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LICEO ARTISTICO IDONEITA' ALLA V STORIA DELL'ARTE - Quattrocento - La Prospettiva e la Storia della Prospettiva - Arte Barocca / L’architettura Barocca - Gian Lorenzo Bernini - Francesco Borromini - El Greco - Rembrandt - Pieter Paul Rubens - Diego Velázquez - Arte Di Corte In Europa Tra 600 E 700 / Il Manierismo / Palladio - Caravaggio - Luigi Vanvitelli - Louis Le Vau - Pittura Di Genere / Vedute Capricci Paesaggi - Pittura Di Canaletto - Impressionismo e la nascita della fotografia - Le Figure Femminili Nelle Opere Di Renoir

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LICEO ARTISTICO

IDONEITA' ALLA V

STORIA DELL'ARTE

- Quattrocento

- La Prospettiva e la Storia della Prospettiva

- Arte Barocca / L’architettura Barocca

- Gian Lorenzo Bernini

- Francesco Borromini

- El Greco

- Rembrandt

- Pieter Paul Rubens

- Diego Velázquez

- Arte Di Corte In Europa Tra 600 E 700 / Il Manierismo / Palladio

- Caravaggio

- Luigi Vanvitelli

- Louis Le Vau

- Pittura Di Genere / Vedute Capricci Paesaggi

- Pittura Di Canaletto

- Impressionismo e la nascita della fotografia

- Le Figure Femminili Nelle Opere Di Renoir

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QUATTROCENTO

Nel Quattrocento l'arte in Italia era molto differenziata nelle diverse aree geografiche. Fino alla prima metà del XV secolo permase la cultura tardogotica che presentava aspetti diversi nelle regioni del nord e del sud, mentre a Firenze, a partire dal secondo decennio del secolo si attuò la trasformazione del Rinascimento. Qui, infatti, si concentrarono gli studi e le personalità che hanno prodotto la nuova cultura umanistica.

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Giovanni dal Ponte

Madonna col Bambino e angeli. 1425 ca. Cambridge, Fitzwilliam Museum

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Già prima della metà del XV secolo avvenne la diffusione del linguaggio rinascimentale in Italia centrale. Le nuove forme rinascimentali che nacquero a Firenze si diffusero dapprima in Toscana e a Siena (città finora molto legata alla tradizione gotica) poi giunsero in Lazio, in Umbria e nelle Marche. In Italia Settentrionale il Rinascimento giunse con un po' di ritardo, perché le regioni del nord, fino alla metà del '400, restarono legate alle correnti del gotico internazionale, o elaborarono nuove trasformazioni nel gusto cosiddetto "tardogotico", parallelo, nei tempi, al primo Rinascimento fiorentino.

Masaccio Madonna col Bambino e angeli 1426. Londra, National Gallery

Il nuovo stile rinascimentale trovò invece la prima accoglienza nei centri di cultura come Roma, Perugia, Urbino, che dapprima raccolsero, poi elaborarono e svilupparono lo stile rinascimentale per diffondere a loro volta nuove forme del Rinascimento. Questi centri, nella seconda metà del '400 assunsero nell'arte e nella cultura un'importanza sempre maggiore. Nella seconda metà del secolo si assiste alla diffusione e al trapianto dello stile rinascimentale in tutte le altre regioni, fiorirono rapidamente nuovi importanti centri d'arte e di cultura, grazie alla presenza di artisti di altissimo livello e dalla promozione culturale dovuta al mecenatismo.

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Firenze agli inizi del '400

Nel decennio tra il 1420 e il 1430 alcuni artisti fiorentini posero le basi di un nuovo modo di espressione. Sono:

I tre si conoscevano, si frequentavano, collaboravano nel lavoro ed è documentata l'amicizia tra Donatello e Brunelleschi, che sono andati insieme a Roma per studiare i monumenti dell'antichità. Ma è testimoniato anche il sodalizio tra Donatello e Masaccio: Donatello aiutò il giovane amico facendo da testimone ai pagamenti che il pittore ricevette per i suoi dipinti. A questi si aggiunse Michelozzo, con cui Donatello divise la bottega fiorentina e altri artisti o collaboratori. Con l'opera di questi artisti a Firenze avvenne una svolta artistica decisiva, che portò conseguenze importanti, si sviluppò un nuovo stile: il Rinascimento. Tutti e tre questi maestri hanno avuto una formazione tardo-gotica, ma ognuno di loro, in parte autonomamente, in parte scambiandosi idee, stabilì con la propria opera i principi essenziali di una nuova forma di rappresentazione artistica.

Un architetto, Filippo Brunelleschi;

uno scultore un po' più giovane di lui, Donatello,

e un pittore, Masaccio, più giovane dei tre e scomparso improvvisamente in circostanze misteriose, all'età di 27 anni.

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Perché proprio a Firenze?

Francesco di Lorenzo Rosselli. Pianta della Catena. 1471-72. Firenze, Biblioteca Riccardiana.

La città in questo momento godeva di condizioni favorevoli al suo sviluppo civile: - non era retta da una signoria come altri centri del nord, ma da libere istituzioni repubblicane (città-stato); - si era arricchita di fiorenti attività industriali e commerciali; nacquero le prime banche (es.: i Medici sono una famiglia di banchieri) - i mercanti rappresentavano la nuova classe dirigente, uomini potenti che promuovevano la cultura e le arti (mecenati).

Pontormo. Ritratto di Cosimo de' Medici, il Vecchio. 1518-20. Firenze, Uffizi

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Le famiglie fiorentine più potenti in questo momento e nuovi committenti degli artisti erano: - Pazzi- Rucellai - Medici, specialmente Cosimo I (morto nel 1464), grande protettore di artisti e intellettuali.

Il Rinascimento si formò quindi per una serie di coincidenze e inizialmente comparve come fenomeno isolato, una peculiarità fiorentina. Ma, dapprima con lo spostamento degli stessi protagonisti e delle loro opere, poi con la conseguente influenza su altri artisti, si diffuse rapidamente avviando un gusto e una cultura di portata enorme, che investì non solo l'Italia, ma tutta l'Europa.

L'architettura del '400

Anonimo, Città ideale. 1470-1475 circa. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.

L'architettura, nella prima parte del '400 si fonda su alcune componenti fondamentali:

- La prospettiva che porta alla creazione di spazi compiuti e razionali. Lo spazio viene concepito a misura d'uomo in antitesi agli spazi irrazionali e illimitati del gusto gotico. - L’ispirazione all'antico che stimola studi e rilievi condotti sui reperti. Vengono

ripresi gli ordini classici e si recuperano le leggi armoniche che stanno alla base della composizione architettonica.

- Il progetto, cioè l'elaborazione teorica che sta alla base dell'ideazione. Gli artisti elaborano una serie di disegni con i quali stabiliscono in partenza come sarà l'opera compiuta, con forme, dimensioni e caratteristiche.

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Il progetto comporta due fasi:

- Lo studio, l'analisi razionale di tutte le parti e di tutti i problemi della costruzione che vengono affrontati e risolti in partenza, a livello di progettazione.

- Il disegno finale: dagli studi precedenti si ricava una sintesi e si arriva al progetto completo in ogni sua parte da cui si trae il modello che viene realizzato in scala.

ed è seguito dalla realizzazione pratica dell'opera. La distinzione tra due momenti del processo operativo: ideazione teorica e realizzazione pratica e conseguente distinzione e ripartizione di compiti tra la fase ideativa e la fase esecutiva.

La pittura del '400

Domenico Veneziano. Pala di santa Lucia de' Magnoli. 1445 ca. Firenze, Uffizi.

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A partire dal secolo XV nel Rinascimento italiano la pittura ha avuto un grandioso sviluppo ed ha rappresentato in questa epoca l'arte per eccellenza (come la scultura per l'arte greca) perché più consona ai nuovi ideali estetici. Anche in ordine di tempo è la pittura che opera per prima e integralmente, con Masaccio, la trasformazione del linguaggio artistico e si manifesta con più rapidità rispetto alle altre arti. Altrettanto si può dire anche per la diffusione e trasmissione delle nuove "forme toscane" nelle altre regioni d'Italia. Gli elementi espressivi che caratterizzano meglio la pittura del '400 sono:

- Il disegno, inteso come studio delle forme e della realtà, che insieme al chiaroscuro deve suggerire il rilievo e il movimento dei corpi

- La prospettiva utile per creare in ogni scena uno spazio chiaro e definito - Lo studio anatomico, per ottenere proporzioni più armoniche e una maggiore

naturalezza di atteggiamenti, gesti e movimenti. - La luce per accentuare le forme, creare contrasti con l'ombra o per unificare figure

e ambienti. - Il colore per esprimere la varietà e la ricchezza della natura. La pittura inoltre rappresenta un importante collegamento con le altre arti. Attraverso il risalto plastico del disegno e del chiaroscuro e l'uso della luce stabilisce una relazione diretta con la scultura. Mentre attraverso lo studio della prospettiva e l'uso del disegno nei progetti stabilisce una relazione diretta con l'architettura. Infatti durante il XV secolo si manifesta l'affermarsi di numerosi pittori-architetti, mentre ne secolo precedente e nella cultura tardo-gotica esistevano soprattutto scultori-architetti. Rispetto alle altre arti, inoltre, per mancanza di modelli diretti, la pittura quattrocentesca è meno condizionata dall'ideale estetico classico, poiché la scoperta della pittura romana iniziò soltanto con gli scavi di Pompei, nel XVIII secolo. Unica testimonianza della pittura antica per gli artisti rinascimentali erano i fantasiosi motivi decorativi del Quarto stile, le "Grottesche" di cui si farà largo uso, ma solo a partire dalla fine del XV secolo. Riguardo allo stile, realismo e spirito scientifico sono gli aspetti che contraddistinguono maggiormente la pittura quattrocentesca rispetto a quella del XIV secolo. La rappresentazione pittorica del '400 punta infatti sulla forma realistica, non più fondata soltanto sul concetto di "mimesi" classica o sull'osservazione diretta, ma anche sulla ricerca e su una verifica razionale per avere pieno dominio sulla realtà. Lo spirito scientifico si coglie nella ricerca e attuazione di nuove soluzioni pittoriche ma anche nella sperimentazione di nuove tecniche operative come ad esempio nell'affresco e nella pittura su tavola in cui a partire dalla metà del secolo si introduce la tecnica a olio. Accanto agli affreschi, nel '400 sono molto diffusi i dipinti su tavola, da quelli di piccole dimensioni, solitamente a destinazione privata, alle grandi pale d'altare destinate alle chiese. In largo uso per tutto il '400 sono anche i polittici: grandi pale d'altare a più scomparti e in ordini sovrapposti come nel secolo precedente. Nei polittici quattrocenteschi gli elementi delle cornici però sono più lineari, perdono la funzione puramente

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decorativa ed acquistano quella di inquadramento architettonico e spesso di primo piano prospettico. Questo tipo di cornici lega armonicamente i singoli scomparti in un complesso unitario. Per questo lo smembramento e dispersione dei pezzi componenti i polittici rinascimentali è anche più grave della divisione e dispersione di quelli trecenteschi.

La scultura del '400

Donatello. David. 1440 ca. Bronzo. Firenze, Museo del Bargello.

Nel XV secolo la scultura si sviluppa, riconquista una completa autonomia rispetto alle convenzioni tardogotiche e acquisisce piena libertà di espressione. La rivalutazione e lo studio del mondo classico favorisce la formulazione di un ideale estetico simile a quello greco e romano, incentrato sull'uomo e la natura e comporta numerosi riferimenti all'antichità. Gli studi umanistici influenzano fortemente l'arte e

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spesso, accanto ai testi sacri, la letteratura latina e i miti antichi rappresentano le principali fonti a cui si attinge per i temi delle rappresentazioni.

Vengono riproposti generi classici come:

- la statua - il gruppo - il busto-ritratto - il nudo.

Il rapporto con l'antico appare più evidente e diretto nella scultura minore, ma l'assimilazione dei motivi classici avviene con grande libertà d'interpretazione. Infatti i moduli, le regole e le leggi proporzionali classiche, basilari nell'arte antica, non vengono quasi mai rispettate in maniera rigorosa dagli artisti quattrocenteschi. Alla luce di nuove conoscenze e di una visione "moderna", gli scultori del '400 si soffermano maggiormente sugli caratteri più esteriori dei modelli antichi. Ad esempio, nella rappresentazione della figura umana, il canone policleteo viene ripreso soltanto per dare alla figura un aspetto e un atteggiamento più naturale.

Al rispetto delle regole proporzionali indicate da Policleto, finalizzate alla rappresentazione di una forma ideale e perfetta, si preferisce un'osservazione diretta della realtà. Inoltre è importante anche la derivazione dall'esperienza del gotico, rispetto al quale lo stile quattrocentesco rappresenta un'evoluzione. Un esempio è offerto dalle rappresentazioni di personaggi in posizione eretta: la postura in cui il corpo si appoggia su una gamba flettendo l'altra non è una innovazione radicale, ma uno sviluppo e razionalizzazione dello stereotipo dello "hanchement" gotico. Emblematico è l'esempio di Donatello, in cui si nota l'evoluzione stilistica dalla maniera ancora gotica alla visione rinascimentale confrontando opere giovanili come il David di marmo con quelle più mature come i santi dell'Altare di Padova.

La scultura minore

Nella produzione scultorea quattrocentesca i legami più forti con la classicità si trovano soprattutto nella scultura minore e specialmente in due tipi di produzione: l'ornato plastico-architettonico e il bronzetto. L'ornato plastico-architettonico nel '400 è caratterizzato dalla ripresa di motivi iconografici e decorazioni antiche che vengono spesso distaccati dai valori simbolici originali per essere denotati secondo nuovi significati. Negli esempi minori o in opere a destinazione privata i "motivi alla greca" possono essere scelti senza un particolare criterio o funzione simbolica, ma semplicemente per una ragione estetica. Nella produzione dei bronzetti si risponde soprattutto alle esigenze di una moda, di un gusto appartenente alle corti e all'alta borghesia, e spesso vengono eseguite delle copie o delle imitazioni degli esemplari classici

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La scultura monumentale

Donatello

Monumento equestre al Gattamelata. 1447-53. Bronzo. Padova, Basilica di Sant'Antonio

Rispetto alla scultura minore, nella scultura monumentale del '400 l'ispirazione classica si fa meno evidente, prevale l'invenzione la creazione originale, similmente a quanto avviene della pittura. Il maggiore protagonista della scultura quattrocentesca, Donatello, nonostante gli studi condotti sulle opere antiche, per molti aspetti si può considerare anticlassico, poiché spesso sovverte le regole classiche, interpretandole in modo molto personale. Anche i risultati qualitativi sono maggiori rispetto a quelli ottenuti nella scultura minore.

Caratteri fondamentali della scultura quattrocentesca sono:

- lo studio dell'anatomia e del movimento nella figura umana; - l'osservazione diretta del vero che si traduce in una gamma svariatissima di interpretazioni che vanno da un naturalismo ancora tardo-gotico al realismo anche violento e brutale. - L'astrazione concettuale della forma intesa come entità geometrica in rapporto con lo spazio e la luce.

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- La costruzione delle scene in uno spazio in base ad un inquadramento prospettico-lineare.

-Lo scultore del '400

Lo scultore rinascimentale doveva avere una lunga preparazione al suo mestiere. La formazione era basata sulla conoscenza approfondita e specifica di diverse tecniche e poteva comprendere varie arti perché doveva portare ad una professionalità completa. I giovani che volevano intraprendere la carriera artistica si formavano nella bottega di un orafo, perché l'oreficeria insegnava le nozioni prime e fondamentali delle diverse arti, sia dal punto di vista formale con il disegno che diventa basilare per tutte le arti, sia dal punto di vista tecnico, dovendo operare con materiali e procedure diverse (la progettazione, la conoscenza dei materiali, le tecniche di fusione, modellazione, scultura, incisione, cesellatura, ecc.) Gli orafi nel medio evo erano maestri che rappresentavano l'eccellenza ed erano ancora i più apprezzati all'inizio del XV secolo. Inoltre va considerato che era necessario conoscere la difficile tecnica della fusione in bronzo che divenne sempre più importante e richiesta durante il XV secolo.

La consapevolezza della nuova era « Io solea maravigliarmi insieme et dolermi che tante optime et divine arti et scientie quali per loro opere et per le historie veggiamo chopiose erano in que virtuosissimi passati antiqui, ora così siano mandiate et quasi in tucto perdute; pictori, scuiptori, architecti, musici, geometri, rethorici, auguri et simili nobilissimi et meravigliosi intellecti oggi si truovano rarissimi et pocho da lodarli. Onde stimai fusse quanto da molti questo così essere udiva, che già la Natura, maestra delle cose, fatta anticha et straccha, più non producea chome ne giganti così ne ingegni quali in que suoi quasi giovinili et più gloriosi tempi produsse amplis-simi et maravigliosi. Ma poi che io dal lungo exilio in quale siamo noi Alberti invecchiati, qui fui in questa nostra sopra l'altre omatissima patria riducto, chompresi in molti ma prima in tè, Filippo et in quel nostro amicissimo Donato scuiptore et in quelli altri Nencio et Luca et Masaccio, essere a ogni lodata cosa ingegnio da non postporii acquai si sia stato antiche et famoso in queste arti. Pertanto m'avidi in nostra industria et diligentia non meno che in beneficio della natura et de tempi, stare il potere acquistarsi ogni laude di qual si sia virtù. Confessoti se a quelli antiqui, avendo quale aveano chopia da chi inparare e imitarli, meno era difficile salire in cognitione di quelle supreme arti quali oggi annoi sono fatichosissime ma quinci tanto più el nostro nome più debba essere maggiore se noi sanza preceptori, sanza exemplo alchuno, truoviamo arti et scientie non udite et mai vedute».

La consapevolezza della nuova era e del cambiamento culturale che si stava vivendo viene espresso con entusiasmo e commozione nella dedica nel trattato Della pittura

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che nel 1436 Leon Battista Alberti rivolge a Filippo Brunelleschi. Quando, nel 1429 Alberti giunge per la prima volta a Firenze, la magnifica Cupola di Santa Maria del Fiore era avanti nella costruzione e al suo ritorno, nello stesso 1436, era già compiuta. Nel 1429 a Firenze si potevano ammirare dli affreschi che Masaccio aveva appena terminato nella Cappella Brancacci, Ghiberti aveva collocato la sua prima Porta del Battistero e Donatello, collocata la statua di Geremia nel Campanile, stava lavorando al profeta Abacuc. Si trattava davvero di «arti e scientie non udite et mai vedute» e il sensibile e coltissimo Alberti riconosce il merito ai grandi inventori del Rinascimento: l'architetto Brunelleschi, gli scultori Ghiberti, Donatello e Luca Della Robbia, e il pittore Masaccio, che con le loro opere superano per qualità quelle dei maestri dell'Antichità.

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LA PROSPETTIVA STORIA DELLA PROSPETTIVA

IL SENSO DELLA PROFONDITÀ

La prospettiva

Il vocabolo si riferisce generalmente alla rappresentazione di paesaggi, ma può indicare, più in particolare, una composizione pittorica in cui appaiono fughe prospettiche e inganni ottico-illusionistici, le une e gli altri ottenuti con la presenza di finte architetture, effetti di ombre e di colore. Scopo della prospettiva in pittura è dare tridimensionalità a un’opera, rendendola più vicina alla realtà. Una definizione più precisa sarebbe la speculazione teorica che ha per oggetto la rappresentazione su di una superficie piana della tridimensionalità dello spazio e dei corpi che in esso si trovano, nonché delle rispettive proporzioni e posizioni.

Storia della prospettiva

Nelle culture preistoriche e pregreche manca del tutto una concezione prospettica, che si afferma solo nel mondo greco. Lo studio degli effetti e della tecnica prospettica venne intrapreso dai Greci prima in modo empirico (e ne sono prova gli scorci sempre più sapienti rilevabili nella produzione vascolare dal V sec. a.C. in avanti), poi con maggiore consapevolezza e con un preciso richiamo a regole geometriche (come fece Democrito, che giunse probabilmente a definire un metodo molto simile alla proiezione centrale). Tali risultati furono applicati sia nella pittura di cavalletto (ove si distinse, secondo la tradizione, Apollodoro di Atene detto lo Schiagrafo) sia nella grande decorazione (riecheggiata nel mosaico di Alessandro alla battaglia di Isso di Pompei, ora al Museo archeologico nazionale di Napoli) e nella scenografia teatrale. Perduti gli originali, si può trovare un riflesso delle ricerche greche nella decorazione parietale romana del primo e secondo stile, a Pompei (villa dei Misteri), a Boscoreale, a Roma (stanza delle Maschere).

Più tardi, la tendenza all'illusionismo divenne in Roma prevalente, e si fece sempre più ricorso a metodi più empirici e approssimativi, anche se di effetto; con l'affermarsi del terzo e quarto stile inizia il processo di abbandono della tecnica prospettica propriamente detta, che sarà riscoperta nel Quattrocento fiorentino. In epoca tardoantica ha luogo, per il doppio impulso del misticismo cristiano e della condanna neoplatonica dell'illusionismo, l'abbandono della rappresentazione di uno spazio prospettico; nonostante significative eccezioni, come i mosaici della Rotonda

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di San Giorgio a Salonicco, rivelatori della persistenza, anche in epoca tarda, di una rigorosa scienza prospettica, si adotta in arte urativa il metodo della 'dissociazione prospettica', per cui ogni oggetto può essere visto prospetticamente in una sua casella spaziale, ma manca del tutto un criterio unificatore. Questa tendenza si accentua con l'affermarsi dell'arte bizantina, costruita con una mentalità trascendente e aspaziale: gli oggetti sono rappresentati ortogonalmente, o in prospettiva inversa (in cui le direttrici in profondità divergono verso il fondo) o in prospettiva cavaliera (in cui gli oggetti vengono visti dall'alto, con un forte appiattimento della profondità); paesaggi e architetture sono raramente rappresentati, e quando sono presenti, come nei mosaici siciliani del XII sec., hanno una funzione ritmica piuttosto che spaziale.

La situazione cambia, nel mondo occidentale, verso la fine del XIII sec., in corrispondenza con il rinnovarsi di un interesse per la corporeità degli oggetti, come

in Cimabue e Pietro Cavallini, ponendo le premesse per il primo tentativo di rivalutazione della prospettiva, che ha luogo con Giotto. Negli affreschi di Giotto ad Assisi, e ancor più chiaramente nella cappella degli Scrovegni a Padova e nella cappella dei Bardi a Firenze, è evidente lo sforzo di dare una plausibilità spaziale alla

Giotto, affresco Basilica Superiore di Assisi “Francesco rinunzia ai beni del padre”

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rappresentazione pittorica, giovandosi forse anche di esempi classici: tuttavia, si tratta di un tentativo empirico, che dà buoni risultati nei particolari (fastigi dei templi, scorci, e soprattutto le due finte nicchie della cappella degli Scrovegni) ma non basta a definire un'unità spaziale: come in talune opere romane tarde, Giotto giunge a una prospettiva 'a spina di pesce', in cui diversi punti di fuga sono allineati lungo un asse orizzontale.

La definitiva riscoperta della prospettiva centrale ha luogo a Firenze all'inizio del Quattrocento, soprattutto a opera del Brunelleschi, autore di due tavolette dimostrative (rappresentanti il Battistero di Firenze e Palazzo Vecchio), costruite secondo precise regole geometriche, e tenendo conto del punto di fuga e del punto di distanza. Mancando però notizie precise sugli esperimenti brunelleschiani (su cui riferisce il Manetti), la prima trattazione sistematica della materia a noi nota è quella dell'Alberti, che nel suo trattato Della pittura (1436) dà le regole della 'costruzione legittima' (cioè della proiezione centrale con punto di distanza).

Andrea Mantegna: la Cappella Ovetari, Padova

In ogni caso, la prospettiva era già allora ben nota agli artisti fiorentini, da Donatello (base del San Giorgio, 1416) a Masaccio (Trinità in Santa Maria Novella, 1428 circa), a Paolo Uccello, le cui ricerche peraltro si indirizzarono in un senso più astrattamente scientifico, non senza ritorni alla 'perspectiva naturalis' medievale (Storie di Noè nel Chiostro Verde di Santa Maria Novella). Il motivo della fortuna della concezione prospettica in ambiente fiorentino va ricercato nel fatto che essa consentiva una riproduzione del reale nello stesso tempo aderente alla visione diretta e regolarizzata in uno schema geometrico, e soddisfaceva quindi le esigenze razionalistiche dell'ambiente: ciò è evidente soprattutto in Piero della Francesca, autore anche di un

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trattato, De prospectiva pingendi (1480), che è lo specchio più fedele della mentalità del tempo su questo argomento. Molto differente è invece l'uso della prospettiva che si deve al Mantegna, che abbassando notevolmente, nella cappella Ovetari a Padova, il punto di fuga fino a porlo all'altezza del visitatore reale, pone le basi per un uso non razionalistico ma dichiaratamente illusionistico della prospettiva, quale sarà realizzato dallo stesso Mantegna nella Camera degli Sposi a Mantova (1472-l474). Nel Cinquecento, gli studi prospettici prendono una direzione abbastanza diversa. Da un lato un pittore- scienziato, Leonardo, giunge dopo approfonditi studi di ottica a chiarire il carattere convenzionale della prospettiva quattrocentesca, e ne crea una variante prospettiva area che tenga conto dell'atmosfera come mezzo attraverso il quale avviene la visione; dall'altro un matematico, il francese Jean Pélerin, approfondisce l'aspetto geometrico della costruzione legittima.

