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METODOLOGIA DELLA RICERCA ANTROPOLOGICA (dott.ssa Cinzia Mantello) Insegnamento di Archeologia Medievale (Francesco A. Cuteri) Corso di Laurea in Storia e conservazione dei Beni architettonici e ambientali Facoltà di Architettura Università Mediterranea di Reggio Calabria (Anno Accademico 2010 - 2011)

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METODOLOGIA DELLA RICERCA

ANTROPOLOGICA

(dott.ssa Cinzia Mantello)

Insegnamento di Archeologia Medievale

(Francesco A. Cuteri)

Corso di Laurea in Storia e conservazione dei Beni architettonici e ambientali

Facoltà di Architettura

Università Mediterranea di Reggio Calabria

(Anno Accademico 2010 - 2011)

Metodologia della ricerca tafonomica

Per l’antropologo, come per l’archeologo, è essenziale che lo studio dei resti abbia inizio sul

campo, attraverso l’identificazione e la registrazione di ciascun elemento della sepoltura

“in situ”.1

Con il termine di “antropologia sul campo” si definisce l’insieme degli atti compiuti dai

necrofori intorno al cadavere durante il seppellimento e delle alterazioni subite poi dal

sepolto fino al rinvenimento dei suoi resti durante scavi archeologici. In particolare,

intendiamo per tafonomia l’insieme delle alterazioni subite da un corpo dopo il suo

seppellimento e, contemporaneamente, in archeologia, si definisce come sepoltura un

luogo di deposizione di resti umani in cui si possono riconoscere gesti funerari volontari. Si

tratta, quindi, si di un luogo in cui si realizza la convergenza del biologico e del culturale.2

Riconoscere una sepoltura implica, tra l’altro, la stima della sua specificità, della sua

estensione, delle strutture intra-sepolcrali e inter-sepolcrali e l’eventuale riconoscimento

dei tre possibili spazi associati ad essa: il reale, ossia quello sepolcrale vero e proprio, il

religioso ed il cerimoniale.

Per descrivere e classificare le sepolture sono stati utilizzati i concetti concernenti

l’antropologia “du terrain”, una formula ideata e per la prima volta utilizzata nel corso

degli anni ’80 dalla scuola francese.3 Si tratta di distinguere i vari tipi di sepoltura, in base

alla presenza all’interno della stessa tomba di uno o più cadaveri, e i vari tipi di

deposizione, in base alle connessioni anatomiche mantenute delle ossa del cadavere:

strette, allentate o spostate.

La durata necessaria alla distruzione completa delle parti molli varia naturalmente in

funzione del trattamento funerario e dell’ambiente nel quale si trova un corpo. In

condizioni “medie” per un cadavere inumato nelle zone temperate, sembra che il tempo

necessario alla dislocazione naturale delle articolazioni non sia mai inferiore a qualche

settimana4, termine che fissa il limite discriminante tra una sepoltura primaria ed una

deposizione differita.

1 come precedentemente affermato nel capitolo 1, per i manuali che descrivono le modalità di recupero dei resti scheletrici in archeologia si veda: MALLEGNI F. (a cura di), Memorie dal sottosuolo e dintorni. Metodologie per un recupero e trattamenti adeguati dei resti umani erratici e da sepolture, ed. Plus, 2005; BROTHWELL D.,Digging up bones. London, 1981; BORGOGNINI TARLI S., PACCIANI E., I resti umani nello scavo archeologico. Metodiche di recupero e studio., Bulzoni Editore, 1993; HAGLUND W.D., SORG M.H., Forensic taphonomy: the post-mortem fate of human remains, CRC Press, New York, 1997.2 DUDAY H., in MALLEGNI F., RUBINI M., Recupero dei materiali scheletrici umani in archeologia, ed. CISU1, 994 .3 MALLEGNI F., RUBINI M. 1994.

Una scheda per le deposizioni funerarie non è stata ancora elaborata dall’Istituto centrale

per il Catalogo ed ogni antropologo, in genere, ne ha una propria. Non si può avere la

presunzione di fare ciò che studiosi più competenti, e soprattutto con molti più anni di

esperienza, della sottoscritta, non hanno fatto, ma si è tentato comunque di elaborare una

scheda di catalogazione per la dettagliata registrazione di tutti movimenti subiti dal corpo

dopo l’interramento. Partendo dalle considerazioni generali appena enunciate, questa

scheda vorrebbe descrivere e raccogliere tutte le informazioni generali sulla tomba in

esame.

Lo scavo è sempre un’attività distruttiva, pertanto è necessario che ogni dettaglio

riguardante l’osso interrato sia registrato in situ.

Tutti i campi sono stati scelti dopo un’attenta riflessione sulle dinamiche che intervengono

a modificare il corpo subito dopo il suo interramento, ma, guardando da un’ottica ancora

più ampia, potremmo dire “archeologica”, non sono stati trascurati neppure i campi

concernenti l’intenzionalità delle deposizioni, la ritualità che ne sta alla base e soprattutto i

rapporti stratigrafici che vengono ad interporsi tra la sepoltura e l’ambiente circostante.

Oltre alla descrizione delle caratteristiche peculiari delle tombe, dei dati di rilevamento

della sepoltura e dei dati relativi ai singoli individui in essa contenuti, la scheda tafonomica

prevede, infatti, anche la registrazione dei dati generali di documentazione e dei rapporti

stratigrafici. Diversamente da quanto descritto nella scheda di registrazione per il

contenitore funerario usata a Londra (Site Manual, 1990)5, nella descrizione e nel

diagramma stratigrafico anche lo scheletro è numerato con un numero di US. In quanto

un’azione minima riscontrabile, anche il corpo seppellito, che corrisponde all’azione delle

deposizione (così come il taglio, che corrisponde all’azione dello scavo della fossa, e il

riempimento, che corrisponde all’azione della copertura della salma) è stato numerato

come Unità Stratigrafica. Tale azione permette anche di raccordare il lavoro di archeologi e

antropologi, dal momento che anche l’individuo in esame entrerà a far parte della

sequenza cronologica, con rapporti di anteriorità, rispetto al suo riempimento, di

posteriorità, rispetto al suo taglio e contemporaneità, rispetto ad eventuali altri individui

deposti nello stesso contesto tombale.

4 CATTANEO C., MALDARELLA M., Crimini e farfalle. Misteri svelati dalle scenze naturali,Raffaello Cortina Editore,

pag. 16, 2006.5 CARANDINI F., Storie dalla terra, Einaudi, 1996.

A questo punto, ben si comprende come il termine tomba venga riferito all’intero insieme

delle azioni, il termine sepoltura all’individuo in essa contenuto ed il termine deposizione

alla modalità con cui esso è stato deposto.6

Dato che il presupposto principale dell’elaborazione di una scheda di catalogazione dei

resti ossei è quello di permettere un confronto tra tutti i siti, e soprattutto di definire dei

campi universalmente comuni a tutti gli archeo-antropologi, si è preferito inserire nella

scheda anche il campo riguardante la ritualità, sebbene non si riscontrino in epoca

medievale esempi di cremazione o mummificazione degni di nota.

Tipo di rituale

I riti funebri sono cerimonie, usanze e credenze relative al defunto e alla sua sepoltura che

variano da una cultura all'altra, a seconda delle differenti concezioni religiose circa la vita,

la morte e la speranza della rinascita. L'antropologia contemporanea li considera

un'espressione simbolica, più o meno elaborata, dei valori prevalenti in una determinata

società: ogni tipo di civiltà ha lasciato tracce e testimonianze relative ad usanze e rituali

funerari.7 La maggior parte degli eventi che accadono in una cerimonia funebre, infatti,

non sono tanto dettati dalla volontà del defunto o dei suoi familiari, ma rispondono a delle

convenzioni sociali.8 Perfino le emozioni espresse durante il rituale sarebbero, almeno in

parte, determinate dalla tradizione.9

Si ritiene che i diversi metodi utilizzati per seppellire i defunti siano dovuti, oltre che alle

credenze religiose, anche ad altri fattori, quali ad esempio il livello culturale delle civiltà e

le condizioni climatiche.10

Sin dai tempi più antichi i rituali di preparazione e cura delle salme (come l'uso di

indumenti particolari, ornamenti preziosi, oggetti religiosi e amuleti) furono molto

comuni. La più antica forma conosciuta di sepoltura risale al Paleolitico (quella

neandertaliana di Tabun, vecchia di 120 mila anni da oggi, e quelle di Skhull di Homo

sapiens, risalente a più di 100mila anni da oggi, tutte in Palestina).11 In seguito in tombe

assai più recenti, ma sempre del Paleolitico, sono stati rinvenuti scheletri intrisi di ocra e

6 ancora DUDAY H. in MALLEGNI F., RUBINI M, 1994.7 TAMBIAH S.J., Rituali e cultura, Il Mulino, Bologna, 1995.8 THOMAS L.V., Rites de mort. Pour la paix des vivants, Fayard, Parigi, 1985.9 HARRISON R.P., Il dominio dei morti, Fazi Editore, 2004.10 ALCIATI G., FEDELE M., PESCE DELFINO V., La malattia dalla preistoria all’età antica, Laterza, 1987.11 MALLEGNI F. (a cura di), Come eravamo. L’evoluzione umana alla luce delle più recenti acquisizioni, LTU

Guarguaglini, Pisa, 2001; FACCHINI F., Il cammino dell’evoluzione umana, ed.Jaca Book, Milano, 1985.

con un inequivocabile corredo funebre; poi si troveranno tutte le posizioni possibili nella

deposizione del cadavere (per. Es. la posizione fetale nei neolitici).

Il rito funebre più diffuso nelle società occidentali è la deposizione nella terra, cerimoniale

antichissimo che probabilmente celebrava in origine un ritorno simbolico alla "madre

Terra" (Gea).12

In seguito si assiste a rituali ancora iù complessi quali il trattamento del cadavere per la

imbalsamazione, tipica della cultura egizia, e la cremazione, praticata con l'intenzione di

liberare l'anima dal corpo. Ritenendo necessario preservare intatto il corpo del defunto per

consentire alla sua anima il passaggio a una nuova vita, gli egiziani avevano perfezionato la

tecnica della mummificazione, che impediva il processo di putrefazione.

Il rito dell'esposizione, invece, è praticato tanto in regioni il cui clima caldo e privo di

umidità permette al corpo di disseccarsi, quanto nelle zone artiche, dove è impossibile

scavare il suolo gelato.

