scacciare quel diavolo di Gramigna che ne aveva preso possesso. Però ella seguitava a dire che non lo conosceva neanche di vista quel cristiano; ma invece pensava sempre a lui; lo vedeva in sogno, la notte, e alla mattina si levava colle labbra arse, assetata anch’essa, come lui. Allora la vecchia la chiuse in casa, perché non sentisse più parlare di Gramigna, e tappò tutte le fessure dell’uscio con immagini di santi. Peppa ascoltava quello che dicevano nella strada, dietro le immagini benedette, e si faceva pallida e rossa, come se il diavolo le soffiasse tutto l’inferno nella faccia. Finalmente si sentì che avevano scovato Gramigna nei fichidindia di Palagonia. — Ha fatto due ore di fuoco! — dicevano; — c’è un carabiniere morto, e più di tre compagni d’armi feriti. Ma gli hanno tirato addosso tal gragnuola di fucilate che stavolta hanno trovato un lago di sangue dove egli era stato —. Una notte Peppa si fece la croce dinanzi al capezzale della vecchia e fuggì dalla finestra. Gramigna era proprio nei fichidindia di Palagonia — non avevano potuto scovarlo in quel forteto da conigli — lacero, insanguinato, pallido per due giorni di fame, arso dalla febbre, e colla carabina spianata. Come la vide venire, risoluta, in mezzo alle macchie fitte, nel fosco chiarore dell’alba, ci pensò un momento, se dovesse lasciar partire il colpo. — Che vuoi? — le chiese. — Che vieni a far qui? Ella non rispose, guardandolo fisso. — Vattene! — diss’egli, — vattene, finché t’aiuta Cristo! — Adesso non posso più tornare a casa, — rispose lei; — la strada è tutta piena di soldati. — Cosa m’importa? Vattene! — E la prese di mira colla carabina. Come essa non si moveva, Gramigna, sbalordito, le andò coi pugni addosso: — Dunque? ... Sei pazza? ... O sei qualche spia? — No, — diss’ella, — no! — Bene, va a prendermi un fiasco d’acqua, laggiù nel torrente, quand’è così —. Peppa andò senza dir nulla, e quando Gramigna udì le fucilate si mise a sghignazzare, e disse fra sé: — Queste erano per me —. Ma poco dopo vide ritornare la ragazza col fiasco in mano, lacera e insanguinata. Egli le si buttò addosso, assetato, e poich’ebbe bevuto da mancargli il fiato, le disse infine: — Vuoi venire con me? — Sì, — accennò ella col capo avidamente, — sì —.

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E lo seguì per valli e monti, affamata, seminuda, correndo spesso a cercargli un fiasco d’acqua o un tozzo di pane a rischio della vita. Se tornava colle mani vuote, in mezzo alle fucilate, il suo amante, divorato dalla fame e dalla sete, la batteva. Una notte c’era la luna, e si udivano latrare i cani, lontano, nella pianura. Gramigna balzò in piedi a un tratto, e le disse: — Tu resta qui, o t’ammazzo com’è vero Dio! — Lei addossata alla rupe, in fondo al burrone, lui invece a correre tra i fichidindia. Però gli altri, più furbi, gli venivano incontro giusto da quella parte. — Ferma! ferma! — E le schioppettate fioccarono. Peppa, che tremava solo per lui, se lo vide tornare ferito, che si strascinava appena, e si buttava carponi per ricaricare la carabina. — È finita! — disse lui. — Ora mi prendono —; e aveva la schiuma alla bocca, gli occhi lucenti come quelli del lupo. Appena cadde sui rami secchi come un fascio di legna, i compagni d’armi gli furono addosso tutti in una volta. Il giorno dopo lo strascinarono per le vie del villaggio, su di un carro, tutto lacero e sanguinoso. La gente gli si accalcava intorno per vederlo; e la sua amante, anche lei, ammanettata, come una ladra, lei che ci aveva dell’oro quanto Santa Margherita! La povera madre di Peppa dovette vendere «tutta la roba bianca» del corredo, e gli orecchini d’oro, e gli anelli per le dieci dita , onde pagare gli avvocati di sua figlia , e tirarsela di nuovo in casa, povera, malata, svergognata, e col figlio di Gramigna in collo. In paese nessuno la vide più mai. Stava rincantucciata nella cucina come una bestia feroce, e ne uscì soltanto allorché la sua vecchia fu morta di stenti, e si dovette vendere la casa. Allora, di notte, se ne andò via dal paese, lasciando il figliuolo ai trovatelli, senza voltarsi indietro neppure, e se ne venne alla città dove le avevano detto ch’era in carcere Gramigna. Gironzava intorno a quel gran fabbricato tetro, guardando le inferriate, cercando dove potesse esser lui, cogli sbirri alle calcagna, insultata e scacciata ad ogni passo. Finalmente seppe che il suo amante non era più lì, l’avevano condotto via, di là del mare, ammanettato e colla sporta al collo. Che poteva fare? Rimase dov’era, a buscarsi il pane rendendo qualche servizio ai soldati, ai carcerieri, come facesse parte ella stessa di quel gran fabbricato tetro e silenzioso. Verso i carabinieri poi, che le avevano preso Gramigna nel folto dei fichidindia, sentiva una specie di tenerezza rispettosa, come l’ammirazione bruta della forza, ed era sempre per la caserma, spazzando i cameroni e lustrando gli stivali, tanto che la chiamavano «lo strofinacciolo della caserma». Soltanto quando partivano per qualche spedizione rischiosa, e li vedeva caricare le armi, diventava pallida e pensava a Gramigna.

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La Lupa (da Vita dei Campi) Era alta, magra, aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna - e pure non era più giovane - era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano. Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai - di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell'andare randagio e sospettoso della lupa affamata; ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d'occhio, con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso, fossero stati davanti all'altare di Santa Agrippina. Per fortuna la Lupa non veniva mai in chiesa, né a Pasqua, né a Natale, né per ascoltar messa, né per confessarsi. - Padre Angiolino di Santa Maria di Gesù, un vero servo di Dio, aveva persa l'anima per lei. Maricchia, poveretta, buona e brava ragazza, piangeva di nascosto, perché era figlia della Lupa, e nessuno l'avrebbe tolta in moglie, sebbene ci avesse la sua bella roba nel cassettone, e la sua buona terra al sole, come ogni altra ragazza del villaggio. Una volta la Lupa si innamorò di un bel giovane che era tornato da soldato, e mieteva il fieno con lei nelle chiuse del notaro; ma proprio quello che si dice innamorarsi, sentirsene ardere le carni sotto al fustagno del corpetto, e provare, fissandolo negli occhi, la sete che si ha nelle ore calde di giugno, in fondo alla pianura. Ma lui seguitava a mietere tranquillamente, col naso sui manipoli, e le diceva: - O che avete, gnà Pina? - Nei campi immensi, dove scoppiettava soltanto il volo dei grilli, quando il sole batteva a piombo, la Lupa, affastellava manipoli su manipoli, e covoni su covoni, senza stancarsi mai, senza rizzarsi un momento sulla vita, senza accostare le labbra al fiasco, pur di stare sempre alle calcagna di Nanni, che mieteva e mieteva, e le domandava di quando in quando: - Che volete, gnà Pina? – Una sera ella glielo disse, mentre gli uomini sonnecchiavano nell'aia, stanchi dalla lunga giornata, ed i cani uggiolavano per la vasta campagna nera: - Te voglio! Te che sei bello come il sole, e dolce come il miele. Voglio te! - Ed io invece voglio vostra figlia, che è zitella - rispose Nanni ridendo. La Lupa si cacciò le mani nei capelli, grattandosi le tempie senza dir parola, e se ne andò; né più comparve nell'aia. Ma in ottobre rivide Nanni, al tempo che cavavano l'olio, perché egli lavorava accanto alla sua casa, e lo scricchiolio del torchio non la faceva dormire tutta notte. - Prendi il sacco delle olive, - disse alla figliuola, - e vieni -. Nanni spingeva con la pala le olive sotto la macina, e gridava - Ohi! – alla mula perché non si arrestasse. - La vuoi mia figlia Maricchia? - gli domandò la gnà Pina. - Cosa gli date a vostra figlia Maricchia? - rispose Nanni. - Essa ha la roba di suo padre, e dippiù io le do la mia casa; a me mi basterà che mi lasciate un cantuccio nella cucina, per stendervi un po' di pagliericcio. - Se è così se ne può parlare a Natale - disse Nanni. Nanni era

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tutto unto e sudicio dell'olio e delle olive messe a fermentare, e Maricchia non lo voleva a nessun patto; ma sua madre l'afferrò pe' capelli, davanti al focolare, e le disse co' denti stretti: - Se non lo pigli, ti ammazzo! – La Lupa era quasi malata, e la gente andava dicendo che il diavolo quando invecchia si fa eremita. Non andava più di qua e di là; non si metteva più sull'uscio, con quegli occhi da spiritata. Suo genero, quando ella glieli piantava in faccia, quegli occhi, si metteva a ridere, e cavava fuori l'abitino della Madonna per segnarsi. Maricchia stava in casa ad allattare i figliuoli, e sua madre andava nei campi, a lavorare cogli uomini, proprio come un uomo, a sarchiare, a zappare, a governare le bestie, a potare le viti, fosse stato greco e levante di gennaio, oppure scirocco di agosto, allorquando i muli lasciavano cader la testa penzoloni, e gli uomini dormivano bocconi a ridosso del muro a tramontana. In quell'ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina buona, la gnà Pina era la sola anima viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi, che si perdevano nell'afa, lontan lontano, verso l'Etna nebbioso, dove il cielo si aggravava sull'orizzonte. - Svegliati! - disse la Lupa a Nanni che dormiva nel fosso, accanto alla siepe polverosa, col capo fra le braccia. - Svegliati, ché ti ho portato il vino per rinfrescarti la gola – Nanni spalancò gli occhi imbambolati, tra veglia e sonno, trovandosela dinanzi ritta, pallida, col petto prepotente, e gli occhi neri come il carbone, e stese brancolando le mani. - No! non ne va in volta femmina buona nell'ora fra vespero e nona! - singhiozzava Nanni, ricacciando la faccia contro l'erba secca del fossato, in fondo in fondo, colle unghie nei capelli. - Andatevene! andatevene! non ci venite più nell'aia! – Ella se ne andava infatti, la Lupa, riannodando le trecce superbe, guardando fisso dinanzi ai suoi passi nelle stoppie calde, cogli occhi neri come il carbone. Ma nell'aia ci tornò delle altre volte, e Nanni non le disse nulla. Quando tardava a venire anzi, nell'ora fra vespero e nona, egli andava ad aspettarla in cima alla viottola bianca e deserta, col sudore sulla fronte - e dopo si cacciava le mani nei capelli, e le ripeteva ogni volta: - Andatevene! andatevene! Non ci tornate più nell'aia! – Maricchia piangeva notte e giorno, e alla madre le piantava in faccia gli occhi ardenti di lagrime e di gelosia, come una lupacchiotta anch'essa, allorché la vedeva tornare da' campi pallida e muta ogni volta. – Scellerata! - le diceva. - Mamma scellerata! - Taci! - Ladra! ladra! - Taci! - Andrò dal brigadiere, andrò! - Vacci! E ci andò davvero, coi figli in collo, senza temere di nulla, e senza versare una lagrima, come una pazza, perché adesso l'amava anche lei quel marito che le avevano dato per forza, unto e sudicio delle olive messe a fermentare. Il brigadiere fece chiamare Nanni; lo minacciò sin della galera e della forca. Nanni si diede a singhiozzare ed a strapparsi i capelli; non negò nulla, non tentò di scolparsi. - È la tentazione! - diceva; - è la tentazione dell'inferno! - Si buttò ai piedi del brigadiere supplicandolo di mandarlo in galera.

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- Per carità, signor brigadiere, levatemi da questo inferno! Fatemi ammazzare, mandatemi in prigione! non me la lasciate veder più, mai! mai! - No! - rispose invece la Lupa al brigadiere - Io mi son riserbato un cantuccio della cucina per dormirvi, quando gli ho data la mia casa in dote. La casa è mia; non voglio andarmene. Poco dopo, Nanni s'ebbe nel petto un calcio dal mulo, e fu per morire; ma il parroco ricusò di portargli il Signore se la Lupa non usciva di casa. La Lupa se ne andò, e suo genero allora si potè preparare ad andarsene anche lui da buon cristiano; si confessò e comunicò con tali segni di pentimento e di contrizione che tutti i vicini e i curiosi piangevano davanti al letto del moribondo. E meglio sarebbe stato per lui che fosse morto in quel giorno, prima che il diavolo tornasse a tentarlo e a ficcarglisi nell'anima e nel corpo quando fu guarito. - Lasciatemi stare! - diceva alla Lupa - Per carità, lasciatemi in pace! Io ho visto la morte cogli occhi! La povera Maricchia non fa che disperarsi. Ora tutto il paese lo sa! Quando non vi vedo è meglio per voi e per me... – Ed avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne' suoi gli facevano perdere l'anima ed il corpo. Non sapeva più che fare per svincolarsi dall'incantesimo. Pagò delle messe alle anime del Purgatorio, e andò a chiedere aiuto al parroco e al brigadiere. A Pasqua andò a confessarsi, e fece pubblicamente sei palmi di lingua a strasciconi sui ciottoli del sacrato innanzi alla chiesa, in penitenza - e poi, come la Lupa tornava a tentarlo: - Sentite! - le disse, - non ci venite più nell'aia, perché se tornate a cercarmi, com'è vero Iddio, vi ammazzo! - Ammazzami, - rispose la Lupa, - ché non me ne importa; ma senza di te non voglio starci -. Ei come la scorse da lontano, in mezzo a' seminati verdi, lasciò di zappare la vigna, e andò a staccare la scure dall'olmo. La Lupa lo vide venire, pallido e stralunato, colla scure che luccicava al sole, e non si arretrò di un sol passo, non chinò gli occhi, seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi, e mangiandoselo con gli occhi neri. - Ah! malanno all'anima vostra! - balbettò Nanni. LA ROBA da "Novelle rusticane " (1883)

Il viandante che andava lungo il Biviere di Lentini, steso là come un pezzo di mare morto, e le stoppie riarse della Piana di Catania, e gli aranci sempre verdi di Francofonte, e i sugheri grigi di Resecone, e i pascoli deserti di Passaneto e di Passanitello, se domandava, per ingannare la noia della lunga strada polverosa, sotto il cielo fosco dal caldo, nell'ora in cui i campanelli della lettiga suonano tristamente nell'immensa campagna, e i muli lasciano ciondolare il capo e la coda, e il lettighiere canta la sua canzone malinconica per non lasciarsi vincere dal sonno della malaria: - Qui di chi è? - sentiva rispondersi: - Di Mazzarò -. E passando vicino a una fattoria grande quanto un paese, coi magazzini che sembrano chiese, e le galline a stormi

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accoccolate all'ombra del pozzo, e le donne che si mettevano la mano sugli occhi per vedere chi passava: - E qui? - Di Mazzarò -. E cammina e cammina, mentre la malaria vi pesava sugli occhi, e vi scuoteva all'improvviso l'abbaiare di un cane, passando per una vigna che non finiva più, e si allargava sul colle e sul piano, immobile, come gli pesasse addosso la polvere, e il guardiano sdraiato bocconi sullo schioppo, accanto al vallone, levava il capo sonnacchioso, e apriva un occhio per vedere chi fosse: - Di Mazzarò -. Poi veniva un uliveto folto come un bosco, dove l'erba non spuntava mai, e la raccolta durava fino a marzo. Erano gli ulivi di Mazzarò. E verso sera, allorché il sole tramontava rosso come il fuoco, e la campagna si velava di tristezza, si incontravano le lunghe file degli aratri di Mazzarò che tornavano adagio adagio dal maggese, e i buoi che passavano il guado lentamente, col muso nell'acqua scura; e si vedevano nei pascoli lontani della Canziria, sulla pendice brulla, le immense macchie biancastre delle mandre di Mazzarò; e si udiva il fischio del pastore echeggiare nelle gole, e il campanaccio che risuonava ora sì ed ora no, e il canto solitario perduto nella valle. - Tutta roba di Mazzarò. Pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo breve dietro le zolle, e il sibilo dell'assiolo nel bosco. Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia. - Invece egli era un omiciattolo, diceva il lettighiere, che non gli avreste dato un baiocco, a vederlo; e di grasso non aveva altro che la pancia, e non si sapeva come facesse a riempirla, perché non mangiava altro che due soldi di pane; e sì ch'era ricco come un maiale; ma aveva la testa ch'era un brillante, quell'uomo. Infatti, colla testa come un brillante, aveva accumulato tutta quella roba, dove prima veniva da mattina a sera a zappare, a potare, a mietere; col sole, coll'acqua, col vento; senza scarpe ai piedi, e senza uno straccio di cappotto; che tutti si rammentavano di avergli dato dei calci nel di dietro, quelli che ora gli davano dell'eccellenza, e gli parlavano col berretto in mano. Né per questo egli era montato in superbia, adesso che tutte le eccellenze del paese erano suoi debitori; e diceva che eccellenza vuol dire povero diavolo e cattivo pagatore; ma egli portava ancora il berretto, soltanto lo portava di seta nera, era la sua sola grandezza, e da ultimo era anche arrivato a mettere il cappello di feltro, perché costava meno del berretto di seta. Della roba ne possedeva fin dove arrivava la vista, ed egli aveva la vista lunga - dappertutto, a destra e a sinistra, davanti e di dietro, nel monte e nella pianura. Più di cinquemila bocche, senza contare gli uccelli del cielo e gli animali della terra, che mangiavano sulla sua terra, e senza contare la sua bocca la quale mangiava meno di tutte, e si contentava di due soldi di pane e un pezzo di formaggio, ingozzato in fretta e in furia, all'impiedi, in un cantuccio del magazzino grande come una chiesa, in mezzo alla polvere del grano, che non ci si vedeva, mentre i contadini scaricavano i sacchi, o a ridosso di un pagliaio, quando il vento spazzava la campagna gelata, al tempo del seminare, o colla testa dentro un corbello, nelle calde giornate della mèsse. Egli non beveva vino, non fumava, non usava tabacco, e sì che del tabacco ne producevano i suoi

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orti lungo il fiume, colle foglie larghe ed alte come un fanciullo, di quelle che si vendevano a 95 lire. Non aveva il vizio del giuoco, né quello delle donne. Di donne non aveva mai avuto sulle spalle che sua madre, la quale gli era costata anche 12 tarì, quando aveva dovuto farla portare al camposanto. Era che ci aveva pensato e ripensato tanto a quel che vuol dire la roba, quando andava senza scarpe a lavorare nella terra che adesso era sua, ed aveva provato quel che ci vuole a fare i tre tarì della giornata, nel mese di luglio, a star colla schiena curva 14 ore, col soprastante a cavallo dietro, che vi piglia a nerbate se fate di rizzarvi un momento. Per questo non aveva lasciato passare un minuto della sua vita che non fosse stato impiegato a fare della roba; e adesso i suoi aratri erano numerosi come le lunghe file dei corvi che arrivavano in novembre; e altre file di muli, che non finivano più, portavano le sementi; le donne che stavano accoccolate nel fango, da ottobre a marzo, per raccogliere le sue olive, non si potevano contare, come non si possono contare le gazze che vengono a rubarle; e al tempo della vendemmia accorrevano dei villaggi interi alle sue vigne, e fin dove sentivasi cantare, nella campagna, era per la vendemmia di Mazzarò. Alla mèsse poi i mietitori di Mazzarò sembravano un esercito di soldati, che per mantenere tutta quella gente, col biscotto alla mattina e il pane e l'arancia amara a colazione, e la merenda, e le lasagne alla sera, ci volevano dei denari a manate, e le lasagne si scodellavano nelle madie larghe come tinozze. Perciò adesso, quando andava a cavallo dietro la fila dei suoi mietitori, col nerbo in mano, non ne perdeva d'occhio uno solo, e badava a ripetere: - Curviamoci, ragazzi! - Egli era tutto l'anno colle mani in tasca a spendere, e per la sola fondiaria il re si pigliava tanto che a Mazzarò gli veniva la febbre, ogni volta. Però ciascun anno tutti quei magazzini grandi come chiese si riempivano di grano che bisognava scoperchiare il tetto per farcelo capire tutto; e ogni volta che Mazzarò vendeva il vino, ci voleva più di un giorno per contare il denaro, tutto di 12 tarì d'argento, ché lui non ne voleva di carta sudicia per la sua roba, e andava a comprare la carta sudicia soltanto quando aveva da pagare il re, o gli altri; e alle fiere gli armenti di Mazzarò coprivano tutto il campo, e ingombravano le strade, che ci voleva mezza giornata per lasciarli sfilare, e il santo, colla banda, alle volte dovevano mutar strada, e cedere il passo. Tutta quella roba se l'era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll'affaticarsi dall'alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule - egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch'era tutto quello ch'ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba. Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l'aveva raccolto per carità nudo e crudo ne' suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro, pareva il re, e gli preparavano anche

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l'alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l'ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. - Costui vuol essere rubato per forza! - diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: - Chi è minchione se ne stia a casa, - la roba non è di chi l'ha, ma di chi la sa fare -. Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all'improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe. In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì prima dall'uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non era rimasto altro che lo scudo di pietra ch'era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: - Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te -. Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l'avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro. - Questa è una bella cosa, d'avere la fortuna che ha Mazzarò! - diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l'acchiappava - per un pezzo di pane. - E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! - I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurarlo di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l'asinello, che non avevano da mangiare. - Lo vedete quel che mangio io? - rispondeva lui, - pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba -. E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: - Che, vi pare che l'abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle? - E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l'aveva. E non l'aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra

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quanta ne ha il re, ed esser meglio del re, ché il re non può ne venderla, né dire ch'è sua. Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov'era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: - Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente! – Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all'anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: - Roba mia, vientene con me! -

DELFINA

Ceci n'est pas un conte

DIDEROT

Senza dubbio l'avevo veduta un'altra volta. Ma dove? Ma quando? Per tutta la giornata non ci fu verso di ricordarmene. E volevo rivederla, interrogarla, riannodare con lei una di quelle amicizie che cominciano da un nonnulla e diventano infine, massime trattandosi di donne, qualcosa di più intimo dell'amicizia, un amore, che so io? Anche un matrimonio; ma dove cercarla? Come farmi intendere dalle persone che avrei dovuto interrogare?

Intanto l'immaginazione lavorava senza posa, e il cuore si accalorava e batteva più forte. E più mi accanivo a trovare nella memoria un ricordo di lei, più i miei dubbi si accrescevano e le incertezze diventavan maggiori.

Il suo aspetto non mi sembrava punto cambiato. Erano scorsi degli anni, ma ella aveva conservato intatta la sua freschezza giovanile. Quel che di lievemente roseo e di diafano della sua pelle; quella delicata bianchezza delle sue mani; quella gentile e, direi quasi, carezzevole flessibilità della sua personcina: quell'incanto dell'andare, del muoversi di tutto il suo corpo bello di proporzioni e di struttura; tutto era rimasto tal quale, senza il menomo cambiamento. La voce dapprima, la voce soltanto, mi parve sonasse un po' diversa da quella di una volta. Il suo tono vivo, argentino si era alquanto abbassato, e aveva preso un che indefinibile di piú melodioso e di mesto che un giorno, mi sembrava, non ci era affatto. Ma riflettendo meglio, credetti di scorgere un'uguale mestizia nei suoi occhi, anzi un po' piú apertamente manifesta che non fosse nella voce. Che cosa le era accaduto? E, innanzi

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tutto, come si trovava ella in Catania? Le cento interrogazioni che mi rivolgevo affollatamente rimasero per quel giorno tutte senza risposta.

La mia memoria ha di rado un vivo ricordo dei luoghi e delle fisonomie; è un difetto che non son riuscito a correggere per quanto me ne fossi impegnato. Il giorno appresso però i luoghi mi vennero in mente con notevole precisione. Ricordavo benissimo di aver veduto quella donna in Firenze quattro o cinque volte, non piú, sui Lungarni, alle Cascine, a San Miniato al Monte, in casa di una persona a me carissima, la quale amareggiò da indi a poco la mia vita con un'indegna azione. Ricordavo di averle anche indirizzato una o due volte la parola; a che proposito e in quali circostanze mi era completamente sfuggito.

Non sapevo però capacitarmi per quale ragione l'impressione ora ricevuta fosse cosí potente da commuovermi, ed agitarmi come se io avessi riveduto in lei qualcosa di piú che una semplice conoscenza. Le sensazioni di cinque anni fa si erano rinnovate, rese piú appariscenti. Avevo tutto l'agio di osservarle, di studiarle; e piú le fissavo piú si facevano intense e fresche, tanto da produrmi l'illusione di una realtà lí presente. Gli atteggiamenti, i vestiti, la voce, il sorriso mi ritornavano alla memoria netti, precisi, benché avessi la certezza che allora ci avevo badato assai poco; e questo fenomeno cosí strano o molto fuor del comune contribuiva in gran parte ad accrescere la mia curiosità.

Ritornai due giorni di seguito alla Villa Bellini, gironzolai per le principali vie della città senza lasciar passare inosservato un sol viso di donna; ma nulla di nulla. Corsi al Grande Albergo. Chiesi ad un cameriere se vi fosse alloggiata una signora piccola, delicata, bionda; una lombarda dall'abito color perla, con un cappellino di velluto nero a fiori turchini, un manicotto di vera martora e un mantello color marrone a frange della stessa stoffa (indicazioni troppo vaghe e confuse, ma non potevo darne delle altre). Il cameriere rispose di no. Gli sembrava però di aver veduto, giorni fa, entrare nell'albergo una persona che quasi corrispondeva a quelle indicazioni; ma, dopo aver mangiato alla tavola rotonda, era ita via.

- Sola? - chiesi ansiosamente - Sola, mi pare -. Quel «mi pare» intorbidò un pochino il piacere che avevo provato alla

prima parola. Corsi allo stesso modo per altri due o tre dei principali alberghi della

città e con ugual resultato Cominciavo ad arrabbiarmi. E piú che colla cattiva sorte, me la prendevo con me stesso. Perché non me gli ero avvicinato quando la incontrai sullo spianato della Villa? Ella mi aveva guardato a lungo, aveva quasi fatto le viste di riconoscermi; perché avevo esitato?

Passò una settimana. Quella donna mi aveva intanto messo il cuore sossopra. Già da due notti non chiudevo occhio. Ero, al mio solito, caduto in preda di una di quelle subitanee, irragionevoli passioni che mi han reso cosí infelice, e dal principio venivo condotto a non presagire nulla di bono per la mia salute e la mia pace. Avessi almeno potuto rivederla!

Il decimo giorno, un giovedí, mi recai alla Villetta della Marina, e stavo da un'ora appoggiato ad uno dei piloni del ponte della ferrovia, senza sentir nulla della musica e senza intender verbo di un lungo discorso del mio amico Michele che mi parlava di positivismo e di filosofia, un discorso opportuno! Divoravo cogli occhi tutte le signore che mi passavano davanti, provando spesso un sussulto, un fremito a un color di veste, ad un agitarsi di cappellino che scambiavo per la veste e pel cappellino di lei; e soffrivo una vera tortura

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in quel vano attendere, in quel frequente ingannarmi, in quel persistente sperare. Finalmente, quando la folla era piú densa, quando il passeggio era piú lieto e piú svariato, mentre la banda militare suonava il magnifico valzer del Fausto di Gounod, ecco affacciarsi al cancello della Villetta chi? Lei, proprio lei! E sola! Fui sul punto di venir meno, tanto il sangue mi rifluí violentissimo al cuore.

Passò davanti a me, a pochi passi di distanza; ma non potè vedermi, impacciata come pareva del rivolgersi degli occhi di tutti curiosamente su lei: sincero e tacito elogio della sua grazia, della sua bellezza e della sua eleganza. Un giovane uffiziale la salutò. Ella rispose con un piccolo cenno del capo ed un sorriso. Io ne avevo un gran dispetto. Un vivo sentimento di gelosia si era già destato a poco a poco dal fondo del cuore, e potevo a stento frenarmi di non impertinenzare tutti coloro che osavano metterle gli occhi addosso e far chiose e comenti.

Non volli avvicinarmele nemmen questa volta. Ero troppo commosso. Mi sarei imbrogliato. Tant'occhi si sarebbero fissati sopra di noi due! Ella girò pei viali, fermossi un istante sul ponticello di legno che cavalca il piccolo canale dove nuotano i cigni e uscí fuori della Villa. Lasciai Michele con un pretesto, deciso di seguirla con cuore tremante fino all'uscio di casa.

Le andai dietro un gran pezzo lungo la via Etnea, tenendomi sempre a distanza, ma non tanto che l'occhio potesse facilmente smarrirla. Evidentemente essa ritornava al solito posto della Villa Bellini. Avrei amato meglio che fosse andata a casa. Chi sa? Nella Villa Bellini mi sarebbe forse di bel nuovo mancato il coraggio di farmele innanzi.

Il mio turbamento infatti era straordinario davvero; ne stupivo io medesimo. Perché quella donna mi trascinava dietro a sé come legato da una catena invisibile, ma possente? Che sarebbe accaduto tra me e quella donna dopo che mi sarei fatto riconoscere? Speravo e temevo. La testa era confusa, il cuore palpitava rapidissimo. Riflettevo però come tutte le volte che mi era accaduto di amare avessi sempre amato a quel modo, con improvvisa violenza. In due, tre giorni l'amore era celeramente montato per tutti i gradini della passione, saltandone forse qualcuno; e prima che avessi avuto tempo di riflettere era giunto alla cima; forza era stato subirlo in santa pace, rassegnarsi a godere e a soffrire. Quello che in questo caso mi dava piú pensiero era un intuito confuso, inesprimibile di un passato che la memoria non riusciva ad afferrare; un sentimento egualmente confuso ed inesprimibile di gioie amare, di dolori profondi che l'avvicinamento di quella donna mi avrebbe fatto patire. Eppure la seguivo, e con acre voluttà avevo a poco a poco fatto sparire la distanza; talché, passato appena il cancello della Villa Bellini, mi ero trovato a pari passo con lei.

Si volse, ci guardammo un momento, io aspettando che fosse lei la prima a farmi un accenno, ella quasi tacitamente richiedendo ch'io fossi il primo a rompere quel diaccio importuno. Ci risolvemmo tutti e due nello stesso punto, tutti e due pronunziammo con vera soddisfazione un unisono «Oh! Lei!» e ci stringemmo la mano.

Cominciò una conversazione disordinata, arruffata. Eravamo impacciati allo stesso modo. Si taceva, ci facevamo delle domande, si tornava a tacere. Io godevo ch'ella potesse notare la mia confusione. - La donna - pensavo - è cosí acuta! Ne indovinerà subito il motivo. Qual donna non ha avuto la certezza di essere amata almeno due mesi avanti di sentirselo dire? Ci fermammo innanzi alla gabbia delle tortorelle e dei fagiani. Io dissi una delle solite trivialità sull'amore pacifico delle tortorelle. Ella notò invece il fagiano

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dal mantello bianco brizzolato, dalla cresta rossa, vellutata, che passeggiava altiero attorno alla modesta sua femina e di tanto in tanto la beccava.

- Creda - ella disse - non son le tortorelle l'ideale del la donna. Ecco una grulleria data ad intendere dai poeti! Se tutte le donne avesser agio di vedere questa scena dei fagiani, le direbbero di una voce che voglion essere amate a quella guisa. Il ragionare si metteva su di una buona via. Ma io tacqui, assorto com'ero in ciò che udivo; beato di vedere le sue labbra piccole, rosee, sottili muoversi e dare il varco ad una voce flautina, la quale pareva uscire proprio dal profondo del petto.

Sedemmo sur uno dei sedili dello spianato, a mano destra della cattiva statua di Androne. Non c'era anima viva. La giornata non pareva di gennaio. Il cielo limpidissimo. Il sole caldo come nel maggio. Le campagne attorno coperte di verde come nel meglio della primavera. L'aria tiepida, profumata, voluttuosissima.

- E non l'ha piú riveduta? - fece ella, riattaccando improvvisamente il discorso (Accennava alla persona un dí a me cara che aveva poi, come dissi sul principio, avvelenata la mia vita con una indegna azione.)

Risposi col capo di no. Guardavo ora il suo irrequieto piedino imprigionato in un elegantissimo stivaletto, ora le sue manine rivestite di guanti color perla, pari all'abito (lo stesso abito di quando l'avevo incontrata l'altra volta), ed ero come trasognato.

- Sono stata troppo importuna - soggiunse subito quasi mortificata - richiamandole alla niente dei dolorosi ricordi. Gliene chiedo perdono. La piaga non ha forse ancora fatto il margine, ed io…

- Ella s'inganna - mi affrettai a rispondere - non vi è nemmen cicatrice. Quella persona, quei fatti son già per me divenuti assai meno che un ricordo, quasi meno che un sogno. Sa? Io ho un'abitudine poco comune (forse dovrei dire: un singolare organismo); dei casi della vita ricordo i lieti soltanto. Mi pare che i dolori si succedano cosí frequenti nei pochi giorni della nostra esistenza da non dover poi tenerli, come si suol fare, in gran conto. Chi ne avrà mai difetto? Ma le gioie! Ecco: io ho segnato con delle gioie, piccole o grandi importa poco, i piú notevoli punti della mia vita… Dio volesse potessi aggiungervene presto un'altra che oso appena sperare!

- Ah! - esclamò ella con un tono tra la sorpresa e il disinganno. Ed abbassò il capo e chiuse gli occhi come per raccogliersi meglio e pensare.

A me pareva di aver detto, colle ultime parole, una gran cosa. Se ella fosse stata curiosa di domandarmi qual'era quella gioia che osavo appena sperare, la risposta era pronta sulle mie labbra; non l'avrei fatta mica attendere. Ma quell'«ah!» pronunziato a quel modo! Restammo silenziosi un buon pezzo.

Io avrei voluto rimaner lí, al suo fianco, per tutta l'eternità. Ero, oso dire, inebriato dal dolce profumo della sua persona, e godevo in vedere il fascino che mi aveva soggiogato, accrescersi a dismisura, invadermi e penetrarmi tutto con sensazione ineffabile.

Quei popoli che chiamano il fiore e la donna collo stesso nome, hanno indovinato un mistero. Vi son dei momenti però nella vita della donna nei quali il suo profumo si spande piú soave e piú ricco intorno a lei. Che un uomo capace di gustarlo e di apprezzarlo le passi allora di accanto, foss'anche alla sfuggita; sarà vinto, ammaliato, non potrà non amarla. Or io in quel punto non respiravo altro che questi divini profumi. Ad ogni boccata d'aria me gli sentivo confondere col sangue, immedesimar proprio colla pura essenza dell'organismo.

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Già i minuti, segnati dal battito accelerato del mio cuore, contavano piú assai degli anni nella vita di quell'affetto nato da poco oltre una settimana. Piú stavo lí, al fianco di lei, e piú un'intima, rapida trasformazione mi faceva perdere il senso della realtà e delle convenienze sociali Mi pareva naturale ch'ella dovesse aver coscienza di ciò che il suo potere aveva operato dentro l'anima mia; mi pareva ancora piú naturale ch'ella sentisse nel suo cuore quel profondo rimescolarsi della vita che io provavo nel mio. Sicché il tagliar corto a tutti i preamboli, il fare a meno delle delicate transizioni, il lasciar da banda le riguardose reticenze mi sembrava una cosa non solo opportuna, ma urgente. Come la vita interiore, che batteva il suo ritmo sublime in noi due, non aveva niente di comune coll'andare ordinario del mondo, cosí non era sciocchezza l'assoggettarla nella sua rivelazione alle stupide leggi del mondo?

Io pensavo questo e ben altro durante quei momenti di silenzio, mentre gli occhi si deliziavano nella contemplazione di quella bellezza gentile. Ed ella intanto a che mai pensava? Sembrava assai trista. I suoi occhi stavano, è vero, fissati sull'Etna che si elevava orrido e maestoso lí rimpetto, ma pareva guardassero senza vedere. Da certi quasi impercettibili movimenti della pupilla, da certo sorriso leggiero e sfumatamente ironico che appariva ad intervalli sulle sue labbra, io capivo benissimo che quell'anima era anch'essa agitata; che un mondo forse di ricordi, forse di sogni e di speranze si muoveva confuso innanzi alla sua mente e la rapiva e teneva assorta. Ma, entrava il mio povero fantasma in un breve cantuccio di quel mondo? O era ella tanto lontana da me col cuore quanto io le ero vicino?

Scosse e levò in alto, sospirando, la bionda testina, come per cacciar via i tristi pensieri che le si affollavano innanzi, e si volse a me cogli occhi e colle labbra sfavillanti di una luce e di un sorriso inattesi. Io, che non avevo perduto il piú piccolo dei suoi movimenti, le avevo letto nell'anima. Mi era parso di vederla fortemente lottare, esitare a lungo, poi decidersi a un tratto con risoluzione improvvisa. Aspettavo quindi ansioso che da quelle sue labbra cosí fresche e cosí belle uscisser parole da spiegarmi il mistero.

Giacché io non avevo siffattamente perduto il senso della realtà da non piú comprendere che quanto accadeva tra me e quella donna non fosse una cosa ordinaria; ma, circostanza ben strana, non ne provavo meraviglia. Vi sono certe situazioni dello spirito cosí complicate e sorprendenti, che un breve minuto può talvolta formare il tormento e la consolazione di tutta la vita. In quel punto (lo sentivo senza intenderlo) mi trovavo in una di esse.

- Chi l'avrebbe mai creduto - diss'ella cavandosi un guanto - che un giorno ci saremmo riveduti qui, in faccia al suo Etna e con questo magnifico sole che quasi sembra ci festeggi? Eppure, ora che ci siamo, mi par la cosa piú naturale del mondo

- Le cose piú naturali - risposi - non sono punto quelle che piú facilmente comprendiamo. Potrà ella, per esempio, spiegarmi perché non ebbi il coraggio di avvicinarmele la prima volta? Perché la memoria non mi diè subito i ricordi che la mia curiosità le chiedeva? Perché questi ricordi mi si destarono in mente a poco a poco, provocando nel cuore un lavorio, un turbamento, una smania che non si sono ancora acchetati? Intanto, che cosa di piú naturale?

- Davvero? - E questa parola fu da lei pronunziata con un accento cosí dolce e cosí

nuovo che voleva significare mille sentimenti ad una volta, cioè una sorpresa ingenua, una gioia pudica, una soddisfazione, un rimpianto, qualcosa di

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appassionato e di triste, d'infantile e di materno che mi colmarono di stupore e mi fecero perdere il cervello.

Senza che io me ne accorgessi, senza alcuna sua resistenza presi tra le mie mani una delle sue manine e accarezzandogliela (non osavo ancora stringerla) tutto di un fiato le dissi:

- Sí, Delfina, nulla di piú naturale, quantunque nulla di piú arcano. A certi istanti, lo confesso schietto, ho avuto fin paura, osservando lo sconvolgimento di tutto l'esser mio che la sua persona ha operato. Ero lieto, tranquillo, spensieratissimo. La vita mi correva come un limpido ruscello tra le aiuole di un giardino. Provavo anzi un immenso piacere nel ricordare il passato cosí buio, cosí tristo e confrontarlo col presente. Non temevo, non speravo nulla dall'avvenire. Vivevo come un fanciullo… Mi riposavo della vita… Ed ecco, Delfina, veggo lei… e tutta questa pace incantevole, tutta questa felicità semplice, ma benefica, sparisce ad un tratto! Non mi sento però infelice. L'arcano è qui! È un nuovo mondo che sta per aprirsi all'anima mia. Lo sento… ne son certo; e la chiave è tra le sue mani. Sarà, mi pare, una felicità diversa ma non meno bella; agitata, ma non meno benefica… Fosse anche un dolore! Non monta nulla! Ho un presentimento vago, indeterminato, che cotesto dolore mi dovrà esser caro piú di molte e molte gioie… Ben venga dunque! Oh! Creda! Io, io pel primo, son cosí sorpreso di quanto le sto dicendo e di quel che le dovrò dire! Ma c'è dentro di me una forza superiore alla mia volontà che mi costringe mio malgrado. Una voce insistente mi susurra all'orecchio: «o ora, o non mai!» ed io parlo e parlo senza nulla curarmi di ciò ch'ella può pensare! La mi perdoni, Delfina!… Vorrei meglio dire: perdonami, Delfina!… Tornerebbe lo stesso… E oramai!… Mi son messo fuor della legge, e mi piace di starci. Che avverrà di me? Non mi curo di saperlo. Quello che io so di certo è che non ho mai provato nulla di simile, e che tutto è mistero. Quello che io so di piú certo è che vi sono al mondo due sole parole per rivelare le mille sensazioni che in questo momento mi opprimono, e sono: t'amo!

Qui, come se queste due sillabe pronunciate basso e all'infretta mi avessero scottato le labbra, baciai commosso la sua mano quasi per attutire il bruciore con qualcosa di fresco, e mi alzai atterrito del mio insolito ardire. Se qualcuno ci avesse già visti! Girai gli sguardi da ogni lato. Fortunatamente nei viali piú lontani non appariva persona. Mi voltai allora trepidante verso di lei. Che avrebbe ella risposto?

Ella mi guardava sorridente, quasi tranquilla, cogli occhi che nuotavano nelle lagrime a stento rattenute. Il suo petto si alzava e si abbassava con una respirazione accelerata. Nulla però che accennasse o la sorpresa o lo sdegno. Pareva piuttosto quasi trasfigurata e come raggiante. Il suo volto acceso d'una fiamma leggiera aveva rapidamente acquistato un che di piú diafano meraviglioso. Gli sguardi, il sorriso le spandevano attorno alla fronte ombreggiata dal cappellino un'aureola a dirittura. Non sembrava piú dessa.

Io non mi sarei punto imaginato ch'ella potesse mai divenir bella a quel grado, e il piacere e la meraviglia che ne provavo guardandola mi fecero dimenticare per poco ciò che accadeva fra noi due. Infatti quando corsi a sedermi nuovamente al suo fianco, ero cosí fuor di me da non capire piú né quel che facevo, né dove mi trovavo.

Ella prese, alla sua volta, la mia mano, e stringendola forte: - Grazie, Eugenio - esclamò; - grazie! - Né potè piú proseguire. Era troppo commossa Tratteneva a stento i

singhiozzi.

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- Oh sí - continuò dopo essersi alquanto rimessa in calma; - noi siamo avviluppati dal mistero. Non viviamo forse in questo momento fuori del mondo? Non siamo come sopraffatti da una magica potenza che par trasmuti ogni cosa attorno e dentro di noi?… Eugenio! - indi soggiunse dopo un istante di esitazione - pensi di me quel che lei vuole; mi creda pure una matta, mi creda, che piú? una sciagurata, la quale abbia perduto ogni pudore… ma io non tacerò per questo, non posso affatto tacere! Io presto cieca fede a tutto quello che or ora mi ha detto; non la credo capace di mentire. Un uomo che fingesse avrebbe fatto altrimenti… Ma sia! E cominci pure col disprezzarmi. Son sicura che alzandosi da questo sedile ella mi avrà piú amore, perché mi avrà piú stima. La sua stima mi è cara. Questo momento, non è vero? È per lei proprio inatteso. Ma io, io l'ho invocato a lungo, l'ho sospirato degli anni, non ho mai disperato che giungesse! Dal giorno che la seppi partito da Firenze, pallido, sofferente, quasi sfinito di forze, da quel giorno fino alla mattina che il vapore mi recò a Siracusa io non sognai altro che la Sicilia, quest'immenso giardino. Quante ore passate ad imaginarmi queste città cosí diverse dalle nostre, la sua casa, la sua famiglia! E, a giorni, come fui felice per la sola illusione di avere, con un miracolo dell'amore, veduto davvero!

- Ma scusi, Delfina! - balbettai io, che a quelle parole mi sentivo sconvolgere il senno - Ho io inteso bene? Un miracol dell'amore? Possibile? Dio mio! Possibile?