Come risultato, la pittura manieristica si volge a considerare la prospettiva come un semplice mezzo di rappresentazione, senza più attribuirle un significato conoscitivo: e si hanno così i primi tentativi di prospettiva di pure architetture (sala delle Colonne alla Farnesina, a Roma, del Peruzzi) o di sfondamento illusionistico delle pareti (cupola del duomo di Parma, del Correggio). In questo modo si perfezionano le tecniche che sfoceranno, allo scadere del secolo, nell'opera dei quadraturisti.

Galleria di palazzo Spada, Borromini

Ciò che cambia è l'uso della prospettiva, che diviene un mezzo ausiliare tra i più spettacolari per la grande decorazione, a partire dalla decorazione carraccesca di palazzo Farnese: gran parte dell'effetto fantasiosamente scenografico della decorazione barocca (e vanno ricordate le opere di G. Lanfranco, di Pietro da Cortona, del Gaulli, detto il Baciccia, e soprattutto di padre Andrea Pozzo) va

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attribuita al sapiente uso dell'inquadratura prospettica, sovente affidata a tecnici specializzati. Inoltre, e contrariamente a quanto accade nel Rinascimento (in cui l'abside di San Satiro a Milano, del Bramante, e la sistemazione del Campidoglio a Roma, di Michelangelo, costituiscono delle eccezioni, sia pur significative), le regole prospettiche vengono utilizzate anche nella sistemazione architettonica, sia per effetti particolari (galleria di palazzo Spada, del Borromini) sia per complesse soluzioni urbanistiche (piazza San Pietro, del Bernini). Queste tendenze si accentuano nel corso del Settecento, sia nella decorazione pittorica (affreschi del Tiepolo e, in altro senso, vedute del Canaletto, costruite con l'ausilio della camera oscura) sia nella scenografia (Bibbiena) e nel campo urbanistico (specie in Francia e Germania).

In epoca moderna, alla prospettiva vengono attribuiti compiti puramente rappresentativi, anche per uso tecnico, mentre, con l'affermarsi dell'impressionismo e la dissoluzione della concezione riproduttiva dell'arte, non vi è che qualche sporadico tentativo (Crocifissione, di Dalí) di trarne effetti particolari o specificamente espressivi.

Il senso della profondità

Come già detto per la cultura rinascimentale molto importante fu lo studio della prospettiva. Essa si basa su un particolare effetto visivo: l'occhio umano percepisce gli oggetti entro un immaginario cono, con il vertice posto nell'occhio stesso, sicché gli oggetti vicini appaiono molto più grandi, a parità di grandezza reale, di quelli lontani. Inoltre se osserviamo, posti di fronte, due linee parallele esse sembrano convergere in un

Piermatteo d'Amelia, Annunciazione

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punto, o fuoco, posto su una linea immaginaria, detta linea di orizzonte; infine se vi sono delle linee ortogonali rispetto alle prime, noi avremo l'impressione che esse diventino sempre più piccole e più ravvicinate: sono i gradienti di tessitura. Si osservi tutto ciò in questa Annunciazione (del Maestro dell'Annunciazione Gardner) del XV secolo: la Madonna e l'angelo appaiono molto più grandi degli archi e del portale in fondo; le linee bianche viste frontalmente e i muri ad esse paralleli tendono a convergere in un punto; la decorazione del pavimento fatta di moduli quadrati chiari con altri quadrati inscritti all'interno diviene via via più fitta. Bisogna poi determinare il punto di vista dell'osservatore: quanto all'altezza, esso può prevedere una visione frontale, se la linea di orizzonte è posta più o meno nell'asse mediano dell'opera; dall'alto verso il basso, se tale linea è posta molto in alto rispetto alla base dell'opera; dal basso verso l'alto, infine, se se la linea d'orizzonte è vicina o addirittura al di sotto della base dell'opera. Inoltre la visione può essere centrale se il fuoco è più o meno al centro della linea d'orizzonte, altrimenti sarà accidentale o angolare.

Un altro modo di comunicare il senso della profondità fu teorizzato infine da Leonardo da Vinci: la prospettiva aerea. Consiste nel rappresentare gli oggetti lontani con contorni meno nitidi, più sfumati, come velati dall'aria e dall'umidità che essa contiene. Un Esempio di questo modo di procedere si può riscontrare nella Vergine

Leonardo da Vinci, Vergine delle rocce

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delle rocce. Val la pena di ricordare che l'uso della tecnica ad olio (in questo caso su tavola) consentiva di stendere sottilissime velature di colore, che si prestavano benissimo alle esigenze della prospettiva aerea. L'opposizione tra luci ed ombre serve a dare l'impressione che le ure rappresentate abbiano un volume; ciò viene realizzato attraverso la tecnica del chiaroscuro: si mescola il colore-base della ura con le tinte più chiare e con quelle più scure, in modo da dare la sensazione di una luce che colpisce la ura rappresentata. Bisogna poi distinguere tra le ombre proprie della ura e quelle portate, cioè proiettate su altre ure o sui piani circostanti: le seconde servono a suggerire la distanza tra le diverse ure, lo spazio che le circonda. Del resto la contrapposizione tra luce ed ombra ha anche valore simbolico, spesso richiamando l'opposizione tra bene e male: basti pensare all'inizio del Vangelo di S. Giovanni , ma l'elenco dei testi, letterari e non, che utilizzano questa contrapposizione è inesauribile. Ovviamente in opere che non aspirano a una rappresentazione naturalistica, come nell'arte bizantina medievale, non troveremo un uso di questa risorsa espressiva e le ure ci appariranno piatte, bidimensionali, nelle opere del Rinascimento italiano, invece, si fa largo uso di queste tecniche. Leonardo da Vinci, poi, farà largo uso della tecnica dello sfumato, con cui si evitano i contrasti troppo marcati tra luce ed ombra, sostituiti da passaggi molto graduali che addolciscono, offuscandoli, i tratti somatici.

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ARTE BAROCCA

Il termine «barocco» ha una genesi incerta: secondo alcuni autori esso deriva dal termine francese «baroque» (in spagnolo «barrueco» e in portoghese «barrôco») che nel Seicento indicava una perla di forma irregolare. In arte con la parola «barocco» si indica uno stile artistico che storicamente coincide con l’arte prodotta dagli inizi del Seicento alla metà del Settecento. Il termine in realtà verrà utilizzato solo dopo la fine di questo periodo, dagli scrittori di età neoclassica, con chiaro intento dispregiativo, per evidenziare i caratteri di irregolarità di questo stile. In realtà il termine barocco, oltre ad individuare uno stile attuato in un periodo storico preciso, sembra contenere in sé una precisa categoria estetica universale che supera l’applicazione stilistica attuata nel Seicento e Settecento. Esso indica tutto ciò che è fuori misura, eccentrico, eccessivo, fantasioso, bizzarro, ampolloso, magniloquente, ma soprattutto che tende a privilegiare l’aspetto esteriore ai contenuti interiori. Inteso in questo senso, il barocco è quasi una categoria universale dello spirito umano, e non a caso il termine viene spesso usato anche al di fuori del contesto storico al quale si riferisce. Ricorrendo ad una teorizzazione dello storico austriaco Riegl, ogni periodo storico, o fase culturale, si svolge secondo una parabola suddivisa da tre fasi principali: una iniziale di sperimentazione, una intermedia che potremmo definire classica, una finale di decadenza. Se applichiamo questo schema all’arte italiana tra Quattrocento e Seicento, abbiamo che la prima fase corrisponde al momento iniziale del Rinascimento, quando innovatori e sperimentatori da Brunelleschi a Botticelli arrivano a definire i canoni di una nuova sensibilità estetica nonché di un nuovo stile. La seconda fase corrisponde all’attività dei grandi maestri a cavallo di Quattrocento e Cinquecento quali Leonardo, Raffaello e Michelangelo. Con essi il nuovo stile raggiunge la maturità e la perfezione: si raggiunge in pratica la fase «classica» dello stile rinascimentale, cioè di una perfezione assoluta che non sarà più messa in discussione da mode o oscillazioni di gusto. Infine la terza fase, quella di decadenza, coincide con il Manierismo ma soprattutto con il Barocco. «Barocco», quindi, diviene per antonomasia qualsiasi fase di decadenza di uno stile artistico il quale, dopo aver raggiunto la maturità, si deforma in applicazioni virtuosistiche ma fatue e stucchevoli e non di rado ripetitive. Il giudizio critico nei confronti del barocco ha subito molte oscillazioni. Una rivalutazione in senso positivo è stata tentata solo alla fine dell’Ottocento dallo storico austriaco Wolfflin, ma in realtà un certo giudizio di negatività non è mai venuto meno nei confronti di questo stile, soprattutto perché la nostra cultura occidentale moderna, figlia dell’Illuminismo, nasce proprio dal rifiuto del barocco, ossia della cultura seicentesca in genere. Un punto vale però la pena rimarcare, prima di continuare il discorso. Le caratteristiche stilistiche che noi attribuiamo al barocco in realtà si ritrovano essenzialmente solo nell’architettura e nelle arti applicate di quel periodo. Le arti figurative del Seicento e Settecento hanno dinamiche ed esiti stilistici che raggrupparle genericamente nella definizione di «barocco» appare improprio. Così

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come è avvenuto per il romanico e il gotico, e come avverrà in seguito per il liberty e il post-modern, il termine, nato per definire uno stile architettonico, è stato utilizzato in maniera impropria, dal punto di vista stilistico, per individuare tutta l’arte del periodo al quale ci si riferisce. Così come non possiamo definire gotica la pittura di Giotto, solo perché ha operato tra XIII e XIV secolo, così non possiamo definire barocca la pittura di Caravaggio o di Rembrandt, solo perché la loro attività si è svolta nel XVII secolo.

Le arti figurative

Lo stile barocco è stato uno stile prettamente architettonico, e in un certo qual senso anche le arti figurative sono più barocche quanto più sono in rapporto con l’architettura o con l’urbanistica. È quanto avviene soprattutto con le arti applicate (arredamenti e complementi di arredo in primis) che con l’architettura hanno un rapporto più diretto. Ma anche pittura e scultura, quando collaborano a creare uno spazio illusionistico e scenografico, acquistano il loro carattere più barocco. In effetti è soprattutto nei grandi affreschi che si ritrova la pittura barocca, mentre la scultura barocca è in particolare quella dei grandi monumenti urbani.

Il trionfo della Divina Provvidenza di Pietro da Cortona

Nel corso del Seicento e del Settecento la costruzione di chiese e palazzi nobiliari aumenta vistosamente rispetto al passato. E fu soprattutto per questi contesti che avvenne la maggior produzione pittorica, sia ad affresco sia su tela. In particolare lì dove la pittura barocca assume caratteri più originali è nella decorazione delle volte. Il motivo è presto detto: sotto le volte si poteva creare effetti illusionistici di

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maggiore spettacolarità. Il prototipo di queste volte è quella realizzata nel 1639 da Pietro da Cortona per il salone di Palazzo Barberini a Roma, ma la più nota di queste composizioni è la volta nella Chiesa di Sant’Ignazio realizzata da Andrea Pozzo nel 1694. Il modello è quello del Soffitto degli Sposi del Mantegna, cioè del «trompe-l’oil», ma portato a livelli di complessità molto più arditi e spettacolari. Possiamo considerare

Gloria di Sant'Ignazio di Andrea Pozzo

che due sono i modelli per decorare una volta. Quello assunto da Michelangelo per la volta della Sistina, o da Annibale Carracci per la Galleria di Palazzo Farnese, è di realizzare le immagini come quadri tradizionali solo che vengono disposti non in verticale ma in orizzontale con la superficie in giù. Il modello assunto invece dai pittori barocchi è di concepire le immagini come viste dal basso verso l’alto, così da creare l’effetto illusionistico che il soffitto non c’è, e al suo posto vi è lo spazio virtuale creato dall’affresco. In questo secondo modello vengono molto accentuati gli effetti di scorcio e la costruzione prospettica dello spazio. Uno dei motivi che più distingue i pittori rinascimentali da quelli barocchi è proprio l’uso della prospettiva. Nei primi la prospettiva era una tecnica che rendeva chiaro e razionale lo spazio rappresentato, nei secondi invece la prospettiva è usata per ingannare l’occhio e far vedere spazi che non esistono, in maniera illusionistica. Inutile dire che per usarla in questo secondo modo, bisognava conoscere la prospettiva in maniera perfetta ed essere dei virtuosisti nel suo uso. E tuttavia tutta questa «arte», o tecnica, era usata non per la verità ma per rendere apparentemente vero il falso. Questo è uno dei motivi di fondo che più ci danno l’idea della distanza che passa tra estetica rinascimentale e estetica barocca. La pittura del Seicento, tuttavia non è solo quella barocca. In particolare nel corso del secolo possiamo distinguere altre due correnti fondamentali, oltre quella barocca: il realismo, di derivazione caravaggesca, e il classicismo, di derivazione carraccesca.

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Nella prima corrente rientrano, in particolare, le maggiori esperienze europee del XVII secolo: quelle che si sviluppano in Olanda e in Spagna e nel regno di Napoli. Grandi interpreti di questa tendenza furono Rembrandt, Vermeer, Velazquez, solo per citare i maggiori. Nella corrente del classicismo ritroviamo innanzitutto i pittori bolognesi diretti allievi dei Carracci quali il Guido Reni e il Domenichino, ma anche pittori francesi, ma attivi a Roma, quali Nicolas Poussin o Claude Lorrain. In sintesi l’arte del Seicento, molto più variegata di quel che sembra, si divide nella ricerca del vero (realismo), dell’idea (classicismo) o dell’artificio (barocco). La scultura, non meno della pittura, si divide in queste tre correnti fondamentali. Ma di certo la scultura di stile barocco, proprio per la sua maggior capacità di legarsi agli spazi architettonici e urbanistici, risulta quella che più segna l’immagine del secolo. Grandi monumenti, effetti teatrali e scenografici, virtuosismo e decoratività sono gli ingredienti che nascono soprattutto dal genio di Gian Lorenzo Bernini, che si può senz’altro considerare l’esponente più importante della scultura barocca.

Decorazione ed illusione

Uno dei parametri che meglio definiscono la posizione estetica del barocco è dato dal concetto di «immagine», quale apparenza illusoria di qualcosa che nella realtà può anche essere diverso. In pratica è proprio nell’età barocca che si apre una separazione tra l’essere e l’apparire dove il secondo termine prende una sua indipendenza dal primo al punto che non sempre, o quasi mai, ciò che si vede è ciò che è. Ciò che viene a modificarsi è il rapporto fondamentale tra rappresentazione e conoscenza. Durante l’età umanistica, la conoscenza attraverso i sensi aveva un

valore positivo: cercando di capire ciò che si osservava si acquisiva una nuova comprensione del reale. Era un notevole progresso rispetto ad una conoscenza che in età medievale era ammessa solo come interpretazione simbolica delle sacre scritture. E in età umanistica artista e scienziato (anche se per quell’età è improprio usare

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questo secondo termine) potevano ancora essere la stessa persona. Nel Seicento ciò non è più possibile. La nascita delle scienze sperimentali e i progressi delle discipline matematiche hanno portato la conoscenza in ambiti diversi da quelli esperibili attraverso i sensi. Anzi, la conoscenza attraverso i sensi viene messa decisamente in crisi, se pensiamo a quanto questi possono essere fallaci come nel caso della sfericità della terra o del suo movimento rotatorio e di rivoluzione intorno al sole. In pratica non sono più i sensi, ma l’intelletto, la chiave di volta per accedere alla conoscenza del vero. In questa inaspettata ma inevitabile evoluzione, l’arte finisce per restare confinata al rango di attività che controlla solo le apparenze, senza doversi più preoccupare del vero: diviene un’attività finalizzata unicamente al decoro. Ciò finisce per essere in linea anche con l’aspettativa del tempo, dove il problema del decoro, inteso come rappresentazione di sé nel contesto della società, diviene punto nodale della vita sociale del tempo. Ovvero, mai come in questo tempo, apparire assume un valore di fondamentale importanza e universalmente accettato. Ma perché apparire ed essere non possono, o non riescono, a coincidere nel XVII secolo? Uno dei motivi è sicuramente rintracciabile nella evoluzione del rapporto chiesa-società a seguito della Controriforma e della imposizione di una ortodossia religiosa attraverso l’uso dei tribunali dell’Inquisizione. È sicuramente vero che nel XVII secolo vengono gettate le basi del moderno pensiero scientifico, ma è altrettanto vero che i conflitti con il pensiero religioso furono altamente drammatici, come nel caso di Galileo Galilei. Il Seicento non fu certo un secolo in cui era facile vivere, e «salvare le apparenze» poteva risultare molto vitale per la propria sopravvivenza, anche a costo della verità. Ma di certo un altro motivo di questa aumentata importanza dell’apparire va rintracciato nell’aumento della ricchezza che investì l’Europa dopo lo sfruttamento delle colonie da parte delle nazioni più attive nelle conquiste militari, come la Spagna o l’Inghilterra o più attrezzate nei commerci marittimi e internazionali come i Paesi Bassi e il Portogallo. L’aumento di benessere ebbe come conseguenza un divario maggiore tra classi ricche (aristocratici, ecclesiastici, borghesi, militari e mercanti) e classi povere (contadini, artigiani e proletari in genere), e siccome l’arte rimase ad ovvio ed esclusivo servizio dei primi, non poteva che esaltare la loro condizione di decoro quale segno di potere ed importanza. Se si entra in una siffatta mentalità è ovvio che la possibilità di controllare l’immagine, fino al limite dell’illusione, è un’attività molto apprezzata, ma di driore: non si è mai certi se ciò che si vede è vero o è solo un’illusione creata ad arte.

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L’ARCHITETTURA BAROCCA

Lo stile barocco

Uno dei primi parametri nel definire lo stile barocco è sicuramente l’uso privilegiato che si fece della linea curva. Nulla procede per linee rette ma tutto deve prendere andamenti sinuosi: persino le gambe di una sedia o di un tavolo devono essere curvi, anche se ciò non sempre può essere razionale. Le curve che un artista barocco usa non sono mai semplici, quali un cerchio, ma sono sempre più complesse. Si va dalle ellissi alle spirali, con una preferenza per tutte le curve a costruzione policentrica. Tanto meglio se poi i motivi si ottengono da intrecci di più andamenti curvi.

Chiesa di Sant'Ivo alla Sapienza, Roma

Un altro parametro stilistico del barocco è sicuramente la complessità. Nulla deve essere semplice, ma deve apparire come il frutto di un virtuosismo spinto agli estremi del possibile. In pratica l’effetto che un’opera barocca deve suscitare è sempre la meraviglia. Dinanzi ad essa si doveva restare a bocca aperta, chiedendosi come fosse possibile realizzare una cosa del genere..

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Un altro parametro del barocco può essere considerato l’horror vacui. Con tale termine si indica quell’atteggiamento di non lasciare alcun vuoto nella realizzazione di un’opera. In un quadro, ad esempio, ogni centimetro della superficie veniva sfruttato per inserire quante più figure possibili. In una superficie architettonica non vi era neppure un angoletto piccolo e nascosto che non veniva stuccato con qualche cornice dorata o con qualche inserto di finto marmo. Ciò produce la sensazione che un’opera barocca abbia una «densità» eccessiva: una pietanza con troppi ingredienti. Altro elemento tipico del barocco è ovviamente l’effetto illusionistico. Ciò è intimamente legato all’atteggiamento di considerare l’arte soprattutto come decorazione. Per cui i finti marmi o le dorature erano utilizzate in sovrabbondanza, per creare l’illusione di preziosità non reali ma solo apparenti. Ma l’effetto illusionistico è utilizzato anche in pittura e in scultura. Nel primo caso la grande padronanza tecnica della prospettiva consentiva di creare effetti illusionistici di grande spettacolarità, come avveniva spesso nelle grandi decorazioni ad affresco. In scultura la padronanza tecnica al limite del virtuosismo più esasperato, consentiva di imitare nel duro marmo aspetti di materiali più morbidi con effetti illusionistici straordinari.

Duomo di Milano

Un ultimo parametro dello stile barocco è infine l’effetto scenografico. Le opere barocche, in particolare quelle architettoniche e monumentali in genere, costituiscono sempre dei complessi molto estesi che segnano con la loro presenza tutto lo spazio disponibile. In tal modo il barocco è la quinta teatrale per eccellenza che faceva da cornice alla vita del tempo, anch’essa regolata da aspetti e cerimoniali improntati a grande decoro.

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Nel corso del Seicento l’architettura svolgerà sempre più un ruolo trainante per definire i nuovi parametri stilistici del barocco. In realtà, come abbiamo già detto sopra, il barocco è uno stile che trova la sua maggior definizione proprio in ambito architettonico, al punto che appare congruo parlare di architettura barocca, meno congruo parlare di uno pittura o di una scultura barocche.

Anche in architettura il parametro stilistico fondamentale fu il decorativismo eccessivo e ridondante, intendendo con il termine «decorazione» un qualcosa che è aggiunto per abbellire. Questo abbellimento era quindi un qualcosa di applicato, di sovrapposto, che non nasceva dalla sostanza delle cose. Per cui si venne a creare anche in architettura uno iato tra essenza ed apparenza. Negli edifici barocchi, la struttura e l’aspetto dell’edificio erano considerati come momenti separati. Il primo, la struttura, seguiva logiche sue proprie, il secondo, l’aspetto, veniva affidato alle decorazioni aggiunte con marmi e stucchi. Queste decorazioni erano quasi una pelle dell’edificio, che poteva anche essere tolta, senza che la costruzione perdeva la sua staticità o la sua funzionalità, ma che sicuramente perdeva la sua bellezza. Quindi, la differenza tra rinascimento e barocco, in architettura, si basava su questa diversa concezione dell’edificio. L’architetto rinascimentale cercava la bellezza nella giusta proporzionalità delle parti dell’edificio, che quindi risultava gradevole all’occhio per il senso di armonia che suscitava. E abbiamo visto che, per far ciò, l’architetto rinascimentale, usava, come strumento progettuale, gli ordini architettonici, affidando ad essi anche la decorazione dell’edificio. L’architetto barocco, invece, non cercava un senso di pacato e sereno godimento estetico, ma cercava di stupire, di suscitare una reazione forte di meraviglia. E per far ciò ricorreva alla decorazione eccessiva e fantasiosa, che creasse così un effetto di ricchezza e preziosità. Tutto questo decorativismo finì per creare, in realtà, un effetto scenografico. Le facciate degli edifici divenivano le quinte di uno spazio scenico, che erano le vie e le piazze cittadine. Il barocco ebbe, infatti, una diversa concezione degli spazi urbani e dell’urbanistica. Anche qui furono bandite le regolari geometrie preferite dagli architetti rinascimentali, che disegnavano città dalle forme perfette. Ma soprattutto cambiò l’atteggiamento della tecnica di intervento urbano. L’edificio rinascimentale aveva un principio di regolarità geometrica che doveva imporsi sugli spazi circostanti, che dovevano loro adattarsi all’edificio, e non viceversa. In realtà, quanto fosse pretestuosa e difficilmente perseguibile una simile ottica, apparve alla fine evidente. E gli architetti barocchi, piuttosto che modificare gli spazi urbani in funzione dell’edificio che andavano a progettare, preferirono adattare quest’ultimo al contesto, inserendolo senza forzature eccessive. Le città, in cui si trovarono ad operare sia gli architetti rinascimentali sia barocchi, si erano in larga parte formate e modificate nel medioevo, secondo visioni quindi tutt’altro che geometriche. Le città, tranne parti ben limitate, avevano per lo più forme irregolari.

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L’architetto barocco, senza nessuna pretesa di regolarizzare l’irregolare, sfruttò anzi tale complessità morfologica per ottenere spazi urbani più mossi e ricchi di scorci suggestivi.