Rituali più complessi sono l'imbalsamazione, tipica della cultura egizia, e la cremazione,

molto diffusa in India dove viene praticata con l'intenzione di liberare l'anima dal corpo

.Ritenendo necessario preservare intatto il corpo del defunto per consentire alla sua anima

il passaggio a una nuova vita, gli egiziani avevano perfezionato la tecnica della

mummificazione, che impediva il processo di putrefazione. Il rito dell'esposizione, invece, è

praticato tanto in regioni il cui clima caldo e privo di umidità permette al corpo di

disseccarsi, quanto nelle zone artiche, dove è impossibile scavare il suolo gelato.

Vi sono poi altre forme rituali13, meno comuni, che prevedono l'abbandono della salma

direttamente in mare oppure su una piccola imbarcazione destinata a compiere un ideale

viaggio verso il mondo dei morti. Il cannibalismo, infine, viene interpretato come un atto

cerimoniale che assicura la comunione del defunto con la propria tribù.

Inumazione

L’inumazione è la pratica di interrare i cadaveri umani. Conosciuta dai tempi più remoti14,

la sepoltura ha forse avuto all’inizio la funzione primaria di allontanare i mangiatori di

carogne (iene, avvoltoi ecc.), comunque, ha sempre assolto una funzione igienica e una 12 KLEIN R.G., Il cammino dell’uomo: antropologia culturale e biologica, Bologna, 1995.13 SERRANO SANCHEZ C., Funeral practices and human sacrifice in Teotihuacan burials, Am. Juorn. of Phys Anthrop.,

90: 108-115, 1999; CROSETTO A., Sepolture ed usi funerari medievali, in MERCANDO L., MICHELETTO E. (a cura di),

Archeologia del Piemente. Il Medioevo. vol.3, pp.699-714, 1998.14Oltre 100 mila anni fa’, come avevamo precedentemente affermato.

religiosa: l'allontanamento del cadavere dalla comunità, se da una parte aveva lo scopo di

impedire la trasmissione di malattie, dall'altra era dettato dall'atteggiamento di probabile

paura dell'uomo nei confronti della morte e quindi dall'intento di impedire il ritorno del

defunto tra i vivi.15

Preceduta dal semplice abbandono del cadavere, in pasto ad animali, dentro grotte o

caverne, su torri, in acqua, sul terreno, la pratica della sepoltura si affermò presso le

società più complesse e soprattutto in quelle sedentarie. Presso molti popoli le due pratiche

coesisterono e l'inumazione veniva riservata solo a persone di rango superiore.16

Mummificazione

La mummificazione è un processo naturale o artificiale attraverso il quale viene bloccata la

decomposizione dei tessuti di un cadavere, preservandolo nel tempo in forme simili

all’aspetto originario.17

Si può produrre come fenomeno naturale e casuale in particolari condizioni climatiche e

ambientali, laddove la temperatura molto alta o molto bassa, la buona ventilazione,

l’assenza di umidità o la mancanza di ossigeno ostacolano i processi putrefattivi. Corpi

mummificati furono rinvenuti, ad esempio, nelle regioni aride del Perù, sepolti nella sabbia

del deserto, e in alcune località della Cina occidentale, in terreni con forte componente

salina. Il clima caldo e secco, nel primo caso, e la proprietà igroscopica del sale, nel

secondo caso, favorirono la graduale evaporazione o perdita dei liquidi corporei. Diverse

furono le trasformazioni chimiche subite dalle mummie scoperte in alcune caverne

dell’Alaska e della Groenlandia18, dove fu il freddo spinto a rallentare la decomposizione

dei cadaveri. Fu invece una situazione differente quella che portò alla mummificazione di

alcuni corpi scoperti nelle torbiere scandinave, dove responsabili della conservazione della

materia organica furono l’acido tannico e la mancanza di ossigeno.

Costituisce invece il risultato di un intervento artificiale la trasformazione dei cadaveri in

mummia presso molti popoli antichi, ancora oggi presente in alcune culture.

Articolata in vari procedimenti di essiccazione o imbalsamazione, tale pratica trova

giustificazione nell’ambito della religione e della cultura del tempo. Numerose mummie

essiccate sono state rinvenute nel Sud-Est asiatico, in Australia, in Cina, in diverse regioni

15 SCHINDLER D.L., ARMELAGOS G.L., BUMSTED M.P, Biocultural adaption: new directions in Northeastern

anthropology, Fundations of northeast Archaeology, ed. D.R.Snow, 1981.16 THOMAS L.V.,, 1985.17 COCKBURN T.A., COCKBURN E., Mummies, diseas and ancient populations, in Current Anthropology, 12, pp. 45-46,

1980.18 HANSEN J.P.H., MELDGAARD J., NORDQVIST J., The Greenland mummies, Smithsonian Institute Press. W.D.C., 1991.

dell’Africa settentrionale e centrale. Il metodo dell’imbalsamazione pare invece essere stato

prevalente in Perù, nel Vicino Oriente e soprattutto in Egitto, dove la diffusione, la

complessità e l’efficacia della mummificazione rituale, adottata dall’Antico Regno intorno

al 700 ca. a.C., raggiunsero livelli assolutamente ineguagliati.

Cremazione

La Cremazione è la pratica di bruciare i corpi dei defunti, le cui ceneri vengono conservate

in un'urna, sepolte oppure disperse.19 Riguardo alla sua origine, oltre alla probabile

motivazione di orine religioso, la cremazione risponde anche a criteri igienici: la sepoltura

dei defunti soprattutto se deceduti a causa di un'epidemia o di una malattia altamente

contagiosa, può infatti comportare per l'intera comunità il rischio di contaminare le fonti

di approvvigionamento idrico e talvolta addirittura di contagio20.

Le più antiche testimonianze relative a cremazioni risalgono al periodo neolitico21;

maggiori informazioni si hanno relativamente al periodo fra il 1400 a.C. e il 200 d.C., in cui

la cremazione venne ampiamente praticata, soprattutto in epoca romana, dai patrizi: la

famiglia di Giulio Cesare fu ad esempio una delle numerose gentes a seguire tale usanza.

Il cristianesimo proibì invece la cremazione, in quanto il corpo, una volta distrutto, non

avrebbe potuto risorgere; anche l'ebraismo proibì la cremazione, considerata un'offesa

all'opera di Dio. Gli ebrei ortodossi, la Chiesa ortodossa orientale e i musulmani vietano

ancora oggi la cremazione, praticata da alcuni gruppi ebraici e cristiani, dai buddhisti e

dagli induisti.

Tipo di tomba

La descrizione del tipo di tomba riguarda esclusivamente lo spazio sepolcrale entro il quale

viene collocato il cadavere. Si fa quindi riferimento solo all’eventuale presenza di una

struttura muraria, un cassone litico, una struttura alla cappuccina, un circolo di pietre che

circonda il corpo, o più semplicemente all’eventuale presenza e/o assenza di una cassa

lignea decompostasi in una fase successiva al cadavere.

Non è possibile elencare tutte le possibili alternative al tipo di tomba, riscontriamo infatti

molte volte situazioni abbastanza confuse; si procede quindi alla semplice registrazione

19 SHIPMAN P ET AL., Burnt bones and teeth: an experimental study of color, morphology, crystal structure and

shrinkage, Jour. of Archaeol. Science, 11: 307-325, 1984.20 MARONGIU S., Tomba megalitica II di St. Martin de Corleans(AO): aspetti biologici e nutrizionali degli inumati e

degli incinerati in essa contenuti, nel contesto culturale dell’Eneolitico valdostano, Tesi di Laurea, Facoltà di Lettere e

Filosofia, Università degli Studi di Pisa, relatore prof. Francesco Mallegni, 2004-2005.21 BARRA A., GRIFONI CREMONESI R. , MALLEGNI F., PIANCASTELLI M., VITIELLO A., WILKENS B., La Grotta

Continenza di Trasacco. I livelli a ceramiche, Rivista di Scienze Preistoriche, 42, pp. 31-100, 1989-90.

delle evidenze e, in un secondo momento, nel registrare i movimenti subiti dal corpo dopo

il suo seppellimento si precisa il tipo di tomba.

Tipo di sepoltura

Quando una tomba contiene due o più individui si tratta di una sepoltura bisoma. Se i

cadaveri sono stati deposti contemporaneamente, sono riconoscibili le loro connessioni

anatomiche e l’individualità scheletrica dei singoli, tranne che nel caso in cui non si siano

verificati fenomeni di disturbo e dislocazione delle ossa. Se ci si trova in presenza di un

insieme funerario costituitosi in un periodo abbastanza lungo, si noteranno dei

rimaneggiamenti a causa del collocamento di ciascun nuovo cadavere. Se invece la

sepoltura segue una certa contemporaneità nella deposizione dei cadaveri, allora questi

rimaneggiamenti verranno a mancare.

Sepolture singole e Sepolture collettive

Una sepoltura collettiva che non segue la contemporaneità può essere analizzata

correttamente solo se la deposizione dei cadaveri è avvenuta in tempi abbastanza lunghi gli

uni dagli altri da permettere la dislocazione delle articolazioni più labili. Solitamente

quando ci si trova davanti a una sepoltura collettiva che segue lo stesso andamento

cronologico, siamo in presenza di eventi conseguenti a catastrofi (ad esempio massacri o

catastrofi naturali); per questo motivo, tali sepolture seguono la denominazione di

“sepoltura da catastrofe”. Per l’identificazione degli scheletri sul terreno durante lo scavo di

una sepoltura collettiva, bisognerebbe far corrispondere la totalità o almeno una parte

delle ossa dello scheletro di uno stesso individuo. Ciò può verificarsi quando durante le fasi

di scavo si identifica l’evidenza della connessione fra le ossa di uno stesso individuo

(collegamento di “primo ordine”). Se però l’insieme funerario si presenta come un insieme

di individui con una grande dislocazione o addirittura frammentazione, sarebbe giusta

norma ricorrere alla ricerca dei collegamenti di “secondo ordine”, operazione che si svolge

poi in laboratorio.

Il collegamento di secondo ordine potrà essere eseguito in vari modi:

- per incollaggio di frammenti che combaciano;

- per collegamento articolare, cioè tramite l’analisi di articolazioni con morfologia

complessa che permette il riconoscimento delle ossa contigue dello stesso individuo;

- per collegamento evidenziabile attraverso lo stesso stadio di maturazione;

- per collegamento di appartenenza ad un insieme patologico con una patologia diffusa o

focalizzata;

- per appaiamento di ossa simmetriche.