- È una storia breve, trista, semplicissima; ma è tutta la mia vita. Stia dunque a sentire Sono di già cinque anni e par proprio ieri! L'Emilia mi trasse fuori della sala ove era riunita la solita società di casa F***, e mi condusse nel salottino verde facendomi trattenere in mezzo all'uscio. Aspettava lei. Voleva parlarle prima che fosse visto dagli altri. Io ero ritornata in Firenze da fresco Ero stata a Pisa sei mesi col babbo, e però poco o nulla sapevo del loro amore. L'Emilia cominciò, non richiesta, a dirmi ogni cosa, e con un tono cosí ironico e pungente ch'io previdi subito una rottura. Però dal discorso, tutto pieno di pretesti, non ci volle molto a comprendere che il torto stava dalla sua parte. Allora, Eugenio, mi entrò nel cuore una grande pietà di lei! Pensai: chi sa com'egli l'ama?… E intanto!

E insieme alla pietà un sentimento di disprezzo per quella trista ragazza; vergognai di esserle amica. L'Emilia diceva di averle scritto una letteraccia, proprio cosí: ed era ansiosa di sapere in che modo l'avesse lei presa.

«Ma insomma - le dissi - tu vuoi romperla ad ogni costo!» «È troppo serio - mi rispose - i mutrioni gli abborrisco» «Questo cuore non ha mai amato! Una simile leggerezza sarebbe

inesplicabile. Ha creduto di amare e si è illuso!» pensavo io per vincere la mia stizza. Ma m'ingannavo. Quel cuore calcolava!

Suonò il campanello Era lei. Io mi nascosi frettolosa nella stanza appresso e dietro la tappezzeria

potei sentir tutto e vedere… Tremavo, sudavo diaccio. Non mi ero mai trovata a un caso simile. Intesi il suo passo sul tappeto della stanza, poi la sua voce che pronunziava affettuosamente il nome di Emilia… Ci furono alcuni momenti di silenzio. Indi cominciò tra voi due un dialogo che mi è rimasto impresso nella memoria parola per parola, un dialogo straziante, una vera lotta dell'amore colla freddezza e coll'egoismo, ma dignitosa e sublime! Quanta passione nelle sue parole! Quanta mestizia nel suono della sua voce

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commossa! E insieme quanta fierezza nei suoi sguardi e quanta nobile alterezza in tutto il suo contegno!

L'Emilia godeva e fremeva. Vedersi vinta nel suo stesso trionfo! Non se la sarebbe aspettata. Già la rottura, dall'indirizzo del ragionamento, si poteva omai dire inevitabile… Era lo scopo della letteraccia e di quell'abboccamento preparato con arte… Ma il modo le spiaceva, la contrariava; la si sentiva avvilita.

Eugenio! È impossibile far capire ciò che io provai in quegli istanti. Ascoltavo trattenendo il respiro, col cuore che mi batteva violentemente nel petto, come se da quel discorso fosse dipesa la felicità o l'infelicità della mia vita. Vi fu un punto in cui non seppi piú frenarmi di trarre la tappezzeria un pochino da parte per meglio udire non solo, ma anche per vedere. L'Emilia era stesa sulla poltrona, cogli occhi bassi, il viso contratto, e rodeva rabbiosamente la punta del suo collare di merletto… Ella invece stava in piedi, lí presso, col viso bianco come un cadavere, il capo abbassato e le mani immobili nelle tasche dei pantaloni. Di sotto le sue sopracciglia scappavano certe occhiate che pareva volessero fulminare. Parlava con accento basso, represso, profondo: la voce tremava. Quale scena per me! Non potrò mai dimenticarla.

Finalmente ella si scosse, passò una mano fra i capelli e sulla fronte, fece un moto colle spalle e poi disse:

«Addio, Emilia! Non ci pensiamo piú!» Ma non si mosse. Attendeva forse una risposta. L'Emilia tacque. Ella,

indegnato, voltò allora subito le spalle e andò via di corsa. Io avevo le lagrime agli occhi. Dovetti buttarmi su di una sedia per non

cadere a terra… Mi sentivo mancare «Poverino! - esclamavo; - poverino!» E non sapevo dir altro. Ma quella parola diceva tutto. Quando l'Emilia mi chiamò per rientrare in sala, io non potei trattenermi

dal dirle: «Sei stata crudele! Hai commesso una vera indegnità! Mi hai fatto

proprio male!» Ritornai a casa come istupidita, e corsi con un pretesto a mettermi

subito a letto. Non potei chiuder occhio. L'avevo sempre dinanzi! E dentro le orecchie la sua voce! Era una cosa non mai provata per me. Il giorno appresso stetti sempre attristata, silenziosa, esclamando di quando in quando: «Poverino! Chi sa che farà mai? Come dovrà soffrire a quest'ora! Se potessi consolarlo! Oh, lo farei volentieri!»

E mi arrabbiavo di esser donna. Poi stupivo di quel nuovo stato dell'animo mio, e mi chiedevo, spaurita, che voleva egli dire; ma non riuscivo a darmi una risposta, o rispondevo soltanto: «Passerà!»

Ma non passava. I giorni si seguirono: il mio turbamento divenne maggiore. Provavo una smania di rivederla, rivederla da lontano, anche senza esser vista da lei… e quando, tre o quattro giorni dopo, io lo incontrai sui Lungarni, presso al ponte alla Carraia, appoggiato alla spalliera del fiume, cogli occhi fissi sulle acque, mi sentii dare un tuffo al sangue: mi parve di morire, tanta fu la stretta del cuore.

Allora cominciò per me un vero martirio senza nome. Che giornate! Che settimane! Che mesi! La sua imagine era diventata una necessità dell'anima mia; non sapevo saziarmi di fissarla e di adorarla. Amai quindi il mio patimento, e mi compiacqui di prolungarlo e di gustarmelo da tutti i lati. Mi pareva, che mattezza! che quel mio affetto cosí segreto, cosí fuori d'ogni speranza dovesse servirle di consolazione, di compenso pel vile tradimento

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dell'Emilia; e credevo che per cotesto santo fine non avrei mai patito abbastanza!

Era la prima volta, che il cuore mi si apriva alla vita ineffabile dell'amore! Né doveva amare piú mai!

Tre mesi dopo ella lasciò Firenze e la Toscana quasi disperato della salute. Il mio dolore fu immenso! L'unico e debole filo di speranza di che osavo talvolta lusingare i miei sogni e i miei delirii, si spezzava ad un tratto. Già tra me e lei, credevo, c'era omai di mezzo l'infinito. Dio mio! E sarei morta senza essere riamata un istante; senza che l'amor mio fosse da lei conosciuto! Potei rassegnarmi anche a questo; e divenni, se era possibile, piú sua; giacché mi strinsi, giurando solennemente, ad un voto: non mi avrebbe avuto alcun altri! Ho mantenuto.

Due anni appresso sposai, per crudele necessità di famiglia, un uomo il quale mi amava davvero, piú di quel che non meritassi e mi ama sempre. Sposa fedele, obbediente, servizievole, io non gli ho concesso che il mio corpo. Oh l'anima mia, no, non l'avrà mai! Son io colpevole? Non lo so; non voglio saperlo. Quando anche la fossi? Per me val lo stesso. Già ho tentato di amarlo, ma non ci son potuta riuscire. Tu, Eugenio, sei rimasto nella mia mente come una figura celestiale, bello di giovinezza immortale, sempre lo stesso, sempre l'Eugenio di quella sera fatale, col cuore immeritamente lacerato, coll'anima nobilmente dignitosa sotto un'onta vigliacca, e la tua immagine si scancellerà dal mio petto coll'ultimo respiro della mia vita!

Quando mio marito mi annunziò che il suo officio d'ingegnere delle strade ferrate lo chiamava in Sicilia, fui, dalla contentezza, sul punto di ammattire. Mi pareva che la Sicilia fosse come una sola città e che ti avrei infallibilmente riveduto. Ahimè! Messina, Siracusa, Augusta, Catania dove saresti tu mai? Avrei voluto fin morire in Sicilia per rimanerti vicina!

Giorni fa, oh! tu non puoi credere che festa fu la mia! E insieme che tormento! «Non mi ha riconosciuta!» dissi all'amica che avevo allato.

Ma non voleva dir nulla! Ti avevo trovato! Finalmente! Ed ero decisa a cercarti. Oh non volevo andar via cosí lontano, in

Oriente, senza dirti il mio segreto, senza sgravarmi il cuore da un peso affannoso!… Come sono ora felice!

Tu mi dimenticherai presto lo so; ma che m'importa? Mi hai amato un momento, almeno me l'hai detto, e voglio illudermi e credere. Non osavo sperar tanto. Ripetimelo! T'amo anch'io, Eugenio! T'amo! T'amo!

Ed ora andiamo via - soggiunse tosto - e si levò da sedere - Delfina! Delfina! - esclamai trattenendola per la mano, né sapendo

aggiunger altro - Lasciami! Andiamo! - diss'ella con un accento dolce e quasi di

preghiera - Ma quando, ma dove potrò rivederti? - le chiesi allora atterrito - Rivedermi? - fece ella, diventando seria tutto ad un tratto - Rivedermi?

Mai piú! Credi che io sia tanto forte da sfidare il pericolo? No, Eugenio. Sono stanca. Lasciami, andiamo per pietà!

Non le ritenni piú la mano e il suo braccio cadde come un corpo inerte. La guardai in viso. Un pallore mortale aveva improvvisamente tinto le sue guance e scolorito fin le sue labbra

- Tu soffri? - le chiesi piú atterrito di prima - T'amo! - rispose con voce spenta. E si avviò a capo chino Fatti pochi passi, si rivolse verso di me che le tenevo macchinalmente

dietro.

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- Ti chiedo una grazia - disse, sforzandosi ad un sorriso: - mi giuri di accordarmela?

- Te lo giuro! - risposi non sospettando nulla di quel che avrebbe richiesto.

- Non seguirmi! - Oh! - Hai giurato! - riprese con autorevole dignità - Poi è inutile rivederci!

Domani l'altro partirò con mio marito per Costantinopoli, ove la società delle ferrovie lo manda a dirigere e a sorvegliare i lavori. Perché metterci al repentaglio di mutarci in un rimorso questi tristi, ma grandi, ma solenni momenti di gioia? -

Scendemmo pei viali, silenziosi come due condannati a morte; io traendo a stento i passi, senza vedere né pensare; Delfina lesta e quasi affrettata. Giungemmo al cancello.

- T'amo! - ella mi disse sottovoce come addio, e mi strinse la mano. - T'amo! - risposi. E mi appoggiai ad uno dei candelabri che sono lí

innanzi. Si allontanò per la via diritta andando in su, poi torse a destra. E

quando vidi sparire dietro la cantonata l'ultimo lembo della sua veste, mi parve che metà della mia vita fuggisse via dietro a lei!

I vecchi

Erano seduti sulla panchetta a strisce gialle e rosse, sotto i platani nudi, e il

viale del giardino si allungava dinanzi, allagato dal sole, tra due file di statue sulle basi delle quali l'edera s'abbarbicava. In fondo, la montagna tutta candida di neve, come una campana di zucchero.

Uno era piccolo, giallognolo, con un collare di barba bianchissima: teneva una fascia di lana sulle spalle e le mani appoggiate al pomo d'avorio antico di un grosso bastone. L'altro era robusto, rosso nel viso tutto sbarbato e liscio malgrado l'età: il colletto della camicia si abbatteva sul bavero della giacca di panno grossolano, mostrando a nudo il collo bronzino. In mezzo a loro, due soldati che parlavano in dialetto.

Il grande vecchio gettava di tanto in tanto delle occhiate timidamente curiose sui militari, esaminando le ghette di tela che ricoprivano gli scarponi, i pantaloni filettati di rosso, le stelline del bavero, la sciabola-baionetta. D'altro lato, il piccolo vecchio si passava a momenti una mano sulla bocca, tossiva, si guardava intorno, come preparandosi a dire qualche cosa e non sapendosi ancora decidere.

Rannicchiatosi meglio nel suo angolo, chiese finalmente: - Lor signori sono continentali? I soldati continuavano a parlare, come non fosse. Dopo un poco, egli tossi di nuovo, più forte e riprese: - Di che paese sono lor signori? - Mi sun mudnes - rispose il soldato che gli stava vicino, e riattaccò il

discorso col suo compagno. Il vecchio parve meditare un poco quella risposta; cavò di tasca un

fazzoletto a scacchi rossi e neri; si soffiò il naso scuotendo il capo, rimise in tasca il fazzoletto dopo averlo piegato accuratamente, e ripigliò:

- Quanto hanno ancora da stare sotto l'armi?

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Il soldato chiese, bruscamente: - Cuss l'ha ditt? - Dico, se tornano a casa presto? - Minga adess! - e si mise a ridere. L'altro vecchio stava a sentire, guardando discretamente. Pel viale, a

quando a quando, una carrozza sfilava, al passo; dei ragazzi si rincorrevano, sotto gli occhi delle governanti.

Come i soldati si alzarono, una balia venne a prendere il posto vuoto. Il bambino girava intorno gli occhi senza sguardo, col braccio disteso, annaspando.

Il piccolo vecchio riprese ad armeggiare, cercando di attaccar discorso. Sorrise al piccolino e gli mise sotto il naso il manico d'avorio del suo bastone.

- Bellino!... Bellino!... Come si chiama? Quello fece una smorfia e scoppiò in pianto. - La ninna, Ninì; bello Ninì... - ripeteva la balia, sballottandolo. - La ninna di

mamma tua... Ma come il vecchietto gli mostrava ancora il pomo d'avorio, il bambino

ripigliava a piangere. Della gente si fermava; due seminaristi che si tenevano per mano ridevano.

Esaurito ogni tentativo, la balia andò via. I pretini sedettero al posto lasciato vuoto. Si cavarono entrambi i tricorni, posandoli sulle ginocchia, e avvicinate le teste tonsurate, cominciarono a parlottare.

Il vecchietto esclamò: - Bel tempo!... - Poi, rivolgendosi ai seminaristi: - Avete la passeggiata tutt'i

giorni? - Tre volte la settimana - e non gli dettero più retta. Allora egli si mise a scavare la terra con la punta del bastone, masticando

a vuoto; e come i pretini se ne andarono via anch'essi, tenendosi sempre per mano, egli si trascinò, lentamente, senza alzarsi, verso il grande vecchio, in modo che nessuno potesse sedersi più in mezzo. Arrestandosi a fianco del vicino, guardò per aria e disse:

- Bella giornata! L'altro rispose subito, con un tono di deferenza: - Bellissima giornata, sissignore! - La neve è a Nicolosi - e additava la montagna. - Nicolosi è qua; lì c'è

Trecastagni... Dall'altra parte, se uno scavalca il Mongibello, trova Bronte. Ci siete stato, a Bronte?

- Io, nossignore. - Io ci sono stato molto tempo, dopo il sessanta, un affare di ventisei anni

addietro... misuratore del catasto, che non era una cosa liscia... Bisogna sapere, già, prima di tutto, che coi Brontesi non si scherza... a segno, che successero i fatti del sessantuno...

Fece una piccola pausa, aspettando di essere interrogato; come l'altro lo guardava rispettosamente, pendendo dalle sue labbra, riprese:

- Io glie l'avevo detto, in Casino, ai signori, proprietari, civili, che il popolo non mi andava, e guadagnava la mano ogni giorno di più. A chi dicevo, a questo bastone?... Avevano il capo alla politica, che doveva arrivar Garibaldi, e i borbonici se ne stavano rintanati nelle loro campagne. «Ma badate che la mala gente va attorno!... che tiene consiglio nella taverna di Piede-di-banco!... che un giorno o l'altro non potremo più scender nelle vie!...».

- Giustamente!... - approvava l'altro, chinando il capo. Il vecchietto si grogiolava dentro il soprabito, si adattava meglio la fascia al

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collo, si tirava le maniche sulle punte delle dita e riprendeva: - A chi dicevo, a questo bastone? Niente!... Invece, davano loro fucili,

polvere e palle, col pretesto della rivoluzione; come se non fossero bastati i temperini, certi temperini lunghi così, che ognuno di quegli amici portava alla cintura!... Ma tanto va la secchia al pozzo, finché si rompe! E lascia fare oggi, e lascia far domani, finì col sacco e fuoco...

- Madonna del Carmine! - Il pretesto erano le tasse, che l'annata era stata cattiva e l'esattore

succhiava il sangue della povera gente. Ma la vera tassa era la vendetta, e il denaro del prossimo. Voi mi avevate fatto un torto? Io venivo a casa vostra, a farmi giustizia con le mie mani, sfondando, bruciando, ammazzando...

- Ma i civili, niente?... - chiese l'altro, passandosi una mano sul mento. - I civili?... Volevano scendere in piazza; non mandarono a chiamare anche

me? Fossi stato pazzo! Quando lo dicevo io, che si poteva mettere un riparo senza ammazzare una mosca, nossignore: «Questa è polvere! Questi son quattrini!... Abbasso Francesco II!...». Ora che il popolo si scatenava contro i cappelli, bisognava andare incontro a morte sicura; che prima di scendere in istrada dovevate confessarvi e comunicarvi!... Com'erano curiosi! Pelle una ne abbiamo, e pelle per pelle, sapete come si dice, meglio la tua che la mia!...

- Eccellente!... dice bene vossignoria!... - Se dico bene! Dio ci liberi a furore populi!... - Allora, il vecchietto si mise a

sentenziare, con un'aria di beatitudine, alzando un dito per aria: - Il popolo è come una bestia di cavallo, generoso, che si fa caricare come un asino, ma guai a toccargli la coda. Così sentite i giornali pigliarsela col governo, perché intasca le tasse. Io vorrei dir loro: O bestie, se pagate le tasse non avete il gas, le ferrovie e le scuole gratis?

- Sissignore! Tal'e quale! Il grande vecchio approvava sempre, deferentemente, tutti gli argomenti

dell'altro che citava la gazzetta e vantava la propria esperienza. - Io ne ho visto di tutti i colori, e mi fanno ridere, quando dicono!... Questi

che adesso vedete consiglieri e commendatori, prima erano borbonici più di Satriano. E non parliamo di chi mise fuori una bandiera al 48 o al 60! Invece, chi ha fatto il suo dovere!...

Com'egli si fermò un momento, piegando il capo a destra e a sinistra, l'altro che si grattava un orecchio volendo parlare anche lui e non osando interromperlo, disse:

- Anch'io ho vista la rivoluzione. - Sì? O quando? - A Leonforte, nel quarantotto... Ecco qua: io ero a Caltanissetta, col mio

padrone, l'intendente Ramondino, il prefetto di quei tempi. Un giorno, arriva un galantuomo da Leonforte, in carrozza, con una bandiera a tre colori; ma non diceva niente. La popolazione, come le mosche. Che si fa, che non si fa, l'intendente lo manda in fondo a un carcere... Tutt'in una volta, arrivano quelli di Palermo: «Se gli torcete un capello, qui non resta pietra su pietra; ci sono ventimila Palermitani pronti a marciare!». Voci, grida: «Viva Palermo!» e il galantuomo è liberato, che mentre si parlava di morte, festa e quarantore! L'intendente, visto come si mettono le cose, mi chiama e dice: «Calogero, io son padre di famiglia, dice, e me ne vado a Napoli: tu fai quel che ti piace: ma se vuoi venirtene a Napoli, ti raccomando di portarmi la roba...». Allora, c'era la bella gioventù, e la gioventù non conosce pericoli. Nientedimeno, me ne andai dal mio padrigno che era una bestia, sant'anima, più di me. Dico: «Il padrone vuole che gli porti la roba a Napoli; che cosa debbo fare?».

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«Portala» dice, «il padrone è un brav'uomo, tu sei giovane»; poi, dice: «carcere, malattia, necessità, si conosce l'amistà». Sia fatta la volontà di Dio; metto la roba in tredici carri, e la carrozza con la serva che fanno quattordici, e me ne vado per Castro-Giovanni. Arrivo a Leonforte. La piazza, piena come un uovo, e appena mi vedono: «Questa è roba dell'intendente; diamola al fuoco!». Viene uno e m'afferra pel colletto: «Tu ora vai fucilato!».

Il narratore s'era alzato, facendo il segno, con le braccia un po' tremanti, di sparare un fucile; l'altro, ammutolito, spingeva gli occhietti curiosi sul compagno ancora imponente malgrado la curvatura dell'età.

- Immaginate un po' che spavento! - Cose viste con quest'occhi; non racconto favole! Dunque, Beppe Franco,

non so se vossignoria l'ha sentito nominare, un pezzo di giovanotto alto così, punta il fucile e dice: «Carogna, sei morto!...». Frattanto, diciamo che il padrone, prima di partire, mi aveva consigliato: «Fatti una coccarda coi tre colori; se mai, ti potrà servire». Io avevo fatto la coccarda, e la tenevo sotto il ferraiolo, che non si vedeva. Allora, come Beppe Franco fa per sparare, io apro il ferraiolo e mostro i tre colori... Se no, ero spacciato! Ma andiamo che la popolazione gridava sempre: «A morte!... fucilato!...» e i carrettieri che tremavano come foglie! Viene quello, e dice: «Consegniamolo al comitato!». Mi tirano al comitato, che appena entriamo il portone si chiude dietro. Chi parla di qua, chi parla di là, e non si sapeva di che morte dovessi morire. Al comitato, c'era il cavaliere; il cavaliere San Vincenzo; e come mi vede, che ero stato anche al suo servizio, 'viene a dirmi: «Chi diavolo ti porta qui?». Io gli racconto tutta la storia, che venivo con la roba di Ramondino, e non sapevo niente. Frattanto il presidente mi domanda: «Di che paese siete?». Io dico: «Eccellenza, sono di Girgenti». Voleste vedere? Il cavaliere mi butta le braccia al collo: «È di Girgenti! Il primo paese che si è ribellato! Viva Girgenti! Viva la libertà!...». E così il mio paese porco mi salva la vita...

- Oh! Oh! Oh! - Il vecchietto si dimenava sulla panchetta, dal piacere, dalla meraviglia. Un piccolo cerinaro si era fermato lì innanzi e stava anch'egli a sentire.

- Allora, il comitato dice: «Facciamolo accompagnare a due miglia di via e se ne vada dove gli piace». Prima, vogliono le chiavi delle casse per vedere se c'era niente. Io dico: «Le chiavi non ve le posso dare, per la ragione, dico, che le ha il padrone». Un altro casa del diavolo! Basta, come Dio vuole, cinque nobili, gran signori, cacciatori, mi mettono in mezzo, per accompagnarmi a due miglia fuori il paese; una folla, gran quantità di torcie, fucili e pistole, le donne alle finestre: l'inferno! Il cavaliere mi tira pel soprabito e ci perdiamo in mezzo alla gente. Cammina, cammina, entriamo in una farmacia; il cavaliere mi raccomanda allo speziale e se ne va. Resto tre giorni chiuso; al terzo giorno, so che la roba è partita per Troina. Scappo, di notte; raggiungo la roba e la carrozza con la serva, e arrivo a Troina. Appena arrivo, viene uno, armato come un porcospino, e domanda: «Che roba è questa?». Quella bestia della donna non risponde: «È la roba dell'intendente?». Come se fossero tempi! Ma quello, vedendomi tramutato in faccia, dice: «Denari ve ne trovate?...».

- Meglio! - e il vecchietto strizzava un occhio, con aria d'intelligenza. Adesso anche il giardiniere si era avvicinato, e tutti restavano in ascolto come dinanzi ai cantastorie della Marina.

- Meglio difatti! Mi restavano, di denari, trent'onze, delle cinquanta che mi aveva consegnato il padrone; ne do dieci: «Bastano dieci onze?». Dice: «Vedremo quel che si può fare». E mi nasconde in un magazzino. Torna un

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giorno dopo: «Bisogna aspettare, dice; denari che ne avete ancora?...». A farla corta, tutte le trent'onze se ne vanno, a poco a poco. Allora faccio una pensata, di scrivere al padrone... Che padrone e padrone! Il povero signore era scappato, di nascosto, fino a Trapani; si era chiuso, lui, sua moglie e i bambini, dentro la stiva di un bastimento francese, ed era partito per Marsiglia...

- Oh che storia! che storia! - esclamò l'altro, ricavando di tasca il suo fazzoletto e portandoselo al naso.

- Aspetti, ancora non è niente! Arrivo, con la grazia di Dio, a Messina. Senza danari come si fa? Vendo la carrozza, che era costata trecent'onze - bisognava vederla! - la vendo per quarant'onze, a Litteri, dirimpetto l'ospedale. Vendo un asino, di tredici onze, per quaranta tarì...

Il vecchietto era rimasto col naso fra le dita e il fazzoletto pendente, immobile nella stupefazione.

- E m'imbarco con tutta la roba. Da Messina, il bastimento fa cinque miglia e torna indietro. Una tempesta dell'inferno, che le budella uscivano di bocca. Stiamo due giorni a Messina, e mettiamo una settimana per arrivare a Napoli. A Napoli arrivo il 14 maggio, giusto in punto per vedere il quindici. Vossignoria sa che cosa fu il 15 maggio?

- Sicuro, sicuro! - ma il misuratore del catasto non levava gli occhi dal vicino, aspettando curiosamente.

- Il 15 maggio era tutta Napoli in fuoco, con la rivoluzione che pigliava piede, e la truppa sotto l'armi: reggimenti della guardia, reggimenti svizzeri, battaglioni cacciatori: che il giovane del caffè Benvenuti si metteva ogni giorno alla finestra, col fucile spianato, per sparare addosso a Ferdinando, se si affacciava. Io ero dai parenti del padrone, che stavano chiusi in casa, dalla paura; ma, quanto a me, potevo andare dove mi piaceva, che i Siciliani erano trattati come signori. Quaranta mila Siciliani c'erano in Napoli, e quelli che non trovavano alloggio se li prendevano nelle case, a tre e a quattro per volta, come fratelli, viva la libertà! «Ma se i realisti vincono» mi dicevano i parenti del padrone, «tu vai fucilato!». Ora, la notte del quattordici, vennero a picchiare all'uscio, cercando legname, per barricate; vossignoria conosce, la strada murata...

- So bene, so bene; per sparare al sicuro... - Giust'appunto. Allora, fatte le barricate, la mattina alle undici e un quarto

prima di mezzogiorno cominciò il fuoco. Sa com'era il fuoco? Ha sentito i mortaretti, per Sant'Agata? Più forte, e fino alle cinque di sera, senza cessare un momento. Il comandante di Sant'Elmo - che la famiglia reale, se perdeva, doveva calarsi nei trabocchetti - aveva l'ordine di tirare cannonate sopra Napoli, che è tutta di sotto, come la palma d'una mano; ma bisogna esserci stato, per averne un'idea... Il comandante, invece, tirò tre sole cannonate, a polvere. Ma fino alle cinque, i realisti perdevano. Alle cinque vengono fuori il primo e il quarto reggimento svizzero; e, Madonna del Carmine! succede una carneficina: case sfondate, bruciate; uomini, donne e bambini: un macello, che nella notte Ferdinando fece nascondere tutti i morti, per non farli contare...

- Lo credo bene! - Ma se non erano il primo e il quarto reggimento svizzero, gliene

toccavano di quelle da dirle al medico. Il secondo e il terzo reggimento erano pronti a venir fuori, ma non ce ne fu bisogno... Andiamo intanto che in casa non c'era né pane né acqua, e la signorina era ammalata! Viene sua madre e si butta alle mie ginocchia: «Calogero, bisogna che tu vada a comprar la

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medicina!...». Vado fuori, a Dio la sorte, e trovo uno speziale, alla Carità; ma mentre faccio per picchiare, una pattuglia esce da San Liborio, e spiana i fucili... Madonna del Carmine, questa volta non c'è scampo!... Il sergente dice: «Inginocchiati!...». Come se le gambe mi reggessero! Io m'inginocchio, più morto che vivo. Dice: «Grida: Viva lo Re». Io non avevo fiato in gola; dico: «Viva lo Re!». E così sono salvo...

A un tratto il misuratore del catasto si alzò, incappucciandosi meglio nella sua fascia di lana: il sole era declinato e un brivido di freddo passava per l'aria.

- Tanti guai per la roba del padrone! - esclamò, sul punto di andarsene. - Se ero voi, dico la verità, la roba l'avrei spedita, ma io me la sarei battuta!

Modulo 2_ Decadentismo

U.D. 1_ Simbolismo IL SIMBOLISMO Il simbolismo è un movimento letterario e artistico sorto in Francia per iniziativa di Jean Morιas, che ne pubblicò il manifesto su "Le Figaro" del 18 settembre del 1886, lo stesso anno della pubblicazione della rivista "Le Decadent". I simbolisti pubblicarono numerose riviste, tra le quali spiccano le diverse riviste da cui il verbo simbolista si diffuse: Le Symboliste, La Plume, Le Mercure de France, la Revue blanche. Il simbolismo prende lo spunto da una della più celebri poesie di Baudelaire, «Correspondences» (corrispondenze), in cui il poeta francese scrive che tutte le cose hanno tra di loro un legame misterioso, per cui spesso una ne richiama l'altra, come un profumo o un colore o una musica richiamano ricordi e tempi lontani. LE CARATTERISTICHE

Per l'artista simbolista la realtà è mistero e la natura si presenta come una foresta di simboli che al poeta spetta di interpretare e svelare con un atto di intuizione–espressione.

Il poeta simbolista rifiuta la tradizionale logicità e referenzialità del linguaggio e ricorre a tecniche come il simbolo, l’allegoria, l’analogia, la metafora ricercata, la sinestesia1, gli accostamenti imprevisti e misteriosi, le accumulazioni apparentemente insignificanti, l’uso sapiente e simbolico degli spazi bianchi, degli artifici tipografici e iconici. La poesia deve comunicare in forme non razionali, che trovano il loro grande modello nel linguaggio della musica.

La parola poetica deve ricreare magicamente la realtà.

1 sinestesia: la sinestesia è una particolare forma di metafora con cui vengono accostati termini che appartengono a sfere sensoriali

diverse (olfattiva, visiva, auditiva e tattile).

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«Il verso è tutto e può tutto. Può rendere i minimi moti del sentimento e i minimi moti della sensazione; può definire l’indefinibile e dire l’ineffabile; può abbracciare l’illimitato e penetrare l’abisso; può avere dimensioni d’eternità; può rappresentare il sovraumano, il soprannaturale; può inebriare come un vino, rapire come un’estasi; può nel tempo medesimo possedere il nostro intelletto, il nostro spirito, il nostro corpo; può, infine, raggiungere l’Assoluto». (Gabriele D’Annunzio)

Il poeta deve farsi veggente e al lettore è richiesto di essere persona dotata di cultura, intuizione e sensibilità non comuni, di lasciarsi coinvolgere in un’esperienza di lettura che va al di là di ogni normale atto di comunicazione, di tendere i suoi sensi e la sua sensibilità per cogliere i segni e gli indizi dell’esperienza sovranazionale compiuta dal poeta.

Ogni cosa sacra – e che voglia restare sacra – si avvolge nel mistero. Le religioni si trincerano in arcani misteri che si svelano solo a chi è predestinato. Anche l'arte ha i suoi arcani... Io mi son chiesto spesso perché questa caratteristica indispensabile è stata negata ad una sola arte, alla più grande, cioè alla poesia... (Stéphan Mallarmé)

Per i simbolisti la realtà non è quella della scienza, della ragione o dell'esperienza, è qualcosa di più profondo e misterioso che può essere inteso soltanto dalla poesia. Poesia è perciò la rivelazione dell'essenza misteriosa del reale: essa cerca le affinità segrete nelle apparenze sensibili, per cogliere idee primordiali; essa intende il linguaggio della realtà profonda, il messaggio segreto della natura, l'essenza.

L'arte è l'unico valore e la vita per potersi realizzare deve risolversi in arte. L'arte è atto vitale, è la realizzazione dell'essenza stessa della vita, è creazione e va al rovescio rispetto ai valori della società borghese.

Il poeta rinuncia alla funzione morale e sociale caratteristica dei romantici; aspira a risalire alle sorgenti stesse dell'essere, vuol farsi veggente, rivelare, cioè, l'ignoto, percepibile per illuminazioni, e dell'inconscio, secondo le misteriose leggi delle universali corrispondenze e delle analogie.

La natura è rappresentata come una foresta di simboli (da un verso di Baudelaire) tra loro corrispondenti che racchiudono le chiavi del significato dell'universo. Il mondo è un insieme di simboli che ci parlano in un misterioso linguaggio: nè la scienza nè la ragione possono penetrarlo, ma solo l'arte. Il poeta per intuizioni misteriose ed improvvise coglie il senso riposto nella realtà, scoprendo collegamenti apparentemente illogici fra oggetti diversi, associando colori, profumi, suoni di cui riesce a percepire la misteriosa affinità, scegliendo le parole non per il loro significato concreto ed oggettivo, ma per le suggestioni che possono evocare con il loro suono ed il loro ritmo.

I POETI SIMBOLISTI Gli esponenti del simbolismo furono Charles Baudelair, Arthur Rimbaud, Paul Verlaine e Stéphan Mallarmè; essi influirono in misura determinante sui successivi svolgimenti della poesia europea, specie in Inghilterra, in Germania, in Russia. In Italia il simbolismo ebbe un'eco indiretta nella poesia di Pascoli ed un riflesso su D'Annunzio. Ma fu soprattutto nei primi anni del

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nuovo secolo che esso fu veramente conosciuto nella pienezza delle sue affermazioni teoriche e delle sue proposte di novità espressiva, influendo così in misura determinante sui futuristi e sui poeti ermetici.

U.D. 2_ Decadentismo IL DECADENTISMO

Il Decadentismo nasce a Parigi negli anni ’80. Questa corrente letteraria prende il nome da un componimento poetico, un sonetto di Paul Verlaine “Langueur” (Languore) pubblicato in un periodico parigino “Le Chat Noir” (Il gatto nero) il 26 maggio 1883. Questa composizione diventa il manifesto della cultura decadente, in quanto esprime l’atteggiamento psicologico tipico degli intellettuali parigini (senso di sfinitezza e atonia spirituale : Bohèmien). Lo stato d’animo diffuso nella cultura del tempo era il senso di stanchezza e di disfacimento di tutta una civiltà, l’idea di un prossimo crollo. Queste idee erano proprie di alcuni circoli di avanguardia, che si contrapponevano alla mentalità benpensante e ostentavano atteggiamenti bohèmien e idee liberamente provocatorie, ispirandosi al modello maledetto di Baudelair. La critica ufficiale usò il termine “decadentismo” con accezione negativa e dispregiativa per designare un atteggiamento di gruppi intellettuali che esprimevano lo smarrimento delle coscienze e la crisi di valori del tempo, avvertendo, al di là dell'ottimismo ufficiale e spesso ipocrita della società, il fallimento del sogno positivistico. Ma quegli scrittori fecero della definizione una polemica insegna di lotta, in cui si gettavano, di fatto, i fondamenti d'una nuova visione del mondo e d'una nuova realtà. Essi ebbero insomma la coscienza di vivere un'età di trasformazioni e di trapasso, si sentirono insomma gli scrittori della crisi, e avvertirono che il loro compito non era quello di proporre nuove certezze, ma di approfondire i termini esistenziali di questa crisi sul piano conoscitivo. Nel 1886 il portavoce del movimento fu un periodico “Le Decadent”. La situazione storica presentava una grave crisi dovuta alla politica protezionistica e monopolistica, che portava grandi ripercussioni sia in politica estera (con la ricerca di nuovi mercati, l’avvio al colonialismo e conseguentemente diversi scontri e attriti internazionali) e in politica interna (conflitto nel mercato del lavoro, formazione dei primi partiti politici operai e nascita dei sindacati, con una difficoltà dei ceti medi e condizioni sociali e psicologiche frustranti). Il Decadentismo è un fenomeno complesso e le espressioni artistiche che ad esso si collegano sono varie e diverse. Qui non è presente una sola

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poetica che faccia da punto di riferimento comune al variare delle singole esperienze, come nel Verismo ad esempio. Vi sono piuttosto varie direzioni di ricerca, una proliferazione di poetiche, che possono in parte legarsi a due movimenti culturali della letteratura europea: il SIMBOLISMO e L'ESTETISMO. Anche in Italia non è possibile ritrovare una corrente letteraria unificante, ma piuttosto poetiche individuali che si rifanno ai miti italiani: quella del «superuomo» in D'Annunzio, del «fanciullino» in Pascoli, del «santo» in Fogazzaro. Una reazione a questi miti, all'affermazione eroica dell'io, è rappresentata dalla poesia dei CREPUSCOLARI ITALIANI che si rifanno ai temi del decadentismo francese. Queste esperienze sono accomunate dalla ricerca di nuovi strumenti espressivi, il rigetto della cultura positivista e il rifiuto spesso aristocratico della società contemporanea in ciò che essa ha di abitudinario, di etica comune, di valori diffusi a livello di massa. Riconducibile al decadentismo è anche il nascere delle avanguardie, cioè di movimenti che pur con grande diversità di poetiche, mirano alla sperimentazione di nuove tecniche espressive che, muovendo tutte da premesse irrazionalistiche, segnino una radicale frattura col passato e siano voce e testimonianza della consapevolezza della crisi. E' un'esplosione che dura suppergiù fino agli anni '30 e comprende le cosiddette "avanguardie storiche": FUTURISMO, CREPUSCOLARISMO, espressionismo, dadaismo, surrealismo. E' difficile stabilire i limiti cronologici del decadentismo letterario. Il decadentismo nacque in Francia contemporaneamente al realismo-positivismo, costituendo di fatto l'altra faccia della cultura degli anni 1850-60, una cultura di minore importanza all'epoca, ma già grandiosa nelle sue realizzazioni. Raggiunse il suo culmine attorno agli anni 1885-90, ma non è facile stabilire un momento di chiusura poiché il malessere sociale che ne costituiva l'humus verrà riscontrato anche nel novecento, fino ai nostri giorni. CARATTERISTICHE: Per attribuire all'arte i fini conoscitivi tipici decadentisti, era innanzitutto necessario ridare autonomia creativa all'artista (che si fa ora «superuomo» ora «fanciullino» o «veggente») affinché non fosse ridotto a impersonale e freddo registratore della realtà, come avveniva nel Naturalismo; erano altresì necessarie nuove tecniche espressive per definire l'inesprimibile (non più l'obbligo dell'uso logico della parola, della sintassi, della punteggiatura). LA POETICA DECADENTE

uso della SINESTESIA associazione inedita e analogica di due parole appartenenti a due campi sensoriali diversi: è utilizzata per cogliere la realtà non più solo attraverso i canali percettivi pubblici (vista e udito) ma anche attraverso quelli privati (olfatto, tatto, gusto), in un reciproco gioco di corrispondenze; Baudelaire: profumi verdi come praterie e freschi come carne di bimbo; Pascoli: silenzio candido nell'attesa di una nascita

la PAROLA perde la sua funzione logica, strettamente denotativa ed è impiegata più per le sue valenze connotative; essa è liberata delle sue energie, nelle sue capacità di sprigionare sensi multipli, perché solo se

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lasciata vibrare nei suoi contenuti affettivi la parola potrà penetrare nelle zone oscure e misteriose dell'inconscio, fino a cogliere le sfumature della realtà e delle emozioni; Pascoli: la parola come espressione dei tumulti dell'anima

la SINTASSI è liberata di tutte le intelaiature che condizionano la parola; in tal modo essa può sprigionare tutte le sue energie; Baudelaire: da L'Albatro: Per dilettarsi, sovente, le ciurme catturano

degli albatri, marini grandi uccelli, che seguono, indolenti compagni di viaggio, il bastimento che

scivolando va su amari abissi.

L'AGGETTIVO deve tendere a cogliere l'emozione: deve essere scelto per suggerire il mistero che avvolge gli oggetti e la vita;

LA POESIA deve tendere alla fusione tra tutte le arti, accogliendo di ognuna le suggestioni più produttive; Baudelaire: le arti aspirano, se non a sostituirsi l'un l'altra, per lo meno a

prestarsi reciprocamente energie nuove

la poesia deve ricorrere al SIMBOLO affinché possa andare oltre i dati dell'esperienza quotidiana e ritrovare l'unità di fondo dell'esistenza. Gli oggetti, le parole stesse, le immagini divengono simboli evocatori di sentimenti, di stati d'animo, di idee, attraverso un misterioso legame di analogie. Per Pascoli, ad esempio, un libro sull'altana e sfogliato dal vento

evocherà simbolicamente il mistero della vita tanto affannosamente e inutilmente indagato.

LA VISIONE DEL MONDO SECONDO I DECADENTI rifiuto del positivismo; ricerca e indagine del mistero che si cela nella realtà; una fusione dell’io del poeta con il mondo naturale Panismo; stato abnorme della coscienza come strumento del conoscere;

I TEMI DEL DECADENTISMO

ammirazione per le epoche in disfacimento e in decadenza (ultimo periodo dell’impero romano);

perversione e crudeltà (masochismo e sadismo); la nevrosi; la malattia; la morte; Vitalismo superomismo dannunziano; Rifiuto aristocratico della realtà.

LA POETICA DEL DECADENTISMO:

Il poeta è un veggente; Il Bello è un piacere da ricercare sempre estetismo; Rivoluzione del linguaggio, al fine di creare una poesia pura, non contaminata da influenze precedenti;

La parola assume un valore magico e suggestivo;

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Disprezzo per la cultura di massa e borghese; Musicalità dell’espressione, attraverso l’uso di abbondante di simboli e figure retoriche.

GLI EROI DECADENTI:

Il maledetto; L’esteta; L’inetto a vivere; La donna fatale; Il fanciullo pascoliano; Il superuomo dannunziano; La donna vampiro e fatale.

SUPEROMISMO: L’analisi esasperata del proprio io, il desiderio di dominare, il conflitto con la società portano alla concezione del superuomo: specie di eroe asociale, irreale, eroe perfetto. SENSO DEL MISTERO: I decadentisti non hanno l’orgogliosa fiducia dei positivisti nella possibilità di conoscere la natura e di penetrarne i segreti. Essi la vedono piena di forze ignote, piena di mistero e perciò impenetrabile. Sentono che c’è un abisso tra sé e l’universo e sentono la necessità di congiungersi ad esso. Ed è un abisso che la ragione non riesce a colmare; soltanto l’intuizione del subcosciente li congiunge al mondo esterno col linguaggio della poesia. ASOCIALITÀ: Il poeta, l’individuo, vive nel suo soggettivismo, si isola volutamente dalla società e si compiace del suo isolamento spirituale. LIBERTÀ: Il poeta decadentista rivendica la massima libertà nell’esprimere il proprio io e non accetta nessun freno o costrizione, neppure di carattere morale. SOGGETTIVISMO: L’uomo si chiude in se stesso, si analizza e si scruta, e ci dà una poesia dei suoi stati d’animo e della sua personale analisi psicologica. Il centro della poesia non sono gli altri, non è la società, bensì il poeta stesso. Egli analizza i suoi istinti, di qualsiasi natura. LA VISIONE DELL'ARTE � L'arte è l'organo di conoscenza per eccellenza, per non dire l'unico; ammessa l'impossibilità di conoscere la realtà più profonda mediante l'esperienza, la ragione, la scienza, il decadente pensa che soltanto la poesia, per il suo carattere di immediata intuizione, possa attingere al mistero della vita, esprimere le rivelazioni dell'ignoto. Per questo essa è considerata come pura illuminazione, messaggio che giunge da una zona remota, opposta all'esperienza usuale, come espressione simbolica. � La poesia deve inoltre tendere alla fusione di tutte le arti perché di ognuna deve accoglierne le suggestioni più produttive.