Baldacchino di San Pietro

Alla fine, l’architetto barocco, dato che aveva concettualmente separato la struttura dalla decorazione, finì per modificare l’aspetto delle città, se non la struttura, molto di più di quanto avessero fatto gli architetti precedenti. Infatti in questo periodo, si provvide ad un sostanziale «rinnovo» urbano, che interessò facciate di palazzi, o interni di chiese, che assunsero un aspetto decisamente barocco. La nuova architettura, abbiamo detto, instaurava un rapporto nuovo tra edifici e spazi urbani. Gli ambiti cittadini erano considerati alla stregua di spazi teatrali, e i prospetti degli edifici fungevano da quinte scenografiche. Ma gli spazi urbani non si compongono solo di edifici. In essi vi sono fontane, scalinate, monumenti ed altro, che arricchiscono questi spazi di altre presenze significative. Ed il barocco dedicò notevole attenzione a questi elementi di «arredo urbano». A Roma, notevoli esempi sono la Fontana di Trevi e la scalinata di Trinità dei Monti, per citare solo due tra gli esempi più noti. Un dato stilistico fondamentale del barocco fu la linea curva. In questo periodo, infatti, nulla era concepito e realizzato secondo linee rette, ma sempre secondo linee sinuose. Il rinascimento aveva idealmente adottato come propria cifra stilistica il cerchio, che appariva la figura geometrica più perfetta ed armoniosa. Altre linee

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curve erano considerate irrazionali o bizzarre. Il barocco, invece, preferiva curvature più complesse, quali ellissi, parabole, iperboli, spirali e così via. E queste curve non erano mai esibite in modo esplicito, ma erano ulteriormente complicate da intersezioni o sovrapposizioni, così che risultassero quasi indecifrabili. La concezione della curva ci permette di distinguere due momenti nella vicenda del barocco: una prima fase, in cui si cercava di movimentare secondo linee curve anche la struttura e la spazialità degli edifici; una seconda fase, in cui gli edifici divennero più regolari, e adottarono linee curve solo nella decorazione.

S.Carlo alle Quattro Fontane di Borromini

La prima fase è senz’altro quella più interessante ed innovativa. Essa prese avvio a Roma, agli inizi del Seicento, grazie ad alcuni architetti di notevole livello artistico: Francesco Borromini, Gian Lorenzo Bernini e Pietro da Cortona.

Benché i loro edifici furono il frutto di una evoluzione continua, che trovava le premesse nell’ultima architettura rinascimentale romana, tuttavia furono concepiti con una idea rivoluzionaria: quella di rendere curve le piante degli edifici. Soprattutto il Borromini, in alcune chiese come S. Carlo alle Quattro Fontane o Sant’Ivo alla Sapienza, ruppe decisamente con le tipologie fino allora adottate, inventandosi delle chiese, ad aula unica, dalla morfologia e dalla spazialità assolutamente originali. Il Bernini, nel disegnare il colonnato di San Pietro, adottò un’ellissi, e raccordò il colonnato alla facciata con due linee non parallele ma convergenti: una chiara dimostrazione del nuovo gusto barocco. Pietro da Cortona, nella chiesa di S. Maria della Pace, curvò a tal punto gli elementi del prospetto, da creare un inedito rapporto tra edificio e spazio urbano. La curvatura dei prospetti divenne uno dei motivi più felici dell’architettura barocca a Roma, trovando applicazioni notevoli per tutto il Seicento e il Settecento.

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Come era già successo precedentemente, con altri ordini religiosi o monastici, il barocco divenne lo stile architettonico dei gesuiti, che esportarono questo stile anche nelle loro missioni estere. Ma divenne anche lo stile della controriforma cattolica. Il Concilio di Trento affrontò, oltre a varie questioni dottrinarie, anche aspetti della liturgia, che ebbero notevoli riflessi sull’architettura religiosa. Nel riadattare le chiese a queste nuove liturgie post-tridentine, molti edifici di costruzione medievale furono «rinnovati», mediante abbellimenti con stucchi, marmi e decorazioni varie, che fecero assumere a queste l’aspetto di chiese barocche. In campo europeo l’architettura barocca ebbe notevole diffusione, soprattutto nei paesi latini. Il Portogallo e la Spagna ebbero un’adesione immediata a questo stile, esportandolo anche nelle loro colonie dell’America Latina. Dal Messico all’Argentina, dalla Bolivia al Cile, il barocco divenne lo stile dei nuovi conquistatori. L’Europa centro-settentrionale si convertì al barocco soprattutto alla fine del XVII secolo, e dalla Francia all’Austria, trovò applicazioni quanto mai fantasiose e ricche. Divenne lo stile del Re Sole, e degli Asburgo, oltre che dei Borbone, creando quel mondo di eleganza e di sfarzosità nelle corti europee del XVIII secolo.

La decorazione barocca

Nei primi decenni del Seicento si assiste a un progressivo superamento dell’illusionismo prospettico rinascimentale e all’affermazione di una nuova concezione spaziale e decorativa capace di suggerire l’illusione di spazi aperti e infiniti, protratti oltre i limiti materiali dell’architettura reale. Inaugurata dal grande affresco di Pietro da Cortona nel salone di Palazzo Barberini, la decorazione barocca ha il suo centro propulsore in Roma da dove si diffonde nelle più importanti città italiane e, con qualche resistenza, in Europa, dove i modelli italiani si affermano solo allo scadere del secolo con caratteristiche che anticipano il gusto rocaille.

Lo spazio infinito e la “natura-spettacolo”

Nel panorama della civiltà figurativa del Seicento la decorazione ad affresco rappresenta un’esperienza fondamentale in cui si realizzano al massimo grado gli aspetti più vistosi e spettacolari della poetica barocca. Nei vasti spazi affrescati all’interno dei palazzi e delle chiese gli artisti affermano soprattutto il primato dell’immaginazione sull’intelletto e l’assoluta fiducia nell’ingegno e nella tecnica, quali riserve di energie capaci di suscitare illusioni, suggestioni ed emozioni. In particolare l’illusiva rappresentazione dello spazio come “infinita continuità spaziale” diviene il tema fondamentale della decorazione barocca, traducendo in termini visivi la nuova concezione del mondo e il nuovo sentimento della natura scaturiti dalle scoperte scientifiche di Copernico, Keplero e Galilei. La fine della concezione geocentrica dell’universo aveva significato per l’uomo non solo la perdita di ogni

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centralità, ma anche la coscienza di essere parte di un universo infinito, regolato da leggi eterne, estranee alla logica e al controllo della mente umana. All’inizio del secolo questo presentimento dell’infinito aveva profondamente turbato la generazione di Giordano Bruno, Campanella e Caravaggio, generando inquietudine e smarrimento. Nei decenni successivi la situazione muta rapidamente e, in un ambiente ormai libero da conflitti morali, si stabilisce un rapporto più fiducioso con la nuova realtà e le sue apparenze: nell’infinita molteplicità e varietà dei suoi aspetti la natura appare alle nuove generazioni come uno spettacolo esaltante e grandioso di cui si sentono intensamente partecipi. Come ha scritto Briganti, “mettere in scena il mondo” diviene l’aspirazione dei grandi decoratori barocchiche, recuperata piena fiducia nei propri mezzi espressivi, moltiplicano gli strumenti adatti a suggerire“il nuovo sentimento turbinoso e centrifugo dell’infinito di natura” attraverso l’illusione di spazi aperti, protratti oltre ogni limite materiale e popolati di figure fluttuanti nella vastità di cieli luminosi.

Questa visione del mondo, così moderna e vitale, e questa rinnovata esuberanza creativa si legano ben presto alle aspirazioni di una ristretta minoranza laica ed ecclesiastica che, nel contesto di più favorevoli condizioni storiche, conferisce all’arte un’investitura ufficiale, trasformandola in uno strumento efficacissimo di persuasione e propaganda politica e religiosa. Mentre i sovrani chiedono all’arte di assecondare le proprie ambizioni e di legittimare il proprio potere celebrandone i benefici, la Chiesa, abbandonata la lotta contro il protestantesimo, si serve del linguaggio delle immagini quale strumento di comunicazione per riaffermare la propria autorità e avviare una politica di autoglorificazione.

Nasce così, alla fine del terzo decennio, la grande stagione decorativa del barocco che avrà in Roma un formidabile centro propulsore di idee e soluzioni. Qui la nuova Maniera è inaugurata dallo spettacolare affresco dipinto da Pietro da Cortona, tra il 1633 e il 1639, sul soffitto del salone di Palazzo Barberini. Sullo spazio immenso della volta il tema della natura-spettacolo si coniuga con le intenzioni celebrative del nuovo pontefice Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini, che fin dall’anno della sua elezione (1623) aveva promosso importanti imprese architettoniche e decorative, convertendo l’arte alla causa di un cattolicesimo ormai rassicurato e trionfante. Il soffitto Barberini si colloca nella vicenda decorativa del Seicento quale modello per tutte le successive varianti proposte dai più qualificati esponenti del movimento barocco. A monte di questo exploit si devono tuttavia segnalare alcuni episodi nei quali la critica ha individuato da tempo i precedenti delle tendenze affermatesi dopo il 1630. Si tratta infatti di soluzioni che, pur muovendosi ancora nel solco della tradizione prospettica rinascimentale, aprono decisamente verso una nuova spazialità illusiva e coinvolgente. Ciò vale innanzitutto per il precedente illustre della galleria Farnese (1597-1601), dove Annibale Carracci aveva immaginato le varie scene come finti quadri appesi alla struttura architettonica dipinta e aveva creato l’illusione di una aerea galleria di

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Il Carro dell’Aurora, realizzato dal Guercino, all’interno della Casina dell’Aurora

pitture sospesa sul capo dello spettatore. Tuttavia la complessa struttura rispettava ancora i limiti e la compattezza della volta, concepita come entità reale e spazialmente definita. La svolta decisiva si determina, vent’anni dopo, a opera di due allievi dei Carracci, Guercino e Lanfranco, che nella decorazione del casino Ludovisi (1621-23) e della cupola di Sant’Andrea della Valle (1625-27) anticipano l’illusionismo aereo del barocco spalancando la visione sullo scenario di cieli colorati e luminosi. Nel soffitto del Casino Ludovisi l’apparizione del carro dell’Aurora, che solca il cielo aprendosi un varco tra le nubi, irrompe improvvisa e inattesa, sovrapponendosi alla trama serrata delle architetture in prospettiva dipinte sulle pareti da Agostino Tassi. La libertà del colore, steso a macchia, suscita effetti di luci mutevoli e di penombre e crea l’illusione di uno spettacolo naturale vivo e palpitante. Nella cupola di Sant’Andrea della Valle il Lanfranco, dipingendo la Gloria celeste con la Vergine Assunta, recupera la straordinaria invenzione del Correggio che, un secolo prima, aveva concepito, nella cupola del duomo di Parma (1526-28), uno spazio aperto e senza limiti, generato dal libero disporsi delle figure entro un vorticoso moto a spirale. La versione aggiornata proposta dal Lanfranco rilancia l’attualità dell’invenzione correggesca che diviene modello per analoghe imprese decorative fino al Settecento inoltrato.

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Gli sviluppi della decorazione barocca in Italia

Dopo l’episodio fondamentale del soffitto Barberini la decorazione barocca si sviluppa attraverso le proposte, diverse ma complementari, elaborate ancora da Pietro da Cortona, dal genovese Giovanni Battista Gaulli, detto il Baciccio, e dal padre gesuita Andrea Pozzo, secondo una traiettoria che giunge a coprire tutto il secolo. All’inizio del quinto decennio la decorazione di alcune sale di Palazzo Pitti a Firenze (1641-47) offre a Pietro da Cortona l’occasione di mettere al servizio delle ambizioni mondane del granduca Ferdinando II le conquiste del nuovo stile. Richiedendo all’artista l’illustrazione, in chiave mitologica, delle virtù necessarie a un principe, Ferdinando II mostra infatti di allinearsi sulle posizioni di quello “spirito supernazionale che formava le basi dell’assolutismo europeo”. Anche in questa occasione l’artista riesce a tradurre i complessi soggetti allegorici in immagini fortemente evocative dove l’atmosfera degli antichi miti rivive in un clima di serena elegia (sala di Venere) o di avventurosa epopea (sala di Marte). In alcune sale l’esuberante vitalità cortonesca coinvolge anche l’apparato decorativo di stucchi bianchi e dorati che conferiscono all’insieme una straordinaria luminosità. Questa combinazione di pittura e ornato plastico troverà ampio seguito soprattutto in Francia, dove il modello fiorentino sarà esportato da un allievo tra i più dotati di Pietro da Cortona, Giovan Francesco Romanelli. L’inesauribile creatività del Cortona ha modo di manifestarsi ancora negli affreschi della Chiesa Nuova e nella decorazione della galleria di Palazzo Doria-Pamphilj in piazza Navona, con soluzioni in grado di esercitare un’influenza determinante sugli artisti contemporanei e sulle successive generazioni. Una nuova concezione, indipendente dai modelli cortoneschi, è invece quella elaborata dal Baciccio nella volta della navata della Chiesa del Gesù a Roma (1672-1679). Nel grandioso affresco con il Trionfo del nome di Gesù, il Baciccio rimedita il precedente della cupola del Correggio e, contemporaneamente, si impegna in una spettacolare trasposizione delle idee plastico-decorative espresse dal Bernini nella volta della Cappella Cornaro e nella cattedra di San Pietro, realizzando la fusione illusiva e materiale di architettura, scultura e pittura. La pittura ad affresco supera infatti il limite della cornice e dilaga sulle figure modellate in stucco che segnano il passaggio tra lo spazio dipinto e l’architettura reale, tra artificio e realtà. La luce che si irradia dal monogramma di Cristo suscita intensi effetti chiaroscurali e assume una duplice valenza, atmosferica e simbolica, con evidente riferimento all’azione della grazia e all’opera di salvezza del Cristo e della Chiesa: mentre i corpi dei dannati precipitano nel vuoto e nelle tenebre, le anime dei beati, attirate dall’amore divino, si perdono nelle profondità diafane del cielo. L’illusionismo visionario del Gaulli si impone come un nuovo “segno” del barocco e come “il simbolo più chiaramente allusivo del carattere del secolo, della sua retorica e della sua accesa sensibilità religiosa” (Spinosa). Questo esempio eserciterà una vasta influenza nei centri che avranno più intensi rapporti con il barocco romano, in

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La volta centrale della navata della chiesa del Santissimo Nome di Gesù, a Roma, ospita il capolavoro pittorico di Giovan Battista

Gaulli, detto “Baciccio” (1639-1709). Si tratta dell’affresco intitolato “Trionfo del Nome di Gesù”. L’artista genovese tra il 1674 e il 1679 fu introdotto a lavorare nella chiesa madre della Compagnia di Gesù grazie ai buoni uffici di Bernini. Il soffitto si

spalanca davanti allo stupore dello spettatore: le immagini, investite dal raggio di luce che parte dal centrale “Monogramma

di Cristo”, esplodono interagendo, grazie anche alla sapiente ombreggiatura realizzata sul bordo inferiore della cornice, con

l’apparato figurativo in legno e stucco realizzato, su disegno dello stesso Gaulli, da Antonio Raggi e Leonardo Reti

particolare a Genova dove, nella seconda metà del Seicento, si sviluppa una maniera decorativa originale e singolarissima. In questa città, che aveva mantenuto costanti rapporti economici e culturali con la Spagna e le Fiandre e si configurava quale punto d’incontro di influenze culturali diverse, le soluzioni del barocco romano si combinano con il ricco repertorio

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decorativo dei pittori quadraturisti, legati alla tradizione bolognese-emiliana (Agostino Mitelli, Angelo Michele Colonna, Andrea Sighizzi, Enrico Haffner). Questi artisti avevano elaborato una forma autonoma di illusionismo spaziale basato su complesse architetture dipinte, organizzate secondo una logica rigorosamente prospettica, e fastosamente ornate con cariatidi, putti, fauni e ninfe che si accampano tra ghirlande, cesti di fiori, drappi ed emblemi. Dalla sintesi di queste due diverse tendenze nascono episodi di grande ricchezza ed esuberanza decorativa di cui sono splendidi esempi gli interventi di Domenico Piola e Gregorio de Ferrari in Palazzo Brignole (ora Rosso). Nei soffitti delle varie sale gli affreschi, raffiguranti le allegorie delle stagioni, sono racchiusi entro ricche cornici, ora dipinte, ora morbidamente modellate in stucco, con una profusione di ornamenti di gusto già settecentesco. Anche la gamma delicata delle tinte, la rapidità del tocco pittorico e la mobilità delle luci anticipano gli effetti preziosi e raffinati della decorazione rocaille. Decisiva per i futuri sviluppi della decorazione settecentesca si rivela anche la vicenda pittorica del napoletano Luca Giordano che, sulla base di una formazione eclettica, realizza una sintesi originalissima della moderna cultura romana (Pietro da Cortona, Bernini e Baciccio) e della tradizione cromatica veneziana (Tiziano e Veronese). Talento istintivo, dotato di una straordinaria rapidità di esecuzione, Luca Giordano oppone alla retorica del linguaggio barocco un fare più disinvolto e stempera il contenuto aulico dei soggetti in un racconto fantasioso e un po’ svagato, riscattato da un pittoricismo che plasma le forme in una materia cromatica luminosissima e trasparente. La facile vena di questo artista è pienamente dispiegata nel capolavoro della maturità, la decorazione della galleria del Palazzo Medici-Riccardi a Firenze. L’opera fu realizzata in due tempi. Dopo aver eseguito lo sfondato al centro con l’ Apoteosi degli ultimi Medici, Ferdinando II e Cosimo III(1682), alla ripresa dei lavori (1685) Luca Giordano completa la decorazione sviluppando sopra il cornicione, lungo tutto il perimetro della volta, il racconto immaginoso delle Vicende della vita umana evocate attraverso le immagini del mito e dell’allegoria. Quanto sia stato presente nella mente del Giordano il precedente di Pietro da Cortona è evidente non solo nel ritmo incalzante della narrazione, che si snoda senza soluzione di continuità come nella sala di Marte in Palazzo Pitti, ma soprattutto nella tecnica sciolta e corsiva, nella luminosa trasparenza dei colori, nel tono poetico ed evocativo che, come nella sala della Stufa, ripropone il sogno di una perfetta armonia tra l’uomo e la natura. Riplasmata dalla fervida immaginazione dell’artista, anche l’allegoria perde ogni complessità concettuale per assumere il tono dell’idillio e della favola. In seguito Luca Giordano abbandona i modelli cortoneschi per sperimentare le possibilità di una spazialità sempre più dilatata e illusiva. Dalle imprese condotte durante il prolungato soggiorno in Spagna (1692-1702) fino alla cupoladella Cappella del Tesoro nella certosa di San Martino (1703-1704) a Napoli, è un crescendo di soluzioni decorative verso la conquista di una scrittura pittorica sempre più rapida e abbreviata e di una spazialità sempre più dilatata, luminosa ed evanescente. I risultati

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Apoteosi degli ultimi Medici

raggiunti costituiscono l’interpretazione più moderna della decorazione barocca e il precedente più decisivo per gli sviluppi della decorazione europea nel Settecento. Illusionismo aereo e virtuosismo prospettico si saldano abilmente nell’ultima grande impresa del barocco romano promossa dalla propaganda dei Gesuiti a gloria dell’ordine e del suo fondatore. Nel Trionfo di sant’Ignazio di Loyola (1682-94), dipinto nella volta della chiesa romana dedicata al santo, il padre gesuita Andrea Pozzo sospende sullo spazio della navata una nuova chiesa, impostando una scenografia architettonica di spericolata bravura e di straordinario rigore. La costruzione frena, entro un’inflessibile gabbia prospettica, il libero espandersi delle figure che si accampano, dense di risalti e di colore, tra gli scorci vertiginosi delle architetture. Andrea Pozzo, che alla pratica pittorica unisce un’elaborazione teorica (è suo il trattato Prospettiva de’ pittori e architetti, 1693-98), getta le basi per l’attività dei tanti quadraturisti e pittori d’ornato attivi nel Settecento e apre la strada alla scenografia e alle geniali invenzioni di Filippo Juvarra e dei Bibiena. Dopo il trasferimento a Vienna di Andrea Pozzo, questa variante dell’illusionismo barocco troverà seguito soprattutto in area tedesca presso una schiera di decoratori tardobarocchi e rococò.

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Diffusione e resistenze in Europa

Fin dopo la metà del secolo la decorazione barocca resta un fenomeno esclusivamente italiano, contrastato nelle altre aree europee da situazioni storiche e culturali che ne ritardano l’affermazione. In alcuni Paesi la maniera barocca non viene neppure sperimentata, come nell’Olanda borghese e calvinistadove l’assenza di un’arte religiosa e di una committenza aristocratica fa cadere ogni interesse per un linguaggio colto, aulico e celebrativo. Nel Belgio, ultima roccaforte del cattolicesimo nel Nord Europa, la riaffermazione del prestigio della Chiesa passa attraverso l’arte barocca di Rubens, van Dyck e Jordaens, ma la grande decorazione rimane estranea all’attività di questi artisti per

Ritratto di Charles II, Antony Van Dyck

l’impossibilità di praticare, in un clima umido e freddo, la tecnica dell’affresco. La decorazione di ampi spazi viene risolta da Rubens mediante cicli di grandi tele disposte lungo le pareti o sui soffitti come nella chiesa dei Gesuiti di Anversa (1620), nella galleria di Maria de’ Medici a Parigi (1625) e nella Banqueting Hall di Whitehall a Londra (intorno al 1635), unico esempio di decorazione realizzato da Rubens ancora nella sistemazione originaria. Le tele, di forma e dimensioni diverse, sono inserite entro una cesellatissima cornice di stucco bianco e dorato, disegnata da Inigo Jones, che conferisce all’insieme un effetto visivo unitario.

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In Francia i tentativi del Richelieu e del Mazzarino di attirare a Parigi gli artisti che a Roma avevano promosso il nuovo corso dell’arte barocca trovano un serio ostacolo nel mecenatismo dei Barberini, che garantiscono agli artisti condizioni di lavoro e di successo tali da rendere scarsamente competitiva ogni altra offerta. Solo dopo la morte di Urbano VIII, un allievo di Pietro da Cortona, Giovan Francesco Romanelli, raggiunge la capitale francese, dove ottiene l’incarico di decorare la galleria superiore del Palazzo del Mazzarino (1646), oggi sede della Bibliothèque Nationale. La volta lunga e stretta della galleria non si adattava alla realizzazione di un affresco unitario come quello del soffitto Barberini a Roma e Romanelli divide la superficie in una serie di scomparti con storie mitologiche dipinte in uno stile piacevole, caratterizzato da un felice equilibrio tra fantasia inventiva e decoro formale. Questa formula di mediazione, tesa a frenare l’enfasi barocca entro una rigorosa disciplina compositiva, viene riproposta con successo nella decorazione dell’appartamento d’estate diAnna d’Austria nel Palazzo del Louvre (1655-1657), dove Romanelli realizza il suo capolavoro. L’eleganza e l’armonia delle soluzioni adottate nelle varie sale dal Romanelli si rivelano adeguate agli orientamenti classicisti della cultura francese contemporanea, le cui posizioni oltranziste avrebbero determinato, dieci anni dopo, il clamoroso insuccesso del viaggio a Parigi del Bernini.

Le resistenze del gusto francese agli eccessi del barocco trovano conferma nel sistema decorativo sviluppato da Charles Le Brun, promotore di tutte le imprese artistiche realizzate a gloria del Re Sole e il più autorevole interprete del grand goût,

Apoteosi di Luigi IV di Charles Le Brun

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lo stile fastoso e severo che si afferma quale proiezione dello splendore della monarchia e del potere assoluto del sovrano. I caratteri del nuovo stile, che tende a contenere l’esuberanza dei modelli italiani entro un’articolazione degli spazi più misurata e solenne, sono già presenti nella decorazione della galleria di Apollo nel Palazzo del Louvre, ricostruita dopo un incendio su progetto dello stesso Le Brun (1660). Ma è nella reggia di Versailles che la variante francese della decorazione barocca si precisa nelle forme di un ornato scultoreo sovraccarico e sfarzoso, concepito per far da cornice alle tele dipinte che, con i loro colori un po’ cupi, sostituiscono la chiarità dell’universo cromatico dell’affresco. Lungo un percorso che prendeva avvio dallo spettacolare scalone degli Ambasciatori,

Vulcano (Losanna - Collezione privata) Johann Michael Rottmayr

oggi distrutto, per proseguire nelle stanze dell’Appartamento Reale e concludersi nella celebre galleria degli Specchi, tutto, dalla preziosità dei materiali e dell’arredo, alla ricchezza dell’ornato, alla profusione dell’oro, concorreva a un iperbolico sfoggio di sovranità. Il culmine dello spettacolo era rappresentato dalla Galleria degli Specchi (1679-1684). Qui la luce naturale, moltiplicata dagli specchi, dalle dorature degli stucchi e dagli arredi in argento, materializzava l’immagine-simbolo del Re come Sole che si irradia sulla nazione. L’apoteosi del sovrano trovava il suo compimento al centro della volta dove una serie di tele celebravano gli avvenimenti più importanti del suo regno. Destinata a far da cornice ai momenti più solenni del cerimoniale di corte, la Galleria degli Specchi rappresenta, per la grandiosità delle

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dimensioni e lo sfarzo della decorazione, l’esempio più significativo del grand goût e dello stile “Luigi XIV”.