Tipo di deposizione

L’individuazione del tipo di deposizione si basa sull’osservazione delle connessioni

anatomiche: in questa prospettiva, si comprende facilmente che gli indicatori più

pertinenti saranno quelli che concernono le articolazioni che cedono più rapidamente, le

articolazioni labili. Il mantenimento della connessione, infatti, implica necessariamente un

intervallo di tempo breve tra il decesso e la deposizione del cadavere. Al contrario, le

articolazioni che resistono più a lungo ai processi di decomposizione si definiscono

articolazioni persistenti. Le articolazioni labili concernono generalmente le ossa di

dimensioni modeste o fragili: colonna cervicale, mani, parte distale del piede, giunzione

scapolo-toracica. Le articolazioni persistenti, invece, uniscono delle parti soggette a forze

biomeccaniche importanti; questo giustifica la presenza di legamenti spessi e potenti:

articolazione atlante-occipitale, colonna lombare, cerniera lombosacrale, articolazioni

sacro-iliache. I legamenti più labili scompaiono dopo 15 giorni, di conseguenza non è

possibile distinguere tra una deposizione simultanea ed una che avviene entro il predetto

lasso di tempo.

Sepolture primarie e Sepolture secondarie

La sepoltura primaria è il luogo in cui avviene la decomposizione del defunto. Si riconosce

mediante l’osservazione delle connessioni anatomiche: il defunto è deposto nel momento

in cui le sue parti molli non sono del tutto decomposte e ciò garantisce la connessione tra le

ossa. Infatti, in una sepoltura primaria, le ossa delle mani, dei piedi e del tratto cervicale

della colonna rimangono in connessione fisiologica fino al momento della loro scoperta.22

In realtà, anche quando non si verificano eventi di disturbo esterni post-deposizionali, la

locazione originaria delle ossa viene spesso alterata dagli eventi tafonomici, soprattutto per

effetto della gravità. La mancanza di connessioni anatomiche non identifica

necessariamente una sepoltura secondaria, ma può essere dovuta ad una particolare

posizione del corpo in uno spazio vuoto, in uno spazio vuoto iniziale, poi riempito, o in uno

22 DUDAY H., 1994.

spazio pieno alterato da particolari movimenti del terreno, da infiltrazioni d’acqua, dal

passaggio di animali terricoli o da interventi per lavori agricoli o edili.

Da queste considerazioni risulta necessaria la registrazione dettagliata della posizione

esatta delle ossa per comprendere gli spostamenti dovuti ai processi pre e post-

deposizionali al fine di risalire alla posizione originaria del defunto.

Un caso particolare di sepoltura primaria è rappresentato dalla riduzione dello scheletro:

essa si rileva quando tutte le sue ossa, o una sola parte, sono spostate dalla loro posizione

originaria ma rimangono all’interno dello spazio dove è avvenuta la decomposizione.

Si definiscono sepolture secondarie quelle che accolgono parti delle ossa di un individuo la

cui decomposizione è avvenuta in altro luogo. I resti dello scheletro, e difficilmente tutti,

sono prelevati e collocati in un altro luogo. Il passaggio tra i due luoghi è chiamato dagli

etnologi “secondo funerale”. Sono, quindi, collegate a due momenti distinti nello spazio e

nel tempo e si caratterizzano per il fatto che le ossa non conservano tra loro le connessioni

anatomiche, in particolare quelle labili.

Così come abbiamo detto in precedenza riguardo alle sepolture primarie, non tutte le

sepolture prive di connessioni sono secondarie: diagnosticarle è difficile poiché non basta

accertare un apparente disordine. Se un cadavere, ad esempio, viene deposto in piedi

legato ad un supporto in uno spazio vuoto, quando si decompone le ossa cadono in una

posizione disordinata, che può far supporre una posizione secondaria. Quest’ultimo

rimane, comunque, un caso limite e generalmente per aiutarsi nella definizione del tipo di

deposizione si fa ricorso all’osservazione delle piccole ossa, che nella traslazione dei resti

vengono solitamente trascurate.

Sepolture in spazio pieno e Sepolture in spazio vuoto

Le ossa di un individuo sepolto in uno spazio vuoto, per esempio in un sarcofago,

all’interno di una cassa funeraria o in una cavità ipogea, non più trattenute dai legamenti,

in seguito alla decomposizione delle sue parti molli, tendono a spostarsi, per effetto della

gravità. Questi processi tafonomici determinano la perdita ed importanti spostamenti delle

connessioni anatomiche.

Se il defunto è ritrovato all’interno di un sedimento terroso, ma presenta: la cassa toracica

appiattita, le rotule cadute all’esterno, il bacino aperto e affossato ciò indica che il cadavere

è stato sepolto in un originario spazio vuoto, probabilmente in una cassa di materiale

deperibile. Al momento della decomposizione del contenitore, avventa in un momento

successivo rispetto a quella del cadavere, il sedimento terroso si deposita a contatto con le

ossa, trasformando l’aspetto della sepoltura e rendendo più complessa la sua

identificazione. Gli elementi che permettono di individuare la sua tipologia, in questo caso,

sono i perni o i chiodi di metallo, sopravvissuti ai processi di decomposizione ed il colore

particolare del terreno circostante, di colore generalmente più scuro. Anche la forma del

contenitore è arguibile talvolta dalla posizione delle ossa: se la fossa è molto stretta si

verificherà una verticalizzazione delle clavicole per contrazione delle spalle.

Se il defunto è stato sepolto in uno spazio pieno, vale a dire in piena terra, i sedimenti

terrosi tendono a sostituirsi gradualmente alle parti molli, man mano che queste si

decompongono, le connessioni anatomiche tra le ossa si conservano e si crea il cosiddetto

“effetto parete”.

Si può verificare anche il caso che uno spazio, originariamente pieno, diventi vuoto.

Quando il defunto, o parte di esso, è deposto su sostegni di materiale deperibile (piano di

legno, cuscini funerari, ecc..) questo si decompone con maggiore lentezza rispetto al corpo

umano, ma al momento del suo crollo le ossa, già separate e prive di un sostegno, cadranno

disordinate nello spazio sottostante. Anche in questo caso, una registrazione ed uno scavo

accurati possono permettere di intuire la presenza di un sostegno.

Orientamento e posizione del corpo

Per interpretare la ritualità di una sepoltura ed il suo spazio distintivo bisogna rilevare

anche l’orientamento del corpo e della testa e l’esatta posizione in cui il cadavere è stato

collocarto. L’orientamento, cioè la direzione ed il verso dell’asse del tronco, in relazione ai

punti cardinali o ad altri punti di riferimento, naturali o culturali, oltre ad indicare la

collocazione vera e propria del corpo, permette anche un riferimento ai diversi tipi di

rituale praticato. E’ universalmente nota infatti l’usanza tipica dei cristiani di seppellire

con lo sguardo rivolto ad oriente. Di contro, un diverso orientamento del corpo, non è

esclusivamente retaggio di altri culti, ma potrebbe rispondere all’esigenza di orientare lo

sguardo del cadavere verso l’abside o l’ingresso di un probabile edificio di culto.

La posizione indica la configurazione globale del corpo rispetto al piano di giacitura:

prono, supino, laterale destro, laterale sinistro, nonché l’insieme dei rapporti reciproci fra

le varie parti scheletriche, descritti singolarmente nella seconda parete della scheda.

La posizione del corpo deve essere descritta con cura, per il suo valore nella ricostruzione

del rituale funebre o delle circostanze della morte e del seppellimento. Per descrivere la

posizione degli arti superiori si fa riferimento alla nomenclatura di “distesi lungo i fianchi”,

piegati sull’addome”, “incrociati sul torace”, e si lascia la possibilità di annotare eventuali

altre posizioni; per la descrizione degli arti inferiori vengono comunemente utilizzate

espressioni come “distesi”, “flessi”, “lievemente piegati. Bisogna comunque posizionare

ogni parte scheletrica che, per la sua ubicazione o per il suo significato,assuma una

particolare importanza.

Movimenti subiti dopo la deposizione

Nell’osservazione di tutte le alterazioni subite da un corpo dopo il suo seppellimento, è

necessario segnalare se, dopo l’interramento e la decomposizione delle parti molli, siano

avvenuti dei movimenti che hanno comportato una modificazione della situazione.

La tafonomia registra tutti movimenti subiti dal corpo dopo l’interramento, modificazioni

che si vengono a creare ad opera della gravità: un corpo che si decompone in spazio vuoto

presentarà gabbia toracica appiattita, coxali aperti e femori ruotati.

I movimenti subiti dal corpo dopo la deposizione registrano, invece, tutte quelle

modificazioni subite ad opera di altri fattori, quali radici cresciute nel terreno, falda

acquifera, passaggio di animali terricoli, arature o altri interventi di natura antropica che

modificano la situazione venutasi a creare in condizioni normali.

Anche in questo caso, sarà necessario distinguere l’accidentalità dall’intenzionalità di tali

modificazioni, per poter giungere ad una definizione corretta del tipo di giacitura e del tipo

di deposizione. Solo un accurato recupero ed una precisa registrazione dei dati in fase di

cantiere, potrà fornire una corretta identificazione della tomba.

Metodologia della ricerca antropologica

Le variabili antropometriche del cranio sono ormai definite dalla tradizione e, se ancora

resta uno spazio per la loro interpretazione, questa deve riguardare soprattutto il loro

significato genetico, adattativi ed evolutivo.

Il sistema delle misure craniche che potremmo definire “classico” è quello fissato nel

trattato di Martin e Saller (1956-66)23 che ne fornisce l’esatta definizione.

Il numero di riferimento di ogni variabile descritta in questo trattato viene infatti

correntemente usato dagli specialisti per riferirsi ad una misura in modo inequivocabile.

Questo sistema consiste in una serie di punti craniometrici che fanno da riferimento ad

una serie di misure, che a loro volta consento di elborare dei rapporti centesimali, gli

indici.

misure craniometriche

I punti craniometrici possono essere considerati di due tipi fondamentali: quelli, che

potremo definire reali, perché soddisfano il concetto geometrico di punto o comunque

hanno una posizione che deve essere individuata e stabilita prima di effettuare la misura, e

quelli che potremo definire virtuali, la cui posizione non deve essere necessariamente

stabilita con precisione, ma è sufficiente conoscerne l’ubicazione di massima per poi

individuarli per mezzo delle punte del compasso: sono questi i punti che individuano i

23 MARTIN R. e SALLER K., Lehrbuch der Antropologie in systematischer Darstellun, Band 1-2, Stuttgart: Fischer Verlag., 1956-59.

diametri minimi e massimi. Nella pratica sono quei punti, come gli euryon, la cui distanza

corrisponde alla larghezza massima del neurocranio e che si trovano facendo scorrere le

punte del compasso sui parietali.24

La prassi per la nomenclatura dei punti craniometrici e, più in generale, di quelli

antropometrici, prevede la formazione di neologismi dal greco. Si usa dividerli sulla base

della simmetria del cranio e, di conseguenza, avremo punti sagittali, o punti impari, e i

bilaterali, o punti pari.