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U.D. 3_ Giovanni Pascoli Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855. Da ragazzo, dal 1861 al 1871, fu nel collegio dei Padri Scolopi ad Urbino, quindi nei licei di Rimini e di Firenze. Nel 1867, il padre, mentre tornava a casa su un calessino trainato da una cavalla storna, rievocata nella poesia(X Agosto), fu ucciso. Non si seppe mai chi fosse l’assassino ed il delitto rimase perciò impunito. Poco dopo la morte del padre il Pascoli perse anche la madre e le due sorelle e la famiglia, composta prevalentemente di ragazzi, cadde nella miseria e nel dolore. Il poeta poté giungere alla laurea, grazie ad una borsa di studio che gli permise di frequentare l’università di Bologna. Su questo fatto importante egli ha lasciato una commossa rievocazione nel racconto Ricordi di un vecchio scolaro. Certamente le vicende tristissime della sua famiglia, a cui egli assistette da fanciullo, e poi le difficoltà economiche e gli ostacoli da superare, sempre solo, lasciarono un solco profondo nel suo animo ed influirono sul suo carattere e conseguentemente sulla sua poesia. Da professore, nel 1884, insegnò a Matera e quindi a Massa ed a Livorno, ma, avendo assunto atteggiamenti anarchici, fu trasferito a Messina. Ma non fu un ribelle, anzi, alla maniera decadente si chiuse nel suo dolore, si isolò in se stesso, solo con le sue memorie e con i suoi morti. La sua ribellione fu un senso di ripulsa e di avversione per una società in cui era possibile uccidere impunemente e nella quale si permetteva che una famiglia di ragazzi vivesse nella sofferenza e nella miseria. Non c’è ribellione nella sua poesia, ma rassegnazione al male, una certa passività di fronte ad esso: vi domina una malinconia diffusa nella quale il poeta immerge tutto: uomini e cose. Egli accetta la realtà triste come è, e si sottomette al mistero che non riesce a spiegare. La sua poesia non ha una trama narrativa e non è neppure descrittiva: esprime soltanto degli stati d’animo, delle meditazioni. E' l’ascolto della sua anima e delle voci misteriose che gli giungono da lontano: dalla natura o dai morti. Nel 1892 da alle stampe la prima edizione di Myricae, raccolta di poesie. Nel 1904 pubblica i Poemi conviviali e l’edizione definitiva dei Primi poemetti. Nel 1905 succede a Carducci nella cattedra di letteratura italiana a Bologna. Nel 1906 Pubblica Odi ed Inni, nel 1909 Pubblica i Nuovi poemetti e le Canzoni di Re Enzio. Nel 1912 muore di cancro.

IL PENSIERO DI PASCOLI

Pascoli ebbe una concezione dolorosa della vita, sulla quale influirono due fatti principali: la tragedia familiare e la crisi di fine ottocento. La tragedia familiare colpì il poeta quando il 10 agosto del 1867 gli fu ucciso il padre. Alla morte del padre seguirono quella della madre, della sorella maggiore, Margherita, e dei fratelli Luigi e Giacomo. Questi lutti lasciarono nel suo animo un'impressione profonda e gli ispirarono il mito del "nido" familiare da ricostruire, del quale fanno parte i vivi e idealmente i morti, legati ai vivi dai fili di una misteriosa presenza. In una società sconvolta dalla violenza e in una condizione umana di dolore e di angoscia esistenziale, la casa è il rifugio nel quale i dolori e le ansie si placano.

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L'altro elemento che influenzò il pensiero di Pascoli, fu la crisi che si verificò verso la fine dell'Ottocento e travolse i suoi miti più celebrati, a cominciare dalla scienza liberatrice e dal mito del progresso. Pascoli, nonostante fosse un seguace delle dottrine positivistiche, non solo riconobbe l'impotenza della scienza nella risoluzione dei problemi umani e sociali, ma l'accusò anche di aver reso più infelice l'uomo, distruggendogli la fede in Dio e nell'immortalità dell'anima, che erano stati per secoli il suo conforto: ...tu sei fallita, o scienza: ed è bene: ma sii maledetta che hai rischiato di far fallire l'altra. La felicità tu non l'hai data e non la potevi dare: ebbene, se non hai distrutta, hai attenuata oscurata amareggiata quella che ci dava la fede... Pertanto, perduta la fede nella forza liberatrice della scienza, Pascoli fa oggetto della sua mediazione proprio ciò che il positivismo aveva rifiutato di indagare, il mondo che sta al di là della realtà fenomenica, il mondo dell'ignoto e dell'infinito, il problema dell'angoscia dell'uomo, del significato e del fine della vita. Egli però conclude che tutto il mistero nell'universo è che gli uomini sono creature fragili ed effimere, soggette al dolore e alla morte, vittime di un destino oscuro ed imperscrutabile. Pertanto esorta gli uomini a bandire, nei loro rapporti, l'egoismo, la violenza, la guerra, ad unirsi e ad amarsi come fratelli nell'ambito della famiglia, della nazione e dell'umanità. Soltanto con la solidarietà e la comprensione reciproca gli uomini possono vincere il male e il destino di dolore che incombe su di essi. La condizione umana è rappresentata simbolicamente dal Pascoli nella poesia I due fanciulli, in cui si parla di due fratellini, che, dopo essersi picchiati, messi a letto dalla madre, nel buio che li avvolge, simbolo del mistero, dimenticano l'odio che li aveva divisi e aizzati l'uno contro l'altro, e si abbracciano trovando l'uno nell'altro un senso di conforto e di protezione, sicchè la madre, quando torna nella stanza, li vede dormire l'uno accanto all'altro e rincalza il letto con un sorriso.

OPERE PIÙ SIGNIFICATIVE Pascoli usa ancora forme classiche come il sonetto, gli endecasillabi o le terzine, ma la sua poesia costituì la prima reale rottura con la tradizione. Al di là della sua apparente semplicità, è dalla poesia di Pascoli che genera buona parte della poesia del Novecento. Le numerose pause che generano spezzature all'interno del verso, oppure le frequenti rime sdrucciole che producono accelerazione; l'uso insistito delle onomatopee, la presenza di parole ricavate dalla lingua dei contadini così come da quella dei colti, l'introduzione di temi fino ad allora rifiutati dai poeti importanti, tutto concorre a produrre una poesia che è rivoluzionaria nella sostanza e nelle intenzioni più che nella forma esteriore. Il poeta è, per Pascoli, colui che è capace di ascoltare e dar voce alla sensibilità infantile che ognuno continua a portare dentro di sé pur diventando adulto. La poesia scopre nelle cose rapporti che non sono quelli logici della razionalità e attribuisce ad ogni cosa il suo nome. Essa, senza proporsi direttamente scopi umanitari e morali, porta ad abolire l'odio, a sentirsi tutti fratelli e a contentarsi di poco, come avviene nei fanciulli. ... io vorrei trasfondere in voi, nel modo rapido che si conviene alla poesia, qualche sentimento e pensiero mio non cattivo. [...] Vorrei che pensaste con

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me che il mistero, nella vita, è grande, e che il meglio che ci sia da fare, è quello di stare stretti più che si possa agli altri, cui il medesimo mistero affanna e spaura. E vorrei invitarvi ala campagna. (dalla Prefazione ai Primi poemetti, 1897)

Myricæ(1891): è una raccolta di liriche di argomento semplice e modesto, come dice lo stesso Pascoli, ispiratosi per lo più a temi familiari e campestri. Il titolo è dato dal nome latino delle tamerici ("non omnes arbusta iuvant humilesque Myricæ": non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici), umili pianticelle che sono prese a simbolo di una poesia senza pretese, legata alle piccole cose quotidiane e agli affetti più intimi. Il titolo è allusivo ad una poesia dimessa, diversa da quella del Carducci e anche da quella ardua e aristocratica di D’Annunzio. La prima edizione è del 1891. Insieme con i Canti di Castelvecchio sono opere che la critica ha definito "del Pascoli migliore", poeta dell’impressionismo e del frammento: «Son frulli di uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane», scrisse il poeta nella Prefazione del 1894. E' dunque una poesia fatta di piccole cose, inerenti per lo più alla vita della campagna, di quadretti rapidissimi, conclusi nel giro di pochi versi "impressionistici", dove le "cose" sono definite con esattezza, col loro nome proprio (per esempio prunalbo per biancospino). Vi compaiono anche poesie (Novembre, Arano) in cui le "cose" si caricano di una responsabilità simbolica e già si affaccia il tema dei morti (X Agosto), sottolineando una visione della vita che tende a corrodere i confini del reale – avvertito come paura e mistero- per una evasione nella fiaba e nel simbolo (Carrettiere, Orfano, L'assiuolo). Nella raccolta, cresciuta nel tempo dalle 22 poesie della prima edizione alle 155 dell'ultima, tolti pochi componimenti rimasti a sé, le poesie si ordinano per temi, corrispondenti ai cicli annuali della vita in campagna. La raccolta si apre con Il giorno dei morti, il giorno in cui il poeta si reca al camposanto che «oggi ti vedo / tutto sempiterni / e crisantemi. A ogni croce roggia / pende come abbracciata una ghirlanda /donde gocciano lagrime di pioggia.» In questa giornata «Sazio ogni morto, di memorie, riposa.» Non tutti però. «Non i miei morti.»

Canti di Castelvecchio (1903): nella raccolta sono compresi e approfonditi i temi di Myricæ, ma ha particolare incidenza il tema del nido familiare e delle memorie autobiografiche e compaiono parecchi componimenti di impianto narrativo; finito il vagabondaggio per la campagna di Myricæ se ne inizia uno nuovo: ma ora è un viaggio attorno al suo giardino, entro i cancelli e entro il suo orto. Il senso del mistero, connesso al dolore della vita e all’angoscia della morte, si traduce ora in una sorta di allucinazioni, nel ricordo dei morti (La tessitrice), ora nell’auscultazione di richiami impercettibili (Le rane), ora nello sconfinamento dei ricordi -suggeriti ad esempio dal suono delle campane- ai limiti del preconscio (La mia sera). Sono trasalimenti dell’animo e simboli che però lievitano frequentemente da notazioni realistiche, espresse attraverso un discorso addirittura narrativo: «E s’aprono i fiori notturni, nell’ora che penso ai miei cari / Sono apparse in mezzo ai viburni / le farfalle crepuscolari» (Il

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gelsomino notturno). Si può dire che nei Canti sta il punto del massimo compenetrarsi tra i due aspetti della poesia pascoliana: il simbolo e la realtà.

Poemetti (pubblicati nel 1897 e poi sdoppiati in Primi poemetti, 1904 e Nuovi poemetti, 1909): costituiscono una vera e propria epica rurale sul modello delle Georgiche virgiliane: cantano, in terzine dantesche, l’amore di Rosa per il cacciatore Rigo, la vita contadina, il lavoro dei campi (La sementa, La piada, L’accestire). Italy affronta il tema dell’emigrazione (anch’esso riflesso di quello del nido) dove il contrasto campagna-città, infanzia-maturità, spogliato delle sue connotazioni autobiografiche, si oggettiva nel contrasto tra la vita patriarcale che si svolge nella campagna nativa e quella febbrile della metropoli americana, tutta tesa ai «bisini» ("business" gli affari) e al successo. Il contrasto si risolve sul piano linguistico in un audace sperimentalismo. A queste composizioni si intrecciano altre percorse da un simbolismo insistito, e talvolta esplicito (Il libro); si accampa quella che è stata definita «una poesia astrale», aperta a «voragini misteriose di spazio, di buio e di fuoco» (La vertigine).

Poemi conviviali (1904): il loro titolo è tratto dalla rivista "Convivio" di Alfredo De Bosis, ma allude anche ai canti degli aedi ai conviti (Triste il convito senza canto). In endecasillabi sciolti, richiamano miti e figure del mondo classico, greco e romano (il mito dell’Ellade percorre come un filo rosso tutto l’Ottocento, da Foscolo a Leopardi, a Carducci, a D’Annunzio): ma la sensibilità decadente di Pascoli stravolge questi miti, fino a farne simboli della infelicità e del mistero, annullando -secondo un procedimento tipico che sottintende la fuga dalla realtà– i confini della storia, per assorbirla in una visione esistenziale: così Alessandro Magno, arrivato ai confini della terra, piange, perché non può più "guardare oltre, sognare" (Piange dall’occhio nero come morte / piange dall’occhio azzurro come il cielo, Alèxandros); così l’etera non è più la creatura splendente di bellezza e di vita della tradizione classica, ma è la donna affannata che, nell’Erebo, è circondata dalle larve dei figli non nati; e "l’odissea" di Ulisse conduce l’eroe non verso le fascinose plaghe del mito (Polifemo e le sirene sono illusorie costruzioni della fantasia), ma verso l’orrenda morte. Odi e Inni: contengono componimenti scritti a partire dal 1903. Pascoli qui assume il ruolo di poeta–vate e celebra gli eroi nazionali, le realizzazioni del lavoro e della tecnica, le grandi esplorazioni. Carmina: è la raccolta delle poesie latine di Pascoli pubblicate dalla sorella Maria; Il fanciullino: testo in prosa in cui è espressa la poetica pascoliana. La grande proletaria.

La poetica di Pascoli è espressa nella celebre prosa, Il fanciullino. Questi ne sono i punti essenziali:

1. Vi è in tutti noi un fanciullo musico (il "sentimento poetico") che fa sentire il suo tinnulo campanello d’argento nell’età infantile, quando egli confonde la sua voce con la nostra – non nell’età adulta quando la lotta

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per la vita ci impedisce di ascoltarlo (l’età veramente poetica è dunque quella dell’infanzia).

2. Infatti, è tipico del fanciullo vedere tutto con meraviglia, tutto come per la prima volta; scoprire la poesia nelle cose, nelle più grandi come nelle più umili, nei particolari che svelano la loro essenza, il loro sorriso e le loro lacrime (la poesia la si scopre dunque, non la si inventa).

3. Il fanciullino è quello che alla luce sogna o sembra di sognare ricordando cose non vedute mai; è colui che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi alle nuvole, alle stelle, che scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose, che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alle nostra ragione (la poesia dunque ha carattere non razionale, ma intuitivo e alogico).

4. Il sentimento poetico, che è di tutti, fa sentire gli uomini fratelli, pronti a deporre gli odi e le guerre, a corrersi incontro e ad abbracciarsi, per questo la poesia ha in sé, proprio in quanto poesia una suprema utilità morale e sociale. Non deve proporselo però, in quanto la poesia deve essere "pura", non "applicata" a fini prefissati; il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non storico, non maestro.... La poesia ha una funzione consolatoria: fa pago il pastore della sua capanna, il borghesuccio del suo appartamentino ammobiliato. E per questo il poeta è per natura socialista, o come si avrebbe a dire umano.

ELEMENTI DELLO STILE PASCOLIANO

Il linguaggio: Pascoli usa un linguaggio poetico lirico, con echi e risonanze melodiche ottenute talvolta con ripetizioni di parole e di espressioni cantilenanti, arricchite di rapide note impressionistiche e di frasi spesso ridotte all’essenziale. In questo egli prelude ai poeti del novecento. Il lessico: è nuovo, con mescolanze di parole dotte e comuni ma sempre preciso e scrupolosamente scientifico quando nomina uccelli (cince, pettirossi, fringuelli, assiuoli...) o piante (viburni o biancospini, timo, gelsomini, tamerici...). Realtà e simbolismo: egli ricerca " nelle cose il loro sorriso", la loro anima, il loro significato nascosto e simbolico. Ecco perché la sua poesia è sempre ricca di allusioni e di analogie simboliche. La sintassi: preferisce periodi semplici, composti di una sola frase, o strutture paratattiche con frasi accostate mediante virgole o congiunzioni. Aspetto metrico e fonico: partendo dalla metrica classica e tradizionale vi innesta forme e metri nuovi, adatti ad esprimere timbri e toni nascosti, assonanze e allusioni. Cura in particolare la magia dei suoni, la trama sonora, gli effetti musicali di onomatopee espressive e di pause improvvise. Accorgimenti stilistici: molto curate le scelte espressive. Per rendere le immagini più vive e sintetiche, Pascoli ama talvolta eliminare congiunzioni e verbi (ellissi) o fare accostamenti nuovi trasformando aggettivi e verbi in sostantivi (un nero di nubi... il cullare del mare...). Ne risulta uno stile impressionistico e nuovo.

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U.D. 4_Gabriele D’Annunzio

Gabriele D'Annunzio divenne un personaggio di primo piano nella nostra storia nazionale per la sua azione favorevole all’intervento italiano nella prima guerra mondiale: Il celebre discorso La sagra dei mille, pronunciato sullo scoglio di Quarto il 5 maggio 1915, fu come una scintilla che percorse tutta l’Italia ed infiammò i giovani alla lotta. Quando l’Italia entrò in guerra, D’annunzio aveva 52 anni, ma partecipò alla lotta prima fra i Lancieri di Novara, poi in marina e quindi in aviazione. Compì molte imprese eccezionali, dalla beffa di Buccari al volo su Vienna. Alla fine della guerra non fu soddisfatto della cessione di Fiume alla Jugoslavia e perciò occupò la città dalmata costituendovi un governo. D’Annunzio fu fautore di un progetto aristocratico sia per la vita che per l’arte, egli disprezzò le masse e coprì di parole di spregio e di derisione la borghesia bottegaia. Nondimeno era da quest’ultima adorato. Nato a Pescara il 12 marzo 1863, nel 1874 viene iscritto al collegio Cicognini di Prato, dove resta sino al completamento degli studi liceali nel 1881; nel 1879 pubblica una raccolta di versi, Primo vere, che esce in seconda edizione l'anno seguente. È possibile, al fine didattico, individuare nella vita di D’annunzio sei periodi: IL PERIODO ROMANO dal 1881 al 1891, durante il quale, a seguito del suo trasferimento a Roma nel 1881, a conclusione degli studi liceali, pubblicò dei racconti di cornice verista, Le novelle della Pescara, ambientate in un Abruzzo primitivo e prorompente di umori sensuali, denso di interessi mondani e culturali. Tutto proteso alla conquista della notorietà e della gloria, frequentò i salotti più raffinati ed ebbe amori tanto travolgenti quanto effimeri; tentò l’avventura politica, ottenendo l’elezione al Parlamento e scrisse moltissimo sia in prosa che in poesia. Pubblica le raccolte poetiche Canto novo (1882) e Intermezzo (1883). Lo "scandalo" della sua relazione con la duchessina Maria Hardouin di Gallese si conclude con il matrimonio. Nel 1889 pubblica Il Piacere, la testimonianza più cospicua dell’estetismo italiano. IL PERIODO NAPOLETANO dal 1891 al 1894, si trasferisce a Napoli, in seguito al naufragio del matrimonio con Barbara Leoni, lì collabora al "Corriere di Napoli" e inizia una relazione con Maria Anguissola, principessa Gravina, da cui ha due figli, che finisce nel 1897, quando inizia la frequentazione con Eleonora Duse. In questo periodo pubblica:

il romanzo L'innocente (1892) la raccolta di liriche Elegie romane (1892) le liriche del Poema paradisiaco (1893) il romanzo Trionfo della morte (1894).

Nell'estate del 1895 compie un viaggio in Grecia e nel 1897 partecipa alle elezioni riuscendo eletto deputato, con un programma «al di là della destra e della sinistra», che sostanzialmente è di chiara impostazione nazionalistica.

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IL PERIODO DE "LA CAPPONCINA" dal 1898 al 1910, durante il quale D’Annunzio si stabilì a Settignano in Toscana, nella villa della Capponcina, dove condusse una vita talmente dispendiosa che, caricatosi di debiti nonostante i cospicui guadagni ottenuti con le sue opere, nel 1909 fu costretto a fuggire in Francia, in "volontario esilio", come egli disse con sconfinata impudenza. "La Capponcina", che ha lussuosamente arredato, è poco lontana dalla villa della Duse, la quale nel 1899 è interpreta l'opera teatrale La Gioconda che ottiene notevole successo. Nel 1900 il suo romanzo Il fuoco fa scandalo per le rivelazioni sugli amori con la Duse. Produce varie opere teatrali: La figlia di Jorio, La fiaccola sotto il moggio, La nave e coltiva anche altre relazioni amorose. IL PERIODO FRANCESE dal 1910 al 1915, durante il quale visse lussuosamente, a Parigi, circondato da ammiratori e da amanti. Dalla Francia seguiva attentamente le vicende italiane. Allo scoppio della guerra di Libia scrisse le Canzoni delle gesta d’oltremare che inneggiavano alle mire espansionistiche italiane. Scrisse, in francese: Le martyre de Saint Sébastien, e la Pisanelle. GLI ANNI DELLA GUERRA dal 1915 al 1920, durante il quale, nel 1915 ritorna in Italia e partecipa attivamente alla propaganda interventista col discorso a Quarto per la Sagra dei Mille. Durante la guerra, alla quale partecipò come volontario, ottenne varie medaglie d’oro e d’argento per le sue imprese spericolate. In seguito a un incidente occorsogli durante un atterraggio di fortuna, perse un occhio. Costretto all’immobilità per un certo periodo, scrisse il Notturno, una serie di prose ritenute tra le cose di D’Annunzio più sincere e più intense. Nel settembre, a capo di volontari e di forze regolari, occupa militarmente Fiume in opposizione al governo italiano: la abbandonerà di fronte all'intervento dell'esercito italiano nel dicembre del 1920 (impresa di Fiume). GLI ULTIMI ANNI DAL 1921 AL 1938, durante il quale si stabilisce sul Lago di Garda, a Gardone Riviera, in una magnifica villa prospiciente il lago di Garda. Di qui salutò con grande favore l’avvento del fascismo, ma Mussolini, mentre da una parte lo ricolmò di favori e di onori, dall’altra lo tenne alla larga dalla politica. D’Annunzio trascorse gli ultimi anni in un isolamento tanto splendido quanto intimamente vuoto. Nel 1937 viene nominato presidente dell'Accademia d'Italia; muore il 1° marzo 1938 per emorragia celebrale. A quest’ultimo periodo risale il Libro segreto, che insieme al Notturno oggi gode di molta attenzione da parte dei critici. LE OPERE: Canto novo, raccolta di liriche pubblicata nel 1882. La natura è rappresentata nel suo tripudio di luci, colori, odori e con essa il giovane poeta stabilisce un "rapporto di tipo solare" proteso al godimento e alla fusione con essa. Il piacere, il più noto dei romanzi di D'annunzio. Il protagonista è Andrea Sperelli. Raffinato e gelido; cultore solo di un bello aristocratico;

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spregiatore del grigio diluvio democratico odierno che tante belle cose e rare sommerge miseramente, Andrea Sperelli è l'ultimo rampollo di un'antica famiglia nobile e ne continua anche la tradizione: è un raffinato, predilige gli studi insoliti, è un esteta. Tutta la sua vita è improntata su questi criteri come pure la vita amorosa. Il romanzo si apre nel giorno di S.Silvestro. Andrea Sperelli, il protagonista, attende, nel suo appartamento la visita di Elena Muti, la donna che è stata sua amante, ma che non vede da quasi un anno. L’arrivo di Elena è preceduto da una rievocazione dell’ultimo incontro fra i due e, come in un gioco di scatole cinesi, dal ricordo della loro storia d’amore che in quel giorno lontano Andrea aveva rievocato. L’incontro porta però ad una nuova separazione ed Elena, che ora è sposata, se ne va piangente, lasciando l’amante nella prostrazione più profonda. I capitoli che seguono ripropongono in modo più dettagliato ed impersonale il primo incontro tra i due e la loro storia d’amore, terminata quando la donna (già vedova del duca di Scerni) aveva preferito sposare il ricchissimo Lord Heathfield, e la tumultuosa serie di avventure erotico-sentimentali alle quali Sperelli si era abbandonato dopo il loro addio. Il primo libro termina con la descrizione di un duello in cui Andrea è coinvolto a causa di un'altra donna e che termina con il suo ferimento. Durante la convalescenza, in una sorta di purificazione e di rinascita spirituale, Andrea Sperelli scopre la profonda perfezione dell’arte e medita di "trovare una forma di Poema moderno", "una lirica veramente moderna nel contenuto ma vestita di tutte le antiche eleganze". E’ in questo momento di elevazione intellettuale e di distacco dalle passioni tumultuose che egli incontra Maria Ferres, moglie di un ministro guatemalteco, ed inizia fra i due un amore platonico, poi rievocato, attimo per attimo, nel diario di Maria che occupa un’ampia sezione del secondo libro e che termina con l’esplicito riconoscimento, da parte della donna, del suo amore per Andrea. A questo punto si chiude la lunga parentesi retrospettiva e la narrazione riprende dal quel giorno di San Silvestro in cui Elena ed Andrea si rincontrano. Tutta la parte finale è costituita da una sorte di tormentato contrappunto tra l’amore sensuale per la Muti, che illude e tradisce Andrea tenendolo però avvinto a sé, e l’amore più puro e spirituale del protagonista per Maria. Sarà però la passione dei sensi a prevalere e, proprio quando Andrea sembra aver conquistato definitivamente il cuore della Ferres che gli si concede, egli pronuncerà, fra le braccia della sua nuova amante il nome di Elena.

Poema paradisiaco, raccolta di liriche composte dal 1891 e pubblicate nel 1893. Il titolo, derivato dal latino, equivale letteralmente a "poema dei giardini". Si rileva qui la tematica decadente, ma segnata di rievocazione nostalgica, con aspirazioni epidermiche a una sorta di purezza e di spiritualizzazione delle passioni, che si traducono in un linguaggio e in una versificazione sapientissimi, accordati su toni dimessi, come di colloquio e di confessione.

L'Innocente, romanzo pubblicato nel 1892, che non tiene nascosti gli influssi della lettura del russo Dostoevskij. È una narrazione in prima persona ed è

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incentrato sulle vicende di Tullio Hermil e della moglie Giuliana. A lei, malata, Tullio si dedica in modo particolare con una sorta di volontaristica pratica di "bontà", malgrado sia attratto e legato all'amante Teresa Raffo. Ma proprio quando si libera da questo legame, crede di scoprire gli indizi di una relazione della moglie con lo scrittore Filippo Arborio poi confermati dalla notizia che Giuliana è incinta. Nei due coniugi spunta un progetto delittuoso: sopprimere il nascituro, testimonianza di una fugace colpa, ostacolo alla realizzazione del loro "sublime" amore. È Tullio che, esponendo al freddo invernale il bambino, l'"innocente", compie il delitto.

Trionfo della morte, romanzo del 1894, terzo del "Ciclo della rosa". L'opera, articolata in sei "libri", ha una struttura narrativa debole. È incentrata sul rapporto contraddittorio e ambiguo di Giorgio Aurispa con l'amante Ippolita Sanzio e su questo tema di fondo si innestano o si sovrappongono altri motivi e argomenti. Giorgio, in una confusa contaminazione tra superomismo e velleità mistiche, aspira a realizzare una vita nuova, una perfezione di vita spirituale che si fondi sull'autodominio e sull'autosufficienza, e vive il rapporto con l'amante come limitazione, come ostacolo.

Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi: l'opera poetica più notevole e famosa. Doveva essere di cinque libri, quante sono le Pleiadi, invece è solo di quattro.

1. Il primo libro, Maia, è composto nel 1903 e il sottotitolo (Laus vitae) ne chiarisce i motivi ispiratori: una vitalistica celebrazione dell'energia vitale, un naturalismo pagano impreziosito o sopraffatto dai riferimenti classici e mitologici.

2. Il secondo libro, Elettra, composto tra il 1899 e il 1902 celebra gli eroi della patria e dell'arte; nella terza parte sono cantate 25 "città del silenzio" e nella quarta parte è il famoso Canto augurale per la Nazione eletta che infiammò di entusiasmo i nazionalisti italiani.

3. Il terzo libro, Alcyone, pubblicato con il primo, contiene il meglio di D'Annunzio come poeta.

4. Il quarto libro, Merope, raccoglie canti celebrativi della conquista della Libia.

Notturno, raccolta di meditazioni e ricordi, in forma di prosa lirica, redatta nel 1916 durante il periodo di immobilità e di cecità. L’opera è caratterizzata da un momento di intimità e di ripiegamento su sé stesso. Nella prima parte del libro predomina il ricordo dell’amico e compagno di armi Giuseppe Miraglia, morto ancora giovane nel dicembre del 1915, cui farà seguito il sentimento denso di commozione affettuosa per la madre inferma e stanca, che morì di lì a poco, nel gennaio del 1917. Tra pagine di esaltazione eroica, in cui il poeta lamenta l’inganno che la morte gli ha teso, lasciandolo in vita al posto dei suoi più giovani compagni, tra quelle di dolente rimpianto per gli amici scomparsi, troviamo appuntate le sensazioni del poeta, le sue osservazioni sulla vita e sull’arte e preziosissime riflessioni.

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IL CICLO DEI ROMANZI Sull'esempio dei romanzi ciclici dell'ottocento di Honorè de Balzac (La commedia umana), di Zola (i Rougon-Macquart), di Verga (I vinti), D'Annunzio si propose di scrivere un ciclo di romanzi, suddiviso in tre trilogie, ciascuna denominata da un fiore (la rosa, il giglio, il melograno), simbolo delle tappe evolutive del suo spirito dalla schiavitù delle passioni alla vittoria su di esse, giacché i protagonisti dei romanzi non sono che la proiezione sul piano narrativo dello stesso D'Annunzio. I romanzi della rosa, fiore simbolo della voluttà, della passione invincibile:

Il Piacere (1889) L'innocente (1892) Il trionfo della morte (1894) I romanzi del giglio, fiore simbolo del superuomo, della passione che si purifica. La seconda trilogia doveva ispirarsi al superuomo di Nietzsche. Il superuomo non è più schiavo delle passioni ma si serve di esse per realizzare pienamente la propria volontà di potenza. In verità Nietzsche non auspicava l'avvento di un uomo superiore agli altri, al quale, in grazia delle qualità eccezionali, fosse tutto permesso, ma l'avvento di un'umanità rinnovata la quale, per poter sviluppare tutte le sue potenzialità, doveva liberarsi da ogni soggezione alla trascendenza e alla morale tradizionale, fatta di ipocrisie e finzioni. D'Annunzio ignorò o finse di ignorare il significato profondo del niccianesino e lo adottò al suo temperamento sensuale, facendo del superuomo l'individuo d'eccezione, destinato a dominare sugli altri. Nel superuomo nicciano, così come lo immaginò D'Annunzio, s'intravede piuttosto il profilo dei grandi dittatori sanguinari e deliranti del nostro secolo, col loro macabro seguito di tragedie e di guerre. Della seconda trilogia, D'Annunzio scrisse solo il primo, Le vergini delle rocce (1896). Claudio Cantelmo, aristocratico e imperialista, seguace delle dottrine del superuomo, concepisce il disegno di unirsi in matrimonio con una delle principesse (Massimilla, Anatolia, Violante) di un'antica famiglia borbonica del regno delle due Sicilie, i Capece-Montaga, ridottasi a vivere nell'ultimo dei suoi feudi, Trigento, "paese di rocce". Scopo del matrimonio è procreare il futuro sovrano, al quale un giorno il popolo, disgustato della demagogia e dalla corruzione della vita politica, offrirà la corona regale.

I romanzi del melograno, pomo dai molti granelli, simbolo dei frutti che possono derivare dal dominio delle passioni. Dei tre romanzi previsti, D'Annunzio scrisse solo il primo, Il fuoco (1900). Il fuoco (così intitolato perché inteso come simbolo della creatività dell'artefice), narra, sullo sfondo di Venezia, la storia dell'amore di Stelio Éffrena per la Foscarina. E' un romanzo scopertamente autobiografico, perché vi è adombrata la storia dell'amore del poeta per l'attrice Eleonora Duse. Stelio è un poeta che sogna una nuova forma di arte drammatica, che risulti dall'intima fusione della parola, del colore, del suono, dell'azione. E' la

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stessa poetica di Wagner, che del romanzo è un personaggio. La Foscarina dovrebbe essere l'interprete di questo nuovo dramma; ma Stelio s'innamora della giovinetta Donatella Arvale. La Foscarina se ne accorge e ne è gelosa, ma dopo, rassegnata, cede il posto alla rivale e si accomiata da Stelio. IL MITO DI D'ANNUNZIO D'Annunzio rappresentò nella vita italiana, con i suoi atteggiamenti, innanzitutto un fatto di costume, incarnò i desideri di evasione dalla monotonia quotidiana di ceti intellettuali e borghesi insoddisfatti della realtà della vita nazionale nei decenni post-risorgimentali. Per questo gran parte della sua vastissima opera, creata per esaltare e sostenere il mito che di sé aveva costruito, appare oggi superata e priva di attualità. Ebbe tuttavia almeno due meriti: sul piano culturale, si avvicinò di volta in volta ad autori ed atteggiamenti del decadentismo europeo contribuendo a diffonderne la conoscenza in Italia ed a sprovincializzare la nostra cultura. Sul piano più intimamente poetico, accanto all'esteriorità di molti atteggiamenti esibizionistici seppe almeno cogliere ed esprimere la comunione dei sensi e dell'anima con la molteplicità della vita naturale, creando quella dimensione "panica", di immedesimazione quasi fisica e sensuale basata sulle immediate sensazioni, che in particolare nella raccolta Alcyone segna il nascere di un atteggiamento nuovo per la nostra poesia. Per esprimere questo atteggiamento raffinato e sensuale D'Annunzio si servì di un linguaggio ostentatamente insolito ed artistico, basato sul recupero di preziose voci arcaiche e sull'invenzione di neologismi capaci di stupire e meravigliare; creò così un "culto della parola" ricercata soprattutto per clamorose risonanze musicali (anch'egli si affidò molto alle onomatopee) che spesso è solo espediente retorico, ma che sa anche diventare talora esperienza linguistica originale e contribuisce, anche se in misura minore del Pascoli, ad avviare il nuovo linguaggio poetico del '900 verso le svolte successive.

U.D. 5_ Italo Svevo Italo Svevo nasce a Trieste nel 1861 da una famiglia della borghesia commerciale di origine ebraica: suo nonno visse in Renania (Germania). Il suo vero nome è Ettore Schmitz: scelse di chiamarsi "Italo" per dichiararsi "italiano"; "Svevo" per mostrare la sua origine tedesca. I primi studi li fece in Germania: fatto, questo, che lo metterà a disagio quando poi scriverà in italiano i suoi romanzi. Svevo non fu solo un romanziere, ma anche un critico letterario, drammatico e musicale, ma ebbe, come critico, poca fortuna, anche se prese come modello il De Sanctis; fu anche uno scrittore di opere

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teatrali (quasi sempre incomplete e rimaste inedite durante la sua vita) e un novelliere, ma senza successo. A Trieste s'indirizzò verso studi di economia, frequentando un Istituto superiore commerciale. Il fallimento dell'azienda paterna lo costrinse a diventare nel 1880 un impiegato di banca, pur sentendo forte la vocazione letteraria. In banca lavorerà per 18 anni. Nel frattempo legge alcuni classici tedeschi, italiani e francesi. Notevole è il suo interesse per il filosofo irrazionalista Schopenhauer e per i grandi narratori realisti (Zola, Balzac, Flaubert...). Legge anche Machiavelli, Guicciardini, Boccaccio e De Sanctis. Preferisce gli autori che s'impongono per la concretezza dei loro contenuti più che per la loro proprietà formale e stilistica. Il suo primo romanzo, Una vita, fu pubblicato a sue spese nel 1892, ma passa inosservato. Narra di un giovane, Alfonso Nitti, venuto dalla provincia a Trieste per impiegarsi in una banca. Egli vive una doppia vita: una da impiegato, di cui non è contento; l'altra da studioso che coltiva sogni letterari. All'inizio le prospettive sembrano buone: Annetta, figlia del proprietario della banca, s'innamora di lui e con lui intraprende la stesura di un romanzo. Quando però Alfonso s'accorge che per Annetta questo impegno era solo un gioco, va in crisi e non sa più come comportarsi. Approfitta di una grave malattia della madre per allontanarsi dal lavoro. Si rende ogni giorno più conto d'essere totalmente incapace di reagire alle situazioni. In seguito alla morte della madre e al fidanzamento di Annetta con un giovane del suo ceto, Alfonso, dopo una spietata autoanalisi, si uccide. Il protagonista è dunque un inetto, un incapace a vivere la vita: non tanto perché non vuole inserirsi nella società borghese (vuota, superficiale), quanto perché contrappone a questa società un mondo velleitario di sogni irrealizzabili. E' un uomo in cui la paralisi della volontà, il suo stato di ansia e di incertezza hanno il sopravvento sulle critiche che la sua ragione muove alla società. Il romanzo inizia in modo realistico e naturalistico, ma si conclude in maniera psicologica (emotiva). Nel 1898 pubblica Senilità, ma anche questo non ebbe successo. Il protagonista è Emilio Brentani, un impiegato triestino. Anche lui è un intellettuale con velleità letterarie. S'innamora di Angiolina, una donna dai facili costumi, che lui però crede ingenua e pura. Quando s'accorge dell'errore, spera di recuperarla alla vita onesta, ma non ci riesce. Così cerca una giustificazione (attenuanti) all'atteggiamento della moglie, facendone una vittima della società. Emilio non si suicida ma si toglie la facoltà di desiderare, perché non vede più davanti a sé una realtà da costruire. Il silenzio che accolse quest'opera lo demoralizzò al punto che per 25 anni non scrisse più niente. D'altra parte Svevo non frequentava i circoli letterari del suo tempo, né partecipava ai movimenti di idee che caratterizzavano l'inizio del secolo. La stessa Trieste era una città con una cultura autonoma, che se di quella italiana sapeva assorbire gli aspetti più realistici, si mostrava anche sensibile agli apporti culturali delle correnti slave e germaniche. Senza questo influsso, non sarebbe potuto nascere il "romanzo analitico" di Svevo: il romanzo cioè che alla rappresentazione oggettiva dei fatti (Verismo)

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sostituisce quella di una complicata e profonda angoscia esistenziale, sostenuta dalla tecnica del monologo interiore, che è una tecnica di narrazione indiretta e automatica, per cui gli avvenimenti sono presenti solo attraverso il riflesso ch'essi hanno avuto nella coscienza del protagonista. Per rifarsi dagli insuccessi letterari, impara a suonare il violino e si mette a studiare l'inglese. L'insegnante era James Joyce (conosciuto nel 1905), che più tardi sarebbe diventato il più grande scrittore irlandese e uno dei più grandi del Novecento. A lui lesse Una vita e Senilità, che non dispiacquero a Joyce. Nel '99 entra come socio nella ditta commerciale del suocero (vernici sottomarine). Dopo la I guerra mondiale (in cui parteggiò idealmente per gli italiani), scrisse l'ultimo suo romanzo, La coscienza di Zeno, che uscì nel 1923 (il libro risente molto delle polemiche intorno alle idee di Freud). Anch'esso in un primo momento venne ignorato. Senonché nel 1925, anche per sollecitazione di Joyce, due critici francesi esaltarono Svevo e l'ultimo suo romanzo, facendolo conoscere a tutta Europa. Due mesi prima, in Italia, anche Montale aveva manifestato la sua ammirazione per La coscienza di Zeno, imponendolo all'attenzione della critica italiana. Gli ultimi anni di Svevo furono quindi abbastanza felici. Morì nel 1928 per un incidente automobilistico.

IDEOLOGIA E POETICA A Svevo non è mai interessato rientrare in quelle esperienze culturali italiane volte a superare la crisi post-risorgimentale nella valorizzazione della realtà e dei problemi regionali (ad es. il Verismo). Né gli premeva di ricercare nuovi miti e modelli di comportamento per una borghesia velleitaria o delusa (ad es. Decadentismo, Futurismo, ecc.). Il suo orientamento va piuttosto in direzione di una tematica esistenziale, verso la rappresentazione della solitudine e dell'aridità degli individui che avvertono con disperazione la loro incapacità di aderire alla vita. La sua poetica, in un certo senso, rientra nel vasto movimento decadentistico. Della vita dell'uomo gli interessano non i rapporti sociali, ma gli impulsi più segreti e oscuri, che paralizzano, ovvero gli aspetti dissociati e contraddittori del pensiero e dell'agire. Nei suoi romanzi appare evidente che la solitudine e l'alienazione dei protagonisti sono manifestazioni di una "malattia mortale" che corrode non solo i singoli individui, ma l'intera società borghese, per cui non c'è alcuna speranza che la situazione possa migliorare. C'è insomma un abisso incolmabile fra la consapevolezza con cui si avverte questa tragedia e la possibilità di un'azione costruttiva: anzi, quanto più è forte la consapevolezza, tanto più è forte l'incapacità di reagire. Svevo e Pirandello, in questo senso, si somigliano molto. Svevo si inserisce perfettamente in questa scoperta dell'inconscio (fatta da Freud), che è la strada anche di Proust e di Joyce, ed è questa la vera novità del suo romanzo. Svevo s'interessò molto di psicanalisi freudiana, che era stata divulgata negli anni successivi alla I guerra mondiale, ma il suo interesse è caratterizzato da uno spirito polemico e sottilmente ironico nei confronti di questa nuova disciplina. La psicanalisi viene vista come una terapia cui

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il protagonista dell'ultimo romanzo si sottopone scetticamente, per giungere, quasi contro questa stessa terapia, a ricostruire da solo le motivazioni profonde del suo comportamento. LA COSCIENZA DI ZENO (1923) Il protagonista, più che cinquantenne, è Zeno Cosini, un uomo che non essendo riuscito a smettere di fumare, arriva a farsi rinchiudere in una casa di cura (ove si verificano situazioni comiche: ad es. tentativo di seduzione di una matura infermiera per avere sigarette, sospetti sulla fedeltà coniugale della moglie, sino all'evasione notturna). Il dottore, vista l'inutilità dei primi metodi, lo aveva consigliato di scrivere la propria autobiografia, psicanalizzando se stesso, nella speranza di vederlo guarire. In realtà Zeno, quando inizia a scrivere il romanzo, lo fa in polemica con la terapia del dottore. Il romanzo, in un certo senso, è come un diario a episodi (i "ricordi") intercalato dal racconto vero e proprio (il "monologo interiore"). Gli episodi principali sono il matrimonio con la seconda delle tre sorelle Malfenti, che non amava, dopo essere stato rifiutato dalle altre due, che amava. Le tappe che lo portano al matrimonio (così come a una relazione adulterina) sono casuali. Pur non avendo tatto, sa tradire la moglie senza destare il minimo sospetto. Ha fortuna negli affari, nonostante la scarsa stima di cui gode presso i parenti. Anzi, salva la posizione finanziaria del brillante cognato Guido, che sembrava destinato al successo. La morte del padre, la cui rievocazione gli suscita più che il dolore un profondo rancore: Zeno ricerca vanamente dentro di sé la commozione che gli appare doverosa nella circostanza, poi si rifugia in una inconsapevole ma comoda ipocrisia, al fine di sentirsi "buono". Maggiormente analizzata è la malattia di Zeno, con tutti i suoi inutili quanto puntuali proponimenti di smettere di fumare. Zeno si considera "malato", ma la sua malattia è da un lato "immaginaria", dall'altro "reale". Immaginaria perché di comodo, reale perché gli condiziona di fatto tutta la vita. La vera malattia non è il tabagismo (che comunque nel romanzo resta irrisolta), ma l'alienazione, la netta divisione fra la ragione con cui egli analizza criticamente le contraddizioni della realtà e la volontà (i sentimenti) con cui cerca di affrontarle, che resta sempre impotente, conformistica, vuota. Lo scompenso fra la teoria e la prassi si rivela nei gesti con cui egli esprime proprio quello che non vorrebbe. Così, mentre agisce per conseguire un risultato, ne ottiene un altro; quando non s'interessa alle cose o alle persone è la volta che tutto gli riesce. Zeno stesso non sa giudicare se vale di più la furbizia o la fatalità. In questa condizione la psicanalisi non serve come terapia ma solo come metodo d'indagine dei sintomi della malattia: essa può solo offrire la coscienza dell'alienazione, non l'esperienza del suo superamento. Svevo, in pratica, si serve della psicanalisi per condannare l'ipocrisia della società borghese, ma non offre valide alternative. Le uniche due sono le seguenti: 1) prendere coscienza di questa tragedia umana e limitare le proprie ambizioni o pretese, vivendo più a contatto con le esigenze della natura (ma non nel senso della moglie di Zeno, la quale, nel romanzo, soffre meno di lui, perché vive di più il presente, adeguandosi alla realtà. Secondo Zeno invece la

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mancata consapevolezza dell'alienazione rende Augusta ancora più malata di lui). 2) L'altra alternativa è offerta dall'ironia, che permette all'uomo di sopravvivere, anche se non in maniera convincente, nelle assurde contraddizioni della società borghese. Svevo si serve anche dello strumento del tempo, nel senso che il fluire del tempo confonde la coscienza, finché ne giustifica le azioni, anche quelle negative. Ecco perché lo psicanalista viene considerato da Zeno come un "uomo ridicolo", che s'illude di poter guarire il suo paziente.