In Austria, nonostante i frequenti contatti con la cultura artistica italiana (soprattutto bolognese e veneziana), la grande decorazione si afferma solo nell’ultimo decennio del secolo grazie all’opera di Johann Michael Rottmayr che, dopo l’esordio a fianco di Fischer von Erlach nel castello di Vranov in Moravia (1695), diviene il leader indiscusso della scuola di Vienna. Qui la decorazione ad affresco riceve un impulso decisivo con l’arrivo a corte di Andrea Pozzo (1702), che lascia nella chiesa dei Gesuiti e in Palazzo Liechtenstein, a Settecento ormai iniziato, due esempi delle possibilità illusive del linguaggio barocco e delle sue finalità apologetiche.

Anche in Spagna l’esordio della decorazione coincide, come già accennato, con l’arrivo a Madrid, su invito di Carlo II, di Luca Giordano nel 1692. La sua pittura, veloce e vibrante, inonda di luce solare e di colore gli spazi austeri dell’Escorial, spalancando sulla volta dell’Escalera del monastero di San Lorenzo (1692-93) lo spettacolo affollato e coloratissimo della Gloria degli Asburgo, dove le ragioni del fare artistico hanno finalmente il sopravvento sull’impianto retorico. Ancora più spettacolare per vastità di spazi e grandiosità di concezione si rivela la decorazione della sala di ricevimento degli ambasciatori, il Casón del Buen Retiro a Madrid (1697). Qui, l’ Istituzione dell’ordine del Toson d’oro si traduce in una fantasmagoria di figure fluttuanti entro uno spazio aereo che ruota con moto incessante attorno alla grande sfera delle costellazioni, “una bolla di luce” sospesa al centro della volta come un’apparizione. L’illusionismo del barocco tocca qui uno dei suoi vertici, un punto d’arrivo con cui lo stesso Tiepolo dovrà fare i conti quando sarà chiamato a decorare il Palazzo Reale di Madrid e a celebrare i fasti della nuova dinastia dei Borbone (1762). Anche le altre imprese realizzate dal Giordano nella cattedrale di Toledo e nella chiesa di Sant’Antonio dei Portoghesi ancora a Madrid confermano la fervida fantasia dell’artista, la sua vena fresca e brillante, sostenuta da un mestiere eccezionale, capace di sottigliezze e trasparenze che costituiranno un lascito prezioso per la formazione di Goya.

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GIAN LORENZO BERNINI

Plutone rapisce Proserpina, Gian Lorenzo Bernini

Pochi artisti sono riusciti a incarnare compiutamente lo spirito di tutto un secolo come Bernini ha fatto con il Seicento: nell’immaginario collettivo egli è sinonimo di barocco. E forse nessun altro ha segnato il volto di una grande città tanto a fondo quanto Bernini quello di Roma.

La difficile eredità di Michelangelo aveva lungamente condizionato i successivi sviluppi della scultura romana che, all’inizio del Seicento, si manteneva ancora in larga misura fedele alla cultura tardomanierista, senza raccogliere le fondamentali novità elaborate in pittura da personalità come Caravaggio, Annibale Carracci e Rubens. Entro tale panorama un ruolo molto importante viene giocato dal padre di Gian Lorenzo, Pietro Bernini, scultore che ha una parte decisiva nel favorire e orientare la prodigiosa precocità del figlio: questi, da parte sua, manifesta immediatamente un forte interesse nei confronti della scultura antica, e in special modo di quella ellenistica, come testimoniano anche alcuni restauri di marmi antichi (Ermafrodito Borghese, Ares Ludovisi), compiuti durante la sua giovinezza.

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Lo scultore non ha ancora compiuto vent’anni quando il cardinale Scipione Borghese, nipote di papa Paolo V, comincia a commissionargli alcuni grandi gruppi in marmo per la sua villa al Pincio. Se generalmente agli scultori dell’epoca è affidato il compito di realizzare statue da giardino o fontane monumentali, Scipione ordina a Bernini opere pensate per essere esposte nelle sale della galleria, a confronto diretto con le celebrate statue antiche della sua collezione e con i dipinti dei maggiori pittori moderni. Nel primo gruppo, l’Enea e Anchise fuggono da Troia, si sente ancora l’influenza di Pietro, che forse imposta la composizione, lasciando poi al figlio l’esecuzione, ma già nel secondo, il Plutone rapisce Proserpina, l’azione irruente e il trattamento morbido delle carni sono già pienamente “barocchi”. L’opera più celebre della serie è l’ultima, l’Apollo e Dafne, che illustra quel passo delle Metamorfosi di Ovidio nel quale la ninfa sta per essere mutata in alloro. L’Apollo del Belvedere è il modello per quello berniniano ma il gruppo Borghese, dove è espresso in modo ineguagliato il culmine di un’azione in corso di svolgimento, mostra una tensione dinamica ignota al mondo antico. I tre gruppi, oggi collocati al centro delle rispettive sale della Galleria Borghese, sono in realtà concepiti da Bernini per essere posti contro una parete, ed avere quindi un unico punto di vista privilegiato: si tratta quasi di rilievi scultorei a tutto tondo, pensati proprio per rivaleggiare con la pittura. Agli occhi dei contemporanei apparve subito miracoloso il virtuosismo tecnico del Bernini nel differenziare le diverse superfici e l’apparente facilità con cui il marmo si presta a simulare la cedevole morbidezza dell’epidermide, le foglie sottili e i capelli mossi dal vento. La scultura, relegata in secondo piano agli inizi del Seicento, allorché i primi attori della scena artistica erano soprattutto i pittori, grazie a questi marmi diviene la vera protagonista del barocco romano.

“È gran fortuna, o cavaliere, di veder papa il cardinal Maffeo Barberino, ma assai maggiore è la nostra, che il cavalier Bernino viva nel nostro pontificato” (Baldinucci, 1682). Con tali parole, nel 1623, Urbano VIII, appena eletto al soglio pontificio, indicava eloquentemente quali sarebbero stati i propri orientamenti culturali. Il successo di Bernini è travolgente non solo nel campo della scultura ma anche in quello dell’architettura, della scenografia.

Nel 1624 è nominato architetto di San Pietro e intraprende la realizzazione del grandioso ciborio, il cosiddetto baldacchino, destinato a sovrastare la sepoltura di san Pietro. Si tratta di una monumentale struttura in bronzo parzialmente dorata, costituita da quattro colonne tortili che, sormontate da figure di angeli, vengono chiuse in alto da quattro volute alla cui progettazione prende parte Francesco Borromini. La forma evoca quella di un apparato effimero realizzato però con materiali destinati all’eternità. I lavori si protraggono per quasi dieci anni concludendosi nel 1633 e la vastità dell’impresa comporta l’impiego di un numero notevole di collaboratori. Hanno l’opportunità d’emergere in tal modo le eccezionali doti di organizzatore di Bernini,

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che, nel frattempo, impianta una grande bottega dove, nel corso di oltre mezzo secolo, avrebbero lavorato tutti i maggiori scultori del Seicento romano. Di qui in avanti l’artista è impegnato sempre più spesso in imprese monumentali, realizza cioè sculture che si devono integrare entro grandi spazi architettonici e, in molti casi, prevedono una visione a distanza. Il momento dell’ideazione prende così il sopravvento nei confronti di quello più specificamente esecutivo, affidato in larga parte agli aiuti. Nondimeno Bernini mantiene un controllo capillare su ogni fase dei lavori, intervenendo talvolta in prima persona a scolpire parti in apparenza secondarie, in realtà decisive nell’economia generale di una determinata impresa. Contemporaneamente ai lavori al Baldacchino avvia la decorazione dei quattro giganteschi piloni che sorreggono la cupola di Michelangelo nella basilica di San

Statua di San Longino, Gian Lorenzo Bernini

Pietro, progettando, nella porzione inferiore di ciascuno, quattro grandi nicchie ove trovano posto le statue di San Longino, della Veronica, di Sant’Andrea, e di Sant’Elena. Riserva a se stesso soltanto l’esecuzione della prima, affidando le altre rispettivamente a Francesco Mochi, a François Duquesnoy e a Andrea Bolgi. Longino, il legionario romano convertitosi dinanzi alla Croce, è rappresentato a braccia aperte, nel momento cruciale, allorché, levando gli occhi al cielo, esclama: “Quest’uomo è veramente il figlio di Dio”. La veemente tensione drammatica di questa gigantesca figura suscita nello spettatore un coinvolgimento emotivo così intenso e immediato da non avere precedenti nell’arte religiosa d’Occidente. Come

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sant’Andrea, anch’egli rivolge lo sguardo verso l’alto, verso il coronamento del grandioso baldacchino, dove avrebbe dovuto trovarsi una Cristo risorto, poi sostituito da una sfera per ragioni di sicurezza statica; al contrario sant’Elena e Veronica rivolgono lo sguardo verso il basso, verso cioè la mensa dell’altare posta sotto lo stesso baldacchino, dove è celebrato il mistero dell’Eucarestia. Le quattro statue dialogano così con il perno intorno al quale ruota ora tutto l’arredo della basilica, drammatizzando lo spazio della crociera nel quale è lo spettatore stesso a trovarsi coinvolto. Anche la tecnica si adatta a tali mutate esigenze espressive. Le sottigliezze esecutive dell’Apollo e Dafne cedono il posto nel San Longino a una diversa lavorazione del marmo, più sintetica, meno rifinita, che lascia bene in vista i segni della gradina, conferendo un aspetto vibrante e chiaroscurato alle superfici destinate a essere viste da lontano.

Il “ritratto parlante”

Nel 1633 Bernini, dopo quasi dieci anni di lavoro nelle vesti di direttore del cantiere del baldacchino e della crociera di San Pietro, torna a misurarsi con lo scalpello in un’opera pensata per essere vista da vicino, e torna a farlo per il suo primo grande mecenate, Scipione Borghese, che gli commissiona il proprio ritratto (Roma, Galleria

Ritratto di Costanza Bonarelli, Gian Lorenzo Bernini

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Borghese). L’artista, che a Roma nel corso degli anni Venti aveva licenziato numerosi busti di cardinali e principi, realizza uno dei suoi capolavori in quel genere, inaugurando una nuova e rivoluzionaria soluzione: il ritrattato è raffigurato con la bocca socchiusa, e quasi di tre quarti, a suggerire la transitorietà di un momento, un’azione in corso, quasi egli stesse parlando a qualcuno e si stesse muovendo. Le biografie dell’artista riportano infatti come in quel genere egli tenesse “un costume dal comune assai diverso” poiché “nel ritrarre alcuno non voleva ch’egli stesse fermo, ma ch’e’si movesse, e ch’e’parlasse, perché in tal modo, diceva egli, ch’e’vedeva tutto il suo bello, e lo contraffaceva com’egli era” (Baldinucci, 1682). Pur senza braccia, quindi, il busto ha una vitalità del tutto nuova, che Bernini riesce persino ad aumentare nel ritratto di Costanza Bonarelli (1636-38, Firenze, Bargello), di pochi anni successivo, amante infedele dello scultore, che ebbe l’onore di essere ritratta da Gian Lorenzo in un momento in cui molti potenti d’Europa avrebbero voluto un busto al grande artista senza poterlo ottenere, tante erano le commissioni da cui egli era oberato. Concepito come opera di destinazione privata, il ritratto di Costanza è un capolavoro quasi unico nella storia della scultura del Seicento europeo, che stupisce ancora oggi per l’immediatezza e la modernità. La donna è catturata nella realtà di un istante, come testimonia il volgersi improvviso del volto, lo schiudersi della bocca, l’ansia interlocutoria dello sguardo, come ad attendere una risposta che i ritratti di Bernini, abitatori di uno spazio che è il nostro, sembrano invariabilmente esigere. Nonostante l’artista, nella sua piena e tarda maturità, non acconsentisse più facilmente ad eseguire ritratti, sono i pontefici stessi a spingerlo, a volte per ragioni di opportunità politica, a piegarsi a quelle richieste: nascono così i busti, eseguiti sulla scorta di dipinti inviati allo scultore, del cardinale di Richelieu (1640-41, Parigi, Louvre) e di Carlo I d’Inghilterra (1637, distrutto nel 1698 nell’incendio del palazzo di Whitehall). Quello del più grande sovrano del tempo, Luigi XIV di Francia (Versailles, Musée du Château), Bernini lo avrebbe scolpito nel corso del suo soggiorno a Parigi del 1665, quando lascia Roma per l’unica volta nel corso della sua lunga carriera, acconsentendo al volere di Alessandro VII, che nulla può rifiutare al Re Sole in quel difficile momento.

L’unità delle arti visive

Nel 1644 la salita al soglio pontificio di Innocenzo X Pamphilj, decretando la fortuna di Borromini, sembra segnare una battuta d’arresto nel percorso trionfale dell’artista che aveva ormai monopolizzato le più importanti imprese artistiche della capitale. Ma nel 1648, allorché si andava progettando una grande fontana per piazza Navona, grazie a uno stratagemma il modello elaborato da Bernini viene mostrato al pontefice e quest’ultimo, riconoscendo la superiorità dell’invenzione berniniana, dichiara che “a chi non vuol porre in opera le cose sue, bisogna non vederle” (Baldinucci, 1682). Nella fontana dei Quattro Fiumi un obelisco antico poggia su di un plinto roccioso; con una soluzione compositiva tanto ardita quanto spettacolare il plinto è svuotato alla base, a suggerire una ingannevole precarietà della struttura, chiusa sui quattro angoli dalla raffigurazione allegorica dei quattro fiumi (Danubio, Nilo, Gange, Rio de

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Cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria

la Plata) che alludono alle varie parti del mondo. Come già il baldacchino di San Pietro, anche la fontana dei Quattro Fiumi è una geniale fusione di architettura e scultura, nella quale peraltro la realizzazione delle divinità fluviali è lasciata completamente agli allievi del maestro. Negli stessi anni, la Cappella Cornaro in Santa Maria della Vittoria (1644-1652) rappresenta la testimonianza più memorabile di come Bernini sia stato “il primo, che abbia tentato di unire l’architettura colla scultura e pittura in tal modo, che di tutte si facesse un bel composto” (Baldinucci, 1682). Nella Cappella Bernini scolpisce completamente da solo l’incredibile gruppo della Transverberazione di santa Teresa, mirabolante esercizio di virtuosismo tecnico. Negli anni in cui, ad opera del suo grande rivale, lo scultore bolognese Alessandro Algardi, si impone la fortuna di un genere nuovo della scultura monumentale, quello della pala marmorea, Bernini rifiuta di concepire l’immagine della santa in colloquio mistico con l’angelo come un rilievo, preferendo scolpirla a tutto tondo. Il confronto con la pittura, quindi, viene sempre affrontato da Bernini con le armi più tipiche dello scultore, senza mai arrivare a scimmiottare l’arte rivale realizzando una scultura bidimensionale. Gian Lorenzo è anche pittore, ma solo per diletto: di lui ci rimangono soprattutto ritratti, in particolare autoritratti, eseguiti al di fuori dei meccanismi che regolano il rapporto artista-committente. Nella Cappella Cornaro, quindi, le pitture della volta sono affidate a un allievo. Nel complesso della cappella confluiscono anche le esperienze in campo scenografico di Bernini: i membri della famiglia Cornaro, effigiati in busti di marmo che sporgono da piccoli palchi posti sulle pareti laterali, assistono infatti alla scena come a un avvenimento teatrale, reale e illusorio ad un tempo.

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I monumenti funerari

Bernini rinnova e reinventa tutti i generi della scultura: il gruppo mitologico, il busto-ritratto, la statua religiosa, la fontana e, naturalmente, anche il monumento funebre. Nel corso della sua carriera egli disegna e in parte realizza numerosi complessi funerari, ma i due più importanti sono senz’altro quelli posti, ancora una volta, in San Pietro. Si tratta dei monumenti funebri dei due pontefici ai quali è maggiormente legata la sua fortuna, Urbano VIII prima, Alessandro VII poi. Nella prima realizzazione Bernini gioca soprattutto sul contrasto tra le parti in bronzo, la figura del pontefice e il sarcofago, e quelle in marmo, le figure allegoriche laterali; nella seconda egli scardina lo schema triangolare, che proprio il monumento a Urbano VIII aveva imposto e che sarebbe poi stato ripreso infinite volte, fino almeno ad Antonio Canova, in favore di un disegno ancora più mosso, che trae profitto dalla difficile collocazione del complesso sopra una porta. Portate le figure allegoriche da due a quattro, ed eliminato il sarcofago, il monumento ha il suo elemento unificatore, e maggiormente caratterizzante, nel clamoroso motivo del panneggio rosso, realizzato in diaspro rosso di Sicilia, una nota squisitamente pittorica.

L’architettura

Negli anni della maturità Bernini ha l’occasione di realizzare tre chiese a pianta centrale, la più importante delle quali è senza dubbio Sant’Andrea al Quirinale. Posta a poca distanza da San Carlo alle Quattro Fontane, il primo capolavoro di Borromini, Sant’Andrea permette di misurare bene la distanza che divide Bernini architetto da

Chiesa di Sant’Andrea al Quirinale, Roma

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uno dei suoi maggiori rivali sulla scena artistica della Roma del Seicento. Se Borromini mostra un’inesausta fantasia e inquietudine nel modulare, attraverso movimenti concavi e convessi, la pianta ovale di partenza, Bernini si rivela, al suo confronto, un architetto quasi classicista. L’interno di Sant’Andrea è caratterizzato prima di tutto dalla sua decorazione plastica e pittorica, concepita in stretto rapporto con l’architettura, e orchestrata secondo una sola idea unificatrice, quella di trasformare la chiesa nella scena del martirio e dell’ascesa in cielo del santo, realmente in atto sotto i nostri occhi, che si compie nel passaggio dalla pala d’altare alla scultura in stucco sopra il timpano dell’altare. Agli interni spogli e drammatici delle chiese di Borromini e Pietro da Cortona, Bernini oppone un tripudio di luci e colori ottenuto con l’unione delle tre arti del disegno. Nella sua più importante realizzazione architettonica e urbanistica, la piazza di San Pietro, Bernini semplifica e affina ancora di più i suoi strumenti espressivi, materializzando l’idea semplicissima e grandiosa dell’abbraccio della Chiesa cattolica nei due lunghi bracci del colonnato, nei quali egli adotta il più sobrio degli ordini architettonici, il dorico, coronato da un’ininterrotta trabeazione. Ma ancora una volta è l’aggettivazione scultorea, con l’infinita sfilata dei santi in travertino disegnati da Bernini e realizzati dai suoi allievi, a connotare e animare tutta l’invenzione.

La religiosità

Spesso, a partire da Stendhal, si è insistito sulla ambigua qualità sentimentale della raffigurazione di santa Teresa nella Cappella Cornaro. In realtà Bernini segue fedelmente le parole della santa che ricordava come, in tale occasione, “il dolore fosse così intenso che io gridavo forte; ma contemporaneamente sentivo una tale dolcezza che mi auguravo che il dolore durasse in eterno. Era un dolore fisico ma non corporeo, benché toccasse in una certa misura anche il corpo. Era la dolcissima carezza dell’anima ad opera di Dio”. La profonda sincerità della devozione che animava lo scultore è d’altra parte più volte testimoniata dai suoi contemporanei e trova modo di manifestarsi in termini grandiosi e perfino visionari, negli anni che vanno dal 1656 al 1678, allorché, in Vaticano, egli progetta e costruisce la cattedra e l’altare del Sacramento. Con la prima, un’opera in cui architettura, pittura e scultura non sono solo unite, ma fuse in un insieme difficile persino a descriversi, trova compimento la ridefinizione dell’interno di San Pietro, che nel suo aspetto attuale si deve molto di più a Bernini che non a tutti gli architetti che, nel corso del Cinquecento, si erano alternati nella direzione del cantiere architettonico: la basilica rinascimentale si trasforma, per sempre, in quella barocca che conosciamo ancora oggi. Lo sguardo del visitatore, appena varcata la soglia, è subito catturato, attraverso l’architettura possente ma leggera del baldacchino, dalla “gran macchina” della cattedra in fondo alla tribuna. Il trionfo della gloria di angeli dorati che circonda la finestra è espressione diretta dell’esplosione di gioia della religiosità seicentesca, al pari degli angeli dell’altare del Sacramento, le cui vesti esprimono in un’unica fiammata l’ardore di quel sentimento.

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FRANCESCO BORROMINI

L’architettura di Borromini rappresenta una delle esperienze più radicali e moderne. Sviluppando una nuova concezione dello spazio, come realtà concreta e plasmabile, Borromini realizza delle costruzioni straordinariamente dinamiche, in stretto rapporto con lo spazio urbano e impreziosite da un fantasioso apparato decorativo, denso di significati simbolici, e propone un nuovo metodo di progettazione che rifiuta i principi dell’architettura rinascimentale. È l’unico artista capace di contrastare la dittatura artistica e culturale di Bernini.

Il rapporto con la tradizione rinascimentale

Chiesa di San Carlino alle Quattro Fontane a Roma di Francesco Borromini

L’architettura di Francesco Castelli, detto Borromini, tipica espressione della cultura barocca, rappresenta, nel panorama artistico del Seicento, una delle esperienze più radicali e moderne e l’affermazione di un nuovo metodo di progettazione, antidogmatico e sperimentale. Né Bernini, né Pietro da Cortona nonostante le loro innovazioni, mettono in discussione la validità dei principi e degli schemi architettonici del Cinquecento.

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Borromini invece sottopone la tradizione classica, basata sull’impiego di forme geometriche elementari e su un sistema astratto di proporzioni, a una revisione critica spregiudicata. Egli accetta il metodo geometrico non come strumento di riduzione dello spazio ad alcune forme fondamentali, ma come strumento di verifica di nuove ipotesi spaziali: attraverso complesse planimetrie generate dalla combinazione di figure geometriche che si intersecano e si sovrappongono, l’artista crea nuove tipologie, adatte alle più diverse esigenze. Alla base di questo metodo sperimentale, sottratto alla schiavitù delle regole e della tradizione, sta una nuova concezione dello spazio, non più inteso come entità astratta predeterminata, ma come realtà concreta e plasmabile, campo di forze e di tensioni che agisce sull’organismo architettonico che si inflette, assecondando o contrastando le spinte provenienti dall’interno e dall’esterno.

La conquista di un nuovo linguaggio

Questi elementi sono già compiutamente enunciati nel convento e nella chiesa di San Carlino alle Quattro Fontane a Roma (1634-1642). Si tratta della prima importante commissione ottenuta da Borromini come architetto indipendente, dopo gli anni di tirocinio trascorsi, lavorando come scalpellino e disegnatore, nei cantieri di San Pietro e di Palazzo Barberini alle dipendenze del Maderno e del Bernini (1624-1634). Nell’interno della piccola chiesa di San Carlo vero “incunabolo” dell’architettura barocca, l’artista crea un nuovo organismo che si sviluppa unitario e coerente dalla base alla cupola; il perimetro ondulato della pianta ellittica condiziona infatti tutto l’impianto, determinando il movimento delle pareti inflesse e il profilo mistilineo della robusta trabeazione. Completando l’edificio con una cupola ellittica impostata su pennacchi, Borromini giunge a sovrapporre tre strutture diverse, tradizionalmente inconciliabili. Con questo procedimento l’artista apre alla progettazione architettonica nuove possibilità che saranno esplorate soprattutto in Piemonte e nell’Europa settentrionale. La complessità del progetto aveva imposto all’artista una nuova metodologia di lavoro, un controllo diretto delle varie fasi della costruzione e una presenza costante sul cantiere. In questo contesto si assiste a una decisa rivalutazione della tecnica, non più concepita come semplice prassi, ma come elemento complementare al processo ideativo. L’abilità tecnica di Borromini, maturata fin dagli anni della formazione in Lombardia, a contatto con una tradizione costruttiva ancora medievale, ha modo di manifestarsi nella costruzione della casa dei Filippini iniziata nel 1636 e terminata, dopo alcune interruzioni, nel 1650. Qui Borromini eredita una situazione preesistente e si impegna in un’opera di ristrutturazione e razionalizzazione dei percorsi e degli ambienti realizzando “un saldo blocco commisurato alle esigenze dei committenti e nettamente caratterizzato rispetto all’edilizia circostante come edificio di interesse pubblico, destinato a particolari funzioni di residenza e attività culturali” (Portoghesi). Sul lato che si apre

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Opus architectonicum, Francesco Borromini

sulla piazza, infatti, Borromini innalza una facciata monumentale che non coincide con l’ingresso dell’edificio, ma con la parete maggiore dell’oratorio, valorizzando all’esterno l’importanza del luogo e dichiarandone apertamente la funzione. Nella relazione sulla fabbrica dei Filippini, il celebre Opus architectonicum steso da Virgilio Spada su precise indicazioni dell’artista, la forma della facciata, con la sua alternanza di concavità e convessità, è messa in rapporto con il gesto simbolico delle braccia aperte ad accogliere “ognuno che entra”. Nell’architettura di Borromini il sistema dei simboli ha un ruolo fondamentale, dichiarato non solo dalla raffinatezza quasi esoterica delle decorazioni, ma dal valore semantico delle stesse planimetrie. Nella chiesa di Sant’Ivo, iniziata nel 1642 e annessa al Palazzo della Sapienza, allora sede dell’Archiginnasio romano, la pianta della chiesa, generata dalla compenetrazione di due triangoli equilateri, forma un esagono regolare a stella con evidente riferimento al simbolo della sapienza. Con un procedimento analogo a quello adottato nella chiesa di San Carlino, ma con un rigore geometrico ancora maggiore, Borromini sviluppa poi in alzato lo schema stellare della base che appare ribadito dal profilo del cornicione e dalle modanature della cupola, alta e luminosissima, impostata direttamente sul corpo della chiesa. Ne

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risulta uno spazio compatto e omogeneo, investito da un vertiginoso ritmo ascensionale. La veste decorativa della cupola con le file di stelle, i cherubini e gli stemmi papali chiarisce le intenzionalità simboliche che improntano tutta la costruzione. All’esterno della chiesa, il ritmo ascensionale è ripreso e rilanciato in quella che può considerarsi la cupola più originale che sia mai stata inventata. L’energia e la tensione impresse alle strutture del tamburo, della piramide a gradini e della lanterna sembrano confluire irresistibilmente nella straordinaria spirale che funge da fastigio. L’originale coronamento elicoidale, derivato dalla sezione di una conchiglia a chiocciola tradotta in forme geometriche, è impreziosito da motivi ornamentali e assume l’aspetto di una corona o di una tiara: anche nel dettaglio la forma appare generata dalla sintesi perfetta di simbolismo, fantasia e rigore geometrico.