La maggior parte dei punti craniometrici segna elementi caratteristici che esprimono

alcuni aspetti fondamentali delle ossa craniche o del cranio in generale, per valutare le

caratteristiche metriche, la morfologia e l’accrescimento.

La valutazione metrica e morfometrica, ossia della forma in funzione delle sue dimensioni,

può essere attuata instaurando un sistema di variabili metriche o misure che hanno come

riferimento i punti craniometrici. Il sistema è basato sulla misura diretta della distanza tra

i punti, delle curve, degli archi e delle corde sottese tra di essi sulla superficie del cranio,

oppure è possibile determinare la posizione in coordinate polari o cartesiane.

Le principali misure craniche consentono di determinare le dimensioni del neurocranio e

dello splancnocranio, nonché delle singole ossa.

Per quanto riguarda il neurocranio, si descrivono generalmente quattro misure principali:

la lunghezza cranica (che misura dalla glabella all’opistocranio), la Larghezza cranica

(euryon – euryon), l’altezza cranica (basion – bregma) Queste tre misure sono utilizzate ,

oltre che per il calcolo degli indici cranici, anche per la stime della capacità cranica. Oltre a

queste misure d’insieme, è particolarmente utile la Larghezza frontale minima (stefanion

– stefanion) e la laghezza frontale massima (coronale – coronale), che misurano

rispettivamente la minima e la massima divaricazione del frontale.

La diversa larghezza del frontale rispetto alla larghezza massima della faccia fornisce la

relazione tra il neurocranio e lo splancnocranio, che si esprime nel modo più semplice

nell’osservazione del cranio in norma verticale.

Tra le misure essenziali della faccia vi sono le altezze: quella totale, (nasion – gnation), che

si rileva sul cranio completo di mandibola e che è fortemente influenzata dalla presenza o

meno della dentatura, e quella superiore (nasion – prosthion), che si misura sul solo

calvario. Le altre misure rilevate sono quelle nasali, orbitali e palatali.

24 BASS W. M., Human osteology. A laboratory and field manual of skeleton, The Missouri Archaeological Society, 1987.

La morfometria

Le dimensioni del cranio ricavate attraverso i processi di misurazione descritti possono

essere direttamente utilizzate come variabili per analisi di tipo statistico e per altre

elaborazioni matematiche. L’antropometria classica a questo proposito ha elaborato i

valori metrici, instaurando rapporti percentuali tra due (o più) variabili: gli indici. Il

vantaggio dell’indice sta nel fatto che esso confronta le misure, ma prescinde dalle

dimensioni assolute, in quanto un indice è un puro numero adimensionale.25

valori x – 74,9 75,0 – 79,9 80,0 – x

definizione dolicranio mesocranio brachicranio

Indice cranico- orizzontale

Esso consente di condurre l’analisi morfometrica, ossia descrive la forma del cranio, o di

qualunque altro elemento anatomico, indipendentemente dalla grandezza.

Si rileva l’indice cranico orizzontale o indice cefalico, il rapporto in percentuale fra

larghezza cranica massima e lunghezza antero-posteriore, per i quali si considera

rispettivamente una tripartizione in soggetti con cranio corto e largo, brachicranici, medio,

mesocranici, lungo e stretto, dolicranici.

25 BORGOGNINI TARLI S., PACCIANI E., I resti umani nello scavo archeologico. Metodiche di recupero e studio., Bulzoni Editore, 1993.

L’indice vertico-longitudinale definisce il rapporto in percentuale fra altezza cranica e

lunghezza massima, che indica crani camocranici, cioè di profilo lungo e basso,

ortocranici, quindi con un profilo in cui lunghezza e altezza sostanzialmente si

uniformano, e ipsicranici, cioè crani stretti e alti.

valori x – 69,9 70.0 – 74,9 75,0 - x

definizione camocranio ortocranio ipsicranio

Indice vertico- longitudinale

L’indice vertico-trasversale indica il rapporto tra l’altezza cranica al basion e la massima

larghezza cranica, definendo crani tapeinocranici, che indica un cranio che osservato

posteriormente appare largo e basso, crani metriocranici, quindi medi, crani acrocranici,

stretti e alti.

valori x – 91,9 92,0 – 97,9 98,0 – x

definizione tapeionocranio metriocranio acro cranio

Indice vertico-trasversale

Altro indice fondamentale è quello facciale, che considera una tripartizione in soggetti con

faccia larga, euriprosopi, media, mesoprosopi, e stretta, leptoprosopi.

Queste suddivisioni, che raramente considerano il termine intermedio della tripartizione,

lasciano molto spazio alla casualità della diagnosi razziale.

valori x – 84,9 85,0 – 89,9 90,0 – x

definizione euriprosopo mesoprosopo leptoprosopo

Indice facciale

La morfologia

Un aspetto tradizionale della ricerca antropologica è quello dello studio del cranio: la

craniometria. La finalità tipica dell’indagine craniometrica è stata legata per molto tempo

alla classificazione razziale, mentre solo da poco è stato dato risalto ai fattori genetici,

selettivi, adattativi e biomeccanici espressi nel cranio. A queste variabili, infatti, è stata

attribuita una base ereditaria, che ne consentirebbe l’uso come traccianti della struttura

genetica. Molte di esse possono però essere influenzate da fattori ambientali, quali ad

esempio certe deformazioni meccaniche, pertanto bisogna pertanto distinguere tra esse

quali siano più caratterizzanti delle altre.

I caratteri descrittivi del cranio vengono generalmente osservati secondo particolari

“norme” o direzioni di osservazione normali ad alcuni piani che vengono individuati in

base a precise convenzioni. Possono manifestarsi come:

- suture ancora visibili anche dopo il raggiungimento dell’età adulta

- ossicini suturali

- canali o foramina accessori

- fori aperti o completi

- faccette articolari accessorie.

Queste variabili sono considerate come “varianti di tipo discreto”, cioè che si manifestano

alternativamente (presenza/assenza del carattere) indipendentemente dall’età e dal sesso

degli individui considerati, e la loro importanza, che ribadiamo anche sembrando prolissi,

è data proprio dal carattere ereditario.

I caratteri morfologici e discreti riscontrabili sullo scheletro sono stati rilevati e descritti

secondo uno schema proposto ed elaborato su lavori e trattati di diversi autori (Mallegni-

Usai, 1995). Per quanto riguarda i caratteri morfologici del distretto cranico sono stati

considerati i lavori di Sergi (1912), Martin e Saller (1956-59), Bass (1967), Strouhal e

Jungwirth (1984). Relativamente ai caratteri discontinui del cranio sono state utilizzate le

metodiche di Hauser e De Stefano (1989), Coppa e Rubini (1997), Berry e Berry (1967). Per

i caratteri ergonomici, legati a stress funzionali nel distretto cranico, si fa riferimento a

quanto scritto da Martin e Saller (1959), Ascenzi e Balestreri (1975), Mann e Murphy

(1980), Brothwell (1981), Capuzzi e Stea (1990, Haugen (1992), Capasso et al. (2001).

Avremo secondo i suddetti piani: la norma frontale, che permette di osservare la forma

della faccia vista di fronte, delle orbite, dell’apertura piriforme, dei mascellari e della

mandibola. Si osservano inoltre lo sviluppo degli zigomi e l’altezza della fronte.

La norma laterale (destra e sinistra) permette di osservare il profilo della faccia, la

sporgenza delle arcate sopracciliari, delle ossa nasali, dei mascellari (prognatismo)26, degli

alveoli e del mento. In norma laterale si descrive anche il contorno del neurocranio, ossia

la verticalità o l’inclinazione della fronte, il profilo della volta, la morfologia della regione

occipitale, la sporgenza, la batrocefalia e la clinocefalia.27

La norma inferiore permette di descrivere la base del cranio, la posizione e la forna del

foro occipitale, dell’apofisi spinosa, il palato, la morfologia e le caratteristiche dell’arcata

dentale, la forma e la sporgenza delle arcate zigomatiche.

Osservando il cranio in norma posteriore si possono descrivere la forma del contorno

cranico, la sporgenza delle apofisi mastoidi, la sutura lambdoidea e la presenza, più o meno

frequente, di ossa soprannumerarie o wormiane, in particolare il così detto osso epactale o

incarico, che occupa a volte la regione lambdoidea a causa della presenza di una sutura

soprannumeraria28.

Infine, la norma superiore permette di descrivere il cranio dall’alto, osservandone la forma

del contorno e assimilando i contorni a figure geometriche (ellissoide, ovoide,

pentagonoide, sfenoide, romboide); tale forma è appunto denominata “forma sergiana”, in

quanto elaborata da Giuseppe Sergi nel 1900.29 Se l’arcata zigomatica è visibile in questa

norma si ha la fenozighia, ossia la faccia è larga rispetto al cranio, mantre nel caso

contrario si ha la criptozighia.30

E’ stata poi rilevata la presenza, in norma superiore, di ossicini coronali, dell’osso

bregmatico e dei fori obelici; in norma inferiore, della faccetta condiloidea sdoppiata e del

tubercolo precondiloideo; in norma anteriore, la sutura metopica, il forame frontale; in

norma posteriore, ossa wormiane alla lambdiodea, osso epactale o incaico, osso asterico,

linea nucale suprema e foro mastoideo extrasuturale; in norma laterale, osso epipterico e

osso ad intacco parietale, tutti caratteri definiti da Finnegan e Faust (1974) .31

L’osteometria del post-craniale

26 Bass, 1987.27 Mallegni, 1978.28 HUSER G. - DE STEFANO G. F., Epigenetic variants of the human skeleton, Schweizerbart, Stuttgart, 1989.29 Sergi, 1910.30 BASS W. M., Development in the identification of human skeletal material (1968-1978), in «Am. J. Phis. Anthrop.» 201.51, pp. 555-556, 1979.

31 FINNEGAN M. - FAUST M. A., Bibliography of human and non-human non-metric variation, in «Res. Reepors Univ. Mass., Amherst», 14, pp.20, 1974.