U.D. 6_ Luigi Pirandello

Nasce ad Agrigento nel 1867, da una famiglia dell'agiata borghesia, proprietaria di una miniera di zolfo. Sia la madre che il padre parteciparono attivamente alla campagna garibaldina in Sicilia. Dopo aver frequentato il liceo classico a Palermo, Pirandello si iscrive alla facoltà di Lettere dell'Università di Roma, dedicandosi soprattutto alla filologia romanza. In seguito a un violento litigio con un docente, si trasferisce a Bonn nel 1889, dove nel '91 si laurea con una tesi sul dialetto di Agrigento. A Bonn resta come lettore d'italiano per un anno.

Nel '93 torna in Italia. L'anno dopo si sposa con la figlia di un socio di suo padre. Il matrimonio era stato quasi "combinato". Si stabilisce con la famiglia a Roma ed entra nella vita culturale e letteraria del suo tempo, collaborando a numerosi periodici: stringe amicizia con Luigi Capuana, mentre resta ostile al D'Annunzio. Nel '97 assume, come incaricato, l'insegnamento di Letteratura italiana (stilistica) presso l'Istituto superiore di Magistero a Roma; nel 1908 ne diventa professore ordinario insegnando sino al 1922.

Nel 1903 una frana con allagamento distrugge la miniera di zolfo nella quale erano stati investiti sia i capitali di suo padre che la dote di sua moglie, la quale, già sofferente di nervi (sospettava continuamente che il marito la tradisse), si ammalò gravemente, cominciando a manifestare i primi segni di uno squilibrio psichico che la condurrà poi in manicomio. Pirandello reagì a questa situazione conducendo a Roma vita ritirata (per non offrire pretesti alla follia della moglie, ma inutilmente) e lavorando intensamente, anche per far fronte alle difficoltà economiche (insegnava, scriveva e dava lezioni private).

Tuttavia, le sue novelle, raccolte poi col titolo Novelle per un anno, e i suoi romanzi (L'esclusa, Il turno, Il fu Mattia Pascal e altri), nonché i suoi saggi (in particolare L'umorismo) passarono quasi inosservati. La celebrità gli giunse soltanto in età matura, quando -a partire dal 1916- si rivolse quasi interamente al teatro. Le sue commedie, talvolta accolte con dissensi clamorosi, si imposero al pubblico soprattutto dopo la fine della I guerra mondiale. Ottennero vasta risonanza Liolà,

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Pensaci Giacomino!, Così è (se vi pare), Sei personaggi in cerca d'autore, L'uomo dal fiore in bocca, Enrico IV e molte altre commedie.

Nel 1921 inizia ad ottenere grande successo anche all'estero (Praga, Vienna, Budapest, Usa, Sudamerica...), oscurando la fama del D'Annunzio. Nel '24 si iscrive al partito fascista, pochi mesi dopo l'assassinio di Matteotti e forte sarà la sua polemica con Amendola. Tuttavia, Pirandello, che si era iscritto solo per aiutare il fascismo a rinnovare la cultura, restandone presto deluso, non si è mai interessato di politica. Nel '29 il governo Mussolini lo include nel primo gruppo dell'Accademia d'Italia appena fondata (insieme a Marinetti, Panzini, Di Giacomo...): questo era allora il massimo riconoscimento ufficiale per un artista italiano, ma Pirandello non se ne dimostrò affatto entusiasta. Nel '25 assunse la direzione di una compagnia teatrale di Roma, che resterà in vita sino al '28.

Nel '34 gli viene conferito il premio Nobel per la letteratura. Mussolini, attraverso il Ministero degli Esteri, cercò subito di sfruttarne la fama internazionale sperando di usarlo come portavoce estero delle ragioni del fascismo impegnato nella conquista dell'Etiopia. Nel luglio del '35 infatti il drammaturgo doveva partire per Broadway, per rappresentare alcuni suoi capolavori e sicuramente sarebbe stato intervistato dai giornalisti. Ma Pirandello non si prestò a tale servilismo.

Durante le riprese cinematografiche de Il fu Mattia Pascal, effettuate a Roma, si ammala di polmonite e muore nel '36, lasciando incompiuto I giganti della montagna. A dispetto del regime fascista, che avrebbe voluto esequie di Stato, vengono rispettare le clausole del suo testamento: "Carro d'infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno m'accompagni, né parenti né amici. Il carro, il callo, il cocchiere e basta". E così fu fatto.

ideologia e poetica Essendo siciliano, anche Pirandello muove da moduli veristi con novelle paesane, ma da subito il suo verismo è caricaturale e grottesco, inteso a scardinare polemicamente i nessi logici della realtà, soprattutto laddove questi nessi non sono altro che pregiudizi borghesi. I suoi temi di fondo sono già tutti presenti nel suo primo romanzo, L'esclusa (1901) che narra la storia di una donna cacciata di casa dal marito perché ritenuta, ingiustamente, adultera, poi riammessa proprio quando l'adulterio l'ha realmente compiuto. I temi di fondo sono:

- il contrasto tra apparenza (o illusione) e realtà (o tra forma e vita), nel senso che l'uomo ha degli ideali che la realtà impedisce di vivere, poiché la realtà si ferma all'apparenza e non permette all'uomo di essere se stesso;

- l'assurdità della condizione dell'uomo, fissata in schemi precostituiti (adultero, innocente, ladro, iettatore, ecc.): a ciò Pirandello cercherà di opporre il sentimento della casualità o imprevedibilità delle vicende umane; molte sue commedie rappresentano situazioni inverosimili o paradossali, proprio per mettere meglio in luce l'assurdità dei pregiudizi borghesi;

- le molteplici sfaccettature della verità (tante verità quanti sono coloro che presumono di possederla) espresse col "sentimento del contrario" (che è alla base del suo umorismo e che viene utilizzato per vanificare ogni possibile illusione).

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Pirandello ha una concezione relativistica dell'uomo, che ne esclude una conoscenza scientifica. L'uomo è troppo assurdo per essere capito (mentre la natura è più semplice, inconsapevole, felice, anche se resta un paradiso perduto e rimpianto). Il borghese si dibatte fra ciò che sente dentro (sempre mutevole) e il rispetto che deve alle convenzioni sociali (sempre fisse e stereotipate). La "forma" o "apparenza" è l'involucro esteriore che noi ci siamo dati o in cui gli altri ci identificano; la "vita" invece è un flusso di continue sensazioni che spezza ogni forma. Noi crediamo di essere "forme stabili" (personalità definite): in realtà tutto ciò è solo una maschera dietro cui sta la nostra vera vita, fondata sull'inconscio, cioè sull'istinto e sugli impulsi contraddittori. Parafrasando un titolo di un suo romanzo, si potrebbe dire che noi siamo "uno" (perché pretendiamo di avere una forma), "nessuno" (perché non abbiamo una personalità definita) e "centomila" (perché a seconda di chi ci guarda abbiamo un aspetto diverso).

L'uomo, in definitiva, è soggetto al caso, che lo rende una marionetta, che gli impedisce di darsi una personalità. Ogni personaggio teatrale è immerso in una tragica solitudine che non consente alcuna vera comunicativa: sia perché il dialogo non ha lo scopo di far capire le cose o di risolvere i problemi, ma solo di confermare l'assurdità della vita; sia perché ogni tentativo di comprendersi reciprocamente è fondato sull'astrazione delle parole (sofistica), che non riflettono più valori comuni, ma solo la comune alienazione (i dialoghi sono cervellotici e filosofici). D'altra parte, questa è una delle novità del teatro pirandelliano, che lo avvicina molto a quello di Brecht, Ionesco, Beckett..., dandogli una rilevanza mondiale.

Il "sentimento del contrario", tuttavia, potrebbe portare al suicidio o alla follia, se assolutizzato. Pirandello evita questa soluzione affermando che in un'epoca decadente, dove tutto è relativo, solo un'arte umoristica è possibile, un'arte cioè che sappia cogliere i sotterfugi e le piccole meschinità delle persone, senza però che tutto questo divenga oggetto di riso. L'uomo non può far di meglio: ecco perché merita compassione. L'umorista non solo denuncia il vuoto della società borghese, le costruzioni artificiose con cui cerchiamo di ingannare gli altri e noi stessi, ma ha pure pietà dell'uomo che si comporta così, condizionato com'è dal più generale mentire sociale.

Pirandello non ha mai cercato le cause dell'alienazione che caratterizza tutti i suoi personaggi, presi dalla piccola borghesia (impiegati, insegnanti, ecc.). Egli ne attribuisce, in modo generico, alla storia e al caso la responsabilità. Solo nel romanzo I vecchi e i giovani scorge nel fallimento degli ideali risorgimentali e borghesi di libertà e giustizia, la causa storica e sociale della moderna crisi d'identità.

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U.D. 3_ Le Riviste e Antonio Borghese Il primo quindicennio del Novecento è un periodo di vivi fermenti non solo in ambito letterario, ma anche in ambito politico: il processo di industrializzazione e il conseguente accentuarsi dei conflitti di classe, il progressivo formarsi di un'opinione pubblica nazionale, la maggiore conoscenza delle esperienze culturali straniere sollecitata dal decadentismo sono alla base di questa particolare "vivacità" del periodo, vivacità che trova nelle riviste canali e strumenti di espressione particolarmente efficaci. Le più importanti riviste dell’epoca sono:

«La Critica» fondata da Croce nel 1903, è quella che è durata più a lungo (sino al 1944), probabilmente perché legata non ad un gruppo ma ad un uomo. In quanto agli obiettivi culturali, attraverso la discussione di «libri italiani e stranieri, di filosofia, storia e letteratura» Croce dichiarava di indirizzare « le sue censure e le sue polemiche per una parte contro i dilettanti e i lavoratori antimetodici, e per l'altra contro gli accademici adagiati in pregiudizi e ozianti nella esteriorità dell'arte e della scienza». Ciò significa che per un verso l'obiettivo polemico saranno i giovani intellettuali inquieti e "geniali", vogliosi di novità, spesso irrazionalisticamente velleitari e troppo disponibili alle avventure intellettuali (i Papini, i futuristi, i "rivoluzionari"), per l'altro sarà la cultura positivistica attardata su posizioni ottocentesche. Nei primi due decenni Croce procede all'esame critico della letteratura di tardo Ottocento (in saggi che confluiranno nei volumi de La letteratura della nuova Italia) e Gentile si interessa soprattutto di filosofia. Quando, con l'avvento del fascismo, l'operosa amicizia tra i due si spezzerà, «La Critica» - che aveva preso posizione contro l'interventismo - assolse il ruolo di cittadella dell'antifascismo liberale: Croce con i suoi seguaci (Adolfo Omodeo, Guido De Ruggiero, Francesco Flora ecc.) si battè - pur nei limiti che la situazione politica imponeva - contro le mitologie del tempo, prima fra tutte il razzismo. «Leonardo» I dilettanti e i geniali contro i quali polemizzava Croce si esprimevano, con una variegata gamma di posizioni, in parecchie riviste che, dalla sede di pubblicazione, vengono complessivamente indicate come "le riviste fiorentine". La prima di queste è il «Leonardo» che, fondata da Giovanni Papini, si pubblica con varia periodicità dal 1903 al 1907, e si distingue per le suggestioni dannunziane che accoglie, per le sprezzanti posizioni antidemocratiche e antisocialiste, per la polemica contro il positivisismo. «Hermes» e «Il Regno» (altre riviste fiorentine). «Hermes» fondata da Giuseppe Antonio Borgese nel 1904 e «Il Regno» fondata da Enrico Corradini alla fine del 1903. «Hèrmès» nel complesso fu «una rivista disorganica e frammentaria; le sono mancate così l'audacia

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antiaccademica, la libertà di discorso, la capacità e l'assimilazione e la vitalità culturale del "Leonardo" come la definita funzione politica del "Regno"»; va sottolineato comunque che anche essa si colloca nell'ambito delle suggestioni dannunziane, che i suoi collaboratori si autodefiniscono «imperialisti», che sulle sue pagine viene vaticinato «un prossimo risorgimento di tutte le attività nazionali; tanto intellettuali quanto fantastiche, così politiche come industriali ed economiche». «Il Regno» è la rivista di giù accesi spiriti nazionalistici e antidemocratici; è sulle sue pagine che si comincia a parlare di «missione africana» dell'Italia, e della Francia come della «rivale naturale» nel Mediterraneo, ed è su essa che si insiste sulla concezione di uno Stato come strumento per la realizzazione dei «migliori». In altre parole, l'esaltazione della forte personalità la mitologia individualisticà - alle quali avevano contribuito il decadentismo, l'interpretazione "sociale" delle teorie di Darwin, Nietzsche, la teoria delle élites di Gaetano Mosca e parecchi altri fattori - ora non sono concepite come antagonistiche nei riguardi dello Stato, e trovano invece in uno Stato autoritario al servizio dei migliori lo strumento per meglio realizzarsi ed espandersi. È chiaro che da una prospettiva simile gli obiettivi polemici sono il socialismo, i principi democratici e persino certe posizioni di cattolici avanzati, come ad esempio don Romolo Murri. «La Voce» è la più importante rivista del periodo, che Giuseppe Prezzolini fonda nel dicembre del 1908 (durerà silo al 1916). Definire sinteticamente la fisionomia non è facile, anche perché essa ebbe varie fasi, cioè direttori e orientamenti diversi. Nella prima fase (1908-1911) diretta da Prezzolini - Tra i collaboratori Croce, Amendola, Salvemini, Cecchi, Einaudi - « La Voce» affronta i problemi di un rinnovamento culturale compiendo analisi concrete (sulla scuola, sulla questione meridionale ecc.) e collegando la figura di un nuovo letterato a una nuova realtà politico-sociale (e da ciò la polemica per un verso contro D'Annunzio e per l'altro contro Giolitti). E tuttavia assieme a questo c'è - specie in Prezzolini - una sorta di illuministica fiducia nei poteri della cultura, degli intellettuali, un atteggiamento di intellettualistica superiorità che isola questi "primi della classe" da collegamenti e alleanze con le forze politiche. Quando Salvemini e altri lasciano «La Voce» nel 1911 perché Prezzolini approva l'impresa libica, la direzione passa dal 1912 alla fine del 1913 - la seconda fase - a Papini, e la rivista si apre particolarmente a quelle prove letterarie (liriche, frammenti, impressioni) che hanno fatto parlare di " espressionismo vociano". Per un anno, il 1914 - è la terza fase - « La Voce» torna ad essere diretta da Prezzolini, che la definisce «rivista dell'idealismo militante », facendone una tribuna di posizioni irrazionalistiche e attivistiche (da Bergson a Sorel) e dell'interventismo. Quando egli l'abbandona per collaborare con Mussolini, che ha fondato il «Popolo d'Italia», « La Voce» passa a Giuseppe De Robertis dalla fine del 1914 al 1916 - è la quarta fase, quella della cosiddetta "Voce bianca", dal colore della copertina - e diventa una rivista esclusivamente letteraria, che ospita autori destinati a

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diventare poi fondamentali nella nostra letteratura (Ungaretti, Govoni, Palazzeschi, Campana ecc.). «l'Unità» ebbe un carattere decisamente politico, fondata da Salvemini nel 1912 dopo il suo dissenso con i vociani sull'impresa libica (e pubblicata sino al 1920): concreta e pragmatica come la personalità del direttore d'altronde), «divenne in breve il cenacolo di quanti rifuggendo dalla moda del dannunzianesimo e dalle astrattezze idealistiche intendevano approfondire lo studio della realtà che li circondava». «Lacerba» fu eterogenea nei suoi interessi, volutamente eccessiva, iconoclastica, "futurista", fondata da Papini e Ardengo Soffici nel 1913 (durerà fino al 1915); in essa parecchi autori (tra cui Palazzeschi) espressero il loro momento più vistosamente futurista e Papini esibì il suo ribellismo (famigerato l'articolo Vogliamo la guerra!). Gobetti a questo proposito parlerà di «letteratura canagliesca».

Antonio Borghese Giuseppe Antonio Borgese (1882, Polizzi Generosa, Palermo – 1952, Fiesole, Firenze) fu scrittore, giornalisra e critico italiano. Si laureò in Lettere all’Università di Firenze nel 1903 con una tesi di laurea dal titolo "Storia della critica romantica in Italia" che venne pubblicata da Croce nelle Edizioni della Critica a Napoli nel 1905. Contemporaneamente iniziò a collaborare al Leonardo, poi al Regno e nel 1904 fondò la rivista Hermes, dichiaratamente dannunziana, diventandone il giovanissimo direttore. Svolse anche un'intensa attività giornalistica come redattore capo del Corriere della Sera, inviato speciale de La Stampa e caporedattore del Mattino. Insegnò all'Università di Torino letteratura tedesca e in seguito a Roma, vinse poi la cattedra presso l'Università di Milano, dove insegnò estetica e storia della critica fino al 1931 quando, per la sua opposizione al regime fascista, lasciò l'Italia per stabilirsi negli Stati Uniti dove si considerò un esiliato politico, soprattutto dopo la sua dura requisitoria contro il fascismo scritta in Goliath nel 1937. Durante l'esilio insegnò nelle Università della California e di Chicago fino al termine della seconda guerra mondiale. Fu negli Stati Uniti che incontrò Thomas Mann al quale si legò con vincoli di amicizia. Innamoratosi di Elisabeth Mann, figlia dello scrittore tedesco e lei stessa futura scrittrice, chiese il divorzio dalla prima moglie, la letterata e poetessa Maria Freschi dalla quale aveva avuto due figli, e sposò in seconde nozze Elisabeth. Nel 1945 Borgese ritornò alla cattedra di Milano, città in cui visse per lo più gli ultimi anni della sua vita. Morì a Fiesole nel 1952. Borgese fu scrittore versatile e accanto alla sua attività di giornalista e di critico, fu anche compositore di opere poetiche, di romanzi, di racconti, di novelle e di opere teatrali.

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Oltre alle poesie La canzone paziente (1910), pubblicò Le Poesie (1922) e Poesie 1922-1952 (1952). Scrisse anche numerosi romanzi tra i quali Rubè (1921), opera notevole per lo stile e per la trama psicologica che analizzava le contraddizioni morali di un intellettuale e I vivi e i morti (1923). Borgese scrisse anche molte novelle che raccolse in Le novelle nel 1950, tra queste si ricordano La città sconosciuta del 1925, La tragedia di Mayerling del 1925, Le belle del 1927, Il sole non è tramontato del 1929, Tempesta nel nulla del 1931, Il pellegrino appassionato del 1933, La Siracusana del 1950. Per il teatro compose due drammi: L'Arciduca (1924) e Lazzaro (1925). Moltissimi e validi furono i saggi di critica letteraria e di estetica che seguono un percorso approdante a tesi polemiche nei confronti dei suoi primi maestri e modelli, soprattutto nei confronti di D'Annunzio. Anche l'attività giornalistica e politica di Borgese viene testimoniata in numerosi volumi, come La guerra delle idee, L'Italia e la nuova alleanza e numerosi altri. Tra i libri di viaggio si ricordano Autunno a Costantinopoli, Giro lungo per la primavera, Escursioni in terre nuove e Atlante americano. Il romanzo Rubè fu pubblicato per la prima volta da Treves nel 1921. Il libro si divide in quattro parti e trentaquattro capitoli ed è stato ripubblicato da Mondadori a partire dal 1928 e ripubblicato successivamente. Il protagonista è Filippo Rubè, un giovane non ancora trentenne che arriva a Roma dalla provincia siciliana per fare pratica d'avvocato presso uno studio legale. Filippo era dotato di tutte le doti per riuscire nella carriera forense, tipiche di un giovane meridionale e possedeva "una logica da spaccare il capello in quattro, un fuoco oratorio che consumava l'argomentazione avversaria fino all'osso e una certa fiducia d'essere capace di grandi cose". Allo scoppio della prima guerra mondiale, Rubè si fa trascinare dalla propaganda interventista dei marinettiani e si convince ad arruolarsi come volontario nel reggimento di artiglieria guidato dal maggiore Berti. Conosce Eugenia, la figlia del maggiore Berti, giovane di una bellezza "lineare come una vergine preraffaellita conciliatrice del sonno e della morte". L'impatto con la guerra risulta però traumatica per il giovane Filippo che, sconvolto da un breve bombardamento, cade in un forte stato di depressione. Nel frattempo Eugenia aveva raggiunto il padre al fronte come infermiera e Rubè le confida il suo stato e i suoi tormenti. Tra i due giovani inizia una relazione. Il giovane, a causa della depressione di cui soffriva, ottiene un permesso per un mese di convalescenza che trascorre a Calini, suo paese natale. Trascorso il mese di convalescenza, Filippo ritorna al fronte e, durante uno scontro sugli Altipiani, viene ferito a un polmone. Trascorre una lunga degenza ad Udine e in seguito ritorna a Roma dove ritrova Eugenia che convince a diventare la sua amante. Iniziano un rapporto fatto di attrazione e repulsione, segnato dalla "cupidigia" di Filippo e dell'"inespresso rancore" di Eugenia costretta a squallidi incontri clandestini. Nel frattempo Rubè accetta di recarsi a Parigi in

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missione e a Parigi conosce Celestina Lambert, la moglie di un generale, che ascolta con comprensione la confessione delle contraddizioni e delle angosce di Filippo ma ne rifiuta le avances. Alla fine della guerra Filippo si trasferisce a Milano, trova un impiego presso un'industria metallurgica e sposa Eugenia. Ma il matrimonio non serve a riavvicinare i due giovani che rimangono completamente incapaci di comprendersi affettivamente. A causa della crisi economica Rubè viene licenziato. Nello stesso tempo riceve dalla moglie la notizia della sua gravidanza e ciò lo fa cadere in una disperata angoscia. A Milano intanto Filippo ritrova un ufficiale conosciuto al fronte, Garlandi, che indossa la camicia nera e si lascia convincere a partecipare ad un'adunanza fascista. Dopo l'adunanza l'amico lo trascina in una bisca, dove Rubè vince una forte somma alla roulette con la quale pensa di concedersi una vacanza a Parigi. Nel viaggio verso Parigi, Filippo fa una sosta a Stresa e ritrova Celestina Lambert che è all' Isola Bella in villeggiatura. Tra i due esplode una forte passione, ma durante una gita sul lago, a causa di un temporale, la barca si rovescia e Celestina annega. Filippo viene accusato di omicidio, viene prosciolto in istruttoria ma è smarrito. Ritorna al suo paese ma la notizia della vicenda in cui è incorso si è ormai sparsa, così il giovane riparte senza aver rivisto la madre. Decide di ritornare da Eugenia e le spedisce un telegramma dandole appuntamento alla stazione di Bologna, ma non si incontrano. Così Rubè si mette a gironzolare per Bologna e incappa in una manifestazione socialista. Cercando di sfuggire alla calca della folla raggiunge la testa del corteo ma viene travolto dalla carica di cavalleria della polizia. Lo portano all'ospedale dove muore tra le braccia di Eugenia e la sua memoria verrà rivendicata sia dai socialisti che dai fascisti. I primi lo ricordano come un martire della causa, i secondi per il passato di "glorioso combattente".

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Allegato al Modulo 3_ Le Avanguardie

U.D. 1, 2_ Crepuscolarismo e Futurismo (autori)

Corrado Govoni, Il Palombaro (1915), poesia, da Rarefazioni e parole in libertà

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Filippo Tommaso Marinetti

Manifesti futuristi

Fondazione e manifesto del futurismo Pubblicato dal «Figaro» di Parigi il 20 febbraio 1909

Esaltazione dei progresso tecnico e scientifico, e delle prospettive affatto nuove che esso apre, passione per il nuovo valore, la velocità, corsa verso il futuro e bisogno di liberarsi dei limiti, dei retaggi che la vecchia cultura impone: sono questi gli elementi base del Manifesto dei futurismo, esasperati in asserzioni dogmatiche quanto quelle della cultura che si vuole distruggere, tanto che dalla letteratura nuova il Manifesto passa ad appoggiare l'interventismo, il nazionalismo, la guerra, come valori, come realizzazione dell'uomo nuovo. Così le giuste istanze contro una letteratura accademica, barbosa, immobile, vengono fuorviate, strumentalizzate, diremmo oggi, associandosi a un progetto politico che non ne raccoglie se non le immagini e le forze superficiali, il fascismo, ma che in realtà ne distrugge le potenzialità innovatrici. Avevamo vegliato tutta la notte - i miei amici ed io sotto lampade di moschea dalle cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgòre di un cuore elettrico. Avevamo lungamente calpestata su opulenti tappeti orientali la nostra atavica accidia, discutendo davanti ai confini estremi della logica ed annerendo molta carta di frenetiche scritture. Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti, poiché ci sentivamo soli, in quell'ora, ad esser desti e ritti, come fari superbi o come sentinelle avanzate, di fronte all'esercito delle stelle nemiche, occhieggianti dai loro celesti accampamenti. Soli coi fuochisti che s'agitano davanti ai forni infernali delle grandi navi, soli coi neri fantasmi che frugano nelle pance arroventate delle locomotive lanciate a pazza corsa, soli cogli ubriachi annaspanti, con un incerto batter d'ali, lungo i muri della città. Sussultammo ad un tratto, all'udire il rumore formidabile degli enormi tramvai a due piani, che passano sobbalzando, risplendenti di luci multicolori, come i villaggi in festa che il Po straripato squassa e sràdica d'improvviso, per trascinarli fino al mare, sulle cascate e attraverso i gorghi di un diluvio. Poi il silenzio divenne più cupo. Ma mentre ascoltavamo l'estenuato borbottìo, di preghiere del vecchio canale e lo scricchiolar dell'ossa dei palazzi moribondi sulle loro barbe di umida verdura, noi udimmo subitamente ruggire sotto le finestre gli automobili famelici. «Andiamo,» diss'io, «andiamo, amici! Partiamo! Finalmente, la mitologia e l'ideale mistico sono superati. Noi stiamo per assistere alla nascita del Centauro e presto vedremo volare i primi Angeli!... Bisognerà scuotere le porte della vita per provarne i cardini e i chiavistelli!... Partiamo! Ecco, sulla terra, la primissima aurora! Non v'è cosa che agguagli lo splendore della rossa spada del sole che schermeggia per la prima volta nelle nostre tenebre millenarie! ... »

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Ci avvicinammo alle tre belve sbuffanti, per palparne amorosamente i torridi petti. lo mi stesi sulla mia macchina come un cadavere nella bara, ma subito risuscitai sotto il volante, lama di ghigliottina che minacciava il mio stomaco. La furente scopa della pazzia ci strappò a noi stessi e ci cacciò attraverso le vie, scoscese e profonde come letti di torrenti. Qua e là una lampada malata, dietro i vetri d'una finestra, c'insegnava a disprezzare la fallace matematica dei nostri occhi perituri. Io gridai: «Il fiuto, il fiuto solo, basta alle belve!» E noi, come giovani leoni, inseguivamo la Morte, dal pelame nero maculato di pallide croci, che correva via pel vasto cielo violaceo, vivo e palpitante. Eppure non avevamo un'Amante ideale che ergesse fino alle nuvole la sua sublime figura, né una Regina crudele a cui offrire le nostre salme, contorte a guisa di anelli bisantini! Nulla, per voler morire, se non il desiderio di liberarci finalmente dal nostro coraggio troppo pesante! E noi correvamo schiacciando su le soglie delle case i cani da guardia che si arrotondavano, sotto i nostri pneumatici scottanti, come solini sotto il ferro da stirare. La Morte, addomesticata, mi sorpassava ad ogni svolto, per porgermi la zampa con grazia, e a quando a quando si stendeva a terra con un rumore di mascelle stridenti, mandandomi, da ogni pozzanghera, sguardi vellutati e carezzevoli. «Usciamo dalla saggezza come da un orribile guscio, e gettiamoci, come frutti pimentati d'orgoglio, entro la bocca immensa e tôrta del vento!... Diamoci in pasto all'Ignoto, non già per disperazione, ma soltanto per colmare i profondi pozzi dell'Assurdo! » Avevo appena pronunziate queste parole, quando girai bruscamente su me stesso, con la stessa ebrietà folle dei cani che voglion mordersi la coda, ed ecco ad un tratto venirmi incontro due ciclisti, che mi diedero torto, titubando davanti a me come due ragionamenti, entrambi persuasivi e nondimeno contradittorii. Il loro stupido dilemma discuteva sul mio terreno... Che noia! Auff!... Tagliai corto, e, pel disgusto, mi scaraventai colle ruote all'aria in un fossato... Oh! materno fossato, quasi pieno di un'acqua fangosa! Bel fossato d'officina! lo gustai avidamente la tua melma fortificante, che mi ricordò la santa mammella nera della mia nutrice sudanese... Quando mi sollevai - cencio sozzo e puzzolente - di sotto la macchina capovolta, io mi sentii attraversare il cuore, deliziosamente, dal ferro arroventato della gioia! Una folla di pescatori armati di lenza e di naturalisti podagrosi tumultuava già intorno al prodigio. Con cura paziente e meticolosa, quella gente dispose alte armature ed enormi reti di ferro per pescare il mio automobile, simile ad un gran pescecane arenato. La macchina emerse lentamente dal fosso, abbandonando nel fondo, come squame, la sua pesante carrozzeria di buon senso e le sue morbide imbottiture di comodità. Credevano che fosse morto, il mio bel pescecane, ma una ta, malattia che si riteneva colmia carezza bastò a rianimarlo, ed eccolo risuscitato,

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eccolo Pisse le persone sedentarie). in corsa, di nuovo, sulle sue pinne possenti! Allora, col volto coperto della buona melma delle officine - impasto di scorie metalliche, di sudori inutili, di fuliggini celesti - noi, contusi e fasciate le braccia ma impavidi, dettammo le nostre prime volontà a tutti gli uomini vivi della terra: Manifesto del futurismo 1. Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità. 2. Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. 3. La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. 4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia. 5. Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita. 6, Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l'entusiastico fervore degli elementi primordiali. 7. Non v'è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all'uomo. 8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!... Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell'Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell'assoluto, poiché abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente. 9. Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna. 10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria. 11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori o polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l'orizzonte, le

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locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d'acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta. È dall'Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il «Futurismo», perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d'archeologhi, di ciceroni e d'antiquarii. Già per troppo tempo l'Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagl'innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri innumerevoli. Musei: cimiteri!... Identici, veramente, per la sinistra promiscuità di tanti corpi che non si conoscono. Musei: dormitori pubblici in cui si riposa per sempre accanto ad esseri odiati o ignoti! Musei: assurdi macelli di pittori e scultori che varino trucidandosi ferocemente a colpi di colori e di linee, lungo le pareti contese! Che ci si vada in pellegrinaggio, una volta all'anno, come si va al Camposanto nel giorno dei morti... ve lo concedo. Che una volta all'anno sia deposto un omaggio di fiori davanti alla Gioconda, ve lo concedo... Ma non ammetto che si conducano quotidianamente a passeggio per i musei le nostre tristezze, il nostro fragile coraggio, la nostra morbosa inquietudine. Perché volersi avvelenare? Perché volere imputridire? E che mai si può vedere, in un vecchio quadro, se non la faticosa contorsione dell'artista, che si sforzò di infrangere le insuperabili barriere opposte al desiderio di esprimere interamente il suo sogno?... Ammirare un quadro antico equivale a versare la nostra sensibilità in un'urna funeraria, invece di proiettarla lontano, in violenti getti di creazione e di azione. Volete dunque sprecare tutte le forze migliori, in questa eterna ed inutile ammirazione del passato, da cui uscite fatalmente esausti, diminuiti e calpesti? In verità io vi dichiaro che la frequentazione quotidiana dei musei, delle biblioteche e delle accademie (cimiteri di sforzi vani, calvarii di sogni crocifissi, registri di slanci troncati! ... ) è, per gli artisti, altrettanto dannosa che la tutela prolungata dei parenti per certi giovani ebbri del loro ingegno e della loro volontà ambiziosa. Per i moribondi, per gl'infermi, pei prigionieri, sia pure: - l'ammirabile passato è forse un balsamo ai loro mali, poiché per essi l'avvenire è sbarrato... Ma noi non vogliamo più saperne, del passato, noi, giovani e forti futuristi! E vengano dunque, gli allegri incendiarii dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!... Suvvia! date fuoco agli scaffali delle biblioteche!... Sviate il corso dei canali, per inondare i musei!... Oh, la gioia di veder galleggiare alla deriva, lacere e stinte su quelle acque, le vecchie tele gloriose!... Impugnate i picconi, le scuri, i martelli e demolite senza pietà le città venerate! I più anziani fra noi, hanno trent'anni: ci rimane dunque almeno un decennio, per compier l'opera nostra. Quando avremo quarant'anni, altri uomini più giovani e più validi di noi, ci gettino pure nel cestino, come

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manoscritti inutili. Noi lo desideriamo! Verranno contro di noi, i nostri successori; verranno di lontano, da ogni parte, danzando su la cadenza alata dei loro primi canti, protendendo dita adunche di predatori, e fiutando caninamente, alle porte delle accademie, il buon odore delle nostre menti in putrefazione, già promesse alle catacombe delle biblioteche. Ma noi non saremo là... Essi ci troveranno alfine - una notte d'inverno - in aperta campagna, sotto una triste tettoia tamburellata da una pioggia monotona, e ci vedranno accoccolati accanto ai nostri aeroplani trepidanti e nell'atto di scaldarci le mani al fuocherello meschino che daranno i nostri libri d'oggi fiammeggiando sotto il volo delle nostre immagini. Essi tumultueranno intorno a noi, ansando per angoscia e per dispetto, e tutti, esasperati dal nostro superbo, instancabile ardire, si avventeranno per ucciderci, spinti da un odio tanto più implacabile inquantoché i loro cuori saranno ebbri di amore e di ammirazione per noi. La forte e sana Ingiustizia scoppierà radiosa nei loro occhi. - L'arte, infatti, non può essere che violenza, crudeltà ed ingiustizia. I più anziani fra noi hanno trent'anni: eppure, noi abbiamo già sperperati tesori, mille tesori di forza, di amore, d'audacia, d'astuzia e di rude volontà; li abbiamo gettati via impazientemente, in furia, senza contare, senza mai esitare, senza riposarci mai, a perdifiato... Guardateci! Non siamo ancora spossati! I nostri cuori non sentono alcuna stanchezza, poiché sono nutriti di fuoco, di odio e di velocità!... Ve ne stupite?... E logico, poiché voi non vi ricordate nemmeno di aver vissuto! Ritti sulla cima delmondo, noi scagliamo una volta ancora, la nostra sfida alle stelle! Ci opponete delle obiezioni?... Basta! Basta! Le conosciamo... Abbiamo capito!... La nostra bella e mendace intelligenza ci afferma che noi siamo il riassunto e il prolungamento degli avi nostri. - Forse!... Sia pure!... Ma che importa? Non vogliamo intendere!... Guai a chi ci ripeterà queste parole infami!... Alzare la testa!... Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!... Manifesto tecnico della letteratura futurista 11 maggio 1912 Abbiamo visto, nel manifesto precedente, quale intervento sui contenuti dell'arte e della letteratura intendesse operare il rnovimento futurista. Questo manifesto tecnico - datato 11 maggio 1912 - propone, invece, di regolare l'intervento sulle forme letterarie. Era accluso alla prima antologia dei Poeti futuristi pubblicata dalle Edizioni di «Poesia», rivista internazionale fondata a Milano nel 1905 dallo stesso Marinetti con Sem Benelli e Vitaliano Ponti. Tra i collaboratori italiani sono, tra gli altri, Pascoli, Gozzano, Lucini e Palazzeschi. Proprio sul «manifesto tecnico» Lucini ruppe con Marinetti, per motivi politici (era contrario all'intervento militare in Libia) e letterari.

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In aeroplano, seduto sul cilindro della benzina, scaldato il ventre dalla testa dell'aviatore, io sentii l'inanità ridicola della vecchia sintassi ereditata da Omero. Bisogno furioso di liberare le parole, traendole fuori dalla prigione del periodo latino! Questo ha naturalmente, come ogni imbecille, una testa previdente, un ventre, due gambe e due piedi piatti, ma non avrà mai due ali. Appena il necessario per camminare, per correre un momento e fermarsi quasi subito sbuffando! Ecco che cosa mi disse l'elica turbinante, mentre filavo a duecento metri sopra i possenti fumaiuoli di Milano. E l'elica soggiunse: 1. Bisogna distruggere la sintassi disponendo i sostantivi a caso, come nascono. 2. Si deve usare il verbo all'infinito, perché si adatti elasticamente al sostantivo e non lo sottoponga all'io dello scrittore che osserva o immagina. Il verbo all'infinito può, solo, dare il senso della continuità della vita e l'elasticità dell'intuizione che la percepisce. 3. Si deve abolire l'aggettivo, perché il sostantivo nudo conservi il suo colore essenziale. L'aggettivo avendo in sé un carattere di sfumatura, è inconcepibile con la nostra visione dinamica, poiché suppone una sosta, una meditazione. 4. Si deve abolire l'avverbio, vecchia fibbia che tiene unite l'una all'altra le parole. L'avverbio conserva alla frase una fastidiosa unità di tono. 5. Ogni sostantivo deve avere il suo doppio, cioè il sostantivo deve essere seguito, senza congiunzione, dal sostantivo a cui è legato per analogia. Esempio: uomo-torpediniera, donna-golfo, folla-risacca, piazza-imbuto, porta-rubinetto. Siccome la velocità aerea ha moltiplicato la nostra conoscenza dei mondo, la percezione per analogia diventa sempre più naturale per l'uomo. Bisogna dunque sopprimere il come, il quale, il così, il simile a. Meglio ancora, bisogna fondere direttamente l'oggetto coll'immagine che esso evoca, dando l'immagine in iscorcio mediante una sola parola essenziale. 6. Abolire anche la punteggiatura. Essendo soppressi gli aggettivi, gli avverbi e le congiunzioni, la punteggiatura è naturalmente annullata, nella continuità varia di uno stile vivo che si crea da sé, senza le soste assurde delle virgole e dei punti. Per accentuare certi movimenti e indicare le loro direzioni, s'impiegheranno segni della matematica: + - x : = > <, e i segni musicali. 7. Gli scrittori si sono abbandonati finora all'analogia immediata. Hanno paragonato per esempio l'animale all'uomo o ad un altro animale, il che equivale ancora, press'a poco, a una specie di fotografia... (Hanno paragonato per esempio un fox-terrier a un piccolissimo puro-sangue. Altri, più avanzati, potrebbero paragonare quello stesso fox-terrier trepidante a una piccola macchina Morse. Io lo paragono invece a un'acqua ribollente. V'è in ciò una gradazione di analogie sempre più vaste, vi sono dei rapporti sempre più profondi e solidi, quantunque lontanissimi.) L'analogia non è altro che l'amore profondo che collega le cose distanti, apparentemente diverse ed ostili. Solo per mezzo di analogie vastissime uno

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stile orchestrale, ad un tempo policromo, polifonico, e polimorfo, può abbracciare la vita della materia. Quando nella mia Battaglia di Tripoli, ho paragonato una trincea irta di baionette a un'orchestra, una mitragliatrice ad una donna fatale, ho introdotto intuitivamente una gran parte dell'universo in un breve episodio di battaglia africana. Le immagini non sono fiori da scegliere e da cogliere con parsimonia, come diceva Voltaire. Esse costituiscono il sangue stesso della poesia. La poesia deve essere un seguito ininterrotto di immagini nuove senza di che non è altro che anemia e clorosi. Quanto più le immagini contengono rapporti vasti, tanto più a lungo esse conservano la loro forza di stupefazione. Bisogna - dicono - risparmiare la meraviglia del lettore. Eh! via! Curiamoci, piuttosto, della fatale corrosione del tempo, che distrugge non solo il valore espressivo di un capolavoro, ma anche la sua forza di stupefazione. Le nostre vecchie orecchie troppe volte entusiaste non hanno forse già distrutto Beethoven e Wagner? Bisogna dunque abolire nella lingua tutto ciò che essa contiene in fatto d'immagini stereotipate, di metafore scolorite, e cioè quasi tutto. 8. Non vi sono categorie d'immagini, nobili o grossolane o volgari, eccentriche o naturali. L'intuizione che le percepisce non ha né preferenze né partiti-presi. Lo stile analogico è dunque padrone assoluto di tutta la materia e della sua intensa vita. 9. Per dare i movimenti successivi d'un oggetto bisogna dare la catena delle analogie che esso evoca, ognuna condensata, raccolta in una parola essenziale. Ecco un esempio espressivo di una catena di analogie ancora mascherate e appesantite dalla sintassi tradizionale: Eh sì! voi siete, piccola mitragliatrice, una donna affascinante, e sinistra, e divina, al volante di una invisibile centocavalli, che rugge con scoppii d'impazienza. Oh! certo fra poco balzerete nel circuito della morte, verso il capitombolo fracassante o la vittoria!... Volete che io vi faccia dei madrigali pieni di grazia e di colore? A vostra scelta signora... Voi somigliate per me, a un tribuno proteso, la cui lingua eloquente, instancabile, colpisce al cuore gli uditori in cerchio, commossi... Siete, in questo momento, un trapano onnipotente, che fora in tondo il cranio troppo duro di questa notte ostinata... Siete, anche, un laminatoio, un tornio elettrico, e che altro? Un gran cannello ossidrico che brucia, cesella e fonde a poco a poco le punte metalliche delle ultime stelle!.. (Battaglia di Tripoli) In certi casi bisognerà unire le immagini a due a due, come le palle incatenate, che schiantano, nel loro volo tutto un gruppo d'alberi. Per avviluppare e cogliere tutto ciò che vi è di più fuggevole e di più inafferrabile nella materia, bisogna formare delle strette reti d'immagini o analogie, che verranno lanciate nel mare misterioso dei fenomeni. Salvo la forma a festoni tradizionale, questo periodo del mio Mafarka il futurista è un esempio di una simile fitta rete di immagini:

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Tutta l'acre dolcezza della gioventù scomparsa gli saliva su per la gola, come dai cortili delle scuole salgono le grida allegre dei fanciulli verso i maestri affacciati al parapetto delle terrazze da cui si vedono fuggire i bastimenti... Ed ecco ancora tre reti d'immagini: Intorno al pozzo della Bumeliana, sotto gli olivi folti, tre cammelli comodamente accovacciati nella sabbia si gargarizzavano dalla contentezza, come vecchie grondaie di pietra, mescolando il ciac-ciac dei loro sputacchi ai tonfi regolari della pompa a vapore che dà da bere alla città. Stridori e dissonanze futuriste, nell'orchestra profonda delle trincee dai pertugi sinuosi e dalle cantine sonore, fra l'andirivieni delle baionette, archi di violino che la rossa bacchetta del tramonto infiamma di entusiasmo... È il il tramonto-direttore d'orchestra, che con un gesto ampio raccoglie i flauti sparsi degli uccelli negli alberi, e le arpe lamentevoli degli insetti, e lo scricchiolìo dei rami, e lo stridìo delle pietre. È lui che ferma a un tratto i timpani delle gamelle e dei fucili cozzanti, per lasciar cantare a voce spiegata sull'orchestra degli strumenti in sordina, tutte le stelle d'oro, ritte, aperte le braccia, sulla ribalta del cielo. Ed ecco una gran dama allo spettacolo... Vastamente scollacciato, il deserto infatti mette in mostra il suo seno immenso dalle curve liquefatte, tutte verniciate di belletti rosei sotto le gemme crollanti della prodiga notte. (Battaglia di Tripoli) 10. Siccome ogni specie di ordine è fatalmente un prodotto dell'intelligenza cauta e guardinga, bisogna orchestrare le immagini disponendole secondo un maximum di disordine. 11. Distruggere nella letteratura l'«io», cioè tutta la psicologia. L'uomo completamente avariato dalla biblioteca e dal museo, sottoposto a una logica e ad una saggezza spaventose, non offre assolutamente più interesse alcuno. Dunque, dobbiamo abolirlo nella letteratura, e sostituirlo finalmente colla materia, di cui si deve afferrare l'essenza a colpi d'intuizione, la qual cosa non potranno mai fare i fisici né i chimici. Sorprendere attraverso gli oggetti in libertà e i motori capricciosi, la respirazione, la sensibilità e gli istinti dei metalli, delle pietre, del legno ecc. Sostituire la psicologia dell'uomo, ormai esaurita, con l'ossessione lirica della materia. Guardatevi dal prestare alla materia i sentimenti umani, ma indovinate piuttosto i suoi differenti impulsi direttivi, le sue forze di compressione, di dilatazione, di coesione, e di disgregazione, le sue torme di molecole in massa o i suoi turbini di elettroni. Non si tratta di rendere i drammi della materia umanizzata. È la solidità di una lastra d'acciaio, che c'interessa per sé stessa, cioè l'alleanza incomprensibile e inumana delle sue molecole o dei suoi elettroni, che si oppongono, per esempio, alla penetrazione di un obice. Il calore di un pezzo di ferro o di legno è ormai più appassionante, per noi, del sorriso o delle lagrime di una donna. Noi vogliamo dare, in letteratura, la vita del motore, nuovo animale istintivo del quale conosceremo l'istinto generale allorché avremo conosciuto gl'istinti delle diverse forze che lo compongono.