1645-1655: Borromini architetto dei Pamphilj

Le opere eseguite sotto il pontificato di Urbano VIII, benché estranee all’ambiente ufficiale della curia papale, permettono a Borromini di mostrarsi come l’unico vero antagonista del Bernini che esercitava al tempo una vera e propria dittatura culturale. Tuttavia solo alla morte di Urbano VIII (1644), quando la fortuna di Bernini pare oscurarsi, Borromini raggiunge quel prestigio e quel primato cui aveva aspirato.

Chiesa di Sant’Agnese

Grazie all’amicizia e all’appoggio del padre oratorianoVirgilio Spada, ottiene dal nuovo pontefice Innocenzo X Pamphilj alcuni importanti incarichi, tra cui la ristrutturazione dell’antica basilica cristiana di San Giovanni in Laterano (1647-1650), e la continuazione della fabbrica di Sant’Agnese in piazza Navona

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(1653-1655), iniziata da Carlo Rainaldi. Pur intervenendo su situazioni preesistenti e vincolanti, Borromini riesce a trasformare in senso moderno e barocco sia l’impianto basilicale di San Giovanni in Laterano sia quello avviato in Sant’Agnese dal Rainaldi su pianta tradizionale. Il contributo più originale resta legato, in San Giovanni in Laterano, alla inesauribile ricchezza dei motivi ornamentali: forme vegetali e motivi araldici si associano in combinazioni fantasiose che animano il disegno architettonico. Nella chiesa di Sant’Agnese lo sviluppo della facciata concava si integra con lo spazio urbano della piazza qualificandosi come polo d’attrazione e quinta scenografica, mentre il motivo della cupola leggera, impostata su un alto tamburo e affiancata da due torri, crea un nuovo sistema di grande unità ed equilibrio. In entrambi i casi tuttavia non sarà concesso all’artista di portare a termine le imprese secondo i progetti elaborati. In SanGiovanni in Laterano la volta della navata centrale, prevista da Borromini, non verrà mai costruita per l’ostinazione del papa a conservare il grande soffitto cinquecentesco; in Sant’Agnese l’abbandono della direzione dei lavori per contrasti con il principe Camillo Pamphilj, lascerà campo

Francesco Borromini

libero alle innovazioni dei successori. Anche il completamento della chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, iniziato nel 1653, rimarrà interrotto per sopraggiunte difficoltà economiche. L’incompiutezza della cupola, incassata entro un tamburo dalle pareti straordinariamente elastiche, lascia scoperta la trama corrosa dei mattoni tagliati che danno forma alle pareti, alle colonne e alle cornici. La predilezione di Borromini per i materiali umili deriva dai legami con la tradizione artigianale e assume nella sua opera il significato di una scelta d’ordine estetico e morale, oltre che economico.

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Le ultime opere e l’eredità di Borromini

Il mancato completamento di questi importanti progetti amareggia profondamente l’artista e determina l’inizio di una grave crisi psicologica destinata a rendere sempre più difficili e tormentati gli ultimi anni della sua vita e della sua attività professionale. Mentre Bernini riacquista il favore dei papi e il monopolio delle grandi commissioni pubbliche, Borromini si isola sempre più; il suo temperamento, introverso, inflessibile e insofferente di ogni condizionamento, gli aliena progressivamente la committenza più importante. Un riflesso di queste vicende si può cogliere nell’energia drammatica impressa da Borromini alle due opere eseguite sotto il pontificato di Alessandro VII: la facciata del collegio di Propaganda Fide, iniziata nel 1644, e quella della chiesa di San Carlino alle Quattro Fontane (1665-1667), dove l’artista aveva esordito trent’anni prima. I temi prediletti dall’artista vengono qui riproposti con nuova forza immaginativa: la contrapposizione di zone concave e convesse, l’ondularsi della parete, il forte aggetto delle cornici elastiche, i cantonali smussati, l’integrazione della facciata nello spazio urbano, l’originalità e la densità plastica dei motivi decorativi, la ricchezza del linguaggio simbolico creano due organismi straordinariamente dinamici, carichi di suggestioni visive e psicologiche. Soprattutto nella facciata della chiesa di San Carlino, l’inserimento nel contesto urbano, all’angolo di un crocevia, la tendenza alla parete curva, l’organizzazione arbitraria degli elementi formali, la fusione di architettura, scultura e decorazione plastica giungono allo sviluppo estremo, rivelando il rigore di una ricerca sempre fedele alle sue premesse e coerente nel rifiuto di ogni compromesso. In questo senso l’opera di Borromini acquista anche un profondo significato morale. La vicenda umana e artistica di Borromini si chiude mentre i lavori per la facciata della chiesa di San Carlino sono ancora in corso. Ossessionato dai successi del Bernini, amareggiato dalla lentezza con cui procedono le fabbriche da lui iniziate, tormentato dall’ipocondria, in un momento di disperazione Borromini si uccide, dopo aver bruciato tutti i disegni eseguiti in previsione, forse, della pubblicazione di un trattato di architettura. Nonostante la progressiva ostilità della critica ufficiale, espressa nel giudizio distaccato di Bernini e nella feroce stroncatura del Bellori l’ambiente artistico romano subisce il fascino della figura e dell’opera di Borromini: soprattutto gli architetti più legati alla cultura artigianale ne custodiscono l’eredità e ne divulgano il linguaggio in quell’architettura minore che, tra la fine del Seicento e la prima metà del Settecento, ridisegna in termini barocchi il volto urbano di Roma. Sarà tuttavia Guarino Guarini a sviluppare fino alle estreme conseguenze la componente matematica e le potenzialità illusionistiche implicite nel metodo borrominiano e a favorirne la diffusione in Austria e in Germania. Qui la conoscenza delle opere del Borromini, assicurata anche dalla divulgazione di vaste raccolte a stampa, eserciterà un’influenza determinante tramite l’attività degli architetti Fischer von Erlach, Hildebrandt e Neumann.

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EL GRECO

El Greco, oppure il Greco[1], pseudonimo di Domínikos Theotokópoulos, , è stato un pittore, scultore e architetto greco, vissuto in Italia ed in Spagna. È tra le figure più importanti del tardo Rinascimento spagnolo ed è spesso considerato il primo maestro del Siglo de Oro. Nacque a Creta, al secolo parte della Repubblica di Venezia, centro, all'epoca, di un importante movimento pittorico post-bizantino, chiamato Scuola cretese. Dopo l'apprendistato come pittore di icone diventò maestro d'arte seguendo il corso di quella tradizione artistica, prima di intraprendere, all'età di 26 anni, il viaggio verso Venezia, usuale meta tra i pittori greci dell’epoca. Infatti nel 1567 si trasferì nella Serenissima, lasciando Creta e la propria moglie, probabilmente per trovare nuovi sbocchi di mercato e per confrontarsi direttamente con le famose botteghe di Tiziano, Bassano, Tintoretto e Veronese.Nel 1570 si recò anche a Roma dove aprì una bottega e dipinse una serie di opere. Durante il soggiorno in Italia El Greco modificò il suo stile in modo sostanziale, arricchendolo con elementi tratti dal manierismo e dal Rinascimento veneziano, ispirati soprattutto al Tintoretto nelle linee sinuose e allungate, nel senso del movimento e nella drammaticità dell'illuminazione, e al tardo Tiziano nell'uso del colore. Nel 1577 si trasferì a Toledo, in Spagna, dove visse e lavorò fino al giorno della morte. Proprio a Toledo El Greco ricevette numerose importanti commissioni e realizzò alcune delle sue opere più importanti e conosciute. Lo stile drammatico ed espressionistico di El Greco era guardato con perplessità dai suoi contemporanei ma è stato molto apprezzato e rivalutato nel corso del XX secolo. La sua personalità e le sue opere sono diventate fonte di ispirazione per poeti e

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scrittori come Rainer Maria Rilke e Nikos Kazantzakis. Alcuni studiosi moderni hanno definito El Greco come un artista assai singolare e difficilmente inquadrabile nelle scuole pittoriche tradizionali. È famoso per le sue figure umane sinuosamente allungate e per i colori originali e fantasiosi di cui spesso si serviva, frutto dell'incontro tra l'arte bizantina e la pittura occidentale. Si sa che entra in servizio dei Farnese come ritrattista, discepolo del Tiziano, che stringe amicizia con i fratelli Zuccari e che si iscrive alla associazione di artisti denominata Accademia di San Luca (1572), dove conosce lo spagnolo Luis de Carvajal, e dove si dedica allo studio disperato e senza soste.

El Greco, Adorazione dei Magi, 1568, Museo Soumaya, Città del Messico

Di tutto questi anni e fatiche, non rimangono però che due opere: La fontana della Sala d'Ercole, per il Palazzo Farnese a Caprarola e la prima versione della Cacciata dei mercanti dal Tempio, un quadro che racchiude le sue molte esperienze, dal colorismo veneto e romano, gli scorci alla Michelangelo e l'architettura che sembra copiata dalla Scuola d'Atene di Raffaello.

Nel 1576 si stabilisce in modo definitivo in Spagna. Qui acquisisce l’appellativo di “El Greco” che si porterà dietro per tutta la sua esistenza e, incomincia a lavorare alla corte di Filippo II, con l’intento di dare lustro al ruolo del sovrano come sostenitore della cristianità. Non riuscendo a soddisfare il Monarca si trasferisce a Toledo, capitale della cultura spagnola con la compagna che non sposerà mai, Gerónima de las Cuebas, che gli diede un figlio, Jorge Manuel (1578) che diventerà anche lui pittore. Poco più che trentenne, El Greco è ormai nel pieno della produttività artistica confermandosi in una pittura personalissima: il suo stile pittorico diventa espressionistico nella disarmonia coloristica, in immagini trasfigurate con corpi allungati,nelle luci violacee ed abbaglianti, negli spazi distorti senza nessuna regola

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El Greco, Adorazione dei pastori, 1612, olio su tela, 320×180 cm Museo del Prado, Madrid

prospettica, accompagnano lo spettatore in una dimensione visionaria tipica della mistica Spagna del secondo Cinquecento. La sua prima opera importante è l'altare maggiore di Santo Domingo el Antiguo, cui segue la "Cattura di Cristo" o "Espolio" (1579), dove la profonda ispirazione mistica è sottolineata dai toni scuri e fluidi; per l'Escorial dipinge il "Sogno di Filippo" (1580) e il "Martirio di san Maurizio". Numerosi e noti sono i ritratti che ornano numerosi Musei; da ricordare in particolare il "Gentiluomo triste" ( Madrid, Prado) e la serie dei nobili dell'"Inumazione del conte d'Orgaz" (1586, Toledo, chiesa di S. Tomé), che risente di influssi bizantini, in particolare nell'uso del colore, irreale, traslucido e nel carattere drammaticamente

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El Greco, Apertura del quinto sigillo dell’Apocalisse, 1608–1614, olio, 225 × 193 cm, New York, Metropolitan Museum of Art

ascetico dei personaggi, avvolti da un'aura di misticismo che li fissa immobili nell'eternità. Capolavori sono il "Battesimo di Cristo", la "Resurrezione", la "Pentecoste" (Madrid, Prado) in cui spicca la perfezione dell'anatomia, frutto dello studio delle statue romane e la "Veduta di Toledo" ( Metropolitan Museum of Art New York), una delle massime espressioni del genere paesistico mutuato dal Veronese e dal Durer. Nei dipinti dell'ultimo periodo della vita di El-Greco si evidenzia un'espressività ancora più tormentata: in "Cena in casa di Simone" (Chicago, Art Institute), "L'Immacolata" (Toledo, San Vicente); la tensione quasi deforma ogni figura: non più descrizione del Mondo, ma Sacra Rappresentazione che accentua il movimento e l'espressività dai manieristi romani. Dopo aver condotto una vita lussuosa, El Greco morirà a Toledo nel 1614 in povertà nel 1614 e sarà seppellito prima nella chiesa di Santo Domingo, quindi trasferito nel monastero di San Torcuato. Purtroppo della sua salma nulla rimarrà perché nel 1800 una demolizione gli devasterà la tomba.

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REMBRANDT

Rembrandt Harmenszoon van Rijn nasce il 15 luglio 1606 a Leida (Olanda), ottavo figlio di nove fratelli. Il padre, un agiato mugnaio, era proprietario di un mulino sulle sponde del Reno e chiamato perciò "Van Rijn" (del Reno). Desideroso che il figlio facesse una carriera importante, e che si elevasse dal ceto artigianale, lo iscrive, nel 1620, alla facoltà di lettere della sua città. Il giovane vi rimane pochi mesi, preferendo frequentare lo studio del pittore Isaaksz van Swanenburg che gli fa conoscere l'arte italiana e i suoi capolavori, studiati febbrilmente dall'allievo. In aggiunta a ciò, bisogna sottolineare che negli anni venti del Seicento la pittura di tutta Europa è squassata dall'arte rivoluzionaria di Caravaggio che ottiene sorprendenti effetti realistici grazie all'uso del tutto personale delle luci. Una lezione che Rembrandt terrà ben presente. Inoltre, esplosa l'Olanda sul piano economico (grazie alla sudata indipendenza dagli spagnoli e all'unificazione dei Paesi Bassi), la città del pittore diviene un'importante centro umanistico e artistico, anche sotto l'impulso dell'università. Si sviluppa allora un'importante scuola pittorica seconda solo a quella di Utrecht il cui artista di punta fu Luca da Leida; un punto di riferimento importante per le prime esperienze pittoriche di Rembrandt.

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Cristo nella tempesta sul mare di Galilea, 1633. Olio su tela.

Dopo questo apprendistato, Rembrandt si associa al coetaneo Jan Lievens, anch'egli pittore di grande levatura: la loro fama gradualmente si diffonde fra gli ambienti della borghesia colta, la stessa che ama frasi ritrarre dai due artisti in modo realistico e riconoscibile. Ma la vera occasione, per la carriera del pittore olandese, avviene nel 1631, poco dopo la morte del padre. Rembrandt infatti decide di lasciare Leida per Amsterdam. In questa città, si conclude la formazione pittorica di Rembrandt, in particolare grazie alle lezioni di Pieter Lastman, celebre artista del luogo. Rembrandt, studia con attenzione i quadri di Lastman e ne impara la precisione e l'uso di colore tipicamente italiano, riproponendo alcuni dei soggetti storici del maestro. Grazie all'estrema abilità, ben presto però l'allievo supera il maestro. Se ne accorgono anche gli intenditori, che nel giro di poco tempo eleggono Rembrandt a loro beniamino. Inoltre, ha modo di accedere agli ambienti colti dell'alta società e, grazie a queste "entrature", di fidanzarsi con Saskia, nipote di un ricco mercante d'arte; i due si sposeranno successivamente nel 1634. Ed è proprio in questo periodo, dal 1634 al 1642, che Rembrandt inaugura i suoi capolavori, che vanno dalla celeberrima "Lezione di anatomia del dottor Tulp" alla "Passione di Cristo".

Rembrandt van Rijn, da questo momento, si circonda anche di una folta schiera di discepoli, per i quali decide di costruire "ex novo" una scuola. Ma a partire dagli anni 40 del seicento, comincia anche il suo tracollo economico e familiare, a causa, da un lato della poco oculata gestione delle finanze e dall'altro dell'abbattersi di veri e

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propri drammi affettivi. Nel 1640 muore la madre e poco dopo anche l'adorata moglie. Solo e sconsolato si ritira nella pittura fino a quando conosce Geertge Dirck, governante del figlio Tito, con la quale intraprende una intensa relazione. Quest'ultima, però, per la sua scandalosa condotta subisce un processo che si risolve in una condanna in casa di correzione. Non a caso, in questo periodo la produzione di

"Betsabea con la lettera di David”, 1654

Rembrandt rivela estrema sofferenza: negli autoritratti appare un uomo invecchiato e privo di vitalità. Finita questa storia d'amore, si invaghisce di Hendrickje Stoffels, con la quale prima convive e tardi sposa. Insieme faranno due figli. Al 1654 risale uno dei suoi quadri più celebri: "Betsabea con la lettera di David”. In seguito, nel 1657 Rembrandt perde tutti i beni ed è costretto a trasferirsi in una modesta casa. Dopo il 1660, però, riesce a imporsi di nuovo sulla scena europea: dipinge i "Sindaci dei drappieri" e il "Giuramento dei Batavi", opere caratterizzate da un'estrema padronanza dei colori e della pennellata. Un raggio di luce torna a illuminare la vita dell'artista quando il figlio Tito si sposa con una lontana parente di Saskia: le vicende personali entrano nelle opere del pittore e conferiscono loro una notevole umanità. Non a caso Rembrandt nella "Presentazione al tempio" infonde al vecchio Simeone l'estrema dolcezza di chi, come lui, è ormai diventato nonno. Negli ultimi anni Rembrandt decise di dipingere solo per sé, raggiungendo esiti altissimi. Si spegne il 4 ottobre 1669 ad Amsterdam all'età di 63 anni.

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PIETER PAUL RUBENS

Il pittore fiammingo Pieter Paul Rubens (1577-1640) rappresenta senz’altro l’artista che diede il maggior contributo alla definizione di una pittura di stile barocco. La sua attività pittorica si è sviluppata prevalentemente ad Anversa, ma numerosi e notevoli sono stati i suoi soggiorni all’estero. Tra questi un posto particolare lo riveste il soggiorno in Italia tra il 1600 e il 1608, soggiorno che non solo gli permise di conoscere la grande arte italiana del Cinquecento, in particolare quella veneziana di Tiziano, Veronese e Tintoretto, ma anche di elaborare il suo personale stile molto complesso e magniloquente. Intorno al 1602 è a Roma, proprio negli anni in cui da un lato i Carracci diffondono il loro stile classicheggiante, e dall’altro Caravaggio compie la sua rivoluzione realista. Nasce nella città di Siegen, in Westfalia, nel 1577 e muore ad Anversa nel 1640. Il padre è un avvocato fiammingo protestante e la città d’origine della famiglia è Anversa, dove la famiglia di Rubens si trasferisce nel 1587. Nell’anno 1600 Rubens fa un viaggio in Italia, vi rimane per otto anni ad eccezione di un viaggio in Spagna tra il 1603 e il 1604, alla corte di Filippo II, per conto del Duca di Mantova Vincenzo Gonzaga. Grazie a Rubens le prime basi della pittura barocca, grandiosa e magniloquente, trovano spazio anche in Italia.

Rubens soggiorna in varie città italiane ◦ A Venezia l’artista assimila la lezione di Tiziano, Tintoretto e Veronese. Da

questi pittori prende il gusto per le tonalità calde del colore e la ricchezza della materia.

◦ A Roma studia l’arte antica, Raffaello, Michelangelo e Caravaggio a cui si ispira per il realismo delle sue opere. Qui ottiene la prima commissione

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pubblica: tre pale di altare per la cappella di Sant’Elena in Santa Croce in Gerusalemme. Dipinge inoltre la solenne Circoncisione, per la chiesa genovese del Gesù,e la pala L’apparizione della Madonna della Vallicella per la chiesa Santa Maria in Vallicella.

Peter Paul Rubens. Family of Jan Brueghel the Elder

◦ A Genova Rubens realizza numerosi ritratti di aristocratici, come quello per la Marchesa Brigida Spinola-Doria del 1606, e una serie di incisioni delle principali architetture civili della città.

◦ A Mantova lavora alla Corte dei Gonzaga per i quali svolgerà anche importanti incarichi diplomatici. Tra i vari dipinti realizza per il duca La famiglia Gonzaga in adorazione della Trinità.

Pieter Paul Rubens risente anche dell’influenza di Federico Barocci, detto il Fiori, importante pittore esponente del Manierismo italiano e dell'arte della Controriforma, dallo stile elegante, e di Annibale Carracci, che conosce di persona. Rubens torna nelle Fiandre, ad Anversa, nel 1609, a seguito della morte della madre e non farà più ritorno in Italia. Ad Anversa diviene pittore di corte dei vicerè spagnoli

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Alberto e Isabella, reggenti dei Paesi Bassi. In quello stesso anno Rubens si sposa con Isabella Brandt, ne è testimonianza l’autoritratto con la moglie conservato oggi nel Alte Pinakothek di Monaco, dipinto non datato ma che presumibilmente risale a quell’occasione. Isabella muore nel 1626, a soli 35 anni, e nel 1630 Rubens sposa in seconde nozze Helene Fourment, della quale dipinge vari ritratti, da sola o con i figli. Nei suoi primi anni ad Anversa Rubens è chiamato a dipingere opere di grande rilevanza come i quadri d’altare per la cattedrale di Anversa, tra cui due delle sue opere più famose, due trittici: Erezione della croce (1610-11) e Discesa dalla croce (1611-14). Dopo qualche anno, lo stile dell'artista si modifica, le opere di Rubens diventano più

L'arrivo di Maria De Medici a Marsiglia di Pieter Paul Rubens

chiare e con toni cromatici più freddi, i personaggi vengono distribuiti in modo più simmetrico e armonioso. La sua fama cresce sempre più e le commissioni aumentano e diventano sempre più imponenti e Rubens per far fronte all’intesa attività crea una propria bottega organizzata con criteri da piccola industria, dove utilizza un gran numero di collaboratori e allievi, ognuno esperto in singole specializzazioni. Molti artisti fiamminghi dell’epoca, come Van Dyck, Jordaens, Frans Snyders, Jan Brueghel,

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Daniel Seghers, collaborano in varia misura con Rubens e subiscono l’influenza della sua personalità dominante. L’arte di Rubens si esprime in modi vari e diversi, oltre ai dipinti dei più differenti soggetti: paesaggi, ritratti e quadri di soggetto mitologico e sacro, la sua produzione artistica è ricca anche di illustrazioni, disegni per arazzi e decorazioni. Nel 1621 riceve da Maria de Medici, madre del re di Francia Luigi XIII, l’incarico di dipingere una serie di dipinti celebrativi degli episodi più significativi della sua vita. Rubens dipinge 21 tele, oggi note come Ciclo di Maria dei Medici e conservate al museo del Louvre.

Rubens esprime la grandezza del potere politico e religioso con una pittura barocca, grandiosa e trionfale nella composizione d’insieme. Nelle opere di Pieter Paul Rubens solitamente sono riprodotte scene affollate, dinamiche, impetuose, c’è molta teatralità. Utilizza colori vivi, intensi e brillanti. I corpi di Rubens sono corpi carnosi, sovrabbondanti, che esprimono benessere e prosperità. Violenti colpi di luce squarciano l’oscurità dello sfondo.