Tutto lo scheletro post-craniale è stato oggetto di precise misurazioni, allo scopo di

valutare le dimensioni di lunghezza, larghezza e spessore delle singole ossa e di parti di

esse, e di ricavarne caratteri morfometrici di un certo significato antropologico. Non

sembra superfluo ribadire quanto finora detto per la craniometria, che l’interesse

dell’antropometria non sta solo nelle potenzialità descrittive di questa disciplina, ma anche

nel suo significato funzionale e filogenetico.32 Ad esempio, attraverso la misurazione ed il

confronto delle ossa dei due arti di uno stesso individuo è possibile rilevare eventuali

asimmetrie interpretabili in termini funzionali: l’arto che lavora di più presenta uno

sviluppo non solo muscolare, ma anche osseo, maggiore del suo controlaterale. L’interesse

che sempre più si pone nei confronti della ricostruzione dei modi di vita delle popolazioni

del passato, necessita l’applicazione delle tecniche antropometriche allo studio dello

scheletro, svincolandole del significato esclusivamente tipologico che troppo spesso si è

voluto attribuire loro.33 La raccolta di misure e la loro organizzazione in schede di dati

morfometrici sono finalizzate quindi alla caratterizzazione costituzionale, con la

valutazione della sua omogeneità all’interno della stessa comunità, ed alla descrizione delle

dinamiche demografiche, con stime della densità di popolazione, della sex-ratio e della

struttura per età..

I caratteri metrici dello scheletro craniale e post-craniale sono stati rilevati ed elaborati in

indici, secondo i metodi suggeriti dal trattato di Martin e Saller (1956-66).

A livello del tronco, le ossa che danno maggiori informazioni circa l’adattamento dell’uomo

all’ambiente sono la scapola, la clavicola, le vertebre e le ossa del bacino, oltre alle ossa

lunghe degli arti, che forniscono anch’esse utili dati morfologici e consentono di calcolare

la statura.

La misura della clavicola, ad esempio, presenta un interessante significato funzionale. La

lunghezza può dare un’idea approssimativa della lunghezza delle spalle nel vivente e quindi

del diametro del tronco; le misure di circonferenza e i diametri nel mezzo della dialisi,

inoltre, informano sul grado di robustezza nell’osso e sullo sviluppo dei muscoli che qui si

inseriscono e permettono, assieme alla lunghezza, confronti con il controlaterale per

stimare eventuali asimmetrie di natura funzionale o patologica.

Il bacino viene misurato, oltre che per il suo significato, la sua forma è infatti legata

all’acquisizione della statura eretta e al bipedismo, anche ai fini della diagnosi del sesso,

32 HUG E., Die schadel der Fruhmittelalterlichen Graben aus dem solothurmischen Aeregebiet in ihrer stellung zur Reihengraben- bevolkerung Mittleuropas, Z. Morph.Anthrop., 38: 359-528, 1940.

33 Repetto, 1986.

essendo la struttura del bacino strettamente vincolata alla funzione della gravidanza e del

parto.

La misura degli arti comprende il rilevamento della lunghezza (totale e fisiologica), dei

diametri trasversale e sagittale, misurati generalmente nel mezzo della dialisi, della

circonferenza minima, della larghezza delle epifisi e di altre dimensioni considerate

significative dell’osso in esame.

misure degli arti

Attraverso il calcolo del rapporto centesimale fra coppie di queste misure è possibile

ricavare alcuni indici di carattere antropologico. Gli indici di robustezza calcolano il

rapporto tra circonferenza minima o circonferenza nel mezzo della dialisi e lunghezza,

l’indice di platimeria del femore che calcola il rapporto tra il diametro antero-posteriore e

il traverso nel terzo superiore della diafisi (i valori elevati indicano un forte sviluppo della

linea aspra, e quindi dei muscoli che si inseriscono su di essa), l’indice cnemico della tibia,

che misura il rapporto tra il diametro trasversale e il sagittale, misurati a livello del foro

nutritizio.

Determinazione dell’età alla morte

L’età biologica di morte di un individuo adulto è generalmente stimata sulla base di

osservazioni dirette: grado di usura dentaria, grado di obliterazione delle suture craniche,

cambiamenti nella morfologia della sinfisi pubica, e sulla base di osservazioni indirette:

radiografie delle epifisi delle ossa lunghe per valutare il grado di rarefazione delle trabecole

ossee.

E’ opportuno ricordare che tutti i metodi di determinazione sono calibrati su standard di

riferimento attuali, i quali possono presentare differenze anche notevoli nei tempi e negli

avvenimenti rispetto a campioni di popolazione di epoche antiche. Inoltre, nel processo di

invecchiamento intervengono, assieme ai fattori puramente biologici ed ereditari, anche

aspetti sociali, economici e ambientali (alimentazione, professione, malattie). Tutti i

caratteri presi in esame tengono quindi conto di questa variabilità individuale e a livello

popolazionistico.

In fase preliminare, seguendo le metodologie di Buikstra e Ubelaker, (1994) si opera una

preliminare distinzione tra classi di età:

- feto: prima della nascita

- infante: da 0 a 3 anni

- bambino: da 3 a 12 anni

- adolescente: da 12 a 20 anni

- giovane adulto: da 20 a 35 anni

- medio adulto: da 35 a 50 anni

- adulto senile: maggire di 50 anni.

Per gli individui infantili e sub-adulti il criterio più usato è lo studio del grado di eruzione e

mineralizzazione dei denti secondo le metodologie fornite da Ubelaker.34 Si osservano

anche il grado di maturità scheletrica e la lunghezza delle dialisi presenti 35, considerando i

centri di ossificazione, che sono aree dove il tessuto osseo comincia a formarsi e ad

estendersi in sostituzione dei tessuti preesistenti, e la dimensione delle diafisi delle ossa

lunghe, di cui esistono tabelle che riportano le variabili dimensionali36.

34 UBELAKER D., Human skeletal remains, 2nd ed., Washington D.C., Taraxacum, 1978

35 FEREMBACH D. - SCHWIDETZKYM. I. – STLOUKAL, H., Raccomandazione per la determinazione dell’età

e del sesso sullo scheletro, in «Rivista di Antropologia», 60, pp. 5-51, 1979.

36 FEREMBACH D., Techniques antropologiques. I. Crsniologie. Laboratoire D’Antropologie Biologique, in «E . P. H. E. », (Lab. Broca), 1974.

i centri di ossificazione

Dopo i 20 anni, la determinazione dell'età biologica è alquanto difficile. Infatti, una volta

terminati l'accrescimento osseo e dentario, sono da valutare il processo

dell'invecchiamento, l'usura delle superfici articolari, la chiusura delle suture craniche,

l'evolversi di artrosi, le alterazioni istologiche del tessuto osseo e dentario e le

modificazioni chimico-fisiche dei tessuti calcificati, fattori che risultano poco affidabili in

quanto influenzati da vari fenomeni, ad esempio quelli patologici, quelli dietetici e, i non

meno trascurabili, fattori occupazionali.

I denti sono particolarmente utili per stabilire l’età nella fase preadulta fino all’eruzione del

terzo molare. Essi sono tuttavia un utile elemento di riferimento anche nell’età adulta

perché, a parte casi particolari attribuibili a singoli individui, la loro usura, una volta che

siano note le caratteristiche alimentari della popolazione, è abbastanza costante e regolare

nel tempo. In questo studio si osserva il grado di usura dentale secondo le definizioni

fornite da Brothwell37 e secondo le definizioni fornite da Lovejoy38.

Le suture craniche hanno una sequenza nel processo di formazione delle sinostosi

abbastanza regolare, anche si riscontrano ampie variazioni tra gli individui, e quindi,

attraverso l’osservazione del grado di obliterazione, secondo quanto definito da Lovejoy, si

può calcolare l’età alla morte dell’individuo39.

Agli altri metodi si aggiunge quello della morfologia della superficie sinfisiaria del pube,

che tiene conto delle modificazioni che avvengono su queste superfici in funzione dell’età40:

- FASE 1a - 18-19 anni: la superficie è attraversata orizzontalmente da creste

mammellonate, separate da profondi solchi; i margini della faccetta sono mal definiti,

- FASE 2a - 20-21 anni: i solchi orizzontali tendono a colmarsi a partire dal margine

posteriore che inizia a definirsi,

- FASE 3a - 22-24 anni: i solchi si cancellano progressivamente; il margine posteriore si

definisce con maggior precisione; il margine anteriore è leggermente solcato,

- FASE 4a - 25-26 anni: il margine posteriore è nettamente delimitato da una formazione a

“plateau” dorsale; la solcatura anteriore assume un’importanza maggiore; il margine

inferiore comincia a definirsi,

- FASE 5a – 27-30 anni: inizia a definirsi un bordo ventrale; i margini posteriori ed

anteriori sono meglio definiti; ha inizio una definizione del margine superiore,

- FASE 6a – 30-35 anni: i margini superiori ed inferiori sono definiti; il margine inferiore è

sviluppato,

- FASE 7a – 35-39 anni: la granulazione della superficie si affina; iniziano formazioni

esostosiche agli attacchi legamentosi e tendinei,

- FASE 8a – 39-44 anni: la superficie si fa liscia; il perimetro ovale della faccetta si

completa,

- FASE 9a – 45-50 anni: il bordo ovalare si fa più sentito soprattutto sul margine

posteriore, più irregolarmente di quello anteriore,

- FASE 10a – 50 anni ed oltre: la superficie assume un aspetto con ossificazione irregolare

e disordinata; i margini iniziano ad essere discontinui ed a scomparire.

Determinazione del sesso

37 BROTHWELL D. , Digging up bones. London, 1981. 38 MENDL R.S. – LOVEJOY O., Ectocranial suture closure: a revised method for the determination of skeletal age at death based on the lateral-anterior suture, Am. Jour. of Phis. Anthropology 68: 57-66, 1985.39 OWEN L. – LOVEJOY O., Dental wear in the Libben population: its functional pattern and role in the determination of adult skeletal age at death, Am. Jour. of Phis. Anthropology, 68:47-55, 1985.40 WHITE .D. – FOLKENS P. A., Human osteology, Academic Press, 2002.

Un altro gruppo di caratteri che vengono seriati per intensità sono quelli che consentono di

determinare il sesso. Essendo caratteri sessuali secondari possono variare non solo in

relazione alla maggiore o minore espressività delle caratteristiche sessuali, ma anche in

relazione alle peculiarità delle diverse popolazioni. E’ sempre necessario quindi tararela

scala su ciascuna popolazione, o lavorare per comparazione entro una singola popolazione

usando, dove possibile, come riferimento dei soggetti la cui appartenenza all’uno o all’altro

sesso sia stata accertata in base a dati anagrafici o al corredo, oppure attraverso una

correlazione delle variabili del cranio con le variabili del cinto pelvico.

Il problema della determinazione del sesso a partire da materiale scheletrico può essere

risolto sia su base qualitativa, attraverso l’osservazione di quei caratteri morfologici

considerati diagnostici del sesso, sia su base quantitativa, attraverso l’elaborazione dei dati

metrici considerati singolarmente e nel loro insieme.

Per quanto riguarda il cranio, bisogna specificare che nel maschio di solito è più grande e

più pesante e di forma meno arrotondata, la gabella e le arcate sopraorbitarie sono molto

più pronunciate, la fronte è più sfuggente, il processo mastoideo più voluminoso, l’arcata

zigomatica più larga e massiccia, la mandibola è più robusta, il palato e i denti più grandi.