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Nulla è più interessante, per un poeta futurista, che l'agitarsi della tastiera di un pianoforte meccanico. Il cinematografo ci offre la danza di un oggetto che si divide e si ricompone senza intervento umano. Ci offre anche lo slancio a ritroso di un nuotatore i cui piedi escono dal mare e rimbalzano violentemente sul trampolino. Ci offre infine la corsa d'un uomo a 200 chilometri all'ora. Sono altrettanti movimenti della materia, fuor dalle leggi dell'intelligenza, e quindi di una essenza più significativa. Bisogna introdurre nella letteratura tre elementi che furono finora trascurati:

1. il rumore (manifestazione del dinamismo degli oggetti); 2. il peso (facoltà di volo degli oggetti); 3. l'odore (facoltà di sparpagliamento degli oggetti).

Sforzarsi di rendere per esempio il paesaggio di odori che percepisce un cane. Ascoltare i motori e riprodurre i loro discorsi. La materia fu sempre contemplata da un io distratto, freddo, troppo preoccupato di sé stesso, pieno di pregiudizi di saggezza e di ossessioni umane. L'uomo tende a insudiciare della sua gioia giovane o del suo dolore vecchio la materia, che possiede una ammirabile continuità di slancio verso un maggiore ardore, un maggior movimento, una maggiore suddivisione di sé stessa. La materia non è né triste né lieta. Essa ha per essenza il coraggio, la volontà e la forza assoluta. Essa appartiene intera al poeta divinatore che saprà liberarsi dalla sintassi tradizionale, pesante, ristretta, attaccata al suolo, senza braccia e senza ali perché è soltanto intelligente. Solo il poeta asintattico e dalle parole slegate potrà penetrare l'essenza della materia e distruggere la sorda ostilità che la separa da noi. Il periodo latino che ci ha servito finora era un gesto pretensioso col quale l'intelligenza tracotante e miope si sforzava di domare la vita multiforme e misteriosa della materia. Il periodo latino era dunque nato morto. Le intuizioni profonde della vita congiunte l'una all'altra, parola per parola, secondo il loro nascere illogico, ci daranno le linee generali di una psicologia intuitiva della materia. Essa si rivelò al mio spirito dall'alto di un aeroplano. Guardando gli oggetti, da un nuovo punto di vista, non più di faccia o per di dietro, ma a picco, cioè di scorcio, io ho potuto spezzare le vecchie pastoie logiche e i fili a piombo della comprensione antica. Voi tutti che mi avete amato e seguito fin qui, poeti futuristi, foste come me frenetici costruttori d'immagini e coraggiosi esploratori di analogie. Ma le vostre strette reti di metafore sono disgraziatamente troppo appesantite dal piombo della logica. lo vi consiglio di alleggerirle, perché il vostro gesto immensificato possa lanciarle lontano, spiegate sopra un oceano più vasto. Noi inventeremo insieme ciò che io chiamo l'immaginazione senza fili. Giungeremo un giorno ad un'arte ancor più essenziale, quando oseremo sopprimere tutti i primi termini delle nostre analogie per non dare più altro che il seguito ininterrotto dei secondi termini. Bisognerà, per questo, rinunciare ad essere compresi. Esser compresi, non è necessario. Noi ne abbiamo fatto a

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meno, d'altronde, quando esprimevamo frammenti della sensibilità futurista mediante la sintassi tradizionale e intellettiva. La sintassi era una specie di cifrario astratto che ha servito ai poeti per informare le folle del colore, della musicalità, della plastica e dell'architettura dell'universo. La sintassi era una specie d'interprete o di cicerone monotono. Bisogna sopprimere questo intermediario, perché la letteratura entri direttamente nell'universo e faccia corpo con esso. Indiscutibilmente la mia opera si distingue nettamente da tutte le altre per la sua spaventosa potenza di analogia. La sua ricchezza inesauribile d'immagini uguaglia quasi il suo disordine di punteggiatura logica. Essa mette capo al primo manifesto futurista, sintesi di una 100 HP lanciata alle più folli velocità terrestri. Perché servirsi ancora di quattro ruote esasperate che s'annoiano, dal momento che possiamo staccarci dal suolo? Liberazione delle parole, ali spiegate dell'immaginazione, sintesi analogica della terra abbracciata da un solo sguardo e raccolta tutta intera in parole essenziali. Ci gridano: «La vostra letteratura non sarà bella! Non avremo più la sinfonia verbale, dagli armoniosi dondolii, e dalle cadenze tranquillizzanti!» Ciò è bene inteso! E che fortuna! Noi utilizziamo, invece, tutti i suoni brutali, tutti i gridi espressivi della vita violenta che ci circonda. Facciamo coraggiosamente il «brutto» in letteratura, e uccidiamo dovunque la solennità. Via! non prendete di quest'arie da grandi sacerdoti, nell'ascoltarmi! Bisogna sputare ogni giorno sull'Altare dell'Arte! Noi entriamo nei dominii sconfinati della libera intuizione. Dopo il verso libero, ecco finalmente le parole in libertà! Non c'è in questo, niente di assoluto né di sistematico. Il genio ha raffiche impetuose e torrenti melmosi. Esso impone talvolta delle lentezze analitiche ed esplicative. Nessuno può rinnovare improvvisamente la propria sensibilità. Le cellule morte sono commiste alle vive. L'arte è un bisogno di distruggersi e di sparpagliarsi, grande innaffiatoio di eroismo che inonda il mondo. 1 microbi - non lo dimenticate - sono necessari alla salute dello stomaco e dell'intestino. Vi è anche una specie di microbi necessaria alla vitalità dell'arte, questo prolungamento della foresta delle nostre vene, che si effonde, fuori dal corpo, nell'infinito dello spazio e del tempo. Poeti futuristi! lo vi ho insegnato a odiare le biblioteche e i musei, per prepararvi a odiare l'intelligenza, ridestando in voi la divina intuizione, dono caratteristico delle razze latine. Mediante l'intuizione, vinceremo l'ostilità apparentemente irriducibile che separa la nostra carne umana dal metallo dei motori. Dopo il regno animale, ecco iniziarsi il regno meccanico. Con la conoscenza e l'amicizia della materia, della quale gli scienziati non possono conoscere che le reazioni fisico-chimiche, noi prepariamo la creazione dell'uomo meccanico dalle parti cambiabili. Noi lo libereremo dall'idea della morte, e quindi dalla morte stessa, suprema definizione dell'intelligenza logica.

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Modulo 4_ L’Ermetismo

U.D. 1_ Ermetismo e Giuseppe Ungaretti

L'ermetismo è stato uno dei più importanti movimenti letterari del ‘900. Il

nome “ermetico” fu applicato al movimento da un critico avverso, Costanzo

Flora nel suo saggio La poesia ermetica del 1936, per indicare una poesia

caratterizzata da una voluta oscurità dovuta ad un procedimento analogico

esasperato. L’ermetismo esordì negli anni Venti e si sviluppò negli anni tra il

1935 ed il 1940. Più che una scuola, fu un modo di intendere la letteratura.

Con "ermetico" si indicò un modo apparentemente oscuro di far poesia e

quegli scrittori che si mostravano non impegnati e privi di riferimenti alla

realtà. Il legame tra gli ermetici è costituito dalla ricerca dì una nuova poesia,

gli ermetici restarono estranei alla cultura genericamente idealista del tempo

e furono accusati di non essere impegnati, e di essere astratti. Si è distinto un

ermetismo spirituale e uno intellettuale: il primo ebbe un atteggiamento

religioso, il secondo un atteggiamento indifferente. Proprio per queste sue

caratteristiche l'ermetismo assunse l'idea di una letteratura intesa come

invenzione perpetua. L’ermetismo fu un fenomeno essenzialmente fiorentino,

l’organo ufficiale fu la rivista Campo di Marte, diretta da Alfonso Gatto e

Vasco Pratolini. Quasimodo anticipò l’ermetismo con la raccolta di poesie

Oboe sommerso del 1932, usando un linguaggio evocativo, oscuramente

analogico (= che procede per associazioni di idee) e consegnò all’ermetismo i

sostantivi assoluti ( = senza l’articolo), i plurali indeterminati (es. mansueti

animali), immagini del sogno, evocative ed analogiche (es. le pupille d’aria).

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Con l’ermetismo il testo esce dal quotidiano e diviene astorico (= senza

tempo), poiché la letteratura non deve avere scopi pratici.

GIUSEPPE UNGARETTI

(1888-1970)

Nasce ad Alessandria d'Egitto nel 1888 da genitori lucchesi, che vi erano

emigrati sia per motivi di lavoro che per le loro idee anarchiche. Il padre,

operaio allo scavo del Canale di Suez, morirà due anni dopo la nascita del

poeta. La madre era fornaia. Può comunque fare gli studi superiori in una

delle più prestigiose scuole di Alessandria. Nella prima giovinezza frequenta

le associazioni anarchiche e socialiste dei nostri emigrati. Legge Baudelaire,

Leopardi e Nietzsche.

Dal 1912 al '14 frequenta a Parigi la Sorbona e partecipa ai dibattiti delle

avanguardie artistiche e letterarie del tempo, legandosi d'amicizia al poeta

surrealista Apollinaire e a pittori come Picasso (cubista), Modigliani e De

Chirico (metafisico). Apprezza anche il simbolismo di Valery e la filosofia

intuizionistica di Bergson. Ma lo interessano anche le esperienze di

rinnovamento della forma e della parola poetica, operate dai crepuscolari e

dai futuristi (ha infatti scambi epistolari con Soffici, Papini, Palazzeschi).

Giunto in Italia nel 1914, entra subito in contatto con i giovani intellettuali che

facevano capo alle riviste "La Voce" (antidannunziana) e "Lacerba" (su

quest'ultima -di indirizzo futurista- pubblica le sue prime poesie, anch'esse

influenzate dai modi crepuscolari e futuristi). Nel 1916 pubblica, in pochissime

copie, la sua prima raccolta di poesie, Il porto sepolto, che confluirà poi

nell'Allegria di naufragi del 1919. In questa raccolta è evidente lo stretto

legame tra poesia ed esperienza autobiografica.

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Viene chiamato alle armi e combatte dal 1915 al '18 come soldato semplice

prima sul Carso e sull'Isonzo, poi sul fronte francese. Ungaretti era di idee

interventiste. E' nel corso della guerra che matura i temi fondamentali della

sua poesia. Egli cioè matura la convinzione che, essendo la sua un'epoca

"tragica", la poesia deve fornire una conoscenza a-logica, a-razionale,

intuitiva, che aiuti a ritrovare l'originaria purezza-innocenza.

Dopo la fine della guerra soggiorna ancora a Parigi, poi nel '20 si stabilisce a

Roma con un impiego presso il Ministero degli esteri. Nel '23 ripubblica Il

porto sepolto: questa volta con una presentazione di Mussolini. Intorno al '28,

nel monastero di Subiaco, matura la sua conversione religiosa, poiché egli si

rende conto che scoprire il mistero dell'animo umano significa, in ultima

istanza, scoprire Dio. Scrive gli Inni, che sono il cuore del suo secondo libro,

Sentimento del tempo, pubblicato nel '33. Nel '31 aveva ripubblicata la

raccolta Allegria di naufragi, col titolo Allegria.

Nel '36, a causa di ristrettezze economiche, decide di accettare la cattedra di

Letteratura italiana presso l'Università di San Paolo in Brasile, dove resterà,

con la famiglia, sino al '42, cioè fino a quando anche il Brasile entrerà nella

IIa guerra mondiale. Nel '39 gli muore il figlio Antonio di 9 anni: questa

esperienza, insieme a quella della morte del fratello e allo scoppio della

guerra, lo portano a scrivere nel '47 Il dolore.

Finalmente ottiene, per chiara fama, la cattedra di Letteratura moderna e

contemporanea all'Università di Roma, dove resterà fino al '58. Muore a

Milano nel 1970, al ritorno da un viaggio negli Usa. Poco prima Mondadori

aveva pubblicato in un unico volume tutta la sua produzione letteraria: Vita

d'un uomo.

Ideologia e poetica:

Ungaretti vive nel periodo in cui la borghesia, dopo aver realizzato in Italia il

capitalismo, non porta avanti gli ideali di giustizia e libertà, ma si chiude in se

stessa, temendo di perdere la propria egemonia, e affida la risoluzione delle

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proprie contraddizioni sociali prima al colonialismo-imperialismo, poi alla

guerra mondiale, al fascismo e alla II guerra mondiale.

Ungaretti è il maestro riconosciuto dell'Ermetismo. Il termine "ermetico"

significa "chiuso", "oscuro". La definizione venne adottata per la prima volta

dalla critica nel '36, in riferimento soprattutto alla sua poesia.

Successivamente si inclusero negli ermetici anche Montale, Saba e in parte

Quasimodo.

- L'Ermetismo si oppone soprattutto al Decadentismo di D'Annunzio, cioè agli

atteggiamenti estetizzanti e superomistici; ma anche a quello del Pascoli,

giudicato troppo bozzettistico e malinconico, troppo soggettivo e poco

universale.

- L'Ermetismo si oppone anche ai crepuscolari, ai futuristi, ai "vociani", perché

non si accontenta di una riforma stilistica e non sopporta la retorica.

E' l'esperienza della guerra che rivela al poeta la povertà dell'uomo, la sua

fragilità e solitudine, ma anche la sua spontaneità e semplicità (primitivismo)

che viene ritrovata nel dolore. L'esistenza è un bene precario ma anche

prezioso. In guerra egli si è sottratto ad ogni vanità e orgoglio; nella

distruzione e nella morte ha però riscoperto il bisogno di una vita pura,

innocente, spontanea, primitiva. Ha acquisito compassione per ogni soldato

coinvolto nell'assurda logica della guerra: ha maturato, per questo, un

profondo senso di fraterna solidarietà. La sua visione esistenziale è dolorosa

perch'egli pensa che l'uomo non abbia la possibilità di concretizzare le sue

aspirazioni conoscitive e morali. Ungaretti non crede nelle filosofie razionali e

cerca di cogliere la realtà attraverso una poetica che s'incentri sull'analogia,

cioè sul rapido congiungimento di ordini fenomenici diversi, di immagini fra

loro molto lontane che la coscienza comune non metterebbe insieme.

Questa esperienza lo porta a rifiutare -soprattutto nell'Allegria- ogni forma

metrica tradizionale: rifiuta il lessico letterario, le convenzioni grammaticali,

sintattiche e retoriche (ad es. elimina la punteggiatura, il "come" nelle

analogie, ecc. Diventano importanti gli accenti tonici, le pause). Crea un ritmo

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totalmente libero, con versi scomposti, brevissimi, scarni, fulminei, dove la

singola parola acquista un valore assoluto, dove il titolo è parte integrante del

testo. La poetica qui è frammentaria, allusiva, scabra, anche perché il poeta

non ha una realtà ben chiara da offrire.

Ne Il porto sepolto Ungaretti lascia intendere che poesia significa possibilità

di contemplare la purezza in un mondo caotico e assurdo, ma la poesia

dev'essere espressione di un'esperienza particolare, intensamente vissuta: la

ricerca del vocabolo giusto è faticosa, perché l'uomo deve liberarsi del male

che è in lui e fuori di lui.

Ne L'allegria il poeta non accetta le illusioni e preferisce star solo con la sua

sofferenza (cfr. Peso, dove al contadino-soldato che si affida, ingenuamente,

alla medaglia di Sant'Antonio per sopportare meglio il peso della guerra, il

poeta preferisce stare "solo", "nudo", cioè senza illusioni ("senza miraggio"),

con la sua anima. Ungaretti tuttavia non è ateo: si limita semplicemente a

chiedersi che senso ha Dio in un mondo di orrori (cfr Risvegli) e perché gli

uomini continuano a desiderarlo quando ciò non serve loro ad evitare gli

orrori (cfr Dannazione). Il contrasto è fra una religiosità tradizionale,

superficiale, e una religiosità più intima e sofferta, che in Fratelli si esprime

come profonda umanità, partecipazione al dolore universale. E' solo negli Inni

che Ungaretti ripone nella fede religiosa la soluzione delle contraddizioni

umane (cfr La preghiera).

Il superamento dell'autobiografismo e la modificazione dello stile ermetico

avviene nel Sentimento del tempo. Qui il poeta ha consapevolezza che il

tempo è cosa effimera rispetto all'eterno (la riflessione è molto vicina ai temi

della religione). La poesia aspira a dar voce ai conflitti eterni, a interrogativi

drammatici: solitudine e ansia di una comunicazione con gli altri, rimpianto di

un'innocenza perduta e ricerca di un'armonia col mondo, ecc. In questa

raccolta Ungaretti ritrova i metri e i moduli della tradizione poetica italiana (ad

es. riscopre il valore dell'endecasillabo, del sistema strofico, della struttura

sintattica).

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L'ultima importante raccolta, Il dolore, contiene 17 liriche dedicate al figlio e

altre poesia di contenuto storico (sulla II guerra mondiale). Qui il discorso

diventa più composto, quasi rasserenato. Toni e parole paiono affiorare da

un'alta saggezza raggiunta al prezzo di una drammatica sofferenza. Il poeta

esprime una inappagata ma inesauribile tensione alla pace e all'amore

universali..

U.D. 2_ U. Saba

Umberto Saba

pseudonimo di Umberto Poli

(Trieste, 9 marzo 1883 - Gorizia, 25 agosto 1957)

E’ stato un poeta e scrittore italiano. Di madre ebrea (quindi, secondo la

religione ebraica, ebreo) presto abbandonata dal marito, Saba visse una

malinconica infanzia, velata dalla lontananza del padre. Assunse lo

pseudonimo Saba (pane in ebraico) e dopo l’emanazione delle leggi razziali

nel 1938 visse a Parigi, Firenze, Roma, Milano. Solo nel 1947 tornò nella città

natale.

Saba formò nell’ambiente culturale mitteleuropeo triestino del primo '900,

guardando a Nietzsche e a Freud ma anche alla grande tradizione

ottocentesca italiana, soprattutto a Leopardi. Cominciò a scrivere nei primi

anni del secolo i suoi primi lavori: Poesie dell’adolescenza e giovanili, 1900 –

1907, e Versi militari, 1908.

Seguirono i capolavori: Trieste e una donna (1910 - 1912) e Serena

disperazione (1913 - 1915), in cui - con linguaggio semplicissimo e privo di

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retorica - il poeta esprime sentimenti quotidiani, ed affetti domestici con

ricchezza di sfumature e contrasti psicologici.

La poetica di Saba:

Il colloquio confidenziale con la realtà (secondo la lezione pascoliana) si

arricchisce in seguito di toni lirici e si volge ai temi della gioia, del dolore, della

morte (Cose leggeri e vaganti, 1929 - 1931, L’amorosa spina, 1920, Preludio

e canzonette, 1922 - 1923, Cuor morituro, 1925 - 1930, Preludio e fughe,

1928 – 1929, Il piccolo Berto, 1929 - 1931) e gradatamente la poesia diviene

riflessione esistenziale ed accettazione rassegnata del tempo che fugge

(Parole, 1933 - 1934, Ultime cose, 1935 – 1943, Varie, 1944, Mediterranee,

1946, raccolte poi nel 1948 nel Canzoniere).

La produzione letteraria di Saba vede negli ultimi anni aggiungersi al lirismo

proprio del poeta il motivo moralistico e sentenzioso delle prose di Scorciatoie

e raccontini (1946) e della raccolta Uccelli, quasi un racconto (1951). Postumi

furono pubblicati il romanzo Ernesto ed il volume Amicizia.

Per contro, i primi versi di Saba erano prosastici, incerti, il motivo psicologico

fondamentale era dato dalla malinconia, le figure rappresentate simboli

quotidiani di una vita grigia e comune. Eppure, il linguaggio che dal prosaico

diviene talvolta - secondo alcuni - sciatto, e la costante aderenza al reale non

sfociano nel verismo provinciale ma esprimono un'intensa carica

sentimentale che diviene canto.

I luoghi domestici e le figure care e quotidiane accompagnano e consolano la

vita malinconica del poeta ed il suo canto esprime un desiderio di

affratellamento. È questa una costante di Saba. Anche le poesie come quelle

della raccolta Preludio e fughe (1927 -1928) che poterebbero apparire come

una pausa meramente musicale, racchiudono un attento ascolto delle voci

interiori e sono spesso simbolo di sentimenti sofferti e di memorie.

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Ricordo e nostalgia del passato:

Nelle ultime raccolte, accanto alla contemplazione assorta della vita si

insinuano il ricordo e la nostalgia del passato, spesso affidati alla musicalità

dei versi. Persistono, tuttavia, gli aspetti domestici e le figure amate, i versi

sono, però, più scanditi e la composizione è breve e incisiva.

Restano immutabili i temi originari: i fanciulli di Trieste, le vie solitarie, i caffè

fumosi del porto, le donne amate. Sono temi immobili, poiché Saba

concepisce la vita come immutabile: l’uomo - ed in questo segue il pensiero

di Leopardi - spera sempre un domani migliore, anche se sa che il nuovo

giorno porterà le stesse sofferenze di quello trascorso.

Saba è ritenuto una delle voci migliori e più riconoscibili del '900 italiano, per

la fedeltà ai propri temi, la ricchezza sentimentale, l’impegno umano,

l’itinerario spirituale e stilistico non condizionato dalle mode. La sua poesia è,

soprattutto, storia della sua esistenza, contemplata con la fermezza di chi sa

trovare nel dolore e nella pena il segno del destino umano, in nome del quale

si sente unito agli altri uomini (Leopardi – La ginestra).

Mentre i poeti del periodo fra le due guerre tendono ad una riflessione e ad

una grande consapevolezza letteraria, che conduce all’ermetismo, in Saba è

evidente la volontà di esprimersi in modi semplici, musicali, a volte con

notazioni diaristiche, anche se l’autobiografismo gradualmente si dissolve nel

canto. Il fondo costante di Saba è la consapevolezza malinconica di una

esistenza immutabile e la malinconia è alleviata dalla contemplazione delle

cose quotidiane, dal sentirsi vivere, dall’accettare le passioni come sempre

diverse e sempre le stesse.

I paesaggi non sono descritti, bensì evocati dal ricordo e dall’affetto che

modulano un canto monotono, ma intimo e suggestivo. Di Saba esistono due

documenti critici di altissimo valore: Quello che resta da fare ai poeti (1911),

articolo rifiutato dalla Voce e la Storia e cronistoria del Canzoniere (1948) che

appartiene all’ultima fase della sua opera.

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La "poesia onesta":

L’apparente contraddizione tra la poesia onesta propugnata nell’articolo e la

critica della propria opera, attenta a sottolineare i meriti e a trascurare le

manchevolezze, si risolve nell’essere il Saba critico di se stesso e, quindi, in

possesso di una verità diretta che fa della seconda opera la conclusione

logica di una vita trascorsa al servizio della poesia.

La prima ragione di Saba, la sua umanità, fa sì che la sua poesia sia un dono

per gli altri (Pascoli), con la speranza di giungere ad un discorso fatto di

umiltà, semplicità e pietà. L’esame critico si riallaccia all’affermazione del

1911: - ai poeti resta da fare la poesia onesta (N.B. – si è in pieno clima di

avanguardia, il manifesto di Marinetti è del 1909).

Saba contrappone il Manzoni degli Inni sacri (versi mediocri ma immortali

perché onesti, frutto di autentici sentimenti), al D’Annunzio delle Laudi e dalla

Nave (versi magnifici, ma effimeri perché disonesti in quanto artificiali, non

rispondenti ai sentimenti, bensì costruiti ad effetto).

Saba ha quindi già ben chiara la nozione di una poesia che non deve essere

frutto di artificio, di finte passioni, di menzogna, esclusivamente volta ad

ottenere un bel risultato. Compito dello scrittore è far collimare contenuto e

forma, magari limitando la spinta emotiva, piuttosto che correre il rischio di

esagerare e mentire. Il poeta, lo scrittore in genere, deve essere, tanto nella

vita, quanto nella letteratura, un uomo onesto.

Tale principio, che è il punto di partenza di Saba, è ancore determinante al

momento della critica della propria opera e tale possibilità critica gli viene

dalla consapevolezza di ciò che egli ha inteso realizzare (non è crepuscolare,

come a volte è definito, per gli stessi motivi per i quali rinunzia al

dannunzianesimo e tutto ciò che può essere o sembrare posa).

Saba parla della necessità di sostenere con il ritmo l’espressione della

passione, fissando così i limiti dello strumento, a vantaggio del sentimento da

esprimere. Saba mira al giusto equilibrio tra sentimento ed arte, tra contenuto

e forma, seguendo l’ispirazione, senza timore di ripetere se stesso o gli altri,

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(al contrario dei simbolisti, sostenitori della poesia pura). Saba si accosta ad

una poesia discorsiva, capace di accogliere tutte le occasioni di ispirazione

che la vita può offrire.

Poeta, non letterato di professione: Il poeta deve rileggersi cercando di rilevare la corrispondenza fra stati

d’animo e versi, tra pensato e scritto, mediante moduli tradizionali e semplici,

in netto contrasto con le soluzioni allora di moda. Il poeta, inoltre, deve

abbandonare il modello del letterato di professione (D’Annunzio) rifiutando sia

le soluzioni dei futuristi, sia quegli esiti dannunziani che hanno prodotto una

poesia artificiale e la collusione tra letteratura e politica.

Parimenti Saba rifiuta la ricerca esasperata dell’originalità e la

sperimentazione eccessiva e gratuita, mirando, invece, ad una equilibrata

opera di revisione, di selezione e di rifacimento. Al contrario di quanto vede

fare intorno a sé, Saba adotta il più semplice dei linguaggi e propone un

discorso non drammatico, alieno da violente speculazioni, cercando di

sviluppare la naturale capacità dell’uomo – Saba nello stabilire il contatto con

gli altri, sulla base di uno scambio fondato su una diversa, ma sempre

semplice ed umana interpretazione dell’esistenza.

Saba vive pazientemente aspettando la serena disperazione, ossia la

serenità che viene dalla volontaria partecipazione a ciò che deriva

dall’esperienza del mondo, dalla ricerca dell’equilibrio e dal senso delle

proporzioni, mentre la disperazione è la consapevolezza dell’inalterabilità

della vita e dell’inevitabilità del destino.

A tale consapevolezza, Saba contrappone la pazienza, il gusto

dell’interpretazione, l’amore della vita, per arrivare non alla spiegazione (alla

maniera di Montale) bensì a mitigare l’impatto con la realtà.

La malinconia e la dolente consapevolezza dell'esistenza, la meditazione sul

trascorrere del tempo, diviene accorata saggezza della maturità e un

doloroso amore della vita. Che trova voce nel dialogo interiore fra passato e

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presente e la consapevolezza delle propria vicissitudini esistenziali diviene

coscienza della tragedia storica di tutto un popolo, sempre restando aliena

dalla retorica.

Umberto Saba assume un ruolo indipendente e originale nella letteratura

italiana, in quanto si distacca in genere dalle maggiori correnti poetiche e si

dedica per tutta la vita alla ricerca di nuove finalità e di nuovi significati

poetici. La sua personalità, su cui influirono le drammatiche vicende della sua

esistenza, è orientata verso la saggezza, in quanto egli, pur non ignorando i

problemi e i mali dell'uomo, rivaluta la vita umana individuando in essa

importanti valori. Il poeta ebbe inoltre una salda fede nella sua funzione

letteraria e si impegnò per il rinnovamento dell'arte. Sono significativi, per la

comprensione della sua poetica, due scritti in prosa: Storia o cronistoria del

"Canzoniere" e Quello che resta da fare ai poeti (articolo). Il primo fra questi

scritti ci illumina a proposito della storia spirituale dell'autore, mentre il

secondo chiarisce il suo programma, che si riassume nel concetto della

"poesia onesta". Compito del poeta è infatti, secondo il Saba, esprimere il

suo mondo con sincerità, evitando compiacimenti stilistici e concettuali. Per

lui il simbolo della poesia onesta, ossia utile e sincera, è il Manzoni (Inni

Sacri), mentre un esempio tipico di poesia povera è il D'Annunzio. Pertanto,

da giovane, Saba si oppone al predominio letterario dannunziano, in nome di

una profonda rigenerazione dello spirito poetico e propone un ritorno alle vere

fonti della poesia. Egli rimane comunque lontano anche dai più tipici

oppositori del D'Annunzio, ossia dai Crepuscolari, poichè per lui la forma non

è importante, mentre lo era per i Crepuscolari, anche se questi erano per un

linguaggio volutamente dimesso. Nella sua opera, il linguaggio è solitamente

semplice, ma a volte assume toni eleganti; ciò avviene sempre in relazione

agli argomenti che nella sua opera mai sono disposti in modo sistematico,

bensì risentono di una certa casualità e spesso si avvicinano alla cronaca

quotidiana. Egli, ed in ciò consiste buona parte della sua poesia, vede quello

che l'uomo comune non nota. Con ciò, non si adegua necessariamente alla

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problematica pascoliana delle piccole cose, bensì riesce a trarre significato

poetico universale da svariate vicende quotidiane. Sono notevoli nella sua

poesia i motivi umani della famiglia, della città natale, delle speranze

dell'uomo. Troviamo nella sua opera anche il tema della felicità, che non è

trattato in modo pessimistico, proprio perchè l'autore ritiene che la felicità sia

raggiungibile. La stessa morte non è motivo di disperazione, ma riconcilia con

la vita. C'è nel Saba pertanto, accanto alla consapevolezza del dolore, quella

che si può definire la "serena disperazione". Il suo messaggio si allontana

dalla visione definitivamente pessimistica di buona parte della poesia

moderna e risulta saggia e positiva, poiché esalta i valori principali dell'uomo

ed induce alla volontà di lottare per essi. Saba rappresenta una nota di

sincerità e di equilibrio.

U.D. 3_ Eugenio Montale

Nasce a Genova nel 1896. Suo padre è un grosso commerciante.

Nell'adolescenza è costretto ad abbandonare gli studi regolari per la sua

cattiva salute, ma continua a leggere molto: Rousseau, Baudelaire, Mallarmé,

Valéry, Cervantes, Manzoni... A vent'anni scrive il suo primo capolavoro:

Meriggiare pallido e assorto. Chiamato sotto le armi, partecipa alla I guerra

mondiale come ufficiale di fanteria, ma non sarà un'esperienza così

significativa come per Ungaretti.

Nel dopoguerra legge Gentile, Croce e soprattutto Boutroux, la cui filosofia

contingentista (che si oppone al determinismo positivistico, cioè alla

spiegazione scientifica di tutta la realtà) lo influenza nella composizione della

raccolta di poesie Ossi di seppia (tra il '20 e il '25).

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Nel '25 scopre, come critico letterario, l'importanza di Svevo. Aderisce anche

al Manifesto degli intellettuali contro il fascismo, promosso da Croce.

Con Ossi di seppia (stampati da quel Piero Gobetti che solo pochi mesi dopo

morirà a seguito di violenze fasciste), Montale si stacca dalla precedente

tradizione aulica-accademica, carica di toni retorici, per affermare invece una

poesia dal timbro familiare e dialogico, rivolta a un interlocutore-lettore

vicinissimo. La polemica è soprattutto nei confronti di Carducci, D'Annunzio e

Pascoli. Montale non sopporta, di loro -com'egli stesso dirà-, i "furori

giacobini", il "superomismo", il "messianismo". Il poeta preferisce porsi in

attesa d'incontrare qualcuno o qualcosa che dia senso al tutto.

Ossi di seppia infatti hanno come tema centrale la riflessione su di sé e la

proiezione di sé in un simbolo naturale, nel senso che la natura viene usata

per parlare del proprio io. L'essere dell'uomo può essere colto solo nel suo

"non-essere". La parola parla solo per negare i contenuti della vita e della

storia. Uno dei suoi versi recita: "Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che

non siamo, ciò che non vogliamo". Ma si tratta di una negatività dialettica,

tesa al positivo, valida per sgombrare il campo dalla retorica consolatoria.

L'uomo non ha un "centro" ma vuole cercarlo. In questo senso Montale rifiuta

quelle che per lui sono le false certezze del marxismo e del cristianesimo

ideologizzato (come nel fascismo).

Con il '27 inizia il suo ventennio fiorentino. Fa l'impiegato presso una casa

editrice, poi diventa direttore del Gabinetto Scientifico Letterario Vieusseux

(sarà sollevato dall'incarico nel '38 dal regime per motivi politici). Scrive sulla

rivista "Solaria", stringe amicizia con Vittorini, Gadda, Bo, Contini..., sposa la

moglie di un critico d'arte.

Nella nuova raccolta Le occasioni (1928-39) il tema centrale è "l'altro da sé",

una presenza umana o naturale che viene incontro al poeta, alla ricerca della

salvezza. Questo "altro", di cui Montale è sempre stato gelosissimo, è stato

rivelato da un critico letterario nell'82: si tratta di Irma Brandeis, appartenente

a un'illustre famiglia di ebrei mitteleuropei emigrati negli USA. Pare certo che

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Irma si sia convertita al cattolicesimo. La sua presenza percorre quasi tutta

l'opera di Montale (vedi la figura di Clizia, pseudonimo usato per indicare la

trascendenza). Ne Le occasioni la lirica è più ermetica, più chiusa, perché

pretende di evocare un mistero senza svelarlo. Negli anni prebellici e durante

la IIa guerra mondiale Montale vive di collaborazioni letterarie e di traduzioni.

Il terzo libro pubblicato s'intitola La bufera e altro (1940-1954). L'interesse

continua a vertere sulla condizione umana in sé, a prescindere dagli

avvenimenti storici. La storia è ciò che passa, l'uomo è ciò che resta.

L'infelicità è nell'uomo a prescindere dal suo tempo presente. In lui v'è

tensione verso l'essenziale, l'assoluto. La sua poesia è metafisico-simbolista.

La stessa Clizia fa da mediatrice fra il poeta e l'assoluto.

Nel '48 viene assunto dal "Corriere della sera". Dal '67 è senatore a vita. Nel

'75 ottiene il Nobel per la letteratura. Negli ultimi libri vi è una saggia e amara

ironia (Satura, 1962-70, e altri). Muore nel 1981.

Meriggiare. In questa lirica Montale usa 5 infiniti presenti a capoverso per

abolire ogni possibilità di determinare il soggetto dell'azione e per rendere

universale, indefinito ed eternamente presente il contenuto della poesia, che

è la cosmica contemplazione della vita come sofferenza. Il muro contemplato

in lungo e in largo non si può scavalcare. Il paradiso è irraggiungibile. Il

"colle" del Leopardi era un'occasione per fantasticare su ciò che non si

vedeva. Il "muro" di Montale impedisce qualunque fantasia. Il suicidio non è

la conclusione finale, perché Montale, pur convinto che l'uomo da solo non

possa trovare soddisfazione di sé, spera di poter incontrare qualcuno che gli

porti la salvezza (è in attesa di un "miracolo" che gli sveli l'origine delle cose).

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U.D. 4_ Salvatore Quasimodo

Nasce nel 1901 a Modica (Ragusa). Suo padre è capostazione delle ferrovie,

soggetto a continui trasferimenti per motivi di lavoro. Nel 1908 si stabilisce a

Messina e vi rimane sino al 1920, conseguendo il diploma di istituto tecnico

commerciale.

Si trasferisce a Roma nel '21 iscrivendosi alla facoltà di ingegneria, ma ben

presto smette gli studi, per mancanza di mezzi. Costretto a lavorare per

vivere, dal '26 è impiegato a Reggio Calabria presso il Genio civile. Comincia

a scrivere le prime poesie (Acque e terre) che vengono pubblicate sulla

rivista fiorentina "Solaria"(1930), allora molto quotata. La linea della rivista era

antifascista sul piano ideologico, antiaccademica e antiformalista sul piano

letterario: venne soppressa nel '36. Nel '34 approda a Milano e vi resterà

quasi sino alla morte.

La raccolta è caratterizzata dalla mitizzazione della Sicilia, che, pur essendo

descritta in maniera realistica, assume i toni e i colori di un paradiso perduto,

irraggiungibile: un Eden di cui il poeta rimpiange l'innocenza umana (non

ancora corrotta dal male di vivere), nonché l'armonia con la natura. La

rievocazione della Sicilia, in questo senso, è fusa con quella dell'infanzia

(infanzia e giovinezza sono le età che Quasimodo predilige). Dominano

quindi i temi del dolore, della solitudine e incomunicabilità, dell'impossibilità di

trovare conforto o consolazione nella vita. Questi temi, d'altra parte,

costituiscono l'unica opposizione permessa dal regime fascista, la cui

letteratura era invece ottimistica e trionfalistica. Stilisticamente e

lessicalmente Quasimodo è vicino a Pascoli, D'Annunzio e Verga. Del Verga

assume il realismo; del Pascoli l'arte di trasfigurare la natura; del D'Annunzio

l'identificazione del poeta con la natura. Quasimodo ricerca un modo

espressivo raffinato, limpido, teso alla bellezza classica.

Nelle due raccolte successive, Oboe sommerso (1932) e Erato ed Apollion

(1936), Quasimodo cerca di adeguarsi completamente alla scuola ermetica,

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nel tentativo, non riuscito, di superarne i maestri (Ungaretti e Montale),

portandone all'estremo certi moduli tipici. Fa questo proprio negli anni in cui

Ungaretti tentava invece un recupero delle forme metriche tradizionali. In

queste raccolte le rime sono piuttosto orecchiabili (di qui il loro successo

popolare), ma poco profonde. Per seguire una moda, Quasimodo in realtà

tradì se stesso: la sua poetica assunse delle forme strane e troppo studiate

(ad es. le immagini vengono accostate in maniera arbitraria).

Nel '38 lascia il Genio civile e diventa giornalista. Dal '36 al '42 raccoglie

Nuove poesie, con cui cerca di ritornare al felice equilibrio di Acque e terre.

La raccolta più importante di Nuove poesie è Ed è subito sera. In questo

recupero della sua poetica più autentica è stato senza dubbio aiutato dalle

sue traduzioni dei lirici greci (1940), che in parte lo hanno allontanato dallo

stile ermetico, oscuro e artificiale, da lui usato, e lo hanno portato a

valorizzare di nuovo le forme metriche tradizionali (ad es. l'endecasillabo).

Inoltre la sua Sicilia (soprattutto quella del mondo greco) gli pare sempre di

più come un momento alternativo al decadimento "morale" del vivere.

Nel '41 viene nominato, dal ministro dell'Educazione nazionale, per "chiara

fama", professore di Letteratura italiana al Conservatorio di Milano. La sua

ultima produzione, quella del dopoguerra, è la più significativa. I temi

autobiografici, di stampo decadente, si convertono in temi civili: il monologo

lascia lo spazio al dialogo con gli uomini, cioè alla scoperta della presenza

degli altri, alla compassione (a volte anche troppo ingenua) per le vittime

dell'immane tragedia della guerra. La meditazione sul dolore dell'uomo si

arricchisce di nuovi contenuti: l'esilio, i miti familiari, il populismo... (La sua

poesia "civile" non è comunque che la ricerca di un significato che trascenda

il vivere e il morire). Per questo suo impegno morale e civile (la pretesa era

quella di trasformarsi in un "poeta-vate"), che lo avvicina alla corrente

neorealistica (e politicamente alla sinistra, ma senza molta convinzione),

Quasimodo otterrà nel '59 il premio Nobel per la letteratura.

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In Giorno dopo giorno (1947) e La vita non è sogno (1949), si forma in

sostanza una nuova poesia, in cui trovano posto i dolori e le speranze degli

uomini, per quanto il poeta non sia mai andato a cercare le cause esistenziali

e sociali di tanto soffrire. Il contenuto morale delle sue poesie, anche in

queste raccolte (il cui stile peraltro lascia un po' a desiderare), è sempre

quello dell'angoscia esistenziale, ovvero la ricerca di una realtà nuova; ma

questa realtà, per il poeta, non può essere raggiunta, per cui egli non ha un

proprio messaggio da offrire e rimane chiuso nella sua solitudine. Quasimodo

non è mai riuscito a superare la crisi dei valori storici della borghesia e del

fascismo: l'ha soltanto costatata. Tuttavia, egli verrà visto come colui che,

nonostante le sue continue ricadute nell'oratoria, nella sentenziosità e nella

coralità, ha saputo distaccarsi nettamente dalla tradizione ermetica, che non

permetteva un facile rapporto tra poeti e pubblico. Muore a Napoli nel 1968.

Questo poeta figura tra i maggiori interpreti della condizione dell'uomo

moderno. Egli svolse una funzione significativa nella letteratura del

Novecento, come dimostrano i numerosi riconoscimenti a lui tributati dalla

cultura internazionale, che culminarono nel 1959 con l'assegnazione del

premio Nobel per la letteratura. Nella sua opera letteraria egli rivelò il suo

carattere pensoso e profondamente umano e nello stesso tempo giunse,

attraverso un itinerario ricco di svolte e di approfondimenti, a soluzioni

originali e ricche sul piano intellettuale ed artistico. Nelle prime raccolte

Acque e terre (1930) e Ed è subito sera (1942) Quasimodo sviluppò i temi

connessi con la solitudine, con lo sradicamento dell'uomo, che egli

individuava anche nella sua personale condizione di esule profondamente

legato al mondo della sua infanzia, ossia ad una dimensione di bontà e di

sanità non più raggiungibile. Egli aderì all'Ermetismo spontaneamente, per la

sua naturale esigenza di concretezza e perchè vide nella nuova poesia un

sussidio contro il Romanticismo, il sentimentalismo, l’autobiografismo e

qualcosa di utile per il raggiungimento di una più acuta visione delle cose; il

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suo ermetismo risultò in ogni caso originale, poichè egli aderì ad un

linguaggio scarno ma non privo di sfumature musicali e caratterizzato da un

velo di tristezza. Il paesaggio della Sicilia è quindi al centro della sua

ispirazione nella prima parte della sua produzione letteraria ma non viene

meno nei successivi momenti della sua storia spirituale. La sua stessa

adesione alla sensibilità greca, che egli sentì come viva e importante, si

collega in parte al legame affettivo che lo univa al mondo siciliano, che egli

considerò particolarmente vicino a quello ellenico. Di tale adesione è frutto un

libro di traduzioni di lirici greci (1940), importante come autentica opera di

poesia, oltre che per l'aspetto culturale. Alla traduzione dei poeti greci tenne

dietro in particolare l'arricchimento del linguaggio poetico ed un

approfondimento sul piano della concezione e della ispirazione. Di tali

cambiamenti abbiamo validi esempi soprattutto nelle raccolte successive alla

Seconda Guerra Mondiale. Le tragiche esperienze del conflitto indussero in

particolare il poeta ad allontanarsi dagli aspetti più rigidi dell'Ermetismo, ad

abbandonare le meditazioni solitarie e ad avvicinarsi a tutti gli uomini, nel

tentativo di aiutarli nella ricostruzione degli antichi valori. Ciò notiamo

soprattutto in Giorno dopo giorno (1949) e nella raccolta successiva La vita

non è un sogno (1949) e in genere in quella parte della sua produzione che è

la più apprezzata dai critici e la più ricca di valori e di significati. Tra gli

elementi più importanti di questo periodo appaiono il rinnovamento del

linguaggio ed un arricchimento dei temi, nell'ambito dei quali trovano posto

importanti istanze sociali. È significativa inoltre la volontà dell'autore di agire

per la trasformazione della realtà e per la realizzazione di un mondo migliore.