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DIEGO VELÁZQUEZ

Diego Rodriguez de Silva y Velázquez (1599-1660) è sicuramente il pittore spagnolo più influente del XVII secolo, introducendo nella penisola iberica le novità naturalistiche della pittura caravaggesca che si sta sviluppando in tutta Europa. La sua attività si svolse tutta presso la potente corte spagnola, nella quale entrò giovanissimo nel 1623, dopo un apprendistato giovanile nel quale sviluppa un’arte dai toni molto realistici. Quale pittore di corte la sua attività si incentrò prevalentemente sui ritratti, nei quali il suo istinto al realismo venne attenuato da ovvie esigenze di rappresentazione aulica. Ma la sua capacità di giocare con il tema della realtà e dell’illusionismo creato dalla pittura lo portò a creare capolavori straordinari come «Las meninas», pur partendo da un lavoro di tipo ritrattistico. Velázquez fu molto influenzato dalla pittura italiana, la cui conoscenza ebbe modo di approfondire in due viaggi nella penisola, il primo nel 1629 e il secondo, durato due anni, nel 1649. In particolare la pittura veneziana del Cinquecento gli diede notevoli spunti per affinare le sue qualità cromatiche e di stesura pittorica, che, alla luce di quello che è avvenuto nei secoli successivi, ci appaiono oggi di una modernità straordinarie.

Diego Rodriguez de Silva Velazquez, nato a Siviglia nel 1599 e morto a Madrid nel 1660, è l’artista simbolo dell’arte spagnola del 1600. I genitori sono nobili sivigliani di origine portoghese. L’artista, secondo l’uso spagnolo, ha i cognomi di entrambi i genitori ma sui suoi quadri preferisce apporre la firma solo di quello della madre: Velazquez. A Siviglia Velazquez inizia la sua formazione artistica nel 1609 nella bottega di Francisco Herrera il Vecchio, che frequenta per alcuni mesi. Dal 1610 al 1617

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prosegue il suo apprendistato nella bottega dell’insegnante più prestigioso di Siviglia, Francisco Pacheco, pittore accademico e uomo di cultura, sostenitore della controriforma cattolica e censore dell’inquisizione per l’arte sacra.

La vecchia che frigge le uova, 1618

Velazquez afferma da subito un proprio stile, lontano da quello dei suoi due maestri tardo manieristi, preferendo dipingere al vero, dando grande rilevanza ai particolari, riprodotti realisticamente, ed agli effetti di luce ed ombra. Nel 1618 Velazquez sposa Juana, figlia sedicenne di Francisco Pacheco. Le sue fonti di ispirazioni si possono rintracciare, oltre che nella tradizione spagnola, nel realismo di Caravaggio e nella tradizione coloristica del lombardo-veneto. Nella primissima fase della sua attività dipinge scene di genere, rappresentando personaggi popolari tratti dalla realtà quotidiana, “bodegones”, cioè scene da taverna (suonatori, bevitori), e nature morte. Ne sono un esempio il quadro La vecchia che frigge le uova ed I due giovani che mangiano, entrambi datati 1618, in cui emerge già la radice caravaggesca, nei volumi, nell’uso della luce e nella caratterizzazione psicologica dei personaggi. Velazquez nelle sue prime produzioni realizza anche opere sacre, come San Giovanni Evangelista a Patmos e l’Immacolata Concezione, su commissione del convento dei Carmelitani di Siviglia. L’artista rivela già in queste opere la sua grande abilità di ritrattista, capace di rendere le caratteristiche caratteriali e psicologiche del soggetto dipinto. In maniera insolita realizza anche opere in cui quotidianità e religiosità si combinano, un’unione di Sacro e profano, come nel dipinto Cristo in casa di Marta e Maria ambientato in una cucina in cui due donne sono ritratte in un momento di realtà quotidiana, nell’atto di cucinare, mentre la scena biblica presa dal Nuovo Testamento è relegata sullo sfondo, nel quadretto appeso alla parete in cui viene rappresentato Cristo che parla a Maria.

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Sono i ritratti a fare la fortuna di Velazquez. Quando il Re di Spagna Filippo IV gli commissiona un ritratto, l’artista realizza un’opera in cui il sovrano diciottenne è ritratto in posa regale e sguardo malinconico (Ritratto di Filippo IV del 1623), l’opera piace talmente che Velazquez viene chiamato a Corte.

Las meninas, Velasquez, 1656

L’artista abbandona quindi la pittura di genere per dedicarsi a rappresentare l’ambiente di corte del re di spagna Filippo IV che lo nomina suo pittore (pintor del rey) il 6 ottobre del 1623 con un salario di venti ducati al mese. Velazquez, con moglie e figli, si trasferisce a Madrid, città dove, ad eccezione dei viaggi di lavoro all’estero, vive per tutta la sua vita. L’artista ritrae Filippo IV in una quarantina di opere, dipinge spesso anche il ritratto della regina Marianna d’Austria, i figli della coppia e molti personaggi della corte spagnola, inclusi i nani come nell’opera, suo capolavoro, Las meninas. L’arte di Velazquez risente anche dell’influenza di Rubens che l’artista conoscerà direttamente visto che spetterà a lui ricevere a corte ed accompagnare Rubens durante la sua visita a Madrid nel 1628. Rubens sicuramente ispirò la prima opera mitologica del pittore spagnolo, Il trionfo di Bacco, noto anche come Gli ubriachi (1628) in cui Velazquez dà un’interpretazione del mito in chiave quotidiana, in cui Bacco appare come un semplice giovane contadino circondato da balordi trasandati ed ubriachi. Dopo la qualifica di pittore di corte a Madrid ottiene anche la nomina a Maresciallo di Palazzo e rivestire un ruolo ufficiale all’interno della corte che lo porta a dedicarsi sempre più ad ambascerie e ad altri incarichi diplomatici, trascurando la pittura. Velazquez soggiorna in Italia in due occasione, la prima nel 1629 per il canonico viaggi studio in Italia che molti artisti compivano per completare il proprio bagaglio

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culturale, la seconda, nel 1649, per acquistare dipinti e sculture antiche per la collezione del re di Spagna. E’ in questa occasione che il pontefice regnante gli commissiona il suo ritratto, nasce così il capolavoro Ritratto di Innocenzo X. Il secondo viaggio di Velázquez in Italia ha conseguenze importanti, oltre che per la sua carriera, anche per la sua vita personale, infatti a Roma ha un figlio illegittimo,

Venere allo specchio (1650-1651)

Antonio, e decide di dare la libertà al suo schiavo di molti anni, Juan de Pareja. Frutto del suo soggiorno in Italia è anche Venere allo specchio (1650-1651). Questo dipinto, unico esempio superstite di nudo femminile di Velazquez, è pieno di reminiscenze sia di Tiziano che di statue antiche, ma emerge anche il concetto di una dea in forma umana, caratteristico del linguaggio personale di Velázquez, che era unico ai suoi tempi. Velazsquez rientra a Madrid nel 1652 e nel 1658 viene nominato Cavaliere di Santiago, un onore che aveva sempre desiderato; la croce dell’ordine viene aggiunta al suo autoritratto in "Las Meninas". Il suo atto pubblico finale è un viaggio, nel 1660, al confine francese con la corte per decorare il padiglione spagnolo sull'isola del Fagiano con arazzi per il matrimonio di infanta Maria Teresa a Luigi XIV (7 giugno 1660). Pochi giorni dopo il suo ritorno a Madrid Diego Velazquez si ammala e muore il 6 agosto, seguito dalla moglie Juana solo una settimana dopo. Viene sepolto con indosso l'uniforme dell'Ordine di Santiago e come scrive Antonio Palomino, pittore e biografo: "Con il più grande sfarzo e spese enormi, ma non troppo per un uomo così grande"

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ARTE DI CORTE IN EUROPA TRA 600 E 700

Per comprendere l'arte di questo periodo, fatta di ombre e di luci, di squarci fantastici e deliranti come di approcci, di tipo scientifico orientati alla visione della realtà, è necessario dare uno sguardo alla condizione socio-politica del tempo. Il 1600, che è considerato il secolo del Barocco, si apre con il supplizio di Giordano Bruno. Si manifesta una crisi economico-sociale proprio a partire dai primi decenni del 1600 in tutti i paesi dell'Europa Occidentale, per cui si acuisce la differenza tra quei paesi in cui si assiste ad un ritorno ad una economia di tipo agricolo, come l'Italia, e quelli in cui invece cominciano a svilupparsi sistemi basati sul commercio, come Francia e Olanda. La prima metà del 1600 in Europa, è caratterizzata storicamente dalla predominanza delle case d'Asburgo di Spagna e d'Austria. Nel 1659, la pace dei Pirenei conclusa tra Filippo di Spagna con la Francia, segna la fine della supremazia Asburgica in Europa. Dopo, politicamente la situazione volgerà a favore della Francia e si imporrà la supremazia assolutistica di Luigi XIV, che è già Re nel 1643, e che assumerà il governo della Francia nel 1661. L'Italia che, per tutto il Seicento era rimasta al centro della cultura europea, nel Settecento cederà tale predominio alle grandi corti

Ragazza col turbante, Mauritshuis, Vermeer

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d'Europa, e la Francia assumerà un ruolo principale. Può definirsi “barocca” l'arte che inizia alla fine del 1500 e che si sviluppa fino agli inizi del 1700. Ovviamente, gli spunti sono molteplici, e l'arte ne accoglie le varianti arricchendosi di varie sfumature espressive. Pertanto possiamo distinguere all'interno di una unica matrice, alcune principali correnti come: quella relativa alla cosiddetta “pittura di genere”, di stampo pittorico-naturalista; quella classicistica, come ad es. quella che si sviluppa a Versailles, e quella molto più orientata ad una ricerca sociale e veristica. Ma andiamo con ordine. Nel Seicento l'arte è fortemente condizionata dalla Chiesa, che comunque anche nel Settecento rimane una dei massimi committenti delle opere d'arte che usa per affascinare e convincere i fedeli. L'osservatore deve essere stimolato e coinvolto, e all'artista viene concesso a tal fine di esprimersi in forme libere, aperte e variamente articolate pur di raggiungere l'obbiettivo. L'arte è lo strumento di propaganda religiosa più importante e pertanto assume caratteristiche di popolarità, realisticità e monumentalità decorativa. In alcuni casi è anche “convenzionale”, dal momento che i vari repertori iconografici, proposti dalla Controriforma, mirano a stabilire le modalità di rappresentazione della scene sacre.

Trionfa il Barocco che però non si deve immaginare come limitato ad esprimere l'arte della Chiesa, ma bensì anche interprete di altri fermenti culturali. Il termine riunisce infatti come accennato tendenze anche molto diverse tra loro come, ad es. il classicismo della corte di Luigi XIV, il realismo della pittura di Rembrandt o Vermeer

David di Bernini, particolare

o ancora la pittura di Caravaggio. Espressione delle inquietudini politiche e dei drammatici contrasti religiosi del suo tempo, il Barocco esprime l'ansia di soluzioni

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sempre nuove, proprie di una società che ha perduto molte certezze, e in cui la concezione rinascimentale dell'uomo centro dell'universo è da ritenersi superata. I protagonisti sono dei grandi nomi della storia dell'arte. Spicca infatti ad esempio, il Bernini, che seppe coniugare magistralmente l'attività di scultore, con quella di architetto e scenografo. Egli, non rinnega la tradizione rinascimentale, della quale accoglie il classico equilibrio, ma infonde attraverso una nuova sensibilità verso le forme, un gusto particolarmente scenografico e spettacolare alle sue opere, nell'esaltazione della componente del movimento, che si traduce come in un soffio di vitalità alla materia inerte, per farla diventare viva. Per citare qualcuna delle sue note sculture, “Il ratto di Proserpina”, il “David” e “Apollo e Dafne”.

La pittura del 1600, vede lo svilupparsi di una corrente artistica mirante al recupero di una naturalezza, e di una efficacia comunicativa legata al disegno dal vero e al ripensamento delle opere dei maestri del 1500. Sono i Carracci, che fondano la cosiddetta Accademia degli incamminati. Bollati come “eclettici” i Carracci, sono stati poi rivalutati dalla critica contemporanea. Spicca soprattutto la figura di Annibale; con lui si supera quella impostazione iniziale che vedeva preponderanti le motivazioni a carattere religioso e si apre una nuova strada per la pittura decorativa. Nelle prime opere bolognesi - come ad es. “La Macelleria”-, non vi è traccia di

La macelleria, Annibale Carracci, 1585

compiacimento per i particolari, ma ricerca di possibilità di rappresentazione oggettiva. Carracci riesce a fondere, una certa impostazione di stampo “pittorico-naturalista” lombardo, veneto ed emiliano, al carattere aulico e classico derivante dalla tradizione decorativa Romana. Si serve della mimesi, ma non come mera imitazione, ma piuttosto come spunto per liberare la fantasia nell'evocare le forme. Una delle opere più note è quella che lo vede impegnato nella realizzazione, a Roma alla fine del 1500, della Galleria di Palazzo Farnese, dove si ispira alle Metamorfosi di Ovidio. Si tratta del trionfo di Bacco e Arianna, che sono attorniati da coppie

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altrettanto mitologiche e racconti aventi come tema centrale, l'amore. Per dipingere questi affreschi pensa all'opera di Michelangelo e di Raffaello. Rivede e rivaluta l'arte della cultura classica e del Rinascimento. La sua interpretazione naturalistica è disinvolta, mescola elementi veneti, con quelli romani e emiliani, e non mancano i riferimenti a figurazioni allegoriche e agli stemmi dei Farnese. Nel 1602, realizza la lunetta, “La fuga in Egitto”: qui, si nota che l'elemento naturalistico non è solo sfondo, ma in un certo senso prevale sul tema narrativo. L'evento religioso si lega alla rappresentazione della natura, e il sentimento religioso appartiene ad essa, in armoniosa sintesi che lega l'uomo a Dio, attraverso la natura, che è umana, che è divina nel suo vario manifestarsi sulla terra. Carracci fece scuola. Molti pittori nel 1600 si ispirarono al suo linguaggio. Ad esempio Guido Reni, di cui ricordiamo il noto “Atalanta e Ippomene”, del 1620, dove l'armonia delle forme e degli atteggiamenti comunicano un senso di grazia pervasa da atteggiamenti patetici, quasi distaccata dalla dimensione reale. Il contrasto che deriva dal colore scuro dello sfondo e della luce che pervade le figure con tutti i toni intermedi, eleggono quest'opera a capolavoro della visione artistica di Reni, che si conferma autore singolare, originalissimo nel suo reinterpretare. Infine come non citare il Guercino, con le sue opere intrise di una atmosfera rarefatta nelle ricche gradazioni tonali e il Domenichino, che, con i suoi paesaggi, gettò le basi per la definizione della pittura del paesaggio seicentesco

Bacco, Caravaggio, 1590

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Altro grande protagonista della pittura del 1600, è Caravaggio. Se Carracci tendeva all'ideale, in arte, Michelangiolo da Caravaggio vuole esprimere il reale. Una personalità discussa; a giudicare dai suoi trascorsi ebbe certamente un temperamento impetuoso. Da Roma, a causa di un omicidio, fuggì recandosi a Napoli prima e poi a Malta ed in Sicilia. Eppure per lui l'arte non è evasione, ma rigore morale nel denunciare i fatti. Come un documentarista, come un fotoreporter, analizza la realtà, la restituisce in tutti i suoi toni altamente drammatici. E per far questo usa la luce, e per far questo esaspera le ombre. Utilizza cioè tutti quei codici di comunicazione che collegano l'emotività alla percezione e diviene così l'autentico interprete, di tutte le ansie e le contraddizioni di questo secolo, metafora dei drammi del presente di ogni epoca. Per l'artista il divino si manifesta negli umili. Questo è il filo conduttore che unisce le sue opere a carattere religioso. In questo Caravaggio osò molto, tanto da giungere a raffigurare la Vergine nei panni di una donna qualunque. La “morte della Madonna”, del 1606, mostra una donna lontana da modelli idealizzati e irreali cui si era abituati; accanto a Lei, gli apostoli, e la Maddalena, disperata e impotente come lo può essere ogni donna, costretta a subire una perdita... e la tragedia è umana e immensa nel suo schiacciante realismo. Caravaggio traduce in pittura un sentimento oscuro, quello che pervade la vita di tutti gli uomini, ma che solo pochi sanno come rappresentare: quello della morte. La morte e la vita, due aspetti compresi nello stesso piano, condividono la stessa superficie, quella della vita e quella della tela. Cosa c'è, se non un profondo senso di malinconia, nello sguardo del “Bacco adolescente” che Caravaggio dipinse già nel 1590? Quel cesto di frutta, che evoca gioia e dovizia, non è forse una natura morta? Cosa dire infine del particolare dei piedi segnati, e le mani gonfie nelle vene, di “San Matteo e l'Angelo”. La natura del Santo, è umana. Umane sono le sue caratteristiche, e il suo sguardo, nel vedere l'angelo, è forse anche un po' stupefatto, se non atterrito.

Il Manierismo

Il termine manierismo viene assunto dalla critica per designare il complesso e ramificato movimento stilistico italiano ed europeo che si colloca tra il 1520 ca e l'ultimo decennio del Cinquecento (ossia tra il culmine del Rinascimento e il preannuncio del barocco). Caratterizzato da un estetismo antinaturalistico lontano dalla razionalità rinascimentale, si espresse in suggestive alterazioni dei rapporti spaziali e subordinò le proporzioni naturali della figura umana al ritmo fluido ed elegante della composizione. Il manierismo, va inteso come incrinatura dell'equilibrio armonico classicista e, più in generale, come crisi della cultura umanistica e dei suoi ideali razionalistici, in connessione con il travaglio storico della riforma luterana, della controriforma cattolica e le drammatiche crisi che accompagnarono la formazione dei grandi Stati europei. I primi due centri di elaborazione del manierismo furono inizialmente Firenze e Roma; da qui, si diffuse in tutt'Italia e in Europa dando vita a esperienze locali differenziate.

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Il concetto di "maniera"

La denominazione manierismo deriva dal termine "maniera", usato da G. Vasari sia come semplice sinonimo di stile, sia per indicare il modo di comporre dei massimi artisti rinascimentali. La critica seicentesca diede invece al termine "maniera", con riferimento allo stile dei pittori vissuti dopo Leonardo, Raffaello e Michelangelo, un significato negativo, accusandoli di inerzia creativa, di artificiosità, di virtuosismo tecnico non sostenuto dall'ispirazione. La rivalutazione critica del barocco, sul finire del sec. XIX, diede l'avvio a un riesame dello stile manieristico da un nuovo angolo visuale. La definizione terminologica e concettuale di manierismo fu però merito della storiografia tedesca del primo Novecento (H. Voss, M. Dvorák) che, mettendo in luce gli aspetti eterodossi e inquietanti dell'arte del tardo Cinquecento, ne esaltò la vitalità, in netta antitesi con la critica precedente, che aveva percepito quegli stessi aspetti come risultato di uno svuotamento e di una degenerazione del classicismo.

Il manierismo arte di corte

Il manierismo divenne lo stile delle corti, in Italia come in Europa: un'arte colta, aristocratica, basata sulle iconografie preziose, sui riferimenti dotti, sulle allegorie complicate. Ne fu un esempio alla corte medicea l'attività (ca 1540-70) di G. Vasari e dei manieristi michelangioleschi: Bernardo Buontalenti (1513-1608), Bartolomeo Ammannati (1511-92), Giambologna , B. Cellini . A Mantova lavorò come decoratore Francesco Primaticcio (Bologna, 1504-Parigi 1570) che fu, insieme ad altri artisti italiani attivo per Francesco I al castello di Fontainebleau, dove la presenza degli artisti italiani diede vita alla famosa scuola di Fontainebleau . Il manierismo fu cultura celebrativa e aulica, nell'ambito della quale l'architettura si faceva scenografia (Vasari, sistemazione degli Uffizi; Ammannati, ampliamento di Palazzo Pitti), la scultura oscillava tra gli opposti termini del gigantismo magniloquente (Ammannati, Fontana del Nettuno) e del preziosismo dell'oggetto di oreficeria (Cellini, Saliera per Francesco I, Parigi, Louvre), la pittura assumeva le diverse valenze del grande affresco celebrativo (Vasari) e del ritratto enigmatico e formale (Bronzino), il simbolo visivo e concettuale più evidente è il celebre Studiolo di Francesco I (Fontainebleau). A Roma la parabola architettonica di Jacopo Barozzi detto il Vignola (1507-73), dalle licenze inventive di Villa Farnese a Caprarola e di Villa Lante a Bagnaia alla nuova codificazione della Chiesa del Gesù a Roma e l'attività di pittori come Vasari, Francesco Salviati (1510-63), Daniele da Volterra aprirono la via all'accademismo eclettico degli Zuccari (Taddeo, 1529-66; e Federico, 1540/43-1609) e di Giuseppe Cavalier d'Arpino (1568-1640). Verso la fine del Cinquecento, proprio dal centro manierista di Bologna, che aveva conosciuto l'arte raffinata del Parmigianino e di Nicolò dell'Abate, partì quel movimento di reazione antimanierista bandito dai Carracci che, rifluito a Roma, diede vita all'accademia. Lo stile delle corti ebbe vita più lunga in Europa, nella sua accezione più "cortigiana": nella Praga di Rodolfo II con Bartholomeus Spranger (1546-1611) e

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Hans von Aachen (1552-1616); nei Paesi Bassi, in Baviera e, in un ultimo guizzo di autentica forza di stile, in Spagna, con l'esperienza del Greco. Firenze fu uno dei primi centri di elaborazione del manierismo. Nei primi dieci anni del Cinquecento si assistette ancora però, con fra' Bartolomeo (Baccio della Porta, 1472-1517) e Andrea del Sarto, a casi di classicismo. Ma con la caduta della Repubblica fiorentina (1512) si manifestarono precocemente tendenze anticlassiche e manieristiche, i cui massimi rappresentanti furono i pittori Rosso Fiorentino e Pontormo. Negli stessi anni Michelangelo creò a Firenze opere schiettamente manieristiche (vestibolo e scalone della Biblioteca Laurenziana, 1524; sagrestia nuova a S. Lorenzo con le tombe medicee, 1521-33). Le successive fasi del manierismo si svilupparono sotto Cosimo I de' Medici e furono rappresentate dalle pitture di G. Vasari, del Bronzino, di Francesco Salviati (1510-63); dalle sculture di B. Cellini, Giovanni Angelo Montorsoli (1507-63), Baccio Bandinelli (1488-1559), Giambologna; dalle architetture del Vasari (palazzo degli Uffizi, iniziato nel 1560), di B. Ammannati (ponte S. Trinita, 1567-69; cortile di Palazzo Pitti, 1560), di Bernardo Buontalenti (1536-1608; Casino Mediceo, 1574; Belvedere, 1590-95; Giardini di Boboli, in cui ideò la grotta e la fontana dell'Oceano con le statue del Giambologna).

Venere di Urbino, Tiziano, 1538

A Roma, sotto il pontificato di papa Clemente VII (1523-34) furono gli allievi di quest'ultimo ed in particolare Giulio Romano, seguito da Polidoro Caldara da Caravaggio (1495/1500-1546), Perin del Vaga e Giovanni da Udine (1487-1564) a stravolgerne per altri versi la "maniera", in chiave di bizzarria e di estro fantastico, elaborando un tipo di decorazione elegante e gustosa (grottesche). Inoltre a Roma giunsero artisti toscani del calibro di Sansovino, Cellini, Rosso Fiorentino; emiliani come Parmigianino e veneti come Sebastiano del Piombo (1485-1547). Ma il sacco di Roma del 1527, compiuto dalle truppe di Carlo V nel corso della guerra con la Francia per il dominio dell'Italia, ebbe come conseguenza la diaspora

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degli artisti, verso l'Italia settentrionale. Ma l'attività artistica non si arrestò; infatti nel 1534 (anno in cui Paolo III Farnese divenne papa) Michelangelo si trasferì definitivamente a Roma e diventò l'indiscusso protagonista della scena artistica.

Nell'ambito veneziano, dopo la morte di Giorgione, fu Tiziano l'indiscusso protagonista della pittura: le sue doti ebbero subito eco nelle corti italiane, e ricevette numerose commissioni dai principali ducati. Ma tra il 1540 e il 1560 giunse anche nel Veneto il manierismo, i cui anticipatori in pittura e in architettura erano stati il Pordenone e tutti gli artisti che, in seguito al sacco di Roma, si erano rifugiati o erano passati dal Veneto.

I principali artefici della tendenza manieristica in Lombardia furono artisti come il pittore, scultore e architetto piemontese Gaudenzio Ferrari (ca 1475-1546), che per influsso dell'arte d'Oltralpe, si fece esponente di un precoce manierismo; la famiglia di pittori cremonesi Campi (Galeazzo, 1447-1536; Giulio, ca 1502-72; Antonio, m. 1591; Vincenzo, 1536-91; Bernardino, 1522-91), il Savoldo e il Moretto da Brescia. Caso particolare fu l'Arcimboldi, che, formatosi a Milano, ebbe la sue più importanti commissioni a Praga.

Palladio

Andrea di Pietro della Gondola, detto Palladio (Padova 1508 - Vicenza 1580), fu architetto e trattatista, esponente di un nitido classicismo, unito a un senso scenografico preludio del barocco, che ebbe vasto seguito soprattutto in Francia e in Inghilterra creando una vera e propria tendenza (palladianesimo).