Il cranio femminile è invece di aspetto più gracile, con protuberanze deboli e lisce, fronte

dritta e orbite più alte.

dimorfismo sessuale nel cranio

Diagnosi più attendibili possono essere ottenute a partire dal bacino, le cui caratteristiche

risentono delle particolari richieste funzionali imposte al sesso femminile dalla condizione

della gravidanza e dalla meccanica del parto. Il bacino della donna è più largo e più basso,

la cresta pubica ha un andamento a S poco marcato; la grande incisura ischiatica è più

ampia e meno profonda; la spina ischiatica non forma una curva unica come avviene

nell’osso maschile; l’acetabolo è piccolo; può essere presente un solco pre-auricolare come

una scanalatura o una serie di fossette lungo il contorno anteriore o inferiore della

superficie auricolare; è presente una concavità sub-pubica cioè una depressione nel bordo

mediale del ramo-ischio pubico appena sotto la sinfisi; la parte mediale del ramo ischio-

pubico al di sotto della sinfisi è schiacciata in senso dorso-ventrale e presenta un bordo

quasi tagliente. Il bacino maschile è massiccio, più stretto e più alto di quello femminile e

presenta rilievi muscolari marcati. Il sacro è lungo e sottile, al contrario di quello

femminile che è corto e largo.

dimorfismo sessuale nel bacino

La determinazione del sesso, effettuata su individui adulti, considerando gli elementi

altamente discriminanti come il bacino ed il distretto cranico, è stata possibile in accordo

con le metodiche suggerite da Ascadi e Nemeskèri41, poi ulteriormente riviste da White e

Folken42, sulle caratteristiche morfologiche dello scheletro, integrate dov’è stato possibile

dalle osservazioni sulla morfologia del bacino di Krogman e Iscan (1986).

41 Ascadi e Nemeskèri, 1930.42 GILES E. – ELIOT O., Sex determination by discernment function analysis of cranic, in «Am. Y. Phys. Anthrop.», 21, pp. 53-68, 1963.

Normalmente la scala delle variazioni viene considerata entro cinque livelli, dal massimo

della femminilità, che in genere corrisponde alla massima gracilizzazione, fino al massimo

della mascolinità del carattere. Alcuni autori, come Ascadi e Nemeskèri , usano lo zero

centrale: ipermaschile (valutazione 2), maschile (valutazione 1), intermedio (valutazione

0), femminile (valutazione -1), iperfemminile (valutazione -2), altri invece non

presuppongono numeri negativi, ma il peso dei caratteri va da 1 a 5. Grazie a questi indici

si può determinare il sesso calcolando la seguente formula:

∑∑=

WWX

M

Dove M corrisponde alla media ponderata, W il valore e X rappresenta la valutazione.

Carattere Wiperfemminile

(-2)

femminile

(-1)

intermedio

0

maschile

(+1)

ipermaschile

(+ 2)

glabella 3 molto debole leggermente marcata media marcata molto forte

processo mastoideo 3 molto piccolo, appuntito piccolo medio grande molto grande, arrotondato

superficie piano

nucale3 liscia

linea nucale sup.

debolmente indicata

line nuc. sup.

evidente, cresta oc.

poco sviluppata

grande, sviluppata arrotondata e molto forte

processi zigomatici 3 molto basso, gracilebasso, mediamente

gracileintermedio alto, forte molto alto e forte

arco sopraciliare 2 molto debole leggermente marcato medio marcato molto forte

tubera frontalia et

parietalia2 marcate mediamente marcate intermedie deboli assenti

protuberanza

occipitale esterna2 molto debole debole media forte molto forte

inclinazione fronte 1 verticale quasi verticale poco inclinataleggermente

sfuggentefortemente sfuggente

osso zigomatico 2 molto basso, liscio basso, lisciomediamente alto, con

superficie irregolare

alto, con superficie

irregolare

molto alto con superficie

irregolare

margine

sopraorbitario1 molto acuto acuto intermedio legg. arrotondato fortemente arrotondato

aspetto mandibola 3 gracile mediamente gracile medio robusto molto robusto

mento 2 piccolo, arrotondato piccolo medio prominente, forteforte e con protuberanza

bilaterale

angolo mandibolare 1 liscio leggermente rugoso con rugosità marcate

con rugosità

marcate e leggera

retroversione

con rugosità e retroversione

notevoli

margine inferiore

della mandibola1 sottile piuttosto sottile medio piuttosto spesso spesso

indici di sessuazione del cranio

Carattere Wiperfemminile

(-2)

femminile

(-1)

intermedio

0

maschile

(+1)

ipermaschile

(+ 2)solco 3 profondo, ben delimitato più appiatito, meno

delimitato

delineato presente soltanto

sotto forma di

assente

preauricolare tracce

grande incisura

ischiatica3 molto ampia a forma di U ampia a forma di U intermedia a forma di V molto stretta a forma di V

angolo pubico 2angolo fortemente ottuso

ed arrotondato

ottuso tendente

all'angolo retto

sensibilmente ad

angolo retto

debolmente acuto

a forma di Afortemente acuto a forma di A

arco composito 2 doppia curva con curva unica

ossa coxali 2basso, largo con ala iliaca

allargata e rilievi muscolari

poco marcati

stessi caratteri, solo

meno marcatiforma intermedia

caratteri maschili

meno marcati

alto, stretto con rilievi musc. fort.

marcati

foro otturato 2triangolare con margini

acutitriangolare forma inclassificabile ovalare ovalare con margini arrotondati

ischio 2molto stretto, presenta

tuberosità ischiatica poco

impressa

stretto medio largo molto largo, con tuber. isc. impressa

cresta iliaca 1a forma di S, molto

appiattita

a forma di S,

appiattitaforma intermedia a forma di S netta a forma di S accentuata

fossa iliaca 1 molto bassa, larga bassa, largamediamente alta e

largaalta e stretta molto alta e stretta

pelvis maior 1 molto larga larga media stretta molto stretta

pelvis minor 1 molto larga larga media stretta molto stretta

indici di sessuazione del bacino

Per determinare il sesso dell’individuo basta introdurre nelle apposite formule le misure

sperimentali corrispondenti, eseguire le operazioni e confrontare il risultato con il punto di

demarcazione.

Per il restante scheletro ci si è avvalsi di diverse tecniche che, combinate fra loro, hanno

ridotto il possibile errore di diagnosi. A tale proposito è stato osservato sia il grado di

robustezza del radio, dell’ulna, femore e tibia, sia lo sviluppo delle aree d’inserzione

muscolare (Martin e Saller, 1957-66; Chiaruggi e Bucciante, 1971; Aiello e Dean, 1990). Gli

uomini mostrano in media misure di lunghezza, circonferenza e spessore più elevate

rispetto alle donne.

Le tecniche basate sui dati metrici si fondano su misurazioni compiute su popolazioni

attuali di sesso noto, ma non bisogna dimenticare che il grado di dimorfismo sessuale

presenta una forte variabilità entro e tra popolazioni. Per raggiungere un livello

sufficientemente alto di sicurezza nella determinazione del sesso, sarebbe necessario avere

a disposizione un numero elevato di scheletri completi appartenenti alla stessa

popolazione del campione da determinare, in modo da evitare errori dovuti al diverso

adattamento del dimorfismo sessuale.

La statura

Il dato staturale obiettivo dovrà essere interpretato tanto nei suoi aspetti dimensionali,

quanto in quelli funzionali.

Molti sono i metodi, le formule, le tabelle proposti per la ricostruzione della statura a

partire dagli elementi dello scheletro. La lunghezza di uno scheletro completo può essere

misurata direttamente soltanto quando esso giace in posizione orizzontale ed è in perfetta

connessione anatomica, questa misura fornisce una stima solo approssimativa, in genere

in eccesso di qualche centimetro. Purtroppo il ritrovamento di scheletri in condizioni

ottimali di giacitura e di conservazione è un fatto estremamente raro.

Si supplisce a questa lacuna calcolando quella che doveva essere la statura nel vivente sulla

base della lunghezza delle singole ossa. A tale proposito esistono in letteratura numerose

tabelle e formule, a sessi separati, che sono state elaborate a partire da materiale

scheletrico moderno di statura nota, attraverso l’applicazione di equazioni che permettono

di esprimere la relazione fra la lunghezza delle varie ossa (generalmente quelle lunghe) e la

statura del vivente.

I vari sistemi, quando vengono applicati al medesimo individuo, forniscono valori di

statura leggermente diversi, in quanto nessuno di questi metodi tiene conto dell’altezza del

tronco e della testa. I vari metodi comportano errori diversi in quanto ricavati da campioni

con differenti proporzioni corporee. Per minimizzare gli errori si preferisce allora applicare

vari metodi, in modo che la statura stimata per ogni soggetto è ottenuta come media dei

diversi valori di statura ricavati dai metodi stessi. Tra le tecniche più frequentemente

utilizzate si ricordano quella di Manouvrier (1892), quella di Trotter e Gleser (1952) e

quella di Pearson (1899).

Circa le tavole del Manouvrier viene osservato che esse sottostimano le grandi stature

maschili e sovrastimano la femminili. Conferiscono la stessa importanza a tutte le ossa

considerate, mentre è noto che quelle dell’arto inferiore sono più indicative di quelle

dell’arto superiore, e inoltre non tengono conto delle asimmetrie.

Per quanto riguarda il metodo di Trotter e Gleser, per le singole ossa (compreso il femore)

viene misurata la lunghezza massima, senza tenere conto dell’asse dell’osso.

Karl Pearson, invece, propose un metodo basato sul calcolo della regressione della statura

sui singoli segmenti. In questo modo furono ottenute formule per la ricostruzione della

statura a partire dalle singole ossa e anche da più segmenti.

Determinazione dei caratteri ergonomici

In letteratura esistono diverse proposte di classificazione delle entesi per grado di

manifestazione43, ma tra gli autori che hanno scelto di rilevare in modo analitico i vari

aspetti in cui si presentano le entesi, questo lavoro applica le metodologie elaborate da E.

Hawkey e C.F. Merbs44, e poi riviste da A. Donatelli in una recente Tesi di Dottorato45.

Il presente lavoro nasce dall’esigenza di verificare su un numero consistente di soggetti,

appartenenti a gruppi umani di periodi diversi, ma di una stessa provenienza geografica, se

sia possibile identificare un numero ridotto di distinti aspetti delle entesi, espressione di

un’attività normale oppure, in vario grado, intensa dei principali muscoli del corpo.