Per la presenza di questo ideale, che in realtà illumina in vario modo tutta la

produzione dell'autore e per la costante partecipazione al rinnovamento della

letteratura, il messaggio di Quasimodo si riassume pertanto in una nota di

notevole impegno.

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Allegati al Modulo 4_ Ermetismo

U.D. 1,2, 3, 4_ Ermetismo (autori)

Giuseppe Ungaretti (Poesie) Tratte da Allegria Veglia Cima Quattro il 23 dicembre 1915 Un'intera nottata buttato vicino a un compagno massacrato con la sua bocca digrignata volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata nel mio silenzio ho scritto lettere piene d'amore Non sono mai stato tanto attaccato alla vita San Martino del Carso Valloncello dell'Albero Isolato il 27 agosto 1916 Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto Ma nel cuore nessuna croce manca

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E' il mio cuore il paese più straziato tratta da Fratelli Soldati Bosco di Courton luglio 1918 Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie.

I fiumi di Giuseppe Ungaretti

Cotici, il 16 agosto 1916.

5 10 15 20 25

Mi tengo a quest'albero mutilato abbandonato in questa dolina che ha il languore di un circo prima o dopo lo spettacolo e guardo il passaggio quieto delle nuvole sulla luna Stamani mi sono disteso in un'urna di acqua e come una reliquia ho riposato L'Isonzo scorrendo mi levigava come un suo sasso Ho tirato su le mie quattr'ossa e me ne sono andato come un acrobata sull'acqua Mi sono accoccolato vicino ai miei panni sudici di guerra e come un beduino mi sono chinato a ricevere il sole

40 45 50 55 60

Ma quelle occulte mani che mi intridono mi regalano la rara felicità Ho ripassato le epoche della mia vita Questi sono i miei fiumi Questo è il Serchio al quale hanno attinto duemil'anni forse di gente mia campagnola e mio padre e mia madre Questo è il Nilo che mi ha visto nascere e crescere e ardere d'inconsapevolezza nelle estese pianure Questa è la Senna e in quel suo torbido mi sono rimescolato e mi sono conosciuto Questi sono i miei fiumi contati nell' Isonzo

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30 35

Questo è l' Isonzo e qui meglio mi sono riconosciuto una docile fibra dell'universo Il mio supplizio è quando non mi credo in armonia

65

Questa è la mia nostalgia che in ognuno mi traspare ora ch'è notte che la mia vita mi pare una corolla di tenebre

Umberto Saba (Poesie) A mia moglie Tu sei come una giovane una bianca pollastra. Le si arruffano al vento le piume, il collo china per bere, e in terra raspa; ma, nell'andare, ha il lento tuo passo di regina, ed incede sull'erba pettoruta e superba. È migliore del maschio. È come sono tutte le femmine di tutti i sereni animali che avvicinano a Dio, Così, se l'occhio, se il giudizio mio non m'inganna, fra queste hai le tue uguali, e in nessun'altra donna. Quando la sera assonna le gallinelle, mettono voci che ricordan quelle, dolcissime, onde a volte dei tuoi mali ti quereli, e non sai che la tua voce ha la soave e triste musica dei pollai. Tu sei come una gravida giovenca; libera ancora e senza gravezza, anzi festosa; che, se la lisci, il collo volge, ove tinge un rosa tenero la tua carne.

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se l'incontri e muggire l'odi, tanto è quel suono lamentoso, che l'erba strappi, per farle un dono. È così che il mio dono t'offro quando sei triste. Tu sei come una lunga cagna, che sempre tanta dolcezza ha negli occhi, e ferocia nel cuore. Ai tuoi piedi una santa sembra, che d'un fervore indomabile arda, e così ti riguarda come il suo Dio e Signore. Quando in casa o per via segue, a chi solo tenti avvicinarsi, i denti candidissimi scopre. Ed il suo amore soffre di gelosia. Tu sei come la pavida coniglia. Entro l'angusta gabbia ritta al vederti s'alza, e verso te gli orecchi alti protende e fermi; che la crusca e i radicchi tu le porti, di cui priva in sé si rannicchia, cerca gli angoli bui. Chi potrebbe quel cibo ritoglierle? chi il pelo che si strappa di dosso, per aggiungerlo al nido dove poi partorire? Chi mai farti soffrire? Tu sei come la rondine che torna in primavera. Ma in autunno riparte; e tu non hai quest'arte. Tu questo hai della rondine: le movenze leggere: questo che a me, che mi sentiva ed era vecchio, annunciavi un'altra primavera. Tu sei come la provvida formica. Di lei, quando

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escono alla campagna, parla al bimbo la nonna che l'accompagna. E così nella pecchia ti ritrovo, ed in tutte le femmine di tutti i sereni animali che avvicinano a Dio; e in nessun'altra donna. La capra Ho parlato a una capra. Era sola sul prato, era legata. Sazia d'erba, bagnata dalla pioggia, belava. Quell'uguale belato era fraterno al mio dolore. Ed io risposi, prima per celia, poi perché il dolore è eterno, ha una voce e non varia. Questa voce sentiva gemere in una capra solitaria. In una capra dal viso semita sentiva querelarsi ogni altro male, ogni altra vita.

Poesie di Montale tratte da Ossi di Seppia

Non chiederci la parola

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato

l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco

lo dichiari e risplenda come un croco

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perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,

agli altri ed a se stesso amico,

e l'ombra sua non cura che la canicola

stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,

sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.

Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Spesso il male di vivere ho incontrato

Spesso il male di vivere ho incontrato:

era il rivo strozzato che gorgoglia,

era l'incartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio

che schiude la divina Indifferenza:

era la statua nella sonnolenza

del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Poesie di Quasimodo

Da Acque e terre _ Ed subito sera Ognuno sta solo sul cuor della terra Trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera.

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Da Giorno dopo giorno_ Alle fronde dei salici E come potevamo noi cantare con il piede straniero sopra il cuore, fra i morti abbandonati nelle piazze sull’erba dura di ghiaccio, al lamento d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese: oscillavano lievi al triste vento.

Modulo 5_ dal Neorealismo alle NeoAvanguardie

U.D. 1_ Neorealismo e Neoavanguardia

Il Neorealismo è stato un movimento sviluppatosi tra il 1940 e il 1950 che si

è espresso soprattutto nella narrativa e nel cinema.

Il secondo dopoguerra e la lotta antifascista sono gli eventi storici che fanno

da sfondo ad un nuovo profondo rivolgimento culturale e letterario. Come mai

prima d'ora, il nesso con la realtà socio-politica è direttamente determinante

anche nell'elaborazione della nuova poetica. In Italia, nell'immediato secondo

dopoguerra si fa vivissimo negli intellettuali il bisogno di un impegno concreto

nella realtà politica e sociale del paese. Con l'antifascismo represso, prima, e

poi l'adesione ai moti di rivolta popolare determinano in molti scrittori

l'esigenza di considerare la letteratura come una manifestazione e uno

strumento del proprio impegno. In questa atmosfera emergono dei giudizi

pesanti riguardo l'Ermetismo e il Decadentismo: in generale si ripudia la

tendenza ad evadere in altre dimensioni, in particolare si rinfaccia

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all'Ermetismo la sua astensione dal confronto politico-culturale con il

fascismo e, tanto più che la maggior parte degli ermetici si era astenuta

anche dal partecipare alla Resistenza, mantenendo atteggiamento di distacco

ed isolamento.

Questo diffuso bisogno di impegno concreto nel reale da origine a romanzi

ispirati alla Resistenza e ad importanti dibattiti che hanno per tema il ruolo e i

doveri degli intellettuali nella società, il passato rapporto degli intellettuali col

fascismo e quello attuale col partito comunista. Molto rilevante è la posizione

acquisita dalle riviste, tra le cui primeggiava "Il Politecnico" di Elio Vittorini. Il

neorealismo è libero incontro di alcune individualità ben distinte all'interno di

un clima storico comune, dotato di una carica di entusiasmo e di

sollecitazione fantastica. Infatti il neorealismo non fu una scuola, ma un

insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle

diverse Italie, specialmente delle Italie fino allora più sconosciute dalla

letteratura. Il neorealismo in Italia è sorto come conseguenza della crisi tra il

1940 e il 1945 che, con la guerra e la lotta antifascista, investì, sconvolse fino

alle radici e cambiò il volto all'intera società italiana. Il neorealismo si nutrì,

quindi, di un modo di guardare il mondo, di una morale e di una ideologia

nuove che erano proprie della rivoluzione antifascista. Il neorealismo si

presentò così come un'arte impegnata contro l'arte che tendeva ad eludere i

problemi reali del nostro Paese e cercò un mutamento delle forme espressive

che sottolineasse la rottura con l'arte precedente e potesse esprimere più

adeguatamente i nuovi sentimenti.

La poetica del Neorealismo, da un punto di vista tecnico e formale, appare

molto povera e priva di elementi innovatori. In questo periodo si gioca anche

la sopravvivenza del concetto di autonomia della letteratura, che era stato tra

i più significativi apporti della stagione del decadentismo. Il Neorealismo con

le sue aspirazioni e le sue tensioni, la poetica e la pratica risentono anche

pesantemente di un condizionamento ideologico e politico, che nella

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produzione deteriore del movimento finisce con lo sfociare nel fenomeno del

populismo.

Neoavanguardia A partire dalla fine degli anni Cinquanta, gli anni del boom economico e della

definitiva trasformazione della società italiana in società fortemente

industrializzata, in una situazione letteraria caratterizzata per un verso

dall'esaurimento della fase neo-realistica, dal ritorno alle tematiche

intimistiche e neo-crepuscolari e da un rifiuto della storia come oggetto di

ispirazione e rappresentazione (Tomasi, Bassani, Cassola, ecc.) e per altro

verso dal sempre più massiccio coinvolgimento degli intellettuali nei

meccanismi dell'industria editoriale, assistiamo a un nuovo fenomeno di

rilievo nello sviluppo delle poetiche novecentesche italiane: la nascita della

cosiddetta neo-avanguardia. Gli scrittori che possono essere compresi in

questo movimento, dopo esperienze separate sul piano sia della produzione

letteraria sia della teoria e della critica e dopo la pubblicazione di un'antologia

di poeti Novissimi (Sanguineti, Pagliarani, Giuliani, Porta, Balestrini), nel 1963

si riuniscono a Palermo e si organizzano in corrente, autodefinendosi Gruppo

63 (che è anche il titolo di un'antologia di scritti degli appartenenti al gruppo).

Come i neorealisti muovendo dal rifiuto della metafisica ermetica e decadente

e delle sperimentazioni delle avanguardie storiche si erano richiamati alla

poetica del realismo ottocentesco, così gli scrittori della neo-avanguardia

muovendo dal rifiuto dell'ideologismo talora greve dei neorealisti, come dal

rifiuto dell'intimismo di quelle che spregiativamente chiamano le «Liale degli

anni '60» (i Bassani, i Cassola, gli altri autori dei best seller di qualità), si

richiamano alle poetiche sperimentalistiche delle avanguardie storiche.

Mutano i contesti e le ragioni socio-culturali delle scelte, male principali

soluzioni formali, e molti degli aspetti particolari della concezione stessa della

natura e del ruolo dell'arte rimangono quelle dei modelli.

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Negli scrittori della neoavanguardia il rifiuto dell'ideologizzazione esasperata

della precedente letteratura si traduce in un sostanziale rifiuto dell'ideologia

come chiave interpretativa della realtà: «oggi nessuna ideologia è in grado di

offrire una interpretazione esauriente del mondo e allorché allora si tenti di

utilizzarle in questo senso non possono che produrre falsi significati». La

realtà nell'arte della neo-avanguardia deve essere recuperata «nella sua

intattezza» (A. Guglielmi) attraverso un'operazione essenzialmente affidata al

linguaggio. Ma il linguaggio della società odierna - la società capitalistica

avanzata, dei mass media, della pubblicità, dell'industria editoriale, ecc. - è

irrimediabilmente logoro, incapace ormai di farsi portatore di significati

autentici e di reale comunicazione fra gli uomini. Tanto più la crisi investe la

condizione di poeta: come credere ancora nell'esercizio tradizionale,

artigianale delle tecniche di scrittura poetica, in un tempo e in un mondo in cui

la letteratura è mercificata e le sue tecniche sono utilizzate per reclamizzare

una lavastoviglie, un detersivo o una carta igienica? Un discorso analogo vale

per le arti figurative nell'età della riproducibilità tecnica.

Con il linguaggio di cui dispone e nel contesto in cui si trova a rovere, il poeta

contemporaneo non potrà far altro che comunicare «la negazione della

comunicazione esistente» (A. Guglielmi), ovvero compiere una mimesi diretta

del caos, cioè una riproduzione immediata ed enfatizzata della mancanza di

significato, dell'inautenticità della comunicazione normale (sia riproducendo

lacerti di comunicazione quotidiana apparentemente dotati di significato, di

cui evidenziare la banalità, svelare l'insignificanza; sia fornendone un

equivalente provocatorio, un coacervo di parole preso poco meno che a

caso). Asintattismo, asemanticità, parole in libertà, parole casualmente

radunate e disposte sulla pagina, reperti del mondo della comunicazione (di

massa e non: dallo slogan pubblicitario alla citazione televisiva, dal più

recente anglismo al più remoto frammento lessicale delle lingue morte, ecc.),

pratica del nonsense, uso ludico del significante (cioè dei puri e semplici corpi

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fonici delle parole), rifiuto del significato, e via dicendo sono tra le soluzioni

formali più radicali adottate da molti esponenti di questo movimento.

È stato notato che il proporsi di quella che A. Guglielmi definiva «una poesia

dell'alienazione» e «una sorta di visione schizofrenica della realtà» portava la

neoavanguardia ad affrontare molte delle difficoltà di poetica e di procedura

già in parte sperimentate dalle avanguardie storiche. Percorrere sino in fondo

la via della negazione di ogni possibilità di comunicazione che non fosse la

"comunicazione della non comunicazione", sino al silenzio e alla denuncia

della morte dell'arte; ridurre la rappresentazione del caos del linguaggio e

della realtà a gioco intellettuale, a puro e semplice divertimento; adottare

soluzioni intermedie che non rifiutino completamente la semanticità del

linguaggio (cioè la possibilità di trasmettere significati autentici attraverso il

linguaggio): queste, che sono le principali strade percorse dagli scrittori della

neoavanguardia, sono anche - a prescindere dai referenti e dai significati

storico-culturali contingenti - le vie grosso modo percorse dalle avanguardie

storiche. Gli stessi scrittori della neoavanguardia, del resto, ne sono in larga

misura consapevoli e se spiegano le oggettive differenze che li separano

dalle avanguardie storiche non ne rifiutano l'eredità e anzi tentano in varie

sedi (ad esempio nell'antologia dei Poeti italiani del Novecento di Sanguineti)

una rivalutazione e rivitalizzazione della tradizione avanguardistica nostrana.

Alla mimesi del caos, al naufragio nel mare dell'oggettività, al perdersi nei

labirinti del mondo moderno senza cercare una via d'uscita, proprio negli anni

del boom delle neo-avanguardie si è ribellato in alcuni suoi interventi

memorabili Italo Calvino (Il mare dell'oggettività del 1958 e La sfida al

labirinto del 1962, editi entrambi ; «Il menabò»), la cui esperienza letteraria è

da sempre stata concepita all'insegna del logos contro il caos, all'insegna

della ragione contro l'irrazionalità. Analizzando ne La sfida al labirinto gli

sviluppi della letteratura e delle avanguardie nel mondo contemporaneo, pur

ammettendo la difficoltà del compito e la necessità di adeguarsi a una realtà

in perenne movimento e sempre più complessa, Calvino ribadisce la fedeltà

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ai propri principi e delinea i compiti a cui a suo parere la letteratura e la

cultura non possono sottrarsi: «Resta fuori chi crede di poter vincere labirinti

sfuggendo alla loro difficoltà; ed è dunque una richiesta poco pertinente

quella che si fa alla letteratura, dato un labirinto, di fornire essa stessa la

chiave p. uscirne. Quel che la letteratura può fare è definire l'atteggiamento

migliore per trovare la via d'uscita, anche se questa via d'uscita non sarà altro

che il passaggio da un labirinto all'altro. È la sfida al labirinto che vogliamo

salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e

distinguere dalla letteratura della resa al labirinto».

N.B. la scelta antologica degli autori di questo 5° modulo verrà preparata

successivamente, il docente ve ne darà comunicazione. Grazie.

U.D. 2_ Elio Vittorini (1908-1966)

Elio Vittorini nasce il 23 luglio 1908 a Siracusa da Lucia Sgandurra e

Sebastiano vittoriani, primo di quattro figli.

Seguendo gli spostamenti del padre ferroviere, trascorre l'infanzia e

insistentemente in tutta la sua opera sarà presente il fascino del treno e del

viaggio. Inquieto e ribelle, durante l'adolescenza fugge diverse volte da casa

«per vedere il mondo», utilizzando i biglietti omaggio cui hanno diritto i

familiari di un dipendente delle ferrovie.

Nel 1924 entra in contatto con un gruppo di anarchici siracusani in lotta

contro lo squadrismo fascista e interrompe gli studi tecnici a cui i genitori

l'hanno destinato. Quindi, a diciassette anni decide di lasciare definitivamente

la Sicilia e si stabilisce a Gorizia, dove troverà lavoro in un'impresa di

costruzioni. Nel 1926 pubblica un articolo politico sulla rivista «La conquista

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dello stato», assumendo posizioni di fascismo antiborghese. E nel 1927

grazie all'amicizia con Curzio Malaparte comincia a collaborare con «La

Stampa» e pubblica su «La fiera letteraria» il racconto il Ritratto di re

Gianpiero con presentazione di Enrico Falqui.

Il 10 settembre 1927, dopo la fuga architettata per potersi sposare subito,

viene celebrato il matrimonio "riparatore" con Rosa Quasimodo, la sorella del

celebre poeta Salvatore Quasimodo. Nell'agosto del '28 nascerà il loro primo

figlio, chiamato, in omaggio a Curzio Malaparte, Giusto Curzio.

In questo periodo intraprende la lettura di alcuni dei maggiori scrittori europei,

fra cui Gide, Joyce e Kafka, e nel frattempo le sue collaborazioni si

estendono a «Il Mattino», «Il Lavoro fascista» e ad altri periodici. Nel '29

suscita scandalo un suo articolo contro il provincialismo della cultura italiana.

Vittorini comincia ad essere considerato «uno scrittore tendenzialmente

antifascista». Quindi perde le collaborazioni «ai giornali che pagano» e

comincia a collaborare con una piccola rivista fiorentina, «Solaria», su cui

pubblica la maggior parte dei racconti, raccolti poi in volume nel 1931 con il

titolo Piccola borghesia — il suo primo libro. Così Vittorini diviene un

«solariano» e — come racconta egli stesso in Della mia vita fino ad oggi —

«solariano negli ambienti letterari di allora, era parola che significava

antifascista, europeista, universalista, antitradizionalista…».

Grazie al direttore della rivista, Giansiro Ferrata, realizza il suo sogno di

vivere a Firenze, dove nel 1930 si trasferisce con la famiglia. Qui lavora come

segretario di redazione di «Solaria» e, per interessamento di Gianna Manzini,

viene assunto come correttore di bozze al quotidiano «La Nazione». La sera

frequenta il noto caffè degli ermetici «Le Giubbe Rosse», o s'incontra con gli

amici in casa di Drusilla Tanzi, moglie del critico d'arte Matteo Marangoni, da

tutti chiamata " Mosca" — la futura compagna di Eugenio Montale. In questi

anni, sollecitato e dal desiderio di leggere i testi della letteratura

anglosassone in lingua originale e dall'intento di aprirsi le porte anche come

traduttore, da autodidatta e con grande zelo, inizia a studiare la lingua inglese

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proprio nella tipografia de «La Nazione», aiutato dal tipografo Chiari. Non

parlerà mai l'inglese, ma da quella lingua tradurrà decine di libri (il Robison

Crusoe e le opere di Lawrence, Poe, Saroyan, Faulkner, Powys, Steinbeck,

Defoe, Caldwell ecc.). Attraverso recensioni e traduzioni — e poi in seguito

anche mediante la sua attività editoriale — Vittorini, al pari di Cesare Pavese,

contribuirà a diffondere in Italia la moderna letteratura anglosassone e a

creare così il mito dell'America: il mito di una civiltà moderna progredita,

industriale e cittadina in contrapposizione a quella italiana, arcaica arretrata

rurale e provinciale.

Vivendo poveramente, negli anni 1931-1937 collabora al «Bargello», il

settimanale della federazione fascista di Firenze, su cui esprime le sue

posizioni di fascista «di sinistra». Nel 1932 vince ex aequo con Virgilio Lilli il

premio per il miglior Diario del viaggio in Sardegna, bandito dal settimanale

«L'Italia letteraria». Dal primo Quaderno sardo nascerà nel '36 il libro Nei

Morlacchi. Viaggio in Sardegna, ristampato nel '52 col titolo Sardegna come

un'infanzia. Nel '33 inizia la pubblicazione a puntate su «Solaria» del

romanzo Il garofano rosso (edizione definitiva 1948). Nel '34 è costretto a

lasciare il lavoro di correttore di bozze a causa di un'intossicazione da

piombo. Nello stesso anno nasce il suo secondo figlio, Demetrio, tenuto a

battesimo da Montale.

Nel '36 interrompe la stesura di Erica e i suoi fratelli (edito incompiuto nel '54)

e comincia a scrivere l'opera che costituisce il punto più alto della sua attività:

Conversazione in Sicilia. Il romanzo appare a puntate su «Letteratura» tra il

'38 e il '39, e poi nel '41 uscirà in volume: prima presso l'editore Parenti col

titolo Nome e lagrime, e poco dopo col titolo definitivo presso la casa editrice

Bompiani.

Insieme con altri fascisti di sinistra e ex fascisti, Vittorini segue con

drammatica partecipazione la guerra civile di Spagna, schierandosi dalla

parte dei repubblicani spagnoli. E in seguito alla pubblicazione di un articolo

antifranchista, divenuto sospetto al Regime, viene espulso dal partito fascista.

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Quindi si accosta ai gruppi comunisti clandestini. Nel '37 pubblica sul n.1 di

«Letteratura» — una nuova rivista fiorentina «con la quale si cercava di

sostituire […] la scomparsa «Solaria» — Giochi di ragazzi, romanzo

incompiuto concepito come seguito de Il garofano rosso.

Avendo trovato lavoro presso Bompiani, alla fine del 1938, si trasferisce con

la famiglia a Milano, dove attraversa un periodo di crisi per via del suo

vecchio amore per la milanese Ginetta Varisco, moglie del commediografo

Cesare Vico Lodovici. Nel 1941 la censura fascista, contestando le note

critiche di Vittorini, sequestra l'antologia Americana, che tuttavia l'anno

successivo verrà rimessa in vendita da Bompiani, benché con l'eliminazione

di quasi tutte le note critiche.

Durante la guerra, svolge attività clandestina per il partito comunista.

Nell'estate del '43 viene arrestato, ma rimane nel carcere di San Vittore fino a

settembre. Tornato libero, si occupa della stampa clandestina, prende parte

ad alcune azioni della Resistenza e partecipa alla fondazione del Fronte della

Gioventù, lavorando a stretto contatto con Eugenio Curiel. Recatosi nel

febbraio del '44 a Firenze per organizzare uno sciopero generale, rischia la

cattura da parte della polizia fascista; quindi si ritira per un certo periodo in

montagna, dove, tra la primavera e l'autunno, scrive Uomini e no, edito

presso Bompiani nel 1945. Finita la guerra, torna a Milano con Ginetta e

chiede l'annullamento del suo precedente matrimonio.

Nel '45 dirige per alcuni mesi «L'Unità» di Milano e fonda per l'editore Einaudi

la rivista «Il Politecnico». L'apertura culturale della rivista e soprattutto le

posizioni assunte da Vittorini in merito alla necessità di una ricerca

intellettuale autonoma dalla politica, suscitano la famosa polemica con i

leader comunisti Mario Alicata e Palmiro Togliatti che portarono alla sua

prematura chiusura nel '47.

Sempre nel '47 esce Il Sempione strizza l'occhio al Frejus, mentre nel '49

escono Le donne di Messina (apparso poi, in una nuova veste, nel '64) e la

traduzione americana di Conversazione in Sicilia, con prefazione di

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Hemingway. Nel '50 riprende la sua collaborazione a «La Stampa» e nel '51

inizia a dirigere per Einaudi la collana di narrativa “I gettoni”, dimostrandosi

uno scopritore di talenti: Beppe Fenoglio, Carlo Cassola, Italo Calvino, Lalla

Romano, Mario Rigoni Stern, Ottiero Ottieri e molti altri. In quello stesso anno

lascia il partito comunista, salutato polemicamente da Togliatti.

Nel '55 la sua vita privata è lacerata dalla morte del figlio Giusto.

Nel '56 esce La Garibaldina e nel '57 Diario in pubblico, volume che raccoglie

gran parte dei suoi scritti critici. Grande clamore suscita poi il suo rifiuto di

pubblicare Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Nel '59 fonda con Calvino

«Il Menabò» — rivista aperta a una narrativa che voglia essere al passo con

la civiltà industriale. L'anno successivo passa alla direzione della collana di

Mondadori La Medusa e nel '61 si avvicina anche al mondo del cinema,

scrivendo la sceneggiatura per un film mai realizzato, Le città del mondo.

Nel '63 si ammala gravemente e viene sottoposto a un primo intervento

chirurgico. Malgrado la malattia, fittissima è la sua attività editoriale, avendo

assunto nel frattempo la direzione della collana di Mondadori Nuovi scrittori

stranieri, e quella di Einaudi Nuovo Politecnico.

Il 12 febbraio 1966 muore nella sua casa milanese di via Gorizia. Postumo

escono il volume critico Le due tensioni (1967) e il romanzo incompiuto scritto

negli anni cinquanta, Le città del mondo (1969).

Conversazione in Sicilia"

Il romanzo si presenta al lettore come un viaggio di un uomo a ritroso nella

sua terra natìa. L'identità del viaggiatore è incerta, ma è lo stesso autore ad

avvisare che il racconto non è autobiografico.

È possibile leggere l'opera con due diverse chiavi di lettura: la prima è quella

nel segno dell'allucinazione, del sogno e questa via spiegherebbe l'assenza

di un vero filo rosso che accomuni i vari incontri del protagonista, i dialoghi

estenuanti e ripetitivi, le situazioni finora estranee al panorama letterario

italiano e il tono decisamente bizzarro e inconsueto della narrazione. Inoltre

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così troverebbe un senso anche il surreale e inverosimile ritorno nel finale di

tutti i personaggi incontrati nel corso della storia, subito dopo il dialogo col

fantasma del fratello morto in guerra.

Un'altra possibile interpretazione - ed è questa la più in auge per la critica -

legge l'intera opera in chiave simbolica, quasi allegorica. Vittorini, per non

incorrere nella censura del regime mussoliniano - il libro viene pubblicato nel

1941 -, avrebbe mascherato le sue reali intenzioni antifasciste dietro un

romanzo i cui personaggi e dialoghi hanno un significato che va oltre

l'apparenza.

L'arrotino che cerca lame e coltelli, ma non ne trova presso la gente,

simboleggia il rivoluzionario che cerca di agitare il popolo, ma nessuno vuole

reagire perché tutti fanno finta di niente di fronte alle violenze.

L'uomo Ezechiele, i cui occhi madidi sembrano implorare pietà per il mondo

offeso, sta ad indicare la filosofia consolatoria.

Porfirio, il venditore di stoffe, è la cultura cattolica che, al posto dell'offesa

inferta dalle forbici, propugna l'azione dell'Acqua viva. I tre rappresentano gli

sforzi di chi cerca in ogni modo di opporsi al regime, ma non vi riesce a causa

dell'indifferenza comune.

In questa prospettiva i due passeggeri altezzosi del treno Coi Baffi e Senza

Baffi rappresentano il perbenismo menefreghista borghese di chi si

disinteressa dei poveri che lo circondano. Ed è proprio questo infischiarsene

e disprezzare che provoca ironica ilarità nel quartetto di personaggi che il

protagonista incontra più tardi: il Gran Lombardo che aspira ad una nuova

moralità, il vecchietto col suo ghigno sarcastico e gli altri due giovani nello

scompartimento.

Gli umili che l'autore descrive non sono più solo specchio della Sicilia povera

e arretrata, già oggetto di analisi da parte dei veristi; ma di tutti i prevaricati di

ogni tempo ed ogni luogo, di quelli che soffrono e proprio per questo sono più

umani degli altri.

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Nell'opera è presente il motivo del viaggio: esso è infatti un pretesto, o meglio

artificio, per introdurre, per mezzo delle voci dei personaggi, situazioni ed

idee dell'autore.

Vi è inoltre la vitalità della madre che non si lascia abbattere dall'abbandono

del coniuge, anzi si adopera per sbarcare il lunario con ogni espediente. Ella

inoltre critica senza rimpianto il marito donnaiolo e vigliacco.

La tecnica utilizzata da Vittorini è molto suggestiva, in quanto permette di

creare un alone di indeterminatezza e mistero attorno alla scena narrata.

Tuttavia le allusioni criptiche rischiano di cogliere il lettore impacciato e

incredulo di fronte ad un testo che potrebbe sembrare puramente fantastico. I

richiami realisti e veristi della parte prima e terza, l'ambientazione sicula,

potrebbero impedire che l'opera venga correttamente compresa come uno

scritto pregno di significato politico e non organico al regime.

In alcuni momenti il tempo dell'azione si ferma rispetto a quello della

narrazione: è il caso degli infiniti e noiosissimi dialoghi tra i personaggi che

perseverano nel ripetere poche frasi intramezzate da brevi esclamazioni.

Sembra che Vittorini senta il bisogno di ribadire più e più volte lo stesso

concetto.

In definitiva, l'opera presenta un elevato valore storico, anche se difficilmente

risulterebbe comprensibile senza le indicazioni fornite dalle note.

U.D. 3_ Cesare Pavese

Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, Cuneo 9 settembre 1908 - Torino 27

agosto 1950) è stato uno fra i principali scrittori italiani del Novecento.

Importante fu l'opera di Pavese scrittore di romanzi, poesie e racconti, ma

anche quella di traduttore e critico: oltre all'Antologia americana curata da

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Elio Vittorini, essa comprende la traduzione di classici della letteratura da

Moby Dick di Melville, nel 1932, ad opere di Defoe, Joyce e Dickens.

La sua attività di critico in particolare contribuì a creare, verso la metà degli

anni '30, il sorgere di un certo mito dell'America. Lavorando nell'editoria (per

la Einaudi) Pavese propose alla cultura italiana scritti su temi differenti, e

prima d'allora raramente affrontati, come l'idealismo ed il marxismo, inclusi

quelli religiosi, etnologici e psicologici.

Studioso e pensatore che si riconosceva nella sinistra italiana, morì suicida a

quarantadue anni di età in una piccola camera al terzo piano dell'Hotel Roma

a Torino. Per tutta la vita aveva cercato di vincere la solitudine interiore,

sentita come condanna e vocazione.

Pavese nacque nel 1908 a Santo Stefano Belbo, nelle Langhe, dove il padre,

cancelliere di tribunale a Torino, aveva un podere. Sono questi i luoghi e le

esperienze infantili che vennero successivamente mitizzati dal Pavese

scrittore.

Nel 1914 morì il padre e questo gli causò un primo trauma. La madre infatti si

sostituì al marito defunto nell'allevare il figlio in maniera quanto mai rigida.

Pavese compì gli studi liceali a Torino con Augusto Monti, collaboratore di

Gobetti, narratore, studioso di problemi della scuola. Fu il primo contatto con

il mondo degli intellettuali e con personalità come Leone Ginzburg, Tullio

Pinelli, Vittorio Foa, studioso di problemi politici e sociali, Norberto Bobbio.

Durante gli anni dell'università Pavese maturò l'interesse per la letteratura

americana; in quegli anni, intanto, alternava il lavoro di traduttore con

l'insegnamento della lingua inglese (si era nel frattempo laureato con una tesi

sul poeta americano Walt Whitman). Nel 1935 venne inviato al confino per

attività antifascista (in realtà si era limitato a prestarsi come recapito per

lettere compromettenti per un'attivista comunista insegnante di matematica di

cui era innamorato); mentre era al confino pubblicò Lavorare stanca (iniziato

nel 1928) e, nello stesso periodo, iniziò la stesura de Il mestiere di vivere,

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diario letterario ed esistenziale che continuò a scrivere fino alla fine dei suoi

giorni.

Le poesie di Lavorare stanca (1936) furono fortemente innovative e, insieme

alle sue opere di narrativa, attrassero un vasto pubblico. Ritornato dal

confino, Pavese scoprì che la donna da lui amata si era sposata (e questo gli

causò un secondo trauma); da quel momento Pavese fu angosciato dal

timore che quanto già accaduto potesse ripetersi. La sensazione angosciosa

del fallimento, complicata pare da disturbi della sfera sessuale, lo

accompagnò fino alla morte in un hotel di Torino dove si suicidò ingoiando un

dose di barbiturici. Buon per lui che, nel 1938, il rapporto con la casa editrice

Einaudi divenne stabile. Nel 1940 poté così terminare il romanzo breve La

bella estate ed iniziare Feria d'agosto; nel 1941, pubblicò Paesi tuoi.

Richiamato alle armi, venne congedato a causa dell'asma che lo affliggeva.

Dall'8 settembre 1943 fino alla Liberazione si rifugiò dapprima presso la

sorella, poi in un collegio dei padri Somaschi a Casale Monferrato, estraniato

rispetto alle vicende del Paese, mentre molti suoi amici entravano nella

Resistenza. Tale esperienza venne narrata ne La casa in collina (scritto tra il

1947 ed il 1948). Nell'opera è espressa la conflittualità tra la sua scelta e

quella degli amici, molti dei quali morirono in seguito a tale risoluzione. A

guerra finita, tuttavia, e quasi per riscattare la scelta precedente, Pavese

entrò nel PCI. Nel 1950, vinse il Premio Strega con il trittico (tre romanzi

brevi) La bella estate. La delusione amorosa per la fine del rapporto

sentimentale con l'attrice americana Constance Dowling - cui dedicò gli ultimi

versi di Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi - ed il disagio esistenziale lo

indussero al suicidio il 27 agosto del 1950, in una camera dell'albergo Roma,

a Torino.

Il suo amico scrittore Davide Lajolo bene descrisse in un libro intitolato non

casualmente Il vizio assurdo il malessere esistenziale che sempre aveva

avvolto la vita dell'intellettuale piemontese.

La poetica di Pavese: dal 1936 al 1941

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Pavese esordisce come poeta nel 1936, con Lavorare stanca. La raccolta

viene ripubblicata nel 1943, con l'aggiunta di trentuno poesie e la

soppressione di sei. In piena cultura ermetica Pavese imbocca la via della

poesia - racconto (ritmi narrativi, toni del parlato, osterie, città etc.).

L'esperienza narrativa produce un verso allungato e dalla cadenza ampia

(decasillabo allungato a tredici sillabe).

Nel saggio Il mestiere di poeta Pavese sostiene la necessità dell'aderenza

delle parole alle cose e rifugge la musicalità fine a sé stessa. Tali primi canoni

di poetica sono poi modificati per evitare che la poesia - racconto diventi

bozzettismo naturalistico. Pavese teorizza una poesia che si risolve in

immagini. Poesia - racconto e poesia - immagine coesistono in Lavorare

stanca, opera in cui sono già presenti i topoi pavesiani: solitudine come

condanna esistenziale, incapacità di dialogo, vagheggiamento della donna,

campagna come mito da cui originano le prime impressioni e l'identità

dell'individuo, la figura dell'espatriato che torna al luogo d'origine, cercando la

propria infanzia, alla ricerca della propria identità.

Pavese alla capacità affabulatoria unisce una precisa consapevolezza critica.

Il carcere costituisce la sua prima prova narrativa valida (carcere della

solitudine). Il protagonista vive l'esperienza del confino ma si tratta soprattutto

di un'autobiografia spirituale: la vicenda dell'intellettuale che cerca di rompere

la solitudine, ma che da questa è risucchiato. Di là delle implicazioni politiche

il romanzo è caratterizzato dall'analisi esistenziale.

Nel 1941, pubblica Paesi tuoi attirando l'attenzione della critica, che lo

interpreta come una manifestazione di realismo. In realtà la descrizione di

una campagna primitiva ed i temi della passione, del sangue, nonché un

linguaggio che attinge al dialetto ed al parlato, uniti all'apparente oggettività

naturalistica, conferiscono una dimensione mitica e rituale alla narrazione,

una lettura del reale in chiave simbolica, attinta dagli studi di antropologia e

del sacro.

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La sua consacrazione del mito deriva dall'idea secondo la quale nell'infanzia

si creano miti e simboli che formano una specie di memoria atavica. Pavese

è lontano da ogni rappresentazione realistica in quanto ha, come principio di

poetica, la necessità di focalizzare il fondo mitico ed irrazionale che è

patrimonio di ogni individuo e che ne determina la personalità ed il destino.

Nell'ultimo decennio, dal '40 al '50, Pavese produce opere eterogenee per

tematica e stile. La riflessione sul mito orienta Pavese in due direzioni,

apparentemente lontane, ma che hanno lo stesso obiettivo.

Da un lato recupera il fondo mitico della propria personalità, distanziandosi

dalla realtà e rifugiandosi nell'intellettualismo (Dialoghi con Leucò) per un

altro verso indugia al neorealismo, all'osservazione dell'ambiente e degli

uomini (Il compagno, 1946).

La stessa coesistenza di interessi diversi si trova nel 1949 in La luna e i falò e

in Tra donne sole. I due motivi si integrano, poiché mettono a fuoco l'uomo,

alienato nel contesto cittadino, che cerca le proprie radici mitiche. La

narrativa di Pavese non si distingue per la complessità della trama, bensì si

identifica in brevi capitoli potenzialmente evocativi.

I due testi esemplari sono La casa in collina e La luna e i falò. La casa in

collina fu pubblicato insieme a Il carcere. Il titolo del volume era Prima che il

gallo canti (Vangeli: Monte Uliveto, Cristo a Pietro: "Prima che il gallo canti mi

rinnegherai tre volte") che chiarisce l'accostamento dei due romanzi: il

protagonista de Il carcere è schiavo della solitudine fino ad amarla.

Corrado, protagonista de La casa in collina, mentre i suoi amici partecipano

alla lotta partigiana, si estranea nella propria solitudine finché giunge alla

consapevolezza che il suo isolamento è stato un tradimento. Pavese

approfondisce, oltre al tema mitico, anche quello sociale e di classe. La

solitudine diviene, da stato d'animo, condizione esistenziale e sociale.

Anche La luna e i falò è un romanzo - bilancio, atemporale, nel quale Pavese

cala i propri temi e i propri principi teorici. Il ritorno all'infanzia è il percorso

obbligato per conoscersi ed avere consapevolezza del proprio destino. La

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novità del romanzo è costituita dal fatto che il pellegrinaggio ai luoghi mitici

dell'infanzia si conclude nella constatazione che tutto è perduto: sono

scomparse le persone e cambiati i luoghi, è la lucida e dolorosa

constatazione che la morte è connaturata all'uomo.

U.D. 4_ Alberto Moravia

Alberto Moravia, pseudonimo di Alberto Pincherle , nato a Roma il 28

novembre del 1907 e morto il 26 settembre del 1990) è stato un importante

scrittore italiano. Moravia è il cognome della nonna paterna. Il padre Carlo,

ebreo, era architetto e pittore. La madre Teresa Iginia De Marsanich era di

Ancona ma di origini dalmate. Fu il terzo di quattro figli, tra le più anziane

Adriana e Elena ed il più piccolo Gastone. Egli non riuscì a compiere studi

regolari perché all'età di nove anni venne colpito da una seria forma di

tubercolosi ossea che lo costrinse a letto per ben cinque anni, tre dei quali

trascorsi a casa e due presso il sanatorio Codivilla di Cortina d'Ampezzo.

Ragazzo di viva intelligenza, non potendo condurre la vita dei ragazzi della

sua età, ebbe molto tempo per la lettura alla quale si dedicò con fervido

impegno e profonda passione, formandosi così una solida base letteraria

allargata alle più significative tendenze della cultura europea. Tra i suoi autori

preferiti vi furono Fëdor Dostojeskij, Joyce, Goldoni, Shakespeare, Molière,

Mallarmé e molti altri. Imparò con facilità il francese e il tedesco e iniziò a

scrivere versi in francese e in italiano. Nel 1925, lasciato il sanatorio, recatosi

a Bressanone per la convalescenza inizierà a scrivere Gli indifferenti.

Conobbe in quel periodo Corrado Alvaro e Massimo Bontempelli e nel 1927

iniziò a collaborare alla rivista '900 dove pubblicò i suoi primi racconti tra i

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quali la Cortigiana stanca, che uscì in francese (Lassitude de courtisane) nel

1927, il Delitto al circolo del tennis del 1928, Il ladro curioso e Apparizione nel

1929.

Nel '29, dopo non poche difficoltà, riuscì a pubblicare a sue spese (5.000 Lire

dell'epoca) presso l'editore milanese Alpes il suo primo romanzo, Gli

indifferenti, che ottenne subito da parte della critica buoni consensi e venne

considerato uno degli esperimenti più interessanti di narrativa italiana di quel

tempo. La struttura teatrale 'in blocchi' del romanzo era molto in linea con il

gusto letterario francese dell'epoca. Dal 1930 iniziò a collaborare con La

Stampa, allora diretta da Curzio Malaparte e nel 1933 fondò, insieme a Mario

Pannunzio, la rivista "Caratteri", che vedrà la luce per soli quattro numeri, e la

rivista Oggi. Sempre nel 1933 iniziò a collaborare con la Gazzetta del Popolo,

ma il regime fascista avversò la sua opera vietandone le recensioni a Le

ambizioni sbagliate, sequestrando La mascherata e vietando la pubblicazione

di Agostino. Nel 1935 si reca in America dove, invitato da Prezzolini, allora

direttore della Casa Italiana della Columbia University di New York, tenne

alcune conferenze sul romanzo italiano. Ritornato in Italia scrisse un libro di

racconti lunghi intitolato L'imbroglio che verrà pubblicato da Bompiani nel

1937. Per evitare la censura del regime Moravia scriverà negli anni del

fascismo racconti allegorici e surrealistici, tra i quali I sogni del pigro

pubblicato nel 1940 e nel 1941 il romanzo La mascherata che però verrà

sequestrato in occasione della seconda edizione. Da questo momento sarà

costretto a pubblicare i suoi articoli sui giornali e sulle riviste sotto

pseudonimo.