La formazione e le prime opere L'incontro col letterato umanista Giangiorgio Trissino, che lo impiegò nella costruzione della sua villa a Cricoli presso Vicenza, fu fondamentale nella formazione del giovane Palladio, prima ancora dell'esaltante scoperta del mondo classico durante il viaggio a Roma del 1541, sempre col Trissino. Già le prime opere, antecedenti al viaggio romano (Palazzo Civena a Vicenza; Villa Marcello a Bertesina; la già compiutamente originale Villa Godi a Lonedo), dimostrano l'assimilazione della lezione di Sansovino e Sanmicheli, arricchita nei successivi viaggi a Roma (1545, 1547, 1549) dallo studio delle antichità dell'epoca romana.

L'architetto delle "ville venete" La notorietà giunse con l'incarico, affidatogli dal Consiglio della città di Vicenza nel 1549, della ricostruzione delle logge del Palazzo della Ragione. Palladio divenne l'architetto prediletto dall'aristocrazia di Vicenza, caratterizzando il volto della città con edifici di grande rilievo, come il Palazzo Iseppo da Porto (1552), il Palazzo Chiericati (1551-52), la Villa Capra, detta La Rotonda (1550-51), opera in cui si

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Prospetto del Palazzo Iseppo da Porto (1552), Vicenza

inaugura lo schema della villa-tempio, Palazzo Thiene (1556-58). Palladio ottenne anche prestigiosi incarichi a Venezia, divenendo nel 1570, alla morte del Sansovino, architetto ufficiale della Serenissima. Tra la fine degli anni ´50 e il decennio successivo si colloca un'intensa attività di costruzione di ville nella campagna veneta: dalla semplicità polemica di Villa Emo a Fanzolo, all'articolata complessità della Malcontenta presso Mira; dalla programmatica classicità di Villa Cornaro a Piombino Dese, alle variazioni intellettualistiche di Villa Barbaro a Maser; dalla rievocazione archeologizzante di Villa Badoer a Fratta Polesine, all'estroso riferimento ai modelli manieristi di Giulio Romano in Villa Sarego a S. Sofia di Pedemonte.

Le opere tarde L'attività veneziana di Palladio iniziò col completamento del refettorio del Convento di S. Giorgio Maggiore (1560) e proseguì negli anni successivi col Convento della Carità (1560-61) e con le due uniche chiese palladiane, le chiese di S. Giorgio Maggiore (1566) e del Redentore (1576). Le opere tarde di Palladio, come Palazzo Valmarana (1566) o Palazzo Thiene Bonin Longare (dopo il 1571), indicano una complessa riflessione su temi michelangioleschi. Ultimo capolavoro di Palladio fu il Teatro Olimpico di Vicenza, portato a termine da V. Scamozzi. Dell'opera, delle idealità, della cultura di Palladio è testimonianza preziosa il suo celebre trattato I quattro libri dell'architettura (1570).

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CARAVAGGIO

Caravaggio è il soprannome di Michelangelo Merisi (1571-1610), pittore di origine lombarda figlio di un architetto. Nei suoi anni di apprendistato Caravaggio si muove sulle esperienze della pittura lombardo-veneta, in particolare di artisti quali Giovan Gerolamo Savoldo o Giovan Battista Moroni, nei quali compare già un controllo dell’effetto cromatico-luminoso che potremmo definire, a posteriori, di caravaggesca sensibilità. Nel 1593 Caravaggio giunse a Roma per restarvi fino al 1606. In questi tredici anni di soggiorno romano l’artista maturò la sua grande cifra stilistica, che lo portò ad essere uno dei maggiori riferimenti di tutta la pittura europea del XVII secolo e oltre. A Roma condusse una vita sregolata, segnata da episodi non sempre chiari, fino a quando, il 29 maggio 1606 uccise un ragazzo per un banale litigio. Fu quindi costretto a fuggire e cominciò una peregrinazione che si chiuse, quattro anni dopo, con un epilogo non felice. Dopo essersi stabilito per un anno a Napoli, fu costretto a riparare a Malta, onde sfuggire all’estradizione che ne aveva chiesto lo Stato pontificio. Qui rimase per un certo tempo ma poi, per contrasti avuti con l’Ordine dei Cavalieri di Malta, fu costretto a fuggire nuovamente. Si portò in Sicilia dove si spostò tra Siracusa, Messina e Palermo. Nell’ottobre del 1609 fu di nuovo a Napoli e qui, dopo alcuni mesi, fu riconosciuto da alcuni Cavalieri di Malta e ferito in un agguato. Dopo essersi ripreso dalle gravi ferite, fu raggiunto dalla notizia che il papa gli avrebbe perdonato l’omicidio compiuto. Si diresse verso Roma via mare e sbarcò a Porto Ercole. Qui fu arrestato e poi rilasciato dopo due giorni. Ma dopo aver constatato che era stato derubato di tutto, fu preso da forti febbri e morì sulla spiaggia di Porto Ercole il 18 luglio 1610. Si concludeva così, a meno di quarant’anni, la vita di uno dei più grandi pittori mai esistiti, che passerà alla storia come il prototipo

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Deposizione dalla croce, Caravaggio

dell’artista maledetto: il genio che vive la sua vita al di là dei limiti, andando inevitabilmente incontro ad un destino tragico, perché non potrà conciliare diversamente la sua natura umana con la sua prepotente genialità. Le opere di Caravaggio sono divenute tutte celeberrime, e costituiscono ognuna un’icona stessa dell’arte pittorica, divenute modelli per infinite ispirazioni. Ma, dovendo sintetizzare l’enorme contributo che Caravaggio diede alla pittura europea del suo tempo, due sono i punti di maggior forza ed interesse: il realismo e l’effetto-notte.

La prima grande novità della sua pittura è che Caravaggio non trasfigura mai i suoi soggetti. Se egli prende un ragazzo di strada per farlo posare come modello per un

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Bacco, nel quadro che realizza, il Bacco rappresentato avrà le fattezze precise del modello: non un’astratta immagine convenzionale che possiamo attribuire al dio greco, ma il ritratto sputato di un ragazzo del primo Seicento. Questo realismo così intenso ed esasperato nasceva da una posizione concettuale molto distante dai precetti pittorici rinascimentali. Il pittore non era tenuto a conoscere la geometria precisa (conoscibile solo intellettualmente) dei corpi e dello

Vocazione di san Matteo è un dipinto realizzato tra il 1599 ed il 1600 ispirato all'episodio raccontato in Matteo 9,9-13.

Si trova nella Cappella Contarelli, nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma

spazio che rappresentava, ma ad osservare attentamente solo ciò che l’occhio proponeva alla visione. Le posizioni sono antitetiche: in un quadro rinascimentale vi è la chiarezza dell’immagine, che è chiara nella sua struttura interna anche se non sempre visibile. Nei quadri di Caravaggio l’immagine è solo ciò che appare dalla visione: ciò che non si vede non interessa. Un’attenzione così puntuale ed intensa a cogliere il dato visibile gli impedisce qualsiasi idealizzazione o trasfigurazione del reale. La sua pittura ha un’aderenza così intima e totale alla realtà che con lui, in pratica, nasce il realismo nella pittura moderna. E ne deriva una diversa concezione estetica: l’arte non è più il luogo dove la realtà trova un ordine nuovo basato sulle aspettative di bellezza e perfezione dell’animo umano, ma il luogo dove la realtà ci assale con tutta la sua drammaticità. La vita è il luogo delle contraddizioni: l’arte,

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L’opera, realizzata dal Caravaggio sul finire del XVI secolo, rappresenta un momento cruciale per tutta la storia dell’arte;

con essa, infatti, Caravaggio contravviene alle gerarchie e inaugura una nuova, straordinaria fase pittorica. Un cesto con pochi frutti e foglie in parte rinsecchite

viene elevato al rango di protagonista dell’arte, non più come oggetto ma come soggetto in pittura.

perché è finzione, può risolverle e superarle (e questa è la posizione idealista), oppure può semplicemente rappresentarle (e questa è la posizione realista). Nei quadri di Caravaggio un’attenzione particolare è sempre riservata alla luce. Non poteva essere diversamente visto che egli perseguiva una pittura realista. Ma il dato stilistico che egli inventa è l’abolizione dello sfondo per circondare le immagini di oscurità. Ottiene così un effetto molto originale: le sue immagini sembrano sempre apparizioni dal buio. Le figure appaiono grazie a sprazzi di luce: una fiaccola, uno spiraglio di finestra aperta. In questo modo l’immagine che si coglie è solo una parte della realtà: solo quel tanto che la debole illuminazione ci consente di vedere. Il resto rimane avvolto dall’oscurità, ossia dal mistero. È il buio che domina in queste immagini, quasi ad accentuarne la drammaticità. Perché questo buio è una specie di notte calata sul mondo, per assorbirne i lati più gradevoli, e lasciarvi solo paura e terrore. Il buio è il luogo stesso delle nostre angosce e paure nei confronti di dolori, morte, sofferenze. I quadri di Caravaggio ci riportano proprio a questo territorio: è la pittura più drammatica mai vista fino ad allora, e rappresenta inevitabilmente quella oscurità, fatta di inquisizione e terrore, che sembra calata sulle coscienze dopo l’avvento della Controriforma.

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LUIGI VANVITELLI

Luigi Vanvitelli (Napoli, 12 maggio 1700 – Caserta, 1º marzo 1773) è stato un pittore e architetto italiano di origine olandese. Il Vanvitelli è considerato uno dei maggiori interpreti del periodo del Rococò; eseguì un cospicuo numero di opere che ancor oggi caratterizzano il paesaggio di varie città italiane: a Caserta la scenografica Reggia, alla quale il suo nome è tuttora indissolubilmente legato, e l'imponente acquedotto Carolino; ad Ancona il grande Lazzaretto, su un'isola artificiale pentagonale da lui realizzata, e la chiesa del Gesù; a Napoli il Foro Carolino, il palazzo Doria d'Angri, la chiesa della Santissima Annunziata; a Roma il difficile restauro della Basilica di Santa Maria degli Angeli.

The Bay of Naples, Luigi Vanvitelli

Si affermò in seguito alla partecipazione ai concorsi per la Fontana di Trevi e per la facciata di San Giovanni in Laterano: i suoi progetti, pur non risultando vincitori, furono molto apprezzati e ne rivelarono l'estro artistico. Assurto a notorietà, fu molto attivo in centro Italia, in particolare ad Ancona e a Roma, per poi essere assunto al servizio di Carlo di Borbone, per il quale realizzò, a partire dal 1752, la celebre Reggia di Caserta. L'eclettismo delle sue realizzazioni e la versatilità del suo estro creativo rendono Vanvitelli un architetto difficilmente inseribile entro i ristretti orizzonti di una definita corrente artistica: la produzione del Vanvitelli appare pertanto non priva di contraddizioni, tipiche del periodo di transizione fra barocco e neoclassicismo. Generalmente, si può affermare che il linguaggio vanvitelliano da una parte raccoglie l'eredità delle esperienze tardo-barocche, e dall'altra promuove le nuove soluzioni

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architettoniche offerte dal neoclassicismo; in ogni caso, continuano i dibattiti per inserire il Vanvitelli nella schematicità scandita dalla suddivisone in stili artistici. Dalle testimonianze, inoltre, sappiamo che Vanvitelli non era un assiduo frequentatore della vita mondana napoletana; ciò malgrado, quando il lavoro glielo permetteva, amava recarsi a teatro, specialmente al San Carlo. Per allontanarsi dalle normali occupazioni e ricrearsi, inoltre, spesso il Vanvitelli giocava a lotto, inoltrando al fratello Urbano soldi e istruzioni ben precise sui numeri da scegliere, spesso in riferimento a episodi bizzarri avvenuti a Napoli, seguendo così i dettami dell'interpretazione cabalistica.

Opere di Luigi Vanvitelli in Italia • Acquedotto Carolino • Arco Clementino • Basilica della Santissima Annunziata Maggiore • Basilica di Sant'Andrea delle Fratte • Chiesa dei Santi Marcellino e Festo • Chiesa di Sant'Antonio dei Portoghesi • Duomo di Ancona • Fontana del Vanvitelli • Mole Vanvitelliana • Palazzo Colonna • Reggia di Caserta • Villa Campolieto

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LOUIS LE VAU

Il castello di Vaux-le-Vicomte

Louis Le Vau (Parigi, 1612 – Parigi, 11 ottobre 1670) è stato un architetto francese. Contemporaneo di Mansart e di Jacques Lemercier, Louis le Vau è stato uno dei creatori del classicismo barocco francese, ossia lo stile "Luigi XIV" che ha saputo ben sposarsi con l'arte barocca. Il suo stile si distingue per la semplicità delle costruzioni e per le eleganti decorazioni. La sua più grande opera è il castello di Vaux-le-Vicomte. Da non confondersi col fratello François Le Vau, architetto della chiesa di Saint-Louis-en-l'Île à Paris. Suo padre, anch'egli Louis, abbandona la sua attività di intagliatore di pietre nel 1634 per darsi all'edilizia e diventare poi nel 1635 maestro edile. Il giovane Louis collabora col padre con disegni e consigli, che gli permettono di cominciare proprio in quegli anni la sua carriera di architetto e di entrare nel cantiere dell'île Saint-Louis, occupandosi di svilupparla per renderla una zona abitabile. Costruisce delle dimore ordinarie: tre per Nicolas Pontheron, due per Guillaume Véniat e Denis Postel, tre per Pierre Chomel e sette per Antoine Le Marier, ma anche per dei ricchi clienti come Sainctot, Hesselin, Gruyn des Bordes, Jean-Baptiste Lambert, o Gillier (« Hôtel de Gillier », sul quai d'Anjou negli anni 1637-1639), e infine delle residenze di campagna.

Il castello di Vaux-le-Vicomte Diviene celebre nel 1654 per la nomina a primo architetto del Re Luigi XIV. Nel 1656, Nicolas Fouquet gli commissiona la costruzione di Vaux-le-Vicomte, dove

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punta alla grandiosità e non al rispetto dei canoni dell'architettura classica. Al centro della facciata dal lato del giardino Le Vau crea un salone ovale che fuorisce dalla struttura cubica dell'edificio e permette, dall'interno, une vista panoramica sui giardini creati da André Le Nôtre. Questo tipo di salone avrà una grande posterità durante nell'architettura dei castelli francesi del Settecento. Dopo il 1660 e la disgrazia di Fouquet lavora per il Re Luigi XIV, come il pittore Charles Le Brun et Le Nôtre: completa il castello di Vincennes costruendo i padiglione del Re e della Regina e l'hôpital de la Salpêtrière, lavora alle facciate delle Tuileries, ricostruisce la Galleria di Apollo al Louvre e vi realizza ulteriori abbellimenti. Verso la fine della sua vita, cura i lavori di ampliamento della castello di Versailles, creando la cosiddetta "Enveloppe", un grande edificio che ingloba il vecchio castello di pietra e mattoni di Luigi XIII che Luigi XIV voleva conservare. A Parigi, Le Vau progetta il Collège des Quatre Nations, con la sua famosa piazza ellittica che si affaccia sulla Senna. Alla sua morte viene rimpiazzato da Jules-Hardouin Mansart come primo architetto del Re sul cantiere della reggia di Versailles.

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PITTURA DI GENERE VEDUTE CAPRICCI PAESAGGI

La veduta

Se nel Seicento la veduta si caratterizza già come soggetto autonomo tra i generi pittorici, ispirandosi alla cartografia, nel corso del Settecento si afferma sempre più come rappresentazione aderente al reale e differente dal genere del paesaggio. Con artisti come Canaletto e Bellotto, il repertorio iconografico della veduta varca i confini nazionali per diffondersi in tutta Europa.

Il termine “veduta” designa la rappresentazione in forma prospettica di una realtà architettonica o urbana: si distingue perciò dal più ampio genere del paesaggio che ritrae principalmente elementi naturali. In Italia, nel XVII secolo, “veduta ” è sinonimo di “prospettiva” e come riferisce il Baldinucci: “Dicono i nostri artefici talvolta veduta per lo stesso che prospettiva, o lontananza in prospettiva”. Nel

Capriccio con fiume e ponte, Bernardo Bellotto

Seicento essa si caratterizza già come soggetto autonomo, al sesto posto nella gerarchia dei generi pittorici del nobile “dilettante” Vincenzo Giustiniani (Discorso sopra la pittura, 1610 ca.). Nel corso del Settecento, poi, col perfezionarsi delle

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tecniche rappresentative e col diffondersi della “camera ottica”, la veduta tende a divenire “scientifica”, esatta e aderente al reale. Per il carattere stesso di “documento”, essa rappresenta uno dei generi più richiesti dai viaggiatori stranieri che giungono in Italia per il Grand Tour. Non solo le vedute dei monumenti antichi e moderni di Roma – meta privilegiata del viaggio in Italia – ma anche quelle delle piazze, delle chiese e dei luoghi delle città italiane (Venezia, Napoli, Firenze ecc.) divengono oggetto di un fiorente mercato che si prolunga fino all’Ottocento. Grazie ad artisti quali Canaletto e Bernardo Bellotto, il repertorio iconografico della veduta si estenderà alle maggiori capitali europee: Londra, Dresda, Vienna, Varsavia e San Pietroburgo. I precedenti della veduta, intesa come rappresentazione topografica, si ritrovano nell’opera di alcuni artisti olandesi del XVII secolo, tra cui Pieter Saenredam, Gerrit Berckeyde e Jan van der Heiden. Nell’ambito della pittura di genere, questi artisti introducono un repertorio specifico di vedute urbane e panorami, ricorrendo all’uso della “camera ottica”. Il carattere descrittivo, privo di enfasi e fedele al dato reale, reso con tecnica precisa e minuziosa, è del resto il risultato di una cultura, quale l’olandese, che ha alle spalle una solida tradizione cartografica e detiene il primato negli studi dell’ottica.

La differenza tra veduta e paesaggio del ‘600 è che quest’ultimo viene idealizzato, non coincide con la realtà, mentre la veduta settecentesca è un anticipo alla fotografia, possiamo definirla come il cammino alla modernità. Grandi artisti veneziani vissuti anteriormente a queste date, anticiparono questi concetti anche se con un significato differente: l’ambiente dove vivono le persone, ambiente sociale o le differenze della società dell’epoca. La città è un scenario per il pittore e lo utilizza come sfondo di quello che vuole raccontare (Carpaccio, Bellini, Tiziano, Giorgione, Sebastiano del Piombo). Nel ‘700 tutto cambia, la protagonista è la veduta, indipendentemente della presenza attiva dell’uomo, predomina la logica, ovvero le capacità organizzative, sociali ed economiche della società in cui sono inseriti. Molti committenti stranieri vogliono quadri che rappresentano vedute come se si trattasse di una finestra aperta ad uno scorcio determinato di una città, soprattutto persone che non potevano permettersi il lusso di viaggiare e non desideravano rinunciare ad avere almeno uno scorcio di quella località. Canaletto è un maestro del vedutismo e possiamo definirlo come l’inventore della prospettiva atmosferica, ovvero una dimensione fantastica irreale: una documentazione precisa dell’ambiente colto dalle infinite sfumature della luce distese sui cieli e sulle acque. La maestria del veneziano Canaletto, che attraverso le loro vedute si fanno testimoni di una città in costante evoluzione e che presto diverrà l’emblema della metropoli moderna.

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Napoli, di Gaspard van Wittel

Gaspard van Wittel e la veduta settecentesca in Europa

L’olandese Gaspard van Wittel – il cognome verrà italianizzato in Vanvitelli – diffonde in Italia, a partire dagli ultimi decenni del Seicento, un nuovo tipo di veduta urbana, copia esatta del reale e rispondente a criteri descrittivi fino allora sconosciuti nella cultura artistica italiana. Nel 1675 van Wittel giunge a Roma in qualità di cartografo e accompagna l’ingegnere idraulico Cornelis Mayer, incaricato da papa Clemente X (1670-1676) di tracciare la mappa del percorso del Tevere da Perugia a Roma. Da questa attitudine a riprodurre fedelmente il paesaggio attraverso i rilievi van Wittel approfondisce una vena realistica e documentaria, già riscontrabile nelle primissime vedute delle piazze di Roma che esegue negli anni Ottanta. Attivo fino al 1730, anno delle ultime opere, realizza un catalogo completo delle vedute di Roma – tra panorami, chiese, palazzi e ponti – sperimentando oltre cinquanta “punti di vista”, la maggior parte dei quali inediti. I viaggi compiuti da van Wittel attraverso l’Italia, a Venezia, Firenze e Napoli, costituiscono una tappa fondamentale per gli sviluppi della veduta topografica fuori di Roma: la sua presenza a Venezia intorno al 1694 è di sicuro riferimento per l’ambiente artistico lagunare e in particolare per Luca Carlevarijs. Inoltre, durante il periodo trascorso a Napoli su invito del viceré Don Luis de la Cerda, tra 1700 e 1701, van Wittel realizza una serie di vedute panoramiche della città vista dal mare nella sua estensione costiera: vedute che contribuiscono al definirsi di un’’immagine più realistica, inserendosi nella tradizione cartografica locale che a Napoli risaliva alla metà del XV secolo con la Tavola Strozzi. È poi l’emiliano Giovanni Paolo Panini, o Pannini, a introdurre nella veduta di Roma un carattere diverso da quello più topografico di van Wittel, riproposto quasi senza varianti dall’olandese Hendrick van Lind.

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Grazie alla sua abilità prospettica, l’artista si impone nella prima metà del Settecento, divenendo pittore ufficiale dell’ambasciatore di Francia a Roma Melchior de Polignac. Accanto alla rappresentazione di cerimonie e feste pubbliche, di cui restituisce con esattezza i complessi apparati architettonici e decorativi, Panini si dedica con successo alla produzione di capricci, assai richiesti dal collezionismo d’élite. Claude-Joseph Vernet, pittore di paesaggi e marine, si aggiorna al gusto della veduta topografica con la serie dei Porti della Francia, comprendente quindici vedute dei principali porti francesi di grande formato (1753-1765). Ripresi nel pieno fervore dei traffici commerciali, secondo ampie panoramiche che includono il profilo urbano delle città e di alcuni monumenti, i Porti di Vernet vengono divulgati soprattutto attraverso incisioni. Del resto la commissione, tra le più prestigiose assegnate a un pittore sotto il regno di Luigi XV, si inserisce nel disegno politico di propagandare visivamente, attraverso le immagini dei maggiori porti marittimi, la realtà del potere economico e militare francese.

Veduta di Piazza San Marco, Luca Carlevarijs

Negli ultimi decenni del Seicento, Luca Carlevarijs pone le basi della veduta veneziana, inserendosi nella consolidata tradizione vedutistico-topografica risalente a Vittore Carpaccio e a Gentile Bellini. Grazie a un viaggio a Roma, tra il 1685 e il 1690, Carlevarijs viene infatti a conoscenza di un repertorio che spazia dai porti di Claude Lorrain alle invenzioni prospettiche di Viviano Codazzi e alle vedute dell’olandese van Wittel. E proprio l’opera di quest’ultimo risulta determinante per l’avvicinarsi di Carlevarijs, dopo il ritorno in patria, a un tipo di veduta più esatta che anticipa Canaletto.