Si è proceduto anche ad un confronto, all’interno di ciascun gruppo, delle frequenze dei

diversi gradi di espressione, nell’ambito di classi crescenti di età, allo scopo di verificare

l’influenza dell’avanzare dell’età sull’espressione di questo tipo di caratteri.

Contemporaneamente, per i muscoli presenti bilatelarmente, sono stati confrontati i lati.

Per il confronto tra i sessi è stata presa in considerazione la classe d’età degli adulti.

Ne è derivato un quadro delle caratteristiche ergonomiche di ciascun gruppo di

popolazione sulla base del quale è stato possibile rilevare somiglianze e differenze dovute a

fattori biologici, ma anche ambientali in senso lato, cioè derivanti dal contesto socio-

economico e culturale.

Metodo di rilievo

Hawkey e Merbs individuano tre categorie in cui si possono presentare le entesi:

1) robusticity: espressione della normale reazione dell’osso all’uso dei muscoli,

2) formazioni osteolitiche: che riguarda forme di tipo erosivo, caratterizzate da piccole

attività o solchi,

3) formazioni osteofitiche o entesofiti: forme di tipo produttivo, caratterizzate da esostosi o

spine ossee.

Spesso però esiste un continuum tra la robustezza e i due tipi di entesopatie, per cui è

possibile rilevare combinati insieme alla stessa entesi, per esempio, un grado forte per la

robustezza e uno lieve per la lesione. Poichè la robustezza, “espressione normale”

dell’attività muscolare, non si può ritenere una patologia, in questo lavoro verranno

considerate solo le entesopatie erosive e produttive.

43 ROBB J., Skeletal signs of activity in the Italian Metal-Ages and interpretative notes, Human Evolution 9, 3, 1994.44 HAWKEY D.E. – MERBS C.F., Activity-induced muscoloskeletal stress markers (MSM) and subsistence strategy changes among ancient Hudson Bay Eskimos, Int. Juorn. of Osteoarchaeology, vol.5, 1995.45 DONATELLI A., Proposta di un metodo per il rilievo delle entesopatie e sue applicazioni su resti scheletrici umani antichi e moderni, tesi di laurea, 2004.

E’ importante sottolineare che il substrato osseo condizione l’aspetto della lesione: alcune

inserzioni presentano forme erosive, come ad esempio il legamento costoclavicolare sulla

clavicola, mentre altre presentano solo forme produttive, come l’inserzione del tricipite

sull’ulna, altre ancora presentano entrambe le forme, come l’inserzione del bicipite sulla

tuberosità radiale. Per questa ragione il metodo prescelto per gli studi ergonomici

diversifica a seconda dei muscoli i criteri di classificazione delle entesopatie.

In generale sono stati indicati 5 gradi di espressione:

- i primi due rientrano nell’ambito del fisiologico, descrivendo una modificazione assente

(grado 0) o normale (grado 1),

- i restanti tre gradi definiscono il livello del patologico: modificazione lieve (grado 2),

modificazione media (grado 3) e modificazione forte (grado 4).

Poichè lo stress meccanico che la contrazione muscolare esercita sulle ossa si esprime

maggiormente sui siti di inserzione rispetto a quelli di origine, in questo lavoro sono state

esaminate le inserzioni di 36 muscoli e di 3 legamenti.

Oltre a considerare il grado di inserzione, con un range di robustezza che va dal grado 0 al

grado 4, tutti i muscoli ed i legamenti analizzati sono stati divisi in gruppi in base alla loro

funzione comune, in modo da prenderli in esame insieme. Nel nostro caso infatti, non

interessa tanto l’azione del singolo muscolo, quanto conoscere i movimenti abituali e le

attività più gravose dell’individuo, dalle quali possibilmente trarre elementi per ipotizzare

il tipo di lavoro svolto in vita o, in alternativa, evidenziare se esso sia stato ed in che misura

fisicamente impegnativo ed a carico di quali distretti scheletrici.

CLAVICOLA OMERO ULNA ILEO

deltoide

trapezio

grande pettorale

legamento conoide

leg. trapezoide

leg. costoclavicolare

SCAPOLA

trapezio

tricipite

piccolo pettorale

piccolo rotondo

grande rotondo

dentato anteriore

sopraspinato

sottospinato

sottoscapolare

deltoide

brachioradiale

grande pettorale

grande dorsale

grande rotondo

piccolo rotondo

sopraspinato

sottospinato

sottoscapolare

flessori delle dita

estensore lun. del

carpo

estensore delle dita

anconeo

tricipite

brachiale

supinatore

pronatore quadrato

retto del femore

ROTULA

quadricipite

TIBIA

3’ METACARPALE

adduttore del pollice

FALANGI

guaina com. dei flessori

FEMORE

soleo

quadricipite

tibiale posteriore

solco del tendine del

tibiale posteriore

popliteo

piccolo gluteo

medio gluteo

grande gluteo

bicipite femorale

ileopsoas

gastrocnemio

adduttori

FIBULA

soleo

peroneo breve

peroneo lungo

peroneo terzo

flessore dell’alluceRADIO

bicipite

pronatore rotondo

pronatore quadrato

adduttore lun.pollice

supinatore CALCAGNOtendine di Achille

Elenco dei muscoli considerati

Sono stati considerati:

a) muscoli che muovono i movimenti tra il tronco e il cinto scapolare: trapezio, dentato

anteriore, piccolo pettorale;

b) legamenti che mantengono le parti ed il cingolo scapolare unite tra loro ed il tronco:

legamento costoclavicolare, legamento conoide e legamento trapezoide;

c) muscoli che determinano i movimenti del braccio sulla spalla e sul torace: deltoide,

grande rotondo, grande dorsale, grande pettorale, sovraspinato, sottospinato,

sottoscapolare e piccolo rotondo;

d) muscoli che determinano la flessione, l’estensione, la pronazione e la supinazione

dell’arto superiore: bicipite brachiale, tricipite, brachioradiale, brachiale, anconeo,

supinatore, pronatore rotondo e pronatore quadrato;

e) muscoli che agiscono sulla mano: flessori ed estensori delle dita, estensore lungo del

carpo, abduttore lungo del pollice;

f) muscoli che promuovono il movimento tra il tronco e gli arti inferiori: retto del femore,

ileopsoas, grande, medio e piccolo gluteo, bicipite femorale, adduttori e quadricipite;

g) muscoli che permettono la deambulazione: gastrocnemio, soleo, tibiale posteriore e

tendine di Achille.

La presenza di entesofiti di piccole e medie dimensioni in altri siti d’inserzione, diversi dai

precedenti, ha suggerito anche l’osservazione e la registrazione dell’incidenza di tali

modificazioni, soprattutto per limitare la perdita di informazioni su materiale scheletrico

antico, che è spesso in precario stato di conservazione o incompleto. In questo caso però ci

si è limitati alla registrazione della presenza/assenza del carattere, senza assegnare alcun

grado di modificazione.

Gli indicatori di stress funzionali: i traumi

Un capitolo della paleopatologia è riservato alle lesioni traumatiche che, se sono oggetto di

studio tipicamente anatomo-patologico, non hanno minore importanza se esaminati nel

contesto di una popolazione. In primo luogo, lo studio dei traumi può fornire informazioni,

anche se indirette, sull’attività lavorativa della popolazione e sui rischi ad essa connessi, in

secondo luogo sui sistemi di assistenza sociale o medica riservata ad un traumatizzato.

Determinati fatti traumatici possono condurre a traumi scheletrici, l’interesse per

l’identificazione di queste lesioni deriva proprio dalla consapevolezza che esse possono

portare importanti informazioni circa le attività lavorative del gruppo indagato, sui rischi

ad esse connesse ed al loro stile di vita. Non vanno trascurati anche i piccoli traumi, quali

quelli, ad esempio, della regione tibiale della gamba, che possono più frequentemente

determinare infezioni della cute con conseguente reazione dell’osso come periostiti e/o

osteiti: questi lievi traumi pare siano maggiormente riscontrabili in soggetti dediti ad

attività agricole o alla pastorizia.

Nessuna lesione, quanto quella traumatica, necessita di una descrizione particolareggiata

se si vuole tentare la ricostruzione, anche ipotetica, dell’azione lesiva e l’identificazione

della causa del trauma. In dipendenza del meccanismo attraverso il quale la frattura si

produce, si possono distinguere fratture a traumi indiretti, nei quali si realizza una frattura

a distanza dal punto di applicazione della forza ( come ad esempio le fratture del gomito

per caduta su palmo).

Le fratture sono improvvise lesioni di un osso, prodotte da forze che superano i limiti di

resistenza del tessuto. possono essere sia totali che parziali, a seconda se la lesione produca

interruzione del segmento interessato o meno.

La sua morfologia varia a seconda dell’agente di tale trauma, ad esempio, la situazione

tipica dei casi da caduta è una frattura con andamento trasversale sulla superficie dell’osso.

Il processo di riparazione è caratterizzato da un iniziale formazione di ematoma,

strutturato in una massa fibrosa (callo osseo), che mette a contatto i due monconi

unendoli, e seguiranno la calcificazione ed il rimodellamento della struttura ossea. In

paleopatologia occorre, ogni qual volta ci si trovi di fronte ad una frattura dell’osso,

precisare se questa è avvenuta in vita, al momento della morte, potendo in tal caso essere

la causa del decesso stesso, o post-mortem. Per definire la frattura come avvenuta in vita

occorre che si possano riconoscere i segni di reazione vitale dell’osso, vale a dire processi

reattivi e/o riparativi, almeno iniziali. Al contrario, una frattura che sia stata la causa

mortis non può presentare segni di reazione tessutale e nella diagnostica differenziale

verrà in aiuto la valutazione della sede della lesione, vale a dire se determinante per

causare la morte, oltre allo stato dei margini della rottura.

In primo luogo bisogna distinguere le fratture dovute ad un trauma violento ed acuto, dette

fratture istantanee, dalle fratture determinatesi per un’azione lesiva anche di minore

entità, ma protratta per lungo tempo, le così dette fratture da stress o da affaticamento. Il

meccanismo per cui si producono queste fratture non è sempre chiaro. si può ipotizzare un

meccanismo di “risonanza”, con lunghe e ripetute sollecitazioni che scaricano in un punto

debole, oppure ad un’azione di forze contrapposte di pressione e di trazione sull’inserzione

muscolare.

Tipi di fratture

Generalmente nei materiali paleopatologici sono particolarmente interessanti quelle

fratture per traumi diretti, prodotte da corpi contundenti, dov’è presente una depressione.