Nel 1941 si unì in matrimonio con la scrittrice Elsa Morante che aveva

conosciuto nel 1936 e con lei visse per un lungo periodo a Capri dove

scriverà il romanzo Agostino. Dopo gli avvenimenti dell'8 settembre del 1943

si rifugiò con la moglie a Fondi, in Ciociaria e da questa esperienza nascerà il

romanzo La ciociara. Nel 1944 saranno pubblicati i racconti de L'epidemia e il

saggio La Speranza, ovvero Cristianesimo e Comunismo. Con l'annuncio

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della Liberazione lo scrittore ritornerà a Roma e riprenderà la sua attività

letteraria e giornalistica collaborando con Corrado Alvaro a "Il Popolo di

Roma", a "Il Mondo", all'"Europeo" e soprattutto al "Corriere della Sera" dove

sarà presente fino alla morte con i suoi réportages, le sue riflessioni critiche e

i suoi racconti. Gli anni che seguono il dopoguerra vedranno aumentare la

fortuna letteraria e cinematografica dello scrittore che pubblicò La romana

(1947), i racconti La disubbidienza (1948), L'amore coniugale e altri racconti

(1949) e il romanzo Il conformista (1951). Nel 1952 gli venne assegnato il

premio Strega per I racconti e iniziano le traduzioni dei suoi romanzi all'estero

e i film tratti dai suoi racconti e romanzi. Sarà del 1952 La provinciale con la

regia di Mario Soldati, La romana del 1954 con la regia di Luigi Zampa, del

1955 Racconti romani di Gianni Franciolini. Nel 1953 fondò con Alberto

Carrocci la rivista Nuovi Argomenti della quale divenne il redattore e come

collaboratore l'amico Pier Paolo Pasolini. Nel 1954, in seguito alla

pubblicazione dell'opera I racconti romani, gli sarà assegnato il premio

Marzotto. Scriverà intanto il romanzo Il disprezzo e sulla rivista "Nuovi

Argomenti" il saggio L'uomo come fine. Scrisse inoltre alcune importanti

prefazioni, come quella ai Cento sonetti del Belli, al Paolo il caldo di Brancati

e a Passeggiate romane di Stendhal.

Nel 1957 iniziò a collaborare all'Espresso tenendo una accurata rubrica di

critica cinematografica, le cui recensioni verranno pubblicate nel 1975 in un

volume intitolato Al cinema. Nel 1960 con la pubblicazione La noia gli verrà

assegnato il premio Viareggio e nel 1960 Vittorio De Sica realizzerà il film

tratto dall'omonimo libro La ciociara.

Separatosi da Elsa Morante nel 1962 andò a vivere con la giovane scrittrice

Dacia Maraini.

Verrà intanto realizzato il film diretto da Mauro Bolognini Agostino e la perdita

dell'innocenza nel 1962 e nel 1963 Il disprezzo dal regista Jean-Luc Godard,

La noia (film) con la regia di Damiano Damiani a cui seguiranno nel 1964 Gli

indifferenti di Francesco Maselli. Moravia, nel frattempo, si occupò sempre

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più di teatro e a partire dal 1966 fondò con Dacia Maraini ed Enzo Siciliano

una compagnia teatrale che porta il nome "del Porcospino". Con essa verrà

rappresentata L'intervista di Moravia, La famiglia normale della Maraini,

Tazza di Enzo Siciliano e alcune opere di Carlo Emilio Gadda, Goffredo

Parisi a altri autori. Purtroppo, a causa della mancanza di fondi, la compagnia

dovrà essere chiusa.

Nel 1967 si recò in Cina, in Giappone e in Corea, insieme alla compagna

Maraini, come corrispondente, ed i suoi articoli verranno raccolti nel 1968 in

un volume intitolato La rivoluzione culturale in Cina. Nel 1971 verrà

pubblicato il romanzo Io e lui e il saggio Poesia e romanzo e nel 1972 lo

scrittore compierà un viaggio in Africa dal quale nascerà l'ispirazione per

l'opera A quale tribù appartieni? che uscirà nello stesso anno.

Nel 1973 raccoglie in un libro alcuni dei racconti apparsi precedentemente sul

"Corriere della Sera", pubblicazione, questa, seguita nel 1976 da un'altra

raccolta. Uscirà, intanto, nel 1978 il romanzo al quale aveva lavorato per molti

anni, La vita interiore. Negli anni seguenti Moravia continuò a scrivere e a

pubblicare racconti e saggi e a collaborare attivamente con "Il Corriere della

Sera". Il viaggio compiuto nel 1982 in Giappone e la sosta a Hiroshima gli

faranno scrivere tre inchieste, che pubblicherà per l'"Espresso", sulla bomba

atomica, tema che sarà poi al centro del romanzo L'uomo che guarda del

1985, ma soprattutto del particolare saggio L'inverno Nucleare strutturato

lungo interviste che l'autore pone a studiosi scientifici e politici del tempo,

dalle cui pagine traspaiono anche la precarietà e l'aridità umana che il

periodo successivo alla bomba atomica inevitabilmente ha lasciato. La

seguente raccolta di racconti dal titolo La cosa, sarà dedicata dallo scrittore

alla sua nuova compagna Carmen Llera con la quale si unirà in matrimonio

nel 1986 e che susciterà un certo scandalo per il fatto che la donna aveva

quarantacinque anni meno di Moravia.

Nel 1984 verrà eletto deputato europeo nelle liste del PCI, ruolo che coprirà

per 4 anni. Nel 1985 gli viene conferito il titolo di "personalità europea". Da

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Strasburgo dove si recò come inviato del "Corriere della Sera" lo scrittore

inizierà nel 1984 la corrispondenza Il Diario europeo e nel 1986 verrà

pubblicato un volume dal titolo L'angelo nucleare e altri scritti teatrali curato

da Renzo Paris e il primo volume delle Opere (1927-1947) curato da Geno

Pampaloni. Nel 1989 uscirà, a cura di Enzo Siciliano, il secondo volume delle

Opere (1948-1968). Nel settembre 1990 Moravia viene trovato morto nel

bagno del suo appartamento in Lungotevere della Vittoria, sempre a Roma.

Nello stesso anno uscirà la sua autobiografia scritta insieme ad Alain Elkann

ed edita da Bompiani Vita di Moravia.

U.D. 5_ Vitaliano Brancati

Vitaliano Brancati (Pachino, 24 luglio 1907 - Torino, 25 settembre 1954) è

stato uno sceneggiatore e scrittore italiano che si impose nel panorama della

narrativa neorealista negli anni che precedettero la seconda guerra mondiale.

Nato in provincia di Siracusa da una famiglia non aliena da interessi letterari -

sia il nonno che il padre erano stati autori di novelle e di poesie - compì gli

studi inferiori nel suo paese natale e quelli superiori a Catania dove si trasferì

con la famiglia nel 1920. Si iscrisse alla Facoltà di Lettere laureandosi nel

1929 con una tesi su Federico De Roberto e insegnando per qualche tempo

presso un istituto magistrale. Trasferitosi a Roma, oltre ad insegnare,

Brancati inizia l'attività di giornalista: dapprima scrive per "Il Tevere" e, in

seguito, dal 1933 in poi, per il settimanale letterario "Quadrivio". La sua

formazione giovanile viene segnata da un'ideologia irrazionalista che entra in

crisi quando da Catania si trasferisce a Roma dove ha modo di frequentare

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intellettuali crociani e democratici che gli aprono un orizzonte culturale

europeo.

La sua attività letteraria inizia con opere "di regime" e pertanto animate da

intenti propagandistici di stampo fascista come il poema drammatico Fedor

del 1928, i drammi Everest del 1931 e Piave del 1932 e il romanzo L'amico

del vincitore. Nel 1934 pubblica il romanzo Singolare avventura di viaggio

dove appaiono per la prima volta i temi legati ai problemi dell'esistenza e

all'erotismo.

In seguito al contatto con Alvaro, Moravia e altri scrittori di quel periodo,

proprio nel '34, Brancati, matura la sua crisi politica, si distacca dalle posizioni

fasciste e disconosce i suoi scritti giovanili per lo più improntati all'ideologia

dell'azione.

Tornato a Catania si dedica all'insegnamento e nello stesso tempo collabora

al settimanale Omnibus di Leo Longanesi fino al 1939 quando la rivista viene

soppressa da parte del regime fascista.

Si dedica all’insegnamento fino al 1941, anno in cui ritorna a Roma e

pubblica Gli anni perduti, da lui stesso considerato il suo primo vero romanzo,

di carattere comico-simbolico ispirato a Gogol e a Cechov nel quale si

avverte chiaramente l’allontanamento dall’ideologia fascista e l’amarezza

verso la realtà storico-politica del suo tempo.

Nel 1943 verranno raccolte nel volume I piaceri le corrispondenze tratte da

"Omnibus" di ispirazione anticonformista radical-liberale.

Seguono i romanzi di maggior successo come la farsa spregiudicata Don

Giovanni in Sicilia pubblicato nel 1941, il racconto tragicomico di

un'impotenza sessuale Il bell'Antonio nel 1949 e il romanzo rimasto

incompiuto e pubblicato postumo (1959), Paolo il caldo, storia di

un'ossessione erotica alla quale si intreccia una lucida analisi del costume

politico e culturale del dopoguerra.

Nel 1942 conosce, al teatro dell’Università, l’attrice Anna Proclemer con la

quale inizia una relazione che sfocerà nel 1947 nel matrimonio.

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Scrive sciascia di lui:«Brancati è lo scrittore italiano che meglio ha

rappresentato le due commedie italiane, del fascismo e dell'erotismo in

rapporto tra loro e come a specchio di un paese in cui il rispetto della vita

privata e delle idee di ciascuno e di tutti, il senso della libertà individuale,

sono assolutamente ignoti. Il fascismo e l'erotismo però sono anche, nel

nostro paese, tragedia: ma Brancati ne registrava le manifestazioni comiche

e coinvolgeva nel comico anche le situazioni tragiche»

Notevole il suo ruolo anche in ambito teatrale e cinematografico. Per il

cinema Brancati scrive nel 1951 la sceneggiatura di Signori in carrozza, de

L'arte di arrangiarsi diretto da Luigi Zampa, nel 1952 Altri tempi con la regia di

Alessandro Blasetti, nel 1951 Guardie e ladri di Mario Monicelli, nel 1954

Dov'è la libertà e Viaggio in Italia con la regia di Roberto Rossellini.

Ma pellicole sono tratte anche da alcune sue opere narrative. È il caso di

Anni difficili (1947) di Luigi Zampa tratto dalla novella Il vecchio con gli stivali

e per il quale lo stesso Brancati collaborò alla sceneggiatura. Il film diede

inizio ad un filone di pellicole di satira politica che furono inizialmente

osteggiate dalla censura.

Nel 1960 viene tratto dall'omonimo romanzo il film Il bell'Antonio del regista

Mauro Bolognini con Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale e nel 1973

Paolo il caldo diretto da Marco Vicario e interpretato da Giancarlo Giannini e

Ornella Muti.

Nel 1952 la censura colpisce ancora più duramente il teatro di Brancati con il

divieto di rappresentare uno dei suoi migliori lavori teatrali, La governante,

dramma di un'omosessualità femminile.

Nello stesso anno lo scrittore, prendendo spunto dal divieto di rappresentare

il suo lavoro teatrale, scrive un pamphlet dal titolo Ritorno alla censura nel

quale egli afferma i diritti del teatro ad esprimersi e dove ripropone la sua

poetica del comico ispirata ad un forte realismo classico.

Separatosi dalla moglie nel 1953, muore a Torino l’anno successivo.

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Brancati si impose all'attenzione della critica e del pubblico nel 1941 con Don

Giovanni in Sicilia.

Nel Don Giovanni in Sicilia lo scrittore immagina una grossa città siciliana,

Catania, che fa da vivace sfondo alla vita dei giovani benestanti, sempre in

cerca di avventure amorose, che trascorrono il tempo a immaginare

avventure erotiche e viaggi in celebri luoghi che si concludono sempre in

modo deludente.

Si tratta a prima vista di un quadro ironico e divertente della provincia italiana

dove vengono messe in evidenza le velleità maschiliste, i vagheggiamenti

erotici e tutte quelle forme di megalomania che vanno sotto il nome di

"gallismo". n realtà l'opera va oltre la dimensione provinciale che viene

assunta da Brancati come esempio della società italiana del tempo, piena di

faciloneria, velleitarismo e sogni di grandezza. Brancati crea delle macchiette

nascondendo una vocazione di saggista e di osservatore attento degli

atteggiamenti degli uomini in un preciso contesto storico.

Lo stile dell'opera è scanzonato e beffardo, la scrittura agilissima e pervasa di

sana e vigorosa sensualità.

Gli anni che trascorsero tra il Don Giovanni e il Bell'Antonio non furono anni

facili, ma Brancati, appena fu possibile, riprese a pubblicare bozzetti,

racconti, composizioni teatrali, trovandosi trasportato dalla satira politica.

Con il Bell'Antonio, pubblicato nel 1949, lo scrittore riprende i motivi del Don

Giovanni producendo un romanzo corale che assomiglia ad una grande

commedia antica e che rappresenta, in fatto di "orchestrazione", un grande

progresso nei confronti del Don Giovanni.

Per il Don Giovanni in Sicilia, Brancati riceverà, nel 1950 il Premio Bagutta.

Nel 1955, un anno dopo la morte, venne pubblicato il romanzo Paolo il Caldo.

La sua pubblicazione era stata autorizzata dall'autore in una nota scritta due

giorni prima di morire nella quale avvertiva che il libro era rimasto incompiuto

degli ultimi due capitoli. Nonostante il romanzo ci sia pervenuto non concluso,

si avverte subito che esso non è inferiore ai precedenti e soprattutto che

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l'idea della vita, in esso espressa, è profondamente cambiata da quella che

animava i romanzi precedenti.

Se nel Don Giovanni lo slancio sensuale era pieno di allegria e nel

Bell'Antonio la vicenda aveva ancora una sostanziale intonazione burlesca,

nel Paolo il Caldo le cose cambiano e la sensualità di Paolo Castorini ha

qualcosa di ossessivo e tragico. Anche in questo romanzo la forma è

limpidissima anche se si nota, al confronto con gli altri due libri, una maggiore

propensione all'analisi e al discorso indiretto.

Il mondo davanti al quale ci pone Brancati è un mondo morale concreto e

organico dal quale egli contempla e giudica gli uomini che lo circondano

facendo così nascere la sua satira politica e quella della vita provinciale.

Il mondo appare così dominato da personaggi dalla testa vuota, vanagloriosi

seduttori di donne e di imperi che appartengono alla schiera dei vanitosi,

prepotenti e oppressori, sia in politica che in amore.

Brancati, che si è sviluppato come scrittore nel periodo che va dal 1930 al

1942, trae questa visione del mondo dalla sua esperienza di uomo, nato e

vissuto nel Ventennio fascista, in un periodo decisivo della vita italiana fatto di

esaltazioni e speranze deluse.

Dalla Sicilia Brancati riesce a trarre non solo la forza della concretezza

artistica, ma anche a rompere con gli schemi letterali e culturali di Verga e

Pirandello.

U.D. 6_ Primo Levi

Primo Levi nasce a Torino nel 1919 da una famiglia ebrea piemontese di

solide tradizioni intellettuali. Laureato in chimica e chimico di professione,

diventa scrittore in seguito alla traumatica esperienza della deportazione ad

Auschwitz. E’ questo l’evento centrale della sua vita, che fa scattare in lui la

molla della scrittura, sentita come un’impellente necessità di confessione, di

analisi e come un ineludibile dovere morale e civile. Il ricordo mai estinto di

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Auschwitz è anche probabilmente alla base dell’inatteso ed enigmatico

suicidio con il quale lo scrittore pone termine alla sua esistenza, nel 1987.

Fino al 1938 Primo Levi è un normale studente di agiata famiglia con la

passione della chimica, dalla quale spera di ricavare "la chiave

dell’universo…il perché delle cose"; le leggi razziali rappresentano per lui una

svolta che gli apre gli occhi sulla natura del fascismo e lo orienta verso

l’azione politica. Alla fine del 1942 entra nel Partito d’Azione clandestino e

dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 si unisce a un gruppo partigiano di

"Giustizia e libertà" operante nella Valle d’Aosta. Catturato dalla milizia

fascista il 13 dicembre 1943, viene internato nel campo di concentramento di

Fossoli e successivamente deportato ad Auschwitz (febbraio 1944).

Nel Lager, dove rimane circa un anno, Primo Levi riesce a sopravvivere

grazie a circostanze fortunate, sulle quali torna per tutta la vita a mettere

l’accento:

"Sono stato fortunato: per essere stato chimico, per avere incontrato un

muratore che mi dava da mangiare, per avere superato le difficoltà del

linguaggio…; mi sono ammalato una volta sola, alla fine, e anche questa è

stata una fortuna, perchè ho evitato l’evacuazione dal lager: gli altri, i sani,

sono morti tutti, perchè sono stati deportati verso Buchenwald e Mauthausen,

in pieno inverno".

Il Lager incide profondamente sulle sue convinzioni: gli dà la coscienza di

essere diverso in quanto ebreo e lo spinge verso lo scetticismo religioso.

"Sono diventato ebreo in Auschwitz. La coscienza di sentirmi diverso mi è

stata imposta."

"L’esperienza di Auschwitz è stata per me tale da spazzare qualsiasi resto di

educazione religiosa….C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio".

A testimonianza di questa tragica esperienza, Primo Levi scrive di getto nel

1946 e pubblica nel 1947 Se questo è un uomo, il libro che solo dieci anni più

tardi sarà riconosciuto come il capolavoro della letteratura concentrazionaria,

sul quale la nostra classe ha svolto uno studio approfondito.

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Dal momento in cui le truppe russe entrano nel Lager di Auschwitz,

abbandonato dai tedeschi in ritirata, prende avvio La tregua, il secondo libro

di memoria di Levi, pubblicato nel 1963 e considerato da alcuni la sua opera

più alta. La tregua narra il tormentato viaggio di ritorno in patria dell’autore

con un gruppo di compagni attraverso un’Europa ancora sconvolta dalla

guerra. Come l’esperienza del Lager è associabile all’inferno (cfr. Il Lager

come metafora dell’inferno), così l’odissea del viaggio di ritorno, nel quale

avviene una lenta e travagliata resurrezione alla vita, rimanda al purgatorio, in

una sorta di percorso simile a quello dantesco; tuttavia l’analogia si ferma qui,

in quanto Levi, a differenza di Dante, non potrà mai raggiungere la completa

liberazione.

Questo secondo libro rivela l’acquisita consapevolezza di una vocazione

letteraria: scrivere non è più per Levi un fatto occasionale o episodico e, al

dolente testimone del Lager, si affianca uno scrittore dall’ispirazione varia,

che sperimenta forme letterarie diverse dalla memorialistica.

Pubblica racconti di genere fantascientifico come quelli raccolti nelle Storie

naturali (1967) o in Vizio di forma (1971), accanto ai quali vanno ricordati i

brevi testi di Sistema periodico (1975), intitolati ciascuno a un elemento

chimico e ispirati alla professione dell’autore. Per spiegare la sua doppia

natura, di scrittore e di scienziato, Levi usa la metafora del centauro, come

abbiamo scoperto nello spettacolo visto quest’anno al Teatro, diretto dal

regista Scaglione, che si basa proprio su alcuni racconti delle Storie naturali

(cfr. Dossier dell’Area di progetto). Questi testi rivelano, dietro le vicende

paradossali venate da una sottile ironia, l’intento di indurre alla riflessione sui

rapporti fra la scienza e l’umanità.

Nell’ambito del filone legato agli interessi scientifici dell’autore, l’opera più

importante è forse La chiave a stella (1978), dove si raccontano le esperienze

di vita e di lavoro dell’operaio piemontese Faussone, che gira il mondo per

svolgere il suo lavoro di montatore: nel personaggio, quasi una proiezione

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dell’autore, spiccano la curiosità intellettuale e un vivo senso della dignità del

proprio lavoro.

Ma il filone memoriale-saggistico nella produzione letteraria di Levi non si

interrompe: direttamente a La tregua si collega infatti il romanzo Se non ora,

quando? (1982), che descrive il viaggio di un gruppo di partigiani ebrei russi

che vanno dalla Bielorussia all’Italia passando per la Palestina, e il libretto

memoriale-ragionativo I sommersi e i salvati (1986) torna sulla tragedia di

Auschwitz con l’intento non più di raccontare ma di riflettere, riallacciandosi a

Se questo è un uomo.

Su una linea di sostanziale continuità rispetto alle opere in prosa si collocano

le raccolte poetiche ( L’osteria di Brema, 1975; Ad ora incerta, 1984; Altre

poesie, riunite postume), anticipate dai versi che precedono come un’epigrafe

Se questo è un uomo e La tregua e ispirate alla tematica del Lager.

Il punto di contatto fra le "due nature" di Primo Levi, quella del letterato e

quella dello scienziato, sta in una fiducia illuministica nella ragione che si

traduce in una scrittura limpida, chiara, essenziale, dove ogni parola viene

"pesata".

U.D. 7_ Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Nasce nel 1896 a Palermo da una famiglia di antica nobiltà.

Il padre tenta di avviarlo alla carriera diplomatica, distogliendolo dalla

passione per la letteratura e facendolo iscrivere alla facoltà di

Giurisprudenza, ma Giuseppe non si laureò mai. Nel 1915 interrompe gli

studi per arruolarsi e partecipare alla guerra. Tenta la carriera militare ma ne

rimane deluso e disgustato, soprattutto dopo l´avvento del regime fascista e

si congeda nel 1925.

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Nel 1932 sposa Alessandra Wolf-Stomersee, una baronessa di origini lituane

e italiane, figliastra dello zio di Giuseppe, ambasciatore a Londra, e studiosa

di psicanalisi.

Nel 1933 viene divisa l’eredità del nonno e a Giuseppe tocca solo un palazzo

nel centro di Palermo. Tuttavia gli affitti sono sufficienti per vivere di rendita.

Si dedica alla sua passione per la lettura e scrive saggi critici su vari

argomenti e racconti che usciranno postumi. Viene richiamato alle armi

durante la Seconda Guerra mondiale, ma può ritornare a Palermo dopo l´8

settembre 1943.

Nel 1943 i bombardamenti alleati distruggono il Palazzo Lampedusa e questa

rimase per lo scrittore una ferita molto profonda.

Nel 1954 partecipa al grande Convegno letterario a San Pellegrino Terme,

accompagnando il cugino Lucio Piccolo, che veniva presentato addirittura da

Eugenio Montale. Ha occasione di conoscere i più celebri scrittori del

momento, ma non ne riceve un’impressione esaltante dal punto di vista

umano. Tuttavia si convince del proprio proposito di scrivere un romanzo e

cosí comincia la stesura del "Gattopardo". Nel 1956 l’editore Mondadori gli

rifiuta la pubblicazione del romanzo. Intanto Lampedusa continua a scrivere

anche i suoi "Racconti".

Nel 1957 Vittorini rifiuta di pubblicare nella collana Einaudi "I Gettoni" il

romanzo di Lampedusa.

Nello stesso anno Lampedusa muore di cancro.

Nel 1958 lo scrittore Giorgio Bassani cura per Feltrinelli la pubblicazione del

"Gattopardo" ed è subito un grande successo di pubblico.

Il successo e la celebrità del libro furono accresciute nel 1963 con l´uscita del

film di Luchino Visconti.

Il Gattopardo

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Il protagonista del romanzo è Fabrizio Corlera, principe di Salina; è un uomo

‘..immenso e fortissimo; la sua testa sfiorava il rosone inferiore dei lampadari;

le sue dita potevano accartocciare come carta velina le monete da un ducato;

e fra villa Salina e la bottega di un orefice era un frequente andirivieni per la

riparazione di forchette e cucchiai che la sua contenuta ira, a tavola, gli

faceva spesso piegare in cerchio [...]’

E’ un uomo di mezz’età e viene infatti specificata l’età precisa: quaranta anni .

La sua forte personalità è caratterizzata da un temperamento autoritario, una

certa rigidità morale, disprezzo per i parenti e gli amici che si fanno trascinare

dagli eventi, senza però reagire, e tutte questi aspetti del suo carattere

rivelano la sua origine tedesca (da parte della madre).

Il principe è inoltre un impegnato studioso di astronomia, e per questa sua

intensa passione e interesse ha ricevuto spesso riconoscimenti pubblici .

Mi ha colpito moltissimo il suo rapporto con gli astri che non è unicamente

dato da interesse scientifico, ma al contrario l’osservazione e la

contemplazione delle stelle fa nascere in lui un tale pathos da trasferirlo,

quasi trascendentalmente, in un mondo irreale, dove ogni cosa è certezza e

dove la sua anima trova pace e tranquillità lontano da quello terreno, reale

sempre pieno di pensieri, preoccupazioni e angosce .

Il principe ha un grande spessore psicologico che traspare con chiarezza

dalle parole dell’autore.

E’ un uomo intelligente, saggio ed ironico, prova molto affetto e stima per il

nipote Tancredi, di cui è anche tutore ; Tancredi sarà infatti l’unica presenza

gradita al principe morente alla conclusione del libro.

Il pensiero della morte è perennemente nei pensieri del principe, ma con la

sua forza, il suo coraggio il suo carattere molto deciso, riesce ad affrontare

questo eterno timore, questa assidua angoscia con serenità e con gioia, e

proprio per questo motivo vive la sua vita cercando di cogliere ciò che di più

bello e gradevole gli offre .

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Grande personalità e grande importanza assume nel romanzo Tancredi,

nipote del principe Fabrizio, il quale nutre per lui un affetto forse maggiore

rispetto a quello che ha per i suoi nove figli .

E’ in parte opportunista in quanto desidera ricavare vantaggi per se’ e per la

sua ricca classe dalla partecipazione alla spedizione dei Mille : ‘Se vogliamo

che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi..’

Con queste concise parole infatti Tancredi spiega al principe la sua adesione

alle idee garibaldine che poi invece rinnegherà .

Altro fatto che fa intuire la personalità del giovane, è il matrimonio con

Angelica che è frutto per gran parte, del ‘calcolo’; e cioè Tancredi ha scelto la

sua donna in base a criteri rigidi e di puro interesse, invece che in base a

sentimento .

Anche se molto differente come personalità dal principe Fabrizio, Tancredi

rappresenta una figura sicura, che si sa comportare nel migliore dei modi

qualsiasi ambiente, e che sa guardare con distacco cose e a valutarle con

ironia e spirito critico .

Angelica, personaggio molto importante, è come è stato detto prima, la

giovane moglie di Tancredi.

Ella ha frequentato per molto tempo un ottimo collegio che l’ha piuttosto

‘sgrezzata’ ma non l’ha trasformata in una vera e propria signora .

A tancredi infatti toccherà questo compito che sarà facilitato dalla personalità

della giovane che sposando un Falconieri riceve un titolo nobiliare, offrendo

però il suo ricco patrimonio .

Altro importante personaggio è la principessa Stella moglie innamoratissima

di Fabrizio.

Ella è una donna rigidamente cattolica; inoltre reagisce alle infedeltà del

marito con brevissime scene isteriche, placate da abbondanti porzioni di

Valeriana .

Quando è in compagnia con altre persone è comunque molto abile nel

cercare di dimenticare e di non pensare ad ogni motivo di turbamento .

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Altro personaggio è Concetta, figlia di Fabrizio, da sempre innamorata di

Tancredi .

Dei sette figli del principe è l’unica che viene descritta nell’evolversi della sua

personalità.

Prende tutto con molta serietà, non ha capacità di distacco né di fare ironia, e

perciò soffre molto .

Bendicò è l’unico animale che compare nel romanzo; anche se è soltanto un

cane è uno dei personaggi più vivi del romanzo.

E’ molto amato dal principe, e questo suo affetto lo si vede nel ‘colloquio’ che

ha con lui in cui lo paragona alle stelle per il motivo che Bendicò , come gli

astri, è incapace di produrre angoscia.

Al momento della sua morte viene imbalsamato e rimane così per molto

tempo, finché, ridotto ad un ammasso polveroso, per ordine di Concetta viene

gettato giù dalla finestra nelle immondizie.

Questo gesto sarà l’atto finale che porterà alla rovina del principe .

Ultimo personaggio è Don Calogero Sedara, sindaco di Donnafugata, Paese

dove vive la famiglia Salina, padre di Angelica.

E’ un uomo molto astuto, di umili origini, mas divenuto molto ricco facendo

carriera nel campo della politica .

Il periodo in cui si svolgono i fatti è all’incirca tra il 1860 - 1910.

E’ stata scelta questa determinata collocazione temporale poiché l’autore

vuole dare al lettore l’immagine della Sicilia in un momento di cambiamento e

di passaggio politico tra istituzioni antiche e tempi moderni che stavano pian

piano e con difficoltà entrando in un mondo ancora conservatore e

tradizionalista .

L’immagine che l’autore ci offre del suo paese è un’immagine viva, animata

da uno spirito tradizionalista ma allo stesso tempo ampiamente consapevole

del cambiamento storico che stava attraversando .

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Gli avvenimenti e i fatti si svolgono in un ambiente aristocratico, nobile,

mentre non viene mai accennata la condizione poco agiata dei poveri e dei

contadini di quel periodo .

Il tempo viene scandito dall’autore molto precisamente; vengono precisati vari

momenti della giornata come ad esempio : prima del tramonto, quella

mattina, durante la sera, ecc...

Inoltre all’inizio di ogni parte (il romanzo è diviso in otto parti) viene espresso

il mese e l’anno in cui si svolgono i fatti che verranno narrati in quella

determinata parte; come ad esempio : maggio/agosto/ottobre/novembre

1860, febbraio 1861, novembre 1862, luglio 1883, maggio 1910.

I fatti sono ambientati a Palermo, la residenza del principe di Salina, e

Donnafugata la residenza estiva .

U.D. 8_ Leonardo Sciascia

Leonardo Sciascia è nato a Racalmuto, in provincia di Agrigento, nel 1921.

È stato sino al 1957 insegnante elementare. Ha spesso soggiornato a Parigi,

ma contraddicendo un topos biografico degli intellettuali siciliani, non ha

abbandonato la Sicilia.

Gli interessi per la società siciliana evidenti già ne Le parrocchie di

Regalpetra (1956) assumono dimensione narrativa nei romanzi Gli zii di

Sicilia (1961), Il giorno della civetta (1961), A ciascuno il suo (1966); alla

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rievocazione di vicende siciliane del passato sono dedicati Il Consiglio

d'Egitto (1963) e Morte dell'Inquisitore (1964).

Ma con gli anni l'orizzonte narrativo di Sciascia si allarga alla società

nazionale: Il contesto (1971), Todo modo (1974), Candido ovvero un sogno

fatto in Sicilia (1977). Frequenti, a partire dagli anni Settanta, i suoi interventi

sulla cronaca politica (L'affaire Moro, 1978), che al di là delle specifiche

posizioni - prima "scomodo" compagno di strada dei comunisti, poi dei

radicali, poi sottile (forse troppo) giudice delle disfunzioni dello Stato - si

distinguono per coraggiosa sincerità. É morto a Palermo nel novembre 1989.

Depurata da ingenuità stilistiche e ideologiche, la lezione del neorealismo in

Sciascia si è tradotta nella costante attenzione a una realtà storica e umana,

nella volontà di comprenderla e farla comprendere, nell'ampliamento, quasi,

dei confini stessi della narrativa. L'opera narrativa di Sciascia - connotata da

una scrittura limpida, di classico rigore - cioè diventa, nelle sue prove migliori,

saggio, testimonianza, o comunque struttura narrativa polivalente che può

accogliere il dialogo filosofico, la sottile discussione tra i protagonisti che si

scontrano sul problema del male o sull'interpretazione di un pensiero di

Pascal (si pensi a Todo modo, 1974), o può fondere assieme narrazione e

inchiesta, interpretazione di materiale d'archivio, andamento da romanzo

giallo e meditazione filosofica. È questa, d'altra parte, la sua vocazione

moralistica e saggistica, che egli ha espresso nella raccolta La corda pazza

(1970) o nelle annotazioni e "moralità" di Nero su nero (1979) e di Cruciverba

(1983).

Tecniche narrative e linguaggio

Il ricorso al genere "giallo" è stato giustificato dall'autore con la ragione che

quella poliziesca è la «tecnica narrativa più sleale, perché impedisce al lettore

di lasciare a metà il libro». In realtà, lo schema del "giallo" è ribaltato, dal

momento che, alla fine del romanzo, il colpevole si salva, grazie all'omertà

del potere. Non un "giallo", ma un "romanzo-pamphlet" è dunque Il giorno

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della civetta, che con il suo titolo shakespeariano allude non solo a quella

spietata lotta per il potere e a quella corruzione che rendono la Sicilia della

mafia molto simile all'Inghilterra dell'Enrico VI, ma anche al contrasto tra la

luce della ragione (il "giorno") e l'ombra del delitto e della morte (la "civetta").

Il paesaggio più emblematico è in questo senso quello del chiarchiaro (un

desolato «insieme di grotte, di buche, di anfratti»), luogo di raduno di uccelli

notturni, che suggerisce l'idea della morte. Non meno squallida è la

descrizione del paese: «un vecchio paese di case murate in gesso, con

strade ripide e gradinate: e in cima a ogni gradinata c'è una brutta chiesa».

Entro quelle case, la gente si trincera dietro il "muro" dell'omertà: un

comportamento secolare, dettato dalla paura, che viene magistralmente

esemplificato, fin dalla sequenza iniziale, nella faccia «colore di zolfo» del

bigliettaio e nell'ipocrita domanda del «panellaro», davanti al quale si è svolto

il delitto: «perché [...] hanno sparato?». Sul piano linguistico, tre sono gli

elementi principali del romanzo: i soprannomi, il gergo dei mafiosi, i proverbi.

Noti col termine dialettale di "ingiurie", i soprannomi designano

fulmineamente una personalità: Zicchinetta, ad esempio, è il deliquente che

gioca d'azzardo (non solo con le carte da gioco, ma anche con la giustizia); e

Parrinieddu deriva la sua "ingiuria' di "piccolo prete" dalla sua untuosa

ipocrisia e dal suo facile eloquio. Molto significativo è anche il termine di

Barruggieddu, dato a un cane la cui cattiveria ricorda quella del "Bargello", il

capo degli sbirri, visti dai contadini come strumenti di usurpazione. "Cosca"

(dal nome della corona di foglie del carciofo), "persona di rispetto", "astutatu"

(ucciso, come si spegne una candela) sono esempi perspicui del gergo della

mafia. Quanto ai proverbi, basti ricordare il più tremendo: «E lu cuccu ci dissi

a li cuccuotti: / a lu chiarchiaru nni vidiemmu tutti» (Ed il cuccu disse ai propri

figli: al chiarchiaro ci incontreremo tutti), ove si allude al tragico

appuntamento con la morte. Ma, accanto ai toni "parlati" (che hanno i loro

esempi migliori nel discorso incisivo di Arena o in quello immaginifico di

Pizzuco), si collocano i toni alti, lirici, come nel bellissimo frammento, ispirato

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da una poesia di A. Bertolucci: «era l'indolente sera di Parma toccata da una

struggente luce che era già lontananza, memoria, indicibile tenerezza».

Personaggi e motivi dominanti

L'antagonismo tra "ordine" e mafia, tra ragione e corruzione (tema dominante

di molte opere di Sciascia) si risolve, nel romanzo. in un duro scontro tra

Bellodi, capitano dei carabinieri, e Arena, il capo mafia. Eroe "positivo",

secondo i canoni del neorealismo, Bellodi è sottratto tuttavia dall'autore al

populismo tipico di quel movimento: di estrazione borghese, colto (conosce

bene la produzione letteraria siciliana), cortese (si rivolge con il "lei" alle

persone più umili e ha rispetto anche dei criminali), Bellodi si ritrova come

uno straniero in mezzo al popolo siciliano; non solo, infatti, ha bisogno di un

interprete per comprendere il significato di alcune espressioni dialettali; ma

incontra ben altre barriere oltre il linguaggio. Uomo di legge, gli è estranea e

gli ripugna l'omertà della gente; ma quel che più lo turba è 1a collusione degli

uomini politici con la mafia. Ed è proprio questo il suo dramma: in Sicilia egli

riesce a concludere felicemente la sua indagine, ma nulla può contro le

connivenze degli ambienti politici romani e dei "quaquaraquà" di Stato, che

parlano a vanvera e insabbiano sistematicamente la verità. Il processo di

idealizzazione che spinge il protagonista fino ai limiti della programmaticità

coinvolge anche il suo antagonista, don Mariano Arena, sollevandolo alle

dimensioni di una figura epica, visceralmente scaturita dalla storia stessa

della Sicilia: dotato di una sapienza popolare che tocca il suo vertice

umoristico nell'immagine della diabolica danza sul «bosco di corna»

dell'umanità, il "padrino" ha una sua spietata fierezza («né rimorso né paura,

mai») e una sua machiavellica coerenza nel male («una cieca e tragica

volontà»). che lo impongono nel romanzo come una figura di grande rilievo.

Anche se non può certo condividerne la - 'filosofia mafiosa". l'autore non gli

rifiuta una vigorosa statura umana (e su questa sua scelta si potrebbe

discutere...) ma si chiede significativamente: «E quale altra nozione poteva

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avere del mondo, se intorno a lui la voce del diritto era sempre soffocata dalla

forza e il vento degli avvenimenti aveva soltanto cangiato il colore delle

parole su una realtà immobile e putrida?». Può destare perplessità il fatto che

Bellodi, riconosciuto come vero "uomo" dal capo mafia, gli risponda (sia pure

con disagio): «Anche lei [è un uomo]». In realtà, per Sciascia, l'etica di don

Mariano è superiore, pur nella sua feroce primitività, a quella dei suoi

protettori politici: tanto è vero che il capitano Bellodi non è sconfitto dal codice

"culturale" mafioso, ma dal codice "politico- dei suoi "superiori", che finiscono

con l'essere i veri "mandanti". Che lo Stato non abbia i1 diritto di proclamarsi

innocente di fronte alla mafia è dimostrato dall'incredibile dichiarazione del

sottosegretario che alla Camera nega l'esistenza stessa del fenomeno

mafioso; di questo inquietante personaggio riusciamo solo a sapere che è un

rottame della Repubblica di Salò: né altro può dirci l'autore, che, nella nota

aggiunta al romanzo, dichiara di aver dovuto ricorrere all'espediente dell'

"anonimo" per non incorrere nell'imputazione di oltraggio e vilipendio. Questa

era l'Italia del 1961, data di pubblicazione del romanzo; e la più grave

denuncia di tutto un sistema politico è quella contenuta nelle ultime righe

della Nota, quando l'autore è costretto ad avvertire di non aver potuto

scrivere il proprio libro «con quella piena libertà di cui uno scrittore [...]

dovrebbe sempre godere».

Le parrocchie di Regalpetra: Un giovane nel clima fascista

Le parrocchie di Regalpetra (1956) di Leonardo Sciascia sono una sorta di

cronaca-saggio che descrive ambiente, personaggi; vicende di un paese

siciliano e testimonia la lucida e dolente denunzia, da parte dell'autore, delle

remore storiche, sociali e civili che gravano sulla sua terra. Le pagine

riportate restituiscono con vivace immediatezza il clima di un'epoca - gli anni

1935-37, conquista dell'Abissinia e guerra civile di Spagna - e forniscono una

preziosa testimonianza autobiografica che può far capire al lettore di oggi

quel lento processo di maturazione, di presa di coscienza che portò tanti

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giovani a scoprire la vera realtà del fascismo, a superare le rumorose

mitologie dell'epoca.

II testo presenta parecchi motivi di interesse: offre ad esempio illuminanti

indicazioni sulle letture di un giovane diciottenne del tempo (l'età di Sciascia

nel 1939, a conclusione della guerra civile spagnola); contiene, sia pure in

nuce, la genesi di uno dei migliori racconti di Sciascia, L'antimonio, dedicato

alla guerra di Spagna; e altri ancora. Noi ne traiamo spunto per suggerire

ricerche e approfondimenti su uno degli eventi più importanti - sul piano

politico e su quello culturale - degli anni Trenta: la guerra civile spagnola.

Questa scoppia dopo le elezioni del 1936, nelle quali le varie forze che si

battono per rinnovare il paese - costituite da raggruppamenti diversi:

democratici borghesi, socialisti, comunisti, anarchici - si presentano unite in

un "Fronte Popolare", ottengono la maggioranza e formano il governo. Ma le

forze della conservazione la grande proprietà terriera appoggiata dall'alto

clero - che hanno già una loro organizzazione squadristica, "La Falange",

scatenano la guerra civile con la complicità dell'esercito: la maggior parte

degli ufficiali, guidati dal generale Francisco Franco e circa i due terzi delle

truppe si ribellano al governo legale repubblicano e riescono a controllare

quasi metà del paese. La guerra civile per tre anni (1936-1939) lacerò la

Spagna con eccessi di vario genere da entrambe le parti e si concluse- grazie

all'aiuto militare che Hitler e Mussolini diedero al generale golpista - con la

dittatura di Franco, durata sino alla sua morte (1975).

È necessario ricordare - più di quanto normalmente non si faccia - che la

guerra civile spagnola fu complicata anche da contrasti interni tra le forze

repubblicane: i conflitti maggiori si ebbero tra gli schieramenti della sinistra

nella quale gli anarchici e il POUM (Partito comunista di ispirazione non

stalinista) si scontravano con il partito comunista per così dire "ortodosso",

ufficiale, al quale andava ovviamente l'appoggio dell'URSS. Non si trattò solo

di divergenze ideologiche, ma di veri e propri scontri armati (i "fatti di maggio"

del 1937 a Barcellona) e della persecuzione ed eliminazione fisica di un gran

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numero dì dissidenti e di anarchici da parte comunista (una "linea politica",

questa, alla quale pare non sia stato estraneo Togliatti).

Nell'Europa fra le due guerre la guerra civile di Spagna fu sentita come una

prefigurazione, come una sorta di prova generale di un conflitto mondiale nel

quale era in gioco il futuro dell'Europa: così si spiega l'affluenza di volontari

da ogni parte che formarono le "Brigate internazionali" e portarono ai

repubblicani in lotta la loro concreta solidarietà. In esse militarono - solo per

limitarci ad esponenti rappresentativi della cultura e della politica - i francesi

André Malraux e Georges Bernanos, gli inglesi George Orwell e W.H. Auden

e, fra gli italiani, Carlo Rosselli, Aldo Garosci, Umberto Calosso del gruppo

"Giustizia e Libertà", repubblicani, anarchici guidati da Camillo Berneri,

socialisti e comunisti (Nenni, Longo, Di Vittorio).

Considerevole è stato poi l'eco che la guerra di Spagna ha avuto nella

letteratura. Solo qualche indicazione: anzitutto la produzione dei poeti

spagnoli che parteciparono alla difesa della repubblica (un nome per tutti:

Rafael Alberti, che sceglierà l'esilio - come Pablo Picasso, Antonio Machado,

e tanti altri - dopo la vittoria franchista); poi una ricca produzione narrativa:

Per chi suona la campana di Hemingway, La speranza di Malraux, I grandi

cimiteri sotto la luna di Bernanos, Omaggio alla Catalogna di Orwell, e -

segno di un interesse non spento - L'antimonio (1960) di Leonardo Sciascia.

LA CONGIURA SCOPERTA [IL CONSIGLIO D'EGITTO]

Sciascia è generalmente noto - soprattutto al grosso pubblico dei lettori che

non abbiano specifici interessi letterari - come autore di romanzi volti a

mettere in luce gli aspetti negativi della società contemporanea italiana, la

mafia soprattutto. Ma nei suoi romanzi lo scrittore siciliano ha trattato anche

del passato, remoto o prossimo (dalle congiure giacobine del Settecento alla

guerra di Spagna del 1936). Del presente inoltre si è occupato non solo come

romanziere, ma anche come saggista o meglio come moralista attento ai

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segni del costume pubblico e privato e a cogliere, dietro le apparenze, la

realtà.

Ci sembra utile riportare-dalle pagine successive del Consiglio, nelle quali si

descrivono le torture cui il Di Blasi viene sottoposto - il passo che segue:

Ma nel ricordo s'insinuò, inquieto e dolente, il pensiero che anche i giudici e

gli sbirri avevano avuto un'infanzia, [...1 il pensiero che tra poco il fastidio

dell'ufficio che stavano compiendo sarebbe stato sommerso dalle dolci

nebbie familiari: il fastidio, cioè, di torturare un loro simile. Avrebbero

mangiato e dormito, avrebbero giuocato coi loro bambini e avrebbero fatto

all'amore; si sarebbero preoccupati del raffreddore del bambino o del cimurro

del cane; il tramonto del sole, il volo delle rondini, il profumo dei giardini li

avrebbe provocati alla malinconia o alla gioia. E ora stavano assistendo alla

tortura. «Questo non deve accadere a un uomo» pensò: e che non sarebbe

più accaduto nel mondo illuminato dalla ragione. (E la disperazione avrebbe

accompagnato le sue ultime ore di vita se soltanto avesse avuto il

presentimento che in quell'avvenire che vedeva luminoso popoli interi si

sarebbero votati a torturarne altri; che uomini pieni di cultura e di musica,

esemplari nell'amore familiare e rispettosi degli animali, avrebbero distrutto

milioni di altri esseri umani: con implacabile metodo, con efferata scienza

della tortura; e che persino i più diretti eredi della ragione avrebbero riportato

la questione nel mondo: e non più come elemento del diritto, quale almeno

era nel momento in cui lui la subiva, ma addirittura come elemento

dell'esistenza).