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In apertura di secolo, nel 1703, egli pubblica una raccolta di 104 acqueforti intitolata Fabriche e vedute di Venetia, disegnate, poste in prospettiva et intagliate. L’opera è fondamentale per il repertorio pressoché completo di chiese, palazzi, campi e vedute inedite della Serenissima, ma anche per il rilancio e la diffusione a Venezia della veduta incisa sul modello di quella romana del Seicento. Con Giovanni Antonio Canal (detto Canaletto) e Bernardo Bellotto, artisti che lasceranno Venezia per raggiungere rispettivamente Londra e le corti di Dresda, Vienna e Varsavia, la veduta tocca il culmine di aderenza al dato oggettivo e assume una portata europea. Trattando dell’opera di Canaletto, considerato il vedutista per antonomasia e il topografo esemplare, soprattutto per il grado supremo cui spinge la tecnica nella ricerca di una “certezza illuministica di verità assoluta” (Roberto Longhi) è utile considerare la recente posizione critica di André Corboz, che mira a ridimensionare l’immagine ormai consolidata di Canaletto “foto-topografo” e antesignano della fotografia. Sulla base di un’attenta analisi dell’opera e di un confronto meticoloso tra le vedute reali di Venezia e quelle dipinte dall’artista, Corboz individua svariate incongruenze: spostamenti d’asse, aggiunte o sottrazioni e numerose manipolazioni; modifiche dovute probabilmente al modo di lavorare dell’artista che elabora e “monta” la veduta nello studio, servendosi allo stesso tempo di disegni presi dal vero, di altre immagini ottenute con la camera ottica e di vedute tratte da stampe. Il risultato finale è quindi una sintesi di queste diverse immagini. Della formazione e delle prime prove di Canaletto non rimane alcuna testimonianza. È solo a partire dal 1720, dopo un viaggio a Roma, che Canaletto inizia a dedicarsi alla pittura di vedute. Tra le prime opere conosciute, la Veduta di piazza San Marco rivela ancora certe reminiscenze di tipo scenografico, quali l’orizzonte alto e il carattere d’impianto scenico della piazza maturate nell’orbita del padre Bernardo Canal, pittore e scenografo teatrale. Grazie alla protezione del residente, poi console inglese a Venezia, Joseph Smith, che diviene presto il suo principale collezionista e agente esclusivo, Canaletto vende la maggior parte delle sue vedute sul mercato inglese. E sempre su iniziativa di Smith, che intende promuovere l’opera dell’artista su più vasta scala, nel 1735 viene data alle stampe la raccolta di quattordici vedute incise da Antonio Visentini (Prospectus Magnificentissimi Canalis), cui fa seguito al principio degli anni Quaranta la serie incisa con successo dallo stesso Canaletto, Vedute. Altre prese dai Luoghi. Altre ideate, comprendente vedute reali e capricci di fantasia. Risalgono poi al 1744 le tredici sopraporte realizzate per Smith e improntate al genere del capriccio, che in area veneta raggiunge esiti di grande qualità con Marco Ricci; il capriccio accompagna tutta la produzione di Canaletto, muovendo dagli stessi presupposti prospettici e compositivi della veduta. Tra il 1730 e il 1740, negli anni in cui le vedute veneziane sono richiestissime dai forestieri, Canaletto trova un valido collaboratore nel nipote Bernardo Bellotto. Negli stessi anni Michele Marieschi opera nel campo della veduta, stravolgendone i paradigmi prospettici: a differenza di Canaletto, Marieschi restituisce un’immagine di

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Venezia distorta, amplificata e fittizia, utilizzando gli artifici della tecnica teatrale che gli vengono dalla sua formazione scenografica. Nel 1746 Canaletto si trasferisce a Londra per quasi dieci anni, dedicandosi per la prima volta al paesaggio di terraferma e continuando a produrre vedute di Venezia per i suoi collezionisti inglesi. L’anno successivo Bernardo Bellotto viene invitato alla corte di Dresda, in qualità di pittore di corte, presso il principe elettore Federico Augusto; dal 1759, poi, a causa della guerra dei Sette anni, Bellotto passa a Vienna e in seguito a Monaco e a Varsavia. Durante il lungo soggiorno a Dresda, tra il 1747 e il 1759, Bellotto realizza una serie di vedute che documentano lo sviluppo e la rinascita urbana della città dopo il disastroso incendio del 1685. Calate nella luce densa e fredda del paesaggio nordico, le vedute di Bellotto (che si firma “Canaletto”) riprendono i luoghi monumentali,

Johann Friedrich Meyer

senza trascurare quelli meno noti; esse mostrano la vocazione paesaggistica dell’artista e il virtuosismo prospettico nei tagli panoramici o ravvicinati uniti al rigore dell’osservazione. Dal 1767 al 1780, dopo brevi soggiorni a Vienna e Monaco, Bellotto trascorre a Varsavia, presso la corte del raffinato sovrano Stanislao Augusto Poniatowski, gli ultimi anni della sua vita, realizzando una perfetta intesa col proprio mecenate. Sull’esempio delle vedute di Bellotto, concepite quali celebrazioni delle capitali dei regni di Sassonia, d’Austria e di Polonia, il pittore Johann Friedrich Meyer – nativo di Dresda, ma dal 1751 attivo a Potsdam – esegue per Federico II di Prussia una serie di vedute di Potsdam (1771-1775) che illustrano le varie parti della città e della residenza imperiale del castello di Sansouci, documentando in progress gli interventi urbanistici, gli abbellimenti di viali e piazze e la costruzione di nuovi edifici. La fortuna della veduta, consolidatasi nelle corti dell’Europa centrale, raggiunge quindi San Pietroburgo e, durante il regno di Caterina II, contribuisce al diffondersi del nuovo volto urbanistico di stampo europeo della giovane capitale.

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Sulla scena artistica veneziana del secondo Settecento, dopo la prematura morte di Marieschi e l’allontanamento di Canaletto e Bellotto, si afferma Francesco Guardi che si avvicina gradualmente alla veduta: dapprima animando con personaggi le prospettive di Marieschi, in seguito derivando i suoi soggetti pittorici direttamente dalle incisioni di Canaletto. Su queste premesse la ricerca di Guardi si sviluppa però in direzione opposta alla visione canalettiana, di cui mette in crisi la solare evidenza e oggettività. Una Venezia frantumata e priva di consistenza, sfaldata nella luminosità e nella materia atmosferica, è l’immagine data dall’ultimo grande vedutista veneziano, alla vigilia della caduta della Serenissima.

Giuseppe Zocchi e la veduta a Firenze

Il successo delle vedute incise, facilmente accessibili e divulgabili, trova immediato riscontro anche in altre città italiane, sull’onda delle raccolte realizzate da Giuseppe Vasi a Roma e da Carlevarijs e Canaletto a Venezia. Giuseppe Zocchi, pubblicando nel 1744 una fortunata serie di vedute di Firenze (Scelta di XXIV vedute delle principali contrade, piazze, chiese e palazzi della città di Firenze), introduce nella città granducale il gusto settecentesco della veduta topografica. La visione analitica dello Zocchi risale a van Wittel, che aveva lasciato testimonianza di alcune vedute della città di Firenze, mentre sul piano dell’animazione le sue vedute si distinguono per l’attenzione riservata alle figure che conservano ancora qualche caratteristica della “scena di genere”. Il pittore inglese Thomas Patch, trasferitosi a Firenze nel 1756, si dedica alla veduta rifacendosi direttamente alle incisioni dello Zocchi. Insieme con la produzione di conversation pieces e di caricature, le vedute di Patch incontrano i gusti di una clientela soprattutto britannica, con la quale il pittore viene a contatto nel circolo di Horace Mann, inviato di Sua Maestà britannica presso il Granduca di Toscana.

La veduta a Napoli

Le sensazionali scoperte di Ercolano e Pompei insieme al fascino suscitato dai templi di Paestum, riportati all’attenzione degli eruditi, incrementano a Napoli e in tutto il territorio campano il continuo afflusso di viaggiatori stranieri. Così, al pari di Roma, nella seconda metà del secolo Napoli diviene centro cosmopolita e tappa fondamentale del Grand Tour, alimentando anch’essa un fiorente mercato della veduta. Sulle fondamentali premesse napoletane di van Wittel si fonda la lucida ricerca del modenese Antonio Joli, approdato a Napoli intorno alla metà del Settecento, dopo una lunga carriera di successi come scenografo tra Venezia, Londra e Madrid. Sviluppando il taglio panoramico, Joli realizza un’ampia rassegna di vedute napoletane e delle città dell’Italia meridionale, soprattutto su richiesta di aristocratici viaggiatori. E proprio le sue vedute dei templi di Paestum (1759), tra le primissime testimonianze di quei luoghi, sono all’origine della loro fortuna iconografica.

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La naturale seduzione del paesaggio napoletano si aggiunge quale ulteriore fattore di attrazione turistica: il golfo e il Vesuvio, nelle immagini solari o in eruzione, diventano i motivi portanti dell’iconografia napoletana insieme col repertorio di antichità, disseminato in tutta la regione. Tali soggetti, dunque, oltre a stimolare la varietà della veduta, rappresentano i presupposti per una irripetibile stagione della pittura di paesaggio.

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PITTURA DI CANALETTO

Canaletto è stato un importantissimo paesaggista veneziano del XVIII secolo, un vedutista. Lavorò anche come tipografo e incisore, realizzando opere a Venezia e in Inghilterra. Suo padre, Benedetto Canal (1674-1744), presso il quale si formò, era un pittore di scenografie teatrali. Dopo un importante soggiorno romano, Canaletto, affascinato dalla città e dai suoi abitanti, iniziò a dipingere vedute. I suoi quadri, oltre ad unire nella rappresentazione topografica, architettura e natura, risultavano dalla scelta di precise condizioni di luce per ogni particolare momento della giornata e da un'indagine condotta con criteri di oggettività scientifica: in concomitanza col maggiore momento di diffusione delle idee razionalistiche dell'Illuminismo, l'artista insistendo sul valore matematico della prospettiva, si avvalse, nei suoi lavori, della camera ottica. Era lo zio del pittore Bernardo Bellotto, anche lui talora noto come Canaletto.

Si ispirò notevolmente al lavoro di altri vedutisti italiani, come Paolo Giovanni Pannini (1691-1756). Tornato a Venezia, iniziò a dipingere paesaggi, tra cui uno dei suoi pezzi più noti, il Cortile dello scalpellino (1726-1730). In questo periodo probabilmente studiò presso Luca Carlevarijs (1663 – 1730), un paesaggista veneziano. La sua prima opera documentata è un Capriccio del 1723. In questi primi anni si impratichì nello stile a mano libera, caratterizzando i propri lavori per l'accuratezza dei dettagli, che portarono a uno stile topografico.

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Dipingeva ampie vedute dei canali veneziani e del suo Palazzo Ducale, esempio di architettura gotica. Erano opere molto ricercate dai collezionisti del tempo, come ad esempio Il Canal Grande e la chiesa di Santa Maria della Salute del 1730 e Il Bucintoro al Molo il giorno dell'Ascensione del 1732. Sono di questo periodo anche Il Palazzo Ducale e piazza san Marco e la Veduta del Canal Grande che si trovano agli Uffizi. In alcune opere riprese anche le rappresentazioni storiche e le feste cittadine, utilizzando uno stile impressionistico, in anticipo sui tempi.

Il mago della prospettiva

Il fatto di essere figlio di uno scenografo professionista gli consentiva di utilizzare perfettamente le tecniche della prospettiva in funzione dello strumento. Tale perizia lo portò ad individuare alcuni espedienti nelle sue rappresentazioni come ad esempio: - collocare il punto di vista in posizione rialzata rispetto all'occhio oppure in luoghi poco accessibili alle persone (il terrazzo di un palazzo, una barca in un canale o altro);- produrre delle viste grandangolari rappresentando la scena al di là del suo naturale quadro prospettico, conferendo così un'ampiezza particolare alla rappresentazione.

Dal punto di vista metodologico, era solito utilizzare due particolari sistemi di ripresa: mantenere fermo il punto di vista e disegnare due o più prospettive ruotando il quadro prospettico gradualmente. In questo caso si ottiene quindi un unico punto di vista e diversi punti principali, uno per ciascuna prospettiva di base. Il dipinto è il risultato della composizione delle diverse prospettive. Un utilizzo particolarmente sofisticato e intelligente della camera ottica e delle tecniche della prospettiva gli permetteva di rappresentare le vedute utilizzando le porzioni meno scorciate e più descrittive di due o più prospettive.

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E' molto probabile che questi trucchi prospettici derivino dall'esperienza che Canaletto fece in giovane età lavorando come scenografo di rappresentazioni teatrali. Infatti seguì ed aiutò il padre Bernardo nel suo lavoro di pittore di scena prima a Venezia e successivamente a Roma. Con una tale tecnica compositiva l'osservatore del dipinto non riesce a percepire il corretto punto di vista venendo così par- zialmente ingannato dalla rappresentazione prospettica della veduta. Un esempio in cui tale sistema prospettico risulta evidente è il dipinto Campo S. Apostoli a cui è stata contrapposta una fotografia scattata con una macchina fotografica con obiettivo da 35 mm. Nel quadro si percepisce immediatamente la notevole ampiezza del campo rispetto alla realtà. Ancor più impressionante è la raffigurazione della piazza nel dipinto "Piazza San Marco, verso la libreria, tra gli scorci della Basilica e la Chiesa di San Geminiano" dove la raffigurazione della realtà è paragonabile ad una fotografia ripresa con un moderno obiettivo fisheye che allarga la visione creando però delle forti aberrazioni ottiche che non risultano particolarmente evidenti nei dipinti del Canaletto. Dato l'interesse di alcuni mecenati inglesi, Canaletto si trasferì in Inghilterra nel 1746, restandovi più o meno fino al 1755. Anche le opere realizzate sull'isola presentano ampie vedute, tra cui quella del ponte di Westminster, del 1746 e di Northumberland House, del 1752. Il suo stile iniziò però a risultare ridondante, considerato come una riproduzione meccanica, senza vita, e critici e mecenati persero interesse. A un certo punto, pare che Canaletto abbia dovuto dare pubblica dimostrazione del suo lavoro, per confutare l'accusa di essere un impostore. Si ritirò a Venezia, dove fu riaccolto cordialmente, e invitato all'Accademia nel 1763. Vi rimase e vi lavorò fino alla morte, che lo colse nel 1768. La sua opera, popolare durante la sua vita e per tutto il XVIII secolo, continua ad essere apprezzata e venduta alle aste. La sua eredità è riscontrabile nei suoi alunni, tra cui Francesco Guardi (1712-1793), Michele Marieschi (1710-1743), Giuseppe Bernardino Bison (1762-1844) e suo nipote Bernardo Bellotto (1720-1780).

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IMPRESSIONISMO E LA NASCITA DELLA FOTOGRAFIA

Il rapporto così stretto e intenso tra la pittura impressionista e la fotografia è imprescindibile: oltre a svilupparsi nello stesso periodo, uno dei più innovativi e creativi nella storia della cultura, queste due arti si caratterizzavano per il medesimo interesse primario, ovvero il trattamento della luce nella creazione di immagini. L’impressionismo si sviluppa in Francia nella seconda metà del XIX secolo sulle teorie di Goethe, Schopenhauer e soprattutto Chevreuil. Eredi delle esperienze di grandi maestri come Michelangelo, Tiziano, El Greco, Caravaggio, Rembrandt, ma anche della sperimentazione dei britannici Constable e Turner, più vicini nel tempo, gli impressionisti furono straordinari innovatori capaci di usare il colore in un modo rivoluzionario, che valorizzava la luce con una potenza sconosciuta. Questi pittori estraevano dalla tavolozza i colori “puri”, o saturi. Questi hanno la massima brillantezza: riflettono esclusivamente le radiazioni luminose del loro colore e assorbono totalmente le altre; i miscugli, al contrario, assorbono le diverse radiazioni in misure diverse, risultando in sfumature più smorte. Nella loro arte, i toni chiari contrastavano con le ombre complementari, gli alberi prendevano tinte insolite, come l’azzurro; il nero veniva quasi escluso in favore delle

Pierre-Auguste Renoir

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Le meraviglie dell'autocromia la fotografia alla fecola di patate

sfumature del blu più scuro o del marrone. Ogni cosa, perfino la neve e l’aria, aveva un colore. Quello tipico delle ombre era il violetto, complementare del giallo nella luce solare. Gli impressionisti impararono a sfruttare l’attitudine dell’occhio umano a decodificare le immagini utilizzando i dati dell’esperienza, associando e percependo colori anche dove non ci sono. Essi dissolsero le macchie cromatiche in punti di colore puro, sostenendo che i colori dovevano mescolarsi solo nell’occhio dell’osservatore. Grazie ad una sperimentazione infaticabile e ad un continuo confronto tra le diverse esperienze, essi impararono ad utilizzare colori “puri” organizzandoli in linee, macchie, puntini, lasciando all’occhio dello spettatore il compito di creare le tinte intermedie; in questo modo massimizzarono la brillantezza dei colori senza perdere nulla della fedeltà dell’immagine. La fotografia, nuovo miracolo della tecnica creato all’incirca negli stessi anni, non poteva che attrarre spiriti così attenti all’innovazione nel trattamento della luce. Genovesi ha documentato l’utilizzo di fotografie come modelli da parte di pittori come Gauguin, Cézanne, Toulouse-Lautrec, Degas, Van Gogh. Ed è interessante notare che mentre i pittori impressionisti venivano derisi e sbeffeggiati dalla critica, la loro prima esposizione ufficiale fu allestita, nel 1874, proprio nello studio di un fotografo, il ritrattista Félix Nadar. La fotografia si proponeva agli impressionisti come uno strumento efficacissimo per studiare, innanzitutto, la composizione delle scene. La capacità della fotografia di “fermare” le scene da ritrarre era un elemento di grande importanza per artisti che

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dipingevano quasi sempre all’aperto e che quindi erano condizionati dal cambiamento continuo delle condizioni di luce. Inoltre la fotografia (inizialmente solo in bianco e nero) forniva al pittore una grandissima quantità di informazioni sul comportamento della luce nel passaggio da una tonalità all’altra e sulla reale intensità luminosa delle diverse colorazioni, che spesso ingannano l’occhio. Ad esempio il sole dipinto da Monet nel famoso “Impressioni all’alba”, che sembra saltare fuori dalla tela con il suo rosso fuoco, se “virato” in bianco e nero dimostra invece di possedere una luminosità non superiore a quella delle grigie nubi circostanti. Sul fronte opposto operavano fotografi straordinari, come Stiegliz, Arning, Misonne, Proessdorf, Perscheid, Job, Hudson White, Kaesebier. Impegnati nello sviluppo dei canoni di un’arte integralmente nuova, essi si ispirarono alla pittura impressionista per definire le inquadrature e le modalità di composizione delle immagini. Genovesi ha mostrato un campionario di immagini tanto straordinarie quanto poco note, in cui l’influsso della pittura impressionista è così evidente che si fatica a capire se siamo di fronte ad un quadro o ad una fotografia. Questa confusione dell’occhio raggiunse il suo apice quando nel 1907 i fratelli Lumière, recenti inventori del cinema, svilupparono l’autocromia, una tecnica che consentiva di creare immagini a colori applicando un “filtro” a base di fecola di patate su un materiale fotosensibile. Fotografi come Lartigue, Personnaz, Kuehn utilizzarono questa tecnica per produrre immagini di grandissima qualità, capaci di rivaleggiare con quelle dei pittori a loro contemporanei (e certamente con quelle di moltissimi fotografi di oggi). A ben pensarci il rapporto così stretto e intenso tra la pittura impressionista e la fotografia non dovrebbe sorprendere: oltre a svilupparsi nello stesso periodo, uno dei più innovativi e creativi nella storia della cultura, queste due arti si caratterizzavano per il medesimo interesse primario, ovvero il trattamento della luce nella creazione di immagini. Purtroppo invece siamo vittime di un metodo di studio costruito per categorie chiuse e tra loro separate, al quale dovremmo ribellarci perché è falso e ci impedisce di cogliere la dinamica con cui la cultura evolve. L’arte, così come la scienza, si sviluppa nel confronto, grazie ad intelligenze capaci di valorizzare stimoli provenienti da tutti i mondi di creatività disponibili. Quando si incontra qualcuno in grado di proporre un metodo di studio che scardina queste distinzioni artificiose possono nascere momenti di vera cultura.

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LE FIGURE FEMMINILI NELLE OPERE DI RENOIR

Pierre-Auguste Renoir (Limoges 1841, Cagnes-sur-Mer 1919) ha dipinto le donne durante tutto l’arco della sua lunga carriera: oltre alla moglie, ci sono amanti, amiche, modelle professioniste o giovani donne incontrate per strada, attrici ed esponenti dell’alta borghesia. Dai suoi esordi all’epoca del Secondo Impero fino alla piena affermazione dell’Impressionismo nella seconda metà degli anni ’70 dell’Ottocento, dal ritorno alla tradizione e ad Ingres nel corso del decennio 1880, allo sfavillio rubensiano degli ultimi anni, il tema delle donne rappresenta la principale fonte d’ispirazione dell’artista, eterno oggetto di seduzione e incarnazione vivente dell’arte e del bello. Non a torto, ben presto Renoir sarà definito dalla critica il più grande pittore delle donne tra i suoi contemporanei: “È lui il vero pittore delle giovani donne di cui sa rendere, in quell’allegria di sole, il fiore dell’epidermide, il velluto della carne, la madreperla dell’occhio, l’eleganza della pettinatura”, scrive Huysmans quando visita la mostra impressionista del 1882. Man mano che l’artista si concentra sul motivo delle bagnanti, appare ormai come “il maestro di tutti, il grande pittore di nudo dei nostri tempi” (Arsène Alexandre). Se le prime grandi composizioni del pittore, come il Ballo al Moulin de la galette mostrano i giochi di seduzione dei suoi contemporanei e riattualizzano nella Parigi della Terza Repubblica le feste galanti di Watteau, a poco a poco, le figure maschili si eclissano per lasciare posto a un mondo esclusivamente femminile, quello delle ultime Bagnanti,giovanile e allegro. La forza dell’ideale che reca in sé Renoir lo spinge a creare un personaggio femminile originale, a metà tra la fanciulla di Montmartre dagli occhi ridenti, la robusta contadina dello Champagne e i modelli di Ingres, Fragonard e Tiziano. “Pittore delle donne, egli lo fu con passione ed è in lui che si riconoscerà domani l’interprete veritiero dell’ideale femminile moderno”, si legge sui giornali all’indomani della sua morte nel 1919. Questo ideale va incontro alla sensibilità di un’intera epoca e procura a Renoir una gloria quasi unanime. Nella Ricerca del tempo perduto (I Guermantes, 1920-1921), Marcel Proust scriverà: “In strada passeggiano donne diverse da quelle di una volta, perché sono opera di Renoir, le stesse in cui un tempo ci rifiutavamo di vedere delle donne”. L'opera di Renoir diventa persino il supporto privilegiato dei discorsi sul concetto di femminilità che ci si sforza più che mai di definire o reinventare in questa fase di rapide trasformazioni sociali a cavallo tra XIX secolo e XX secolo. Con le sue donne nel contempo moderne e primitive, animali e antiche, voluttuose o caste, Renoir risponde a suo modo alle paure del suo tempo. Renoir amava le donne. La maggior parte dei suoi soggetti erano femminili, spesso con queste donne aveva un legame, erano parenti, amiche o amanti. Anche suo figlio spesso venne vestito come una bambina, risultando in modo amabile e innocente nei suoi dipinti. Nei suoi ultimi anni, i nudi femminili divennero un tema importante: "Non penso di aver finito un nudo fino a quando penso che io potrei pizzicarlo".

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Lise Trehot

Vediamo quindi chi erano alcune delle donne ritratte spesso nei suoi dipinti, cercando di comprendere le loro relazioni con l'artista. Questo permetterà una migliore comprensione dello stato d'animo dell'artista, mentre ammiriamo le sue opere figurative.

Lise Trehot (1848-1922) Nel 1865, all'età di 24 anni, Renoir conobbe Lise Trehot, una ragazza di 16 anni che era cugina di un suo amico. I due ben presto divennero amanti inseparabili. Lise quindi fu la prima modella, e musa ispiratrice, di Renoir, dal 1865 fino al 1872 comparendo in oltre 20 suoi lavori. Utilizzando le tonalità e le sfumature del corpo pieno e robusto di Lise, i suoi occhi profondi e la cascata di capelli scuri, Renoir la ritrasse amorevolmente come una ninfa del bosco. Gli studiosi descrivono Lise come "la figlia del popolo che incorpora tutte le particolarità parigine". Nel 1870 Renoir fu chiamato alle armi per la guerra franco-prusiana. Due anni di lontananza furono troppi e nel 1872 Lise sposò un architetto, mettendo fine al suo rapporto con l’artista.

Nini Lopez

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Nini Lopez (nome d'arte Henriette Henriot) (1857-1944) Nini Lopez è la donna vestita alla moda in "La Loge” Nini era un'attrice soprannominata "faccia di pesce", Renoir la incontrò quando si trasferì a Montmartre per l'estate a dipingere "Bal du moulin de la Galette". Tra il 1876 e 1879, Nini, con i suoi occhi luminosi che guardavano intensamente l'artista, fu la modella che Renoir preferiva, comparendo in almeno 11 dei suoi lavori. Nini successivamente divenne famosa con il teatro Odeon. L'uomo col binocolo al suo fianco in "La Loge" è il fratello di Renoir; nell'immagine a destra (in alto) "Ritratto di Nini Lopez" del 1876 (Le Havre - MuMA Musée d'Art moderne André Malraux)

Marguerite Legrand

Marguerite Legrand (nota anche come Margot) (?-1879) L'incantevole ragazza che balla nel "Bal du moulin de la Galette" (1876) è Marguerite Legrand, che era conosciuta come Margot, una delle modelle preferite di Renoir dal 1875 al 1879, quando morì tragicamente di febbre tifoide, lasciandolo sconvolto e temporaneamente incapace di dipingere.Margot, si vede a sinistra mentre balla con il pittore cubano, Cardenas. La ragazza in abito a righe in primo piano è Estelle, la sorella di Janne Samary, altra modella di Renoir (vedi più avanti). Sul tavolo, in primo piano a destra, gli amici dell'artista: Frank Lamy, Norbert Goeneutte e Georges Rivière, che nella pubblicazione "L'Impressionniste" esaltò il Moulin de la Galette come "una pagina di storia, un prezioso monumento della vita parigina, raffigurato con rigorosa esattezza. Nessuno prima di lui aveva pensato di catturare qualche aspetto della vita quotidiana in una tela di così grandi dimensioni."