È evidente in esse un procedimento che ritornerà più volte nelle ultime cose

di questo scrittore. Sciascia parte cioè da una vicenda del passato (o magari

del passato prossimo) o da un dato d'archivio (i verbali di un processo o una

cronaca) e li attualizza, li "fa parlare"; ma in vario modo: o, come nelle pagine

che precedono, vivendo "dal di dentro" la vicenda del protagonista, cui lo

legano l'ansia di rinnovamento della società siciliana e la fiducia nella

ragione, o, come nelle righe citate, sovrapponendo al dato del passato

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l'esperienza storica e la realtà del presente (che, di frequente, vuol dire la

delusione del presente...).

IL GIORNO DELLA CIVETTA

Intreccio

Due colpi di lupara freddano. in un'alba grigia, Salvatore Colasberna, un

costruttore che ha

rifiutato la protezione della mafia. L'indagine è affidata al capitano Bellodi, ex-

partigiano parmense, che tenta di incrinare la coltre di omertà del piccolo

paese siciliano. Un confidente, Calogero Di Bella, detto Parinieddu, fa più di

un nome sui possibili colpevoli e Bellodi punta sul nome giusto: Saro Pizzuco.

Un dialogo in un caffè romano e l'intervento di un` 4 eccellenza" mostrano

che l'indagine di Bellodi è seguita con fastidio nei palazzi del potere,

ammanigliato con la mafia. Scompare intanto un potatore, Paolo Nicolosi,

colpevole solo di essersi imbattuto casualmente nell'assassino. La consorte

ricorda che il marito, dopo i colpi di lupara, aveva visto passare di corsa un

tale Zicchinetta. soprannome di un ex-detenuto, Diego Marchica. Due boss

della mafia decidono di sopprimere il traditore Di Bella, che però. prima di

essere ucciso, rivela in una lettera al capitano il nome del "padrino": don

Mariano Arena. Bellodi fa arrestare sia i due sicari (Marchica e Pizzuco) sia il

mandante (Arena). Nel corso dell'interrogatorio, mediante lo stratagemma di

un falso verbale, Marchica e Pizzuco sono indotti ad accusarsi a vicenda;

viene intanto ritrovata. in una contrada, l'arma del primo delitto e

successivamente. in fondo a un crepaccio. si rinviene anche il cadavere di

Nicolosi. Manovrata dall'alto, la stampa locale sostiene che l'indagine ha

trascurato, per il delitto Nicolosi, la pista giusta, quella del delitto passionale.

Altri giornali, invece, ventilano gravi compromissioni ministeriali, provocando,

a Roma, una sequela di allarmate telefonate notturne tra alti burocrati. Si

arriva così alla "scena madre" del romanzo: l'interrogatorio di don Mariano

Arena. Il capo mafia respinge ogni responsabilità, ma sostiene con fierezza la

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sua visione "mafiosa` del mondo, riconoscendo tuttavia un degno avversario

in Bellodi, che a sua volta preferisce il "padrino" a ministri e deputati

compromessi con la mafia. Un dibattito parlamentare sui "fatti di Sicilia"

conferma i sospetti del capitano: un sottosegretario dichiara che la mafia non

esiste «se non nella fantasia dei socialcomunisti». La conclusione è scontata:

recatosi a Parma per un breve congedo, Bellodi apprende sui giornali che la

sua indagine è stata demolita con alibi inoppugnabili e che è prevalsa la tesi

del delitto passionale. Bellodi non si arrende e decide di tornare al più presto

in Sicilia a "rompersi la testa".

U.D. 9_ Le narratrici

(Morante, Ginzburg, Ortese, Romano, Banti)

Elsa Morante (Roma 18 agosto 1912 - 25 novembre 1985), è stata una

scrittrice di narrativa italiana tra i più importanti romanzieri del dopoguerra.

Elsa Morante ha trascorso la sua infanzia nel quartiere popolare di Testaccio.

Figlia illegittima di una maestrina ebrea e di un impiegato delle poste, alla

nascita fu riconosciuta da Augusto Morante, sorvegliante in un istituto di

correzione giovanile. La Morante iniziò giovanissima a scrivere filastrocche e

favole per bambini, poesie e racconti brevi, che a partire dal 1933, sino

all'inizio della seconda guerra mondiale, furono via via pubblicati su varie

riviste di diversa natura (tra le quali si ricordano Il Corriere dei Piccoli, Il

Meridiano di Roma, I Diritti della Scuola, Oggi). Il suo primo libro fu proprio

una selezionata raccolta di alcune di queste sue storie giovanili, Il Gioco

Segreto, pubblicato nel 1941; esso fu seguito, nel 1942, da un libro per

ragazzi, intitolato Le Bellissime Avventure di Caterì dalla Trecciolina (ma poi

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riscritto nel 1959 con il titolo Le Straordinarie Avventure di Caterina). Nel

1936 conobbe lo scrittore Alberto Moravia che sposò nel 1941; insieme

incontrarono e frequentarono i massimi scrittori e uomini di pensiero italiani

del tempo, tra cui Pier Paolo Pasolini, che fu un caro amico per entrambi.

Verso la fine della seconda guerra mondiale, per sfuggire alle rappresaglie

dei nazisti, Moravia e la Morante lasciarono Roma ormai occupata e si

rifugiarono a Fondi, un paesino nell'area intorno a Cassino. Tale parte

dell'Italia meridionale appare di frequente nelle opere narrative successive

dei due scrittori; Elsa Morante ne parla soprattutto nel romanzo La Storia.

Durante questo periodo iniziò a tradurre il diario di Katherine Mansfield; le

sue opere successive mostrano alcune influenze della Mansfield. Dopo la fine

della guerra, Morante e Moravia incontrarono il traduttore americano William

Weaver, che li aiutò a raggiungere il pubblico americano. Il suo primo

romanzo fu Menzogna e sortilegio; uscito in Italia nel 1948, vinse il Premio

Viareggio. Il romanzo fu poi pubblicato negli Stati Uniti con il titolo House of

Liars nell'anno 1951. Il successivo romanzo della Morante, L'isola di Arturo,

uscì in Italia nel 1957. L'opera riscosse grande successo di pubblico, e

ottenne il Premio Strega. Ne fu tratto anche un film omonimo, diretto da

Damiano Damiani. Durante gli anni Sessanta Elsa Morante rifletté a lungo

sulla sua narrativa, e distrusse molto di ciò che aveva scritto nel frattempo, ad

eccezione di poche cose, tra cui una poesia, L'Avventura. Nel 1963 pubblicò

una seconda raccolta dei suoi racconti: Lo scialle andaluso. L'opera

successiva, Il mondo salvato dai ragazzini che è un misto di poesia, canzoni

e una commedia, apparve nel 1968. Morante e Moravia si separarono nel

1961, ma la Morante continuò a scrivere, sebbene sporadicamente. Lavorò in

questi anni ad un romanzo che non vide mai la luce: Senza i conforti della

religione. La Storia, una storia ambientata a Roma durante la seconda guerra

mondiale, uscì nel 1974 ed ebbe fama internazionale, ma ricevette anche

attacchi spietati da parte dei critici. Luigi Comencini ne trasse uno

sceneggiato TV interpretato da Claudia Cardinale. L'ultimo romanzo di Elsa

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Morante fu Aracoeli, pubblicato nel 1982. Ammalatasi in seguito ad una

frattura al femore, tentò il suicidio nel 1983. Nel 1984 ricevette il Prix Médicis

per Aracoeli. Morì nel 1985 a seguito di un infarto dopo una seconda

operazione chirurgica.

Natalia Ginzburg (Palermo, 14 luglio 1916 — Roma, 6/7 ottobre 1991) è

stata una scrittrice di primo piano della letteratura italiana del Novecento.

Natalia Levi nasce a Palermo da una famiglia ebraica di origine triestina, il 14

luglio 1916. Il padre, Giuseppe Levi, professore universitario e i suoi tre

fratelli saranno imprigionati e processati con l'accusa di antifascismo. Natalia

trascorre l'infanzia e l'adolescenza a Torino, in stato di emarginazione e trova

presto conforto nella scrittura. Esordisce nel 1933 con il suo primo racconto, I

bambini, pubblicato dalla rivista "Solaria" e nel 1938 sposa Leone Ginzburg

col cui cognome firmerà in seguito tutte le sue opere. In quegli anni stringe

legami con i maggiori rappresentanti dell'antifascismo torinese e in particolare

con gli intellettuali della casa editrice Einaudi della quale il marito, docente

universitario di letteratura russa, era collaboratore dal 1933. Nel 1940 segue il

marito, che era stato mandato al confino per motivi politici e razziali, in un

paese dell'Abruzzo dove rimane fino al 1943. Nel 1942 scrive e pubblica, con

lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte, il suo primo romanzo intitolato La

strada che va in città che verrà ristampato nel 1945 sotto il nome dell'autrice.

Nel febbraio del 1944, in seguito alla morte del marito ucciso nel carcere di

Regina Coeli, Natalia ritorna a Torino e al termine della Seconda guerra

mondiale comincia a lavorare per la casa editrice Einaudi. Nel 1947 esce il

suo secondo romanzo È stato così che vince il premio letterario "Tempo". Nel

1950 sposa l'anglista Gabriele Baldini, docente di letteratura inglese e

direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra. Inizia per Natalia un periodo

ricco per la produzione letteraria che si rivela prevalentemente orientata sui

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temi della memoria e dell'indagine psicologica. Nel 1952 pubblica Tutti i nostri

ieri , nel 1957 il volume di racconti lunghi, Valentino, che vince il premio

Viareggio e il romanzo Sagittario, nel 1961 Le voci della sera che, insieme al

romanzo d'esordio verranno successivamente raccolti nel 1964 nel volume

Cinque romanzi brevi. Nel 1962 esce la raccolta di saggi Le piccole virtù e nel

1963 vince il premio Strega con Lessico famigliare che viene accolto da un

forte consenso di critica e di pubblico. Nel 1969 muore il marito e la scrittrice

si dedica sempre più alla narrativa. Negli anni Settanta fanno seguito i volumi

Mai devi domandarmi del 1970 e Vita immaginaria del 1974. Nella successiva

produzione la scrittrice, che si era rivelata anche fine traduttrice con La strada

di Swann di Proust, ripropone in modo più approfondito i temi del microcosmo

familiare con il romanzo Caro Michele del 1973, il racconto Famiglia del

1977,il romanzo epistolare La città e la casa del 1984 oltre La famiglia

Manzoni, nel 1983, visto in una prospettiva saggistica. La Ginzburg si rivela

inoltre autrice di commedie tra le quali, Ti ho sposato per allegria del 1970, e

Paese di mare nel 1972. Nel 1983 viene eletta nelle liste del Partito

Comunista Italiano al Parlamento. Muore a Roma tra il 6 e il 7 ottobre 1991.

Anna Banti, pseudonimo di Lucia Lopresti (Firenze 1895 - Ronchi di Massa

1985) è stata una scrittrice italiana del XX secolo. Uno dei tratti caratteristici

della sua scrittura fu quello di porsi come narratrice in una posizione anomala

di fronte alle storie, capace si di assecondarle, ma rifiutarne le suggestioni

per rimanere più libera non solo di fantasticare, ma di creare nuovi rapporti

con i suoi personaggi. Nata a Firenze nel 1895 da una famglia d'origine

calabrese fu incoraggiata fin dall'inizio dal padre avvocato ad intraprendere

studi umanistici. All'inizio della sua avventura letteraria la sua prosa fu

imperniata sulla memoria e su ricordi giovanili. In seguito, sposando nel 1924,

il critico letterario Roberto Longhi, già suo professore al liceo, uomo con una

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profonda cultura sia letteraria sia artistica, e assieme collaborarono alla

nascita di Paragone la rivista, della quale tenne fino alla morte del marito la

direzione della sezione letteraria, fu proprio in quel periodo fecondo, la sua

prosa divenne più elaborata e raffinata portando alla luce con storie

complesse a sfondo principalmente psicologico la condizione delle donne

nella società del tempo, analizzando attraverso la convergenza di punti dì

vista diversi personaggi femminili colti con grande acutezza nei loro momenti

di crisi morale ed esistenziale. Fra i suoi romanzi più riusciti si ricorda

soprattutto Artemisia (1947), che rievoca la vita della pittrice seicentesca

Artemisia Gentileschi, narrando una vocazione artistica di donna in lotta con i

pregiudizi del suo tempo e, nelle Donne Muoino (1951) dove il racconto serve

da pretesto per un'indagine a fondo, sull'amicizia e su i segreti da mantenere

e, infine nei racconti raccolti in Campi Elisi (1963), dove ritroviamo il grande

tema che interessa principalmente la Banti, la solitudine della donna alla

ricerca di una dignità nel mondo degli uomini, in una vicenda di proteste,

umiliazioni, ribellioni, dolori. Opere principali:Itinerario di Paolina 1937, Il

Coraggio delle Donne 1940, Sette Lune 1941, Artemisia 1947, Le Donne

Muoiono 1951, La Monaca di Sciangai 1957, Campi Elisi 1963, Je Vous écris

d'un pays loítain 1971, La Camicia bruciata 1973, Da un paese vicino 1975,

Un Grido Lacerante 1981 (Finalista al Premio Campiello).

Lalla Romano (1909 - 2001)

Dopo aver frequentato le elementari a Demonte, si trasferisce a Cuneo con la

famiglia nel 1916, dove compie gli studi superiori. Conseguita la maturità nel

'24, s'iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Torino: tra i

suoi professori, spiccano le figure di Ferdinando Neri e Lionello Venturi. Su

indicazione di quest'ultimo, comincia a frequentare la scuola di pittura di

Felice Casorati. Laureatasi nel 1928, continua a dedicarsi alla pittura ed alla

poesia: ha, intanto, conosciuto scrittori e intellettuali del calibro di Cesare

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Pavese, Mario Soldati, Franco Antonicelli, Arnaldo Momigliano. Nel '32

sposa, a Cuneo, Innocenzo Monti, e nel '33 nasce il suo unico figlio, Pietro.

Nel '35 raggiunge a Torino il marito, ivi trasferito per motivi di lavoro;

successivamente, espone in mostre collettive ed in una personale. Spinta dal

giudizio positivo espresso da Eugenio Montale su alcuni suoi versi, nel '41

pubblica da Frassinelli la sua prima raccolta di poesie, "Fiore". Durante la

guerra, aderisce al movimento "Giustizia e libertà" e, su invito di Pavese, nel

'44 traduce per Einaudi i "Trois contes" di Flaubert. Nel '46 decide di

abbandonare l'attività pittorica per dedicarsi completamente alla scrittura.

Esordisce nella narrativa nel 1951 con una raccolta di brevi testi in prosa, "Le

metamorfosi", con presentazione di Vittorini; è del '53 il suo primo romanzo,

"Maria", elogiato da Montale sul "Corriere della Sera" e definito da Gianfranco

Contini un "piccolo capolavoro". Negli anni seguenti, escono il libro di poesie

"L'autunno" (1955), i romanzi "Tetto murato" (1957) e "L'uomo che parlava

solo" (1961) ed il libro di viaggi "Diario di Grecia" (1959). Bene accolto dalla

critica e dal pubblico, il suo quarto romanzo, "La penombra che abbiamo

attraversato" (1964), è "una rivisitazione di esperienze infantili e

adolescenziali nella quale il rigore stilistico e l'esercizio dell' analisi tengono a

freno l'incombente compiacimento autobiografico" (S.Guglielmino). Il

successo arride anche al successivo "Le parole tra noi leggère" (1969), che

vince il premio Strega; seguono, tra le altre cose, il romanzo "L'ospite" (1973),

la raccolta di poesie "Giovane è il tempo" (1974), il volume di racconti "La

villeggiante" (1975), il romanzo "Una giovinezza inventata" (1979), le fiabe de

"Lo stregone" (1979) . E' dell'81 "Inseparabile", dell'86 "La freccia di Tatiana"

(con fotografie di Antonio Ria), dell'87 il romanzo "Nei mari estremi" ove è

rievocata la malattia e la morte del marito. Da segnalare, negli ultimi anni, "Le

lune di Hvar" (1991), "In vacanza col buon samaritano" (1997), "Dall'ombra"

(1999).

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Anna Maria Ortese (Roma, 13 giugno 1914 - Rapallo, 9 marzo 1998). La

fama di scrittrice di Anna Maria Ortese ha avuto inizio con la pubblicazione di

"Il mare non bagna Napoli", la sua seconda raccolta di novelle, che meritò,

nel 1953, il Premio Viareggio. Nel 1967 ha, inoltre, ottenuto il Premio Strega,

con "Poveri e semplici".

• Angelici dolori, racconti (Bompiani, Milano 1937)

• L’infanta sepolta, racconti (Milano sera, Milano 1950)

• Il mare non bagna Napoli, novelle e cronache (Einaudi, Torino 1953;

ultima riedizione: Adelphi, Milano 1994)

• Silenzio a Milano, cronache (Laterza, Bari 1958; ultima riedizione: La

Tartaruga, Milano 1986)

• I giorni del cielo, racconti (Mondadori, Milano 1958)

• L’iguana, romanzo (Vallecchi, Firenze 1965; ultima riedizione: Adelphi,

Milano 1986)

• Poveri e semplici, romanzo (Vallecchi, Firenze 1967; Rizzoli BUR,

Milano 1974)

• La luna sul muro, racconti (Vallechi, Firenze 1968)

• L’alone grigio, racconti (Vallecchi, Firenze 1969)

• Il porto di Toledo, romanzo (Rizzoli, Milano 1975; Rizzoli BUR, Milano

1985)

• Il cappello piumato, romanzo (Mondadori, Milano 1979)

• Il treno russo, cronache (Pellicanolibri, Catania 1983)

• Il mormorio di Parigi, cronache (Theoria, Roma-Napoli 1986)

• Estivi terrori, racconti (Pellicanolibri, Catania 1987)

• In sonno e in veglia, racconti (Adelphi, Milano 1987)

• Il cardillo addolorato, romanzo (Adelphi, Milano 1993)

• Alonso e i visionari, romanzo (Adelphi, Milano 1997)

• Corpo celeste, testi e interviste (Adelphi, Milano 1997)

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U.D. 10_ Italo Calvino

Italo Calvino nasce a Santiago de las Vegas (Cuba) il 15 ottobre 1923,

durante il breve trasferimento dei genitori per motivi professionali. Il padre

Mario, ligure d'origine, è agronomo mentre la madre, (Eva) Evelina Mameli,

nativa della Sardegna, è biologa. Nel 1925 la famiglia ritorna in Italia,

stabilendosi a San Remo. Qui Calvino vive la sua infanzia, che egli ricorda

spensierata nel clima amorevole di in una famiglia dedita alle attività

scientifiche ed alla ricerca. Il periodo fascista non sembra sulle prime segnare

in modo particolare la sua personalità né sconvolgere la serenità familiare di

quegli anni. Nonostante i genitori siano intimamente e culturalmente contrari

al "Regime", la loro posizione (socialista lei, tendenzialmente anarchico lui)

sfuma dentro una generale condanna della politica. Nel 1927 frequenta l'asilo

infantile St. George College. Il primo vero contatto con la cultura fascista è

vissuto da Calvino negli anni tra il 1929 ed il 1933, quando non può sottrarsi

all'esperienza di diventare balilla, obbligo scolastico esteso anche alle scuole

valdesi frequentate dal piccolo Italo. Nel 1934 inizia la frequentazione del

ginnasio-liceo "G.D. Cassini", dove coltiva l'amicizia con Eugenio Scalfari,

che più tardi diverrà un importante rapporto per la sua crescita letteraria e

politica. La famiglia Calvino non ha una fede religiosa, e per quei tempi

manifestare apertamente un certo atteggiamento agnostico costava almeno

l'appellativo di "anticonformisti". Segno che Calvino ricorderà poi quale

elemento di formazione importante, per averlo presto svezzato ai sentimenti

della tolleranza e della diversità, con la conseguenza di predisporlo al

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costante confronto con le ragioni dell'"altro". Sono questi i semi culturali e

sociali di quella formazione poliedrica che il giovane Calvino più tardi tradurrà

in una scrittura capace di spaziare dalla saggistica politica a quella letteraria

e teatrale; dal racconto impegnato, a quello ironico e umoristico; dalla

pungente critica sociale, alla sceneggiatura di testi teatrali, finanche alla

composizione di testi per canzoni. Ma proprio quando l'età gli darebbe

occasione di gustare appieno quella grande ricchezza cosmopolita e culturale

che si addensa nel circondario di San Remo in quegli anni, la guerra

sconvolge la serena vita di provincia. Destina Calvino ad una serie di

vicissitudini, dai toni anche drammatici, capaci però di saldarsi con l'apertura

di vedute già matura nel carattere, forgiando così l'impegno politico e sociale

che Calvino esprimerà in forma di partecipazione e di scrittura. Tra il 1941 e

1942, dopo aver completato gli studi liceali, si trasferisce a Torino e si iscrive

alla facoltà di Agraria. Mentre prepara e sostiene gli esami dei primi anni,

superati poi con successo ma senza convinzione, Calvino coltiva quelli che

sempre più marcatamente appaiono come i suoi veri interessi: la letteratura, il

cinema, il teatro. Scrive La commedia della gente, un lavoro teatrale per un

concorso letterario e Pazzo io o pazzi gli altri che presenterà alla casa

editrice Einaudi ma senza successo. L'ambiente culturale di Torino, che

Calvino frequenta assiduamente, ed i fermenti politici di contrapposizione al

regime, più che mai vivi nel capoluogo piemontese, fondono in lui letteratura

e politica. Grazie all'amicizia ed ai suggerimenti di Eugenio Scalfari (già suo

compagno al liceo), focalizza i suoi interessi sugli aspetti etici e sociali che

coltiva nelle letture di Montale, Vittorini, Pisacane. Nel 1943 si trasferisce alla

facoltà di Agraria e Forestale di Firenze, dove sostiene pochi esami. Il 9

agosto 1943 ritorna a Sanremo. L'8 settembre trova Calvino renitente alla

leva. Contrario ad aderire alla Repubblica di Salò, trascorre un breve periodo

nascosto e solitario a Sanremo, momento in cui approfondisce ulteriormente

il canovaccio politico-sociale della sua passione letteraria. La definitiva scelta

per la clandestinità matura più per questioni affettive ed emozionali che per

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persuasione politica. All'indomani dell'uccisione del giovane medico Felice

Cascione per mano fascista, Calvino aderisce assieme al fratello Floriano,

alla seconda divisione d'assalto partigiana "Garibaldi" intitolata allo stesso

Cascione. In verità, egli si definisce un anarchico, ma in quegli anni di

clandestinità impara ad ammirare gli esiti positivi dell'organizzazione ed il

coraggio che la genuina persuasione politica irradia, allorché è scelta

convinta. Nel marzo del 1945, quando ormai gli alleati sono in Italia, Calvino è

protagonista attivo nella battaglia di Baiardo, una delle ultime battaglie

partigiane. Ricorderà l'evento nel racconto Ricordo di una battaglia, scritto nel

1974. Dopo la Liberazione, mentre la sua inclinazione anarchica e libertaria

non affievolisce, in lui va costruendosi un'ampia e complessa visione del

mondo che non cede a semplificazioni politiche e sociali. Non esalta l'idea

comunista sotto il profilo culturale e filosofico. Matura, ciononostante,

l'esigenza di organizzare forme politiche e strutture sociali a difesa dei diritti,

della dignità umana e della libertà. Con questo spirito aderisce al P.C.I. e ne

diviene attivista e quadro, esprimendo la sua partecipazione con interventi di

carattere politico e sociale, su quotidiani e periodici culturali, oltre che nelle

sedi istituzionali del partito. Si iscrive alla Facoltà di lettere di Torino,

accedendo direttamente al III anno, grazie alla legislazione postbellica in

favore dei partigiani ed ex combattenti. Conosce Cesare Pavese che diverrà

guida culturale ed umana, oltre che "primo lettore" delle sue opere. Scrive

Angoscia in caserma ed inizia una collaborazione con Il Politecnico, periodico

diretto da Elio Vittorini. Tra il '46 ed il '47 compone Campo di mine, vincitore

di un concorso letterario indetto da "L'Unità", ed una serie di racconti che

saranno poi messi assieme ne Ultimo viene il corvo pubblicato nel 1949. Tra

l'estate e il 31 dicembre del 1946, per concorrere al Premio Mondadori per un

inedito, scrive il primo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno. Dopo la laurea nel

1947, che consegue con una tesi su Joseph Conrad, inizia una

collaborazione con l'Einaudi, curandone l'ufficio stampa. Il rapporto con la

casa editrice sarà centrale nelle attività di Calvino, anche se talvolta

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intermittente ma ricco di incarichi sempre diversi e via via più importanti.

Durerà fino al 1961, momento in cui si trasformerà in "consulenza editoriale

esterna". Le attività culturali si intensificano assieme alle conoscenze

personali. Frequenta Vittorini, Natalia Ginzburg, Delio Cantimori, Franco

Venturi, Norberto Bobbio, Felice Balbo. Collabora con "l'Unità" e con

"Rinascita". Nel 1949 viene pubblicato Ultimo viene il corvo e resta inedito Il

bianco Veliero. Scrive interventi politico-sociali e di saggistica letteraria, su

diverse riviste culturali, tra cui "Officina", "Cultura e realtà", "Cinema Nuovo",

"Botteghe Oscure", "Paragone", oltre che su "Il Politecnico" di Vittorini già

citato. Sulle riviste pubblica anche brevi racconti, fra cui La formica argentina

e le prime novelle di Marcovaldo. Nel mese di agosto del 1950 Cesare

Pavese si suicida e Calvino perde l'amico e maestro, oltre che il suo "primo

lettore". Ne rimane sconvolto poiché Pavese era da lui vissuto come uomo

forte di carattere e di temperamento risoluto. Gli resta il profondo rammarico

per non aver intuito il dramma dell'amico. I suoi viaggi sporadici si infittiscono

e nel 1951 visita l'Unione Sovietica per un paio di mesi, dandone puntuale

resoconto nel Taccuino di viaggio in URSS di Italo Calvino, con cui vince il

premio Saint Vincent. Scrive il romanzo I giovani del Po e, quasi di getto, Il

visconte dimezzato. Tra il '53 ed il '54 tenta un romanzo di ampio respiro che

resterà inedito La collana della regina, mentre lavora assiduamente ad un

progetto nuovo che lo appassiona particolarmente. Si tratta delle Fiabe

italiane, rimaneggiamento e raccolta di antiche fiabe popolari, pubblicate nel

novembre del 1956. Sul versante dell'impegno politico, l'idea di società

maturata con gli anni non delude il suo spirito anarchico e libertario, anzi lo

arricchisce e lo caratterizza nella forma di precisi interventi critici in occasione

del XX Congresso del PCUS del 1956. Calvino esprime il dissenso per certi

aspetti che la politica sovietica va prendendo, soprattutto in ragione della

libera espressione e circa l'importanza della forma democratica. Ma non

risparmia critiche neppure ad una certa chiusura culturale dei dirigenti del

PCI, né a a talune pratiche interne all'apparato. L'idea di un nuovo PCI

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riformato e rifondato, che ispira Calvino, è dichiaratamente di matrice

giolittiana. La disillusione è però incolmabile solo pochi mesi dopo il

Congresso, quando l'armata rossa invade la Polonia. Con i fatti di Poznan e

Budapest matura in Calvino la decisione di abbandonare il partito. Il 1 agosto

1957 formalizzerà con una lettera al Comitato Federale di Torino le proprie

dimissioni,seguite a quelle di Antonio Giolitti. Spesso interviene su una rivista

di intellettuali dissidenti "Città aperta", a conferma che l'amarezza maturata a

seguito di certe scelte del partito non degrada in qualunquismo, ma si fa

critica puntuale e propositiva. Continua a scrivere ed a viaggiare e fonda con

Vittorini "Il Menabò". Tra il '58 ed il '62 pubblica La gallina di reparto, La

nuvola di smog e l'antologia Racconti. Sulla rivista culturale "Contacronache"

scrive testi di canzoni: Canzone triste, Dove vola l’avvoltoio, Oltre il ponte, Sul

verde fiume Po. Nel 1959 pubblica il romanzo Il cavaliere inesistente e parte

per un viaggio negli Stati Uniti, esperienza che diverrà soggetto del racconto

inedito Un ottimista in America . Escono su "Il Menabò" il saggio La sfida al

labirinto ed il racconto La strada di San Giovanni. La sua fama è ormai

affermata. Spesso è chiamato per conferenze e dibattiti in ogni parte

d'Europa. Nell'isola di Maiorca riceve il premio internazionale Formentor. Nel

1962, in occasione di un ciclo di incontri letterari, conosce a Parigi la sua

futura moglie, la traduttrice argentina Esther Juthit Singer, detta Chiquita, che

sposerà a L'Avana il 19 febbraio del 1964. A Cuba ha anche occasione di

incontrare Ernesto Che Guevara. Torna in Italia e si stabilisce a Roma con la

moglie ed il figlio di lei Marcello Weil. Nasce in quegli anni il gruppo '63,

corrente letteraria neoavanguardista, che Calvino segue con interesse pur

senza condividerne l'impostazione di fondo. Pubblica i racconti La giornata di

uno scrutatore e Speculazione edilizia. A fine '64 vanno in stampa le prime

cosmicomiche La distanza della Luna, Sul far del giorno, Un segno nello

spazio, Tutto in punto. Poco dopo pubblica Il barone rampante ed il dittico La

nuvola di smog - La Formica argentina. Il 12 febbraio del 1966 muore l'amico

Elio Vittorini, al quale dedica il saggio Vittorini: progettazione e letteratura.

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Calvino traccia nel saggio il pensiero d'un intellettuale aperto e fiducioso, in

dissonanza col pessimismo letterario di quegli anni, della decadenza e della

crisi. All'indomani della morte di Vittorini, Calvino inaugura un periodo di

meditazione, necessario forse ad elaborare il proprio vissuto, distante dal

frastuono delle città e della vita pubblica. Nel 1967 si trasferisce a Parigi

assieme alla famiglia. Approfondisce la sua passione per le materie

scientifiche e per il gioco combinatorio. I frutti di questo nuovo arricchimento

già si manifestano nella raccolta di racconti Ti con zero, vincitore del Premio

Viareggio 1968. Premio che però Calvino rifiuta, ritenendo ormai tali

manifestazioni letterarie semplice espressione retorica, anche se,

successivamente, accetterà altri premi letterari. Pubblica la prima edizione

dell'antologia scolastica La lettura. Assieme a Guido Neri, Gianni Celati ed

altri intellettuali, lavora al progetto per la realizzazione di una rivista sociale e

letteraria a larga diffusione, destinata al grande pubblico. Pur non

condividendo l'ideologia di fondo del sessantotto francese, Calvino è

particolarmente attratto ed affascinato dal valore utopico disseminato di certe

rivendicazioni del movimento studentesco e sociale. Tra il '69 ed il '73 lavora

ad alcuni progetti letterari e pubblica racconti e saggi su diverse riviste.

Escono il racconto I tarocchi ed i saggi Osservare e descrivere e Problema

da risolvere, pubblicati nella nuova edizione del testo scolastico La lettura.

Nel 1971 scrive Gli amori difficili per la collana "Centopagine" della Einaudi.

Nel 1972 vince il Premio Feltrinelli conferito dalla Accademia nazionale dei

Lincei, pubblica Le città invisibili che sarà finalista al XXIII Premio Pozzale

1974 per la letteratura. In quell'anno inizia anche una collaborazione con il

"Corriere della Sera" che durerà fino al 1979, quando inaugura la serie di

racconti del signor Palomar. Pubblica due lavori autobiografici, il primo,

Ricordo di una battaglia, rievoca la dura ed umanamente ricca esperienza da

partigiano. L'altro, Autobiografia di uno spettatore, particolare sguardo di

Calvino sul cinema, diventa prefazione a Quattro film di Federico Fellini. Nel

mese di maggio del 1975 inizia un altro periodo di intensi viaggi. A maggio è

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in Iran dove, per conto della RAI, cura la preparazione di un programma

radiofonico. L'anno successivo si reca negli USA, in Messico ed in Giappone,

per una serie di incontri e di conferenze. Il signor Palomar in Giappone,

racconto che pubblica nelle colonne del Corriere della sera, s'ispira a quei

viaggi. A Vienna, nel 1976, viene insignito d'un importante premio letterario

europeo, dal Ministero dell'Istruzione austriaco. Nel 1979 pubblica Se una

notte d'inverno un viaggiatore ed inizia la sua collaborazione con il giornale

"La Repubblica". Chiude quasi completamente il suoi interventi di carattere

politico e sociale, con l'amaro articolo L'apologo sull'onestà nel paese dei

corrotti, pubblicato l'anno successivo sul quotidiano diretto da Eugenio

Scalfari. Gli anni '80 vedono Calvino, ritornato a Roma con la famiglia,

prevalentemente alla ricerca lungo quel territorio che è il punto di confine tra

letteratura e scienze, sempre ispirato all'amico francese Queneau. Ne cura

l'opera Segni cifre e lettere e ne traduce la Piccola cosmologia portatile,

redigendone anche la guida. S'impegna altresì nella stesura di testi teatrali,

dove tenta d'inserire l'arte cosmologica e combinatoria. Nel 1983 esce

Palomar pubblicato da Einaudi. Per la casa editrice torinese cura anche

l'introduzione ad America di Franz Kafka. A causa della seria crisi in cui versa

l'Einaudi, nel 1984 è costretto a pubblicare presso Garzanti Collezioni di

sabbia e Cosmicomiche vecchie e nuove. Nel 1985, durante l'estate, Calvino

lavora ad una serie di conferenze (Lezioni americane, pubblicate postume)

che avrebbe dovuto tenere presso l'Università di Harvard. Colto da ictus il 6

settembre a Castiglione della Pescaia, viene ricoverato all'ospedale Santa

Maria della Scala di Siena dove muore nella notte tra il 18 e il 19 settembre.

Sono usciti postumi anche i volumi Sotto il sole giaguaro, La strada di San

Giovanni e Prima che tu dica pronto. In questa prima fase della sua

produzione, collocabile all'interno del movimento neorealista, Calvino scrive il

suo romanzo breve Il sentiero dei nidi di ragno e numerosi racconti raccolti

nel volume Ultimo viene il corvo. Con queste opere Calvino mostra una lucida

capacità rappresentativa della realtà che coniuga impegno politico e

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letteratura in modo spontaneo e leggero. In queste storie lo scrittore ligure

per raccontare le storie della sua esperienza partigiana adotta un punto di

vista oggettivo, tramite il quale i suoi ricordi diventano la misura della

comprensione del mondo. In Il sentiero dei nidi di ragno l'intreccio è narrato

dal punto di vista di Pin, un ragazzo, il protagonista del romanzo. Questa

ricerca di oggettività, comunque, non scade mai in pura cronaca: è sempre

presente la dimensione mitico-fiabesca che permette a Calvino di far

intravedere la realtà sotto le spoglie del sogno. È proprio con quest'opera che

Calvino dà l'avvio all'operazione di sdoppiamento dei piani interpretativi che

contraddistingue la sua produzione: da una parte il livello puramente

narrativo, semplice e comprensibile da tutti i lettori, dall'altra quello visibile

solo dai lettori più smaliziati. Questa scelta è compiuta, all'inizio, su precise

basi ideologiche, in seguito, con la contaminazione di forme colte e popolari,

Calvino mantiene la tecnica dello sdoppiamento dei livelli di lettura. Calvino

da sempre era stato attirato dalla letteratura popolare, con particolare

attenzione al mondo delle fiabe. Con Il visconte dimezzato, percorre sempre

di più la strada dell'invenzione fantastica: l'impianto è ormai totalmente

abbandonato al fiabesco e la narrazione procede secondo due livelli di

lettura: quello di immediata fruizione e quello allegorico-simbolica, in cui sono

presenti numerosi spunti di riflessione (contrasto tra realtà e illusione, tra

ideologia ed etica, etc.). In conclusione il romanzo invita i lettori all'equilibrio,

in quanto non è possibile possedere la verità assoluta. Anche le altre due

opere della trilogia I nostri antenati mostrano caratteristiche simili. Il

protagonista de Il barone rampante è un alter ego di Calvino che ormai ha

abbandonato la concezione della letteratura come messaggio politico. Il

Cavaliere inesistente invece è velato da un cupo pessimismo, dietro al quale

la realtà appare irrazionale e minacciosa. Accanto alla produzione allegorico-

simbolica, Calvino continua comunque un tipo narrazione che descrive la

realtà quotidiana. Riprende ad esaminare il ruolo dell'intellettuale nella

società, constatando la sua assoluta impotenza di fronte alle cose del mondo.

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Sempre a questa fase appartengono i racconti di Marcovaldo, in due serie:

più aderente a strutture fiabesche la prima (1958) mentre le seconda (1963)

tratta temi urbani con toni che a volte sfiorano l'assurdo. Nel 1963 esce

anche La giornata di uno scrutatore, in cui Calvino narra le vicende di un

militante comunista che, scrutatore in manicomio, entra in contatto con

l'irrazionale ed entra in crisi. Nella pubblicazione Sfida al labirinto

(dell'esistenza) Calvino espone le sue idee riguardo la funzione degli

intellettuali, i quali, secondo lui, devono cercare di comprendere il caos del

reale per tentare di dare un senso alla vita. L'influsso di varie discipline

scientifiche apre la fase "fantascientifica" de Le cosmicomiche e di Ti con

Zero, in cui lo scrittore si domanda come la ragione e scienza possano

influire sulla ricerca esistenziale dell'uomo. Intorno agli anni Sessanta Calvino

aderisce ad un nuovo modo di fare letteratura, intesa ora come artificio e

come gioco combinatorio. Per lo scrittore ligure è necessario rendere visibile

ai lettori la struttura stessa della narrazione, per accrescere il loro grado di

consapevolezza. In questa nuova fase produttiva Calvino si avvicina ad un

tipo di scrittura che potrebbe essere definita combinatoria perché il

meccanismo stesso che permette di scrivere assume un ruolo centrale

all'interno della produzione; Calvino infatti è convinto che ormai l'universo

linguistico abbia soppiantato la realtà e concepisce il romanzo come un

meccanismo che gioca artificialmente con le possibili combinazioni delle

parole: anche se questo aspetto può essere considerato il più vicino alla

Neoavanguardia, egli se ne distanzia per uno stile ed un linguaggio

estremamente comprensibili. Questa nuova concezione di Calvino risente di

numerosi influssi: lo strutturalismo e la semiologia, le lezioni parigine di

Roland Barthes sull'ars combinatoria e la frequentazione del gruppo di

Raymond Queneau (l'Oulipo), la scrittura labirintica di Jorge Luis Borges

nonché la rilettura del Tristram Shandy di Sterne, che definirà come il

progenitore di tutti i romanzi d’avanguardia del nostro secolo. Il primo

prodotto di questa nuova concezione della letteratura è il Castello dei destini

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incrociati (1969), al quale in seguito verrà aggiunto La Taverna dei destini

incrociati (1973), in cui il percorso narrativo è affidato alla combinazione delle

carte di un mazzo di tarocchi. Un gruppo di viandanti si incontra in un

castello: ognuno avrebbe un'avventura da raccontare ma non può perché ha

perduto la parola. Per comunicare allora i viandanti usano le carte dei

tarocchi, ricostruendo grazie ad esse le proprie vicissitudini. Qui Calvino usa

il mazzo dei tarocchi come un sistema di segni, come un vero e proprio

linguaggio: ogni figura impressa sulla carta ha un senso polivalente così

come lo ha una parola, il cui esatto significato dipende dal contesto in cui

viene pronunciata. L'intento di Calvino è proprio di smascherare i meccanismi

che stanno alla base di tutte le narrazioni, creando così un romanzo che va

oltre sé stesso, in quanto riflessione sulla propria natura e configurazione.

Questo gioco combinatorio è centrale anche nel successivo romanzo dello

scrittore, Le città invisibili (1972), sorta di riscrittura del Milione di Marco Polo

in cui è lo stesso mercante veneziano a descrivere a Kublai Khan le città del

suo impero. Queste città però non esistono tranne che nell'immaginazione di

Marco Polo, vivono solo all'interno delle sue parole. La narrazione quindi per

Calvino può creare dei mondi ma non può distruggere l'inferno dei viventi che

sta intorno a noi, per combattere il quale, come suggerito nella conclusione

del romanzo, non si può far altro se non valorizzare quello che inferno non è.

Ne Le città invisibili l'esibizione dei meccanismi combinatori del racconto

diventa ancora più esplicita che nel Castello dei destini incrociati grazie

anche alla struttura stessa del romanzo, segmentata in testi brevi che si

susseguono dentro una cornice. Le città invisibili infatti è composto da nove

capitoli, ognuno all'interno di una cornice in corsivo nella quale avviene il

dialogo tra l'imperatore dei Tartari, Kublai Khan, e Marco Polo. All'interno dei

capitoli vengono narrate le descrizioni di cinquantacinque città, secondo

nuclei tematici. Questa complessa costruzione architettonica è

indubbiamente finalizzata alla riflessione da parte del lettore sulle modalità

compositive dell'opera: in questo senso Le città invisibili è un romanzo

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fortemente metatestuale, poiché induce a produrre riflessioni su sé stesso e

sul funzionamento della narrativa in generale. L'opera più metanarrativa di

Calvino, però, è sicuramente da considerarsi Se una notte d'inverno un

viaggiatore (1979). In questo romanzo, più che altrove, Calvino mette a nudo

i meccanismi della narrazione, avviando una riflessione sulla pratica della

scrittura e sui rapporti tra scrittore e lettore. Il libro è formato da dieci capitoli

inseriti all'interno di una cornice: i capitoli in realtà sono dieci incipit di

altrettanti romanzi. Nella cornice invece si narra della storia tra il Lettore e

Ludmilla, la Lettrice, una vicenda tradizionale in cui non manca il lieto fine. La

narrazione inizia con il Lettore che va a comprare una copia del romanzo di

Calvino Se una notte d'inverno un viaggiatore scoprendo però dopo poche

pagine che il libro è difettoso, è composto cioè da tanti racconti tutti uguali;

torna allora in libreria trovando Ludmilla nella sua stessa condizione. Da qui

si dipana una storia inframezzata solo da inizi di romanzi: ogni volta che

Ludmilla e il Lettore si imbattono in un romanzo al quale si appassionano, la

narrazione si interrompe per i più svariati motivi. Alla fine il Lettore non

riuscirà a completare la lettura dei romanzi ma finirà per sposarsi con la

Lettrice alla quale, a letto prima di spegnere la luce, comunicherà che sta

finendo di leggere Se una notte d'inverno un viaggiatore di Italo Calvino. I

dieci inizi di racconti da cui è composto il libro corrispondono ognuno ad un

diverso tipo di narrazione. Mediante questo "esercizio di stile" Calvino

esemplifica quali sono i modelli e gli stilemi del romanzo moderno (da quello

della neoavanguardia a quello neo-realistico, da quello esistenziale a quello

fantastico surreale). Alla base del racconto c'è dichiaratamente lo schema a

incastro delle Mille e una notte, all'interno del quale Calvino colloca i

suggerimenti e le sollecitazioni provenienti dal romanzo contemporaneo. Se

una notte d'inverno un viaggiatore è sostanzialmente un gioco in cui Calvino

ostenta in modo quasi provocatorio i suoi "trucchi" di narratore, ma è un gioco

serio, quasi drammatico, perché vuole denunciare l'impossibilità di giungere

alla conoscenza della realtà. Il romanzo ha avuto un notevole successo in

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Italia e all'estero, specialmente negli Stati Uniti, dove è stato letto

immediatamente come esempio di letteratura postmoderna.