Le regioni scheletriche più soggette a queste lesioni incomplete sono il cranio e le altre ossa

piatte, ma anche la tibia: quei segmenti molto vicini al piano cutaneo. Dove il piano osseo è

più distante dalla cute per l’interposizione dei tessuti molli, sono questi ultimi a subire la

contusione. I muscoli possono essere sede di stravasi emorragici che possono organizzarsi

e successivamente ossificarsi ( miosite ossificante traumatica). Fra i problemi che

comporta il processo di guarigione ricordiamo la pseudoartrosi traumatica ed i calli ossei.

Gli indicatori di stress cumulativi: dimorfismo sessuale e indici di robustezza

Lo studio della morfologia e della morfometria scheletrica offre un mezzo importante per

ricostruire il tipo ed il livello di attività fisica nelle popolazioni del passato. Lo scheletro è

infatti influenzato da una varietà di fattori ambientali, sia durante l’accrescimento, sia

durante la vita adulta, ai quali esso risponde con modificazioni che, pur non essendo

necessariamente permanenti, possono lasciare tracce rilevabili. Questo rapporto tra l’osso

e le forze che ne modificano forma e dimensioni è sinteticamente espresso dalla legge di

Wolfe46 , secondo la quale si ha un rimodellamento dell’osso in relazione alla pressione

funzionale, con aumento o diminuizione della massa e con orientamento e disposizione

delle strutture osseee nella direzione delle linee di forza.

46 BORGOGNINI TARLI S., PACCIANI E., I resti umani nello scavo archeologico. Metodiche di recupero e di

studio,Bulzoni editore, 1998.

Numerosi ricercatori hanno notato che in popolazioni che conduco una vita molto attiva,

con elevato stress biomeccanico, le ossa sono più robuste e la robustezza può essere

rilevata anche mediante semplici misure esterne, come rilevato dagli indici platimerico e

pilastrico del femore. Ancora più importanti sono le variazioni di forma che l’osso può

subire ad opera delle forze esercitate dalla masse muscolari. Ad esempio, una vita

sedentaria si accompagna ad un minore appiattimento delle sezioni traverse delle diafisi

del femore e della tibia, fenomeno che può essere evidenziato tramite i classici indici

dell’arto superiore ed inferiore.

Tra gli indicatori metrici possiamo annoverare anche gli indici di asimmetria o di

lateralizzazzione delle ossa degli arti, che possono esprimere un fattore dimensionale

generale, la robustezza scheletrica oppure consentono di mettere in evidenza un diverso

comportamento dell’arto superiore rispetto a quello inferiore.47

In altri casi, è possibile anche assumere alcuni parametri fisici come indicatori dei livelli

nutritivi di un campione. Si tratta della statura, che va letta nelle sue differenze da una

media verosimile del tipo o dei tipi razziali in cui si inserisca il campione; dell’altezza della

base cranica, eccellente indicatore di stress nutrizionale-ambientale, in quanto in

condizioni di stress si riduce del 12%.48 Consideriamo anche l’indice di appiattimento delle

diafisi delle ossa lunghe, in quanto manifestazione di insufficiente sviluppo dell’osso in

relazione alla richiesta di superficie per l’inserzione muscolare. Da quest’ultimo indice, in

particolare, possono scaturire elementi, oltre che sugli stress motori cui erano sottoposti

gli individui, anche sull’alimentazione. Sembra, infatti, che il forte appiattimento delle

diafisi possa derivare da una combinazione, durante l’infanzia e l’adolescenza, di una

alimentazione scadente, cioè di un complessivo deficit proteico-calorico, con un’attività

fisica pesante, in altri termini con un impegno lavorativo abbastanza duro e molto

precoce.49 in poche parole possono darci una misura globale delle condizioni di vita cui

erano sottoposti bambini e ragazzi di una popolazione oppure, quando il campione lo

consentisse, di un particolare strato sociale.

Tra gli indicatori di stress cumulativo si distinguono quelli metrici appena elencati, ma

anche altri indicatori, di tipo non metrico. Tra i principali indicatori non metrici di stress

47 SHULTZ H.E., Ein Beitrg sur Rassenmorphologie des Unterkiefers, Zeitschr. F. Morphol. U. Anthrop., 32: 275-366, 1933.48 ANGEL J.L. – OLSEN KELLEY J. – PARRINGTON M. – PINTER S., Life stressed of the free black community as represented the first African Baptist Church, Philadelphia, 1823-1841, Am. Jour. of Phis. Anthropology, 74: 213- 226Angel , 1987.

49 FORNACIARI G. , MALLEGNI F., Paleonutritional studies on skeletal remains of ancient populations from the mediterranean area: an attempment to interpretation, Antropologischer Anzeiger, 45: 361-370, 1987.

.

vanno ricordate le alterazioni a carico di articolazioni o di inserzioni muscolari. Se le

alterazioni sono conseguenze di attività ripetute e non di malattie scheletriche, esse

tenderanno a colpire punti specifici e non saranno estese all’insieme delle articolazioni.

Tali alterazioni consistono in rugosità, eburneazione, porosità, creste o spicole ossee,

alterazioni della forma generale della superficie articolare o dell’area di inserzione.

Va comunque sottolineato che, mentre le modificazioni osservate possono senz’altro essere

il risultato di attività intensa o prolungata di determinati muscoli o gruppi muscolari,

l’identificazione dell’attività correlata a tale uso rimane oggetto di ipotesi e può essere

effettuata solo tramite un ricorso ai dati archeologici e storici.

Le patologie degenerative

Tutte le articolazioni, grandi o piccole che siano, possono andare incontro a processi

degenerativi che portano alla distruzione del rivestimento cartilagineo dei capi articolari,

all’erosione della parte corticale dell’osso interessato e/o alla proliferazione di osso lungo i

margini della superficie articolare. Le malattie degenerative iniziano per lo più in età

adulta, per entrambi i sessi, ed hanno un decorso cronico lentamente progressivo. I

sintomi più comuni sono il dolore, la limitazione funzionale e la deformità.

Le articolazioni più interessate sono quelle della colonna vertebrale, delle ginocchia, delle

anche e delle estremità, mani e piedi.

Tali alterazioni sono schematicamente distinte in artriti e artrosi, a seconda che siano

predominanti rispettivamente i fenomeni di natura infiammatoria, che poi comunque

sfociano il lesioni evidenti, o di natura degenerativa.

Le cause delle patologie degenerative articolari non sono state ancora del tutto chiarite:

faticose condizioni del lavoro o disturbi dell’alimentazione possono essere dei fattori

determinati, così come l’età ed i ripetuti stress meccanici. Contrariamente a quanto si

pensa comunemente, il gruppo delle malattie articolari non è caratteristico delle regioni a

clima freddo ed umido, ma interessa diversi ambienti. In genere, non è mai un singolo

fattore ad essere il motivo scatenante della patologia, ma una concomitanza di diverse

cause, siano esse meccaniche e/o metaboliche. In generale, comunque, lo stretto rapporto

tra stress fisico e degenerazione delle articolazioni è ormai un concetto generalmente

condiviso in campo oste-antropologico, in quanto risultato di uno squilibrio fisiologico tra

lo stress meccanico nel tessuto articolare e la capacità di questo di resistere allo stress.

Il forte ruolo eziologico del fattore meccanico, riconosciuto clinicamente e

sperimentalmente, è risultato evidente negli studi attuali sui lavoratori industriali, che

mostravano sintomi di degenerazione articolare in relazione alla particolare attività fisica

svolta nei luoghi di lavoro: così, ad esempio, i minatori nelle cave presentano

degenerazioni nelle anche, nelle ginocchia e nel tratto lombare della colonna vertebrale,

per il faticoso sollevamento dei pesi.50 Questo modello di riferimento potrebbe essere

elaborato anche per i lavoratori agricoli, sui pescatori, su popolazioni che avevano

l’abitudine di camminare su terreni impervi, insomma su chiunque svolgesse attività dove

è richiesto un rigoroso sforzo fisico.

Tra gli indicatori di stress meccanico sono inclusi i processi degenerativi a carico della

colonna vertebrale, l’osteofitosi vertebrale, e i processi che colpiscono il resto delle

articolazioni, osteoartrosi.

Si tratta di malattie non infiammatorie ad insorgenza mono o poliarticolare, che esordisce

con un danno a carico delle superfici cartilaginee e porta con il tempo a gravi alterazioni di

tutta la struttura articolare colpita e poi alla progressiva distruzione della cartilagine con

conseguente formazione del tessuto osseo reattivo. Diverse ricerche hanno dimostrato una

maggiore frequenza della malattia nel sesso maschile, rispetto al sesso femminile, in età

avanzata. E’ possibile che la ridotta elasticità della cartilagine, dovuta all’invecchiamento,

faciliti l’azione lesiva di altri fattori. La comparsa precoce dell’artrosi, invece, è stata

dimostrata in numerose malattie ereditarie. L’influenza del sesso sull’insorgenza e il

decorso delle diverse forme di artrosi è difficile da stabilire. Infatti, nell’ambito delle

abbondanti differenze fra i due sessi circa la localizzazione e il decorso della malattia non è

molto chiaro quanto sia dovuto all’influenza dei cromosomi, quanto dipenda dagli ormoni

propri di ogni sesso, quanto sia dovuto alle diverse abitudini di vita e di lavoro.

L’eziologia è ancora sconosciuta, in ogni modo la malattia rappresenta l’evento finale di

una serie di fattori che, da soli o in associazione, portano ad uno scompenso articolare.

Tale scompenso deriva da una discrepanza tra la quantità di lavoro richiesto

all’articolazione e la capacità di lavoro sostenibile da questa. Comunque, l’età di

insorgenza, la sede, la diffusione, l’evoluzione e la gravità di ogni singolo quadro artrosico

possono dipendere dal numero di fattori che intervengono, dalla loro entità e dalla durata

della loro azione.

L’osteofitosi vertebrale è data da un sovraccarico della colonna, con aumento del peso da

sopportare, che poi si scarica verticalmente, il processo degenerativo è più marcato in

50 KENNEDY K.A.R., Skeletal markers of occupational stress, in: ISCAN N.Y. e KENNEDY K.A.R., Reconstruction of life

from the skeleton, NY., pp.129-160, 1989.

questa struttura anatomica a causa delle continue e prolungate sollecitazioni meccaniche,

della suscettibilità alle lesioni traumatiche e della limitata vascolarizzazione del disco.

Questo peso comporta una degenerazione del tessuto del nucleo polposo, che serve ad

ammortizzare gli urti, un’invasione e rottura dell’anello fibroso, con stimolo e crescita

ossea marginale. In risposta a questi stimoli, si ha un aumento della superficie del corpo

vertebrale, la formazione di “labbri ossei” e di ponti intervetebrali, o, in alcuni casi,

fissazione e anchilosi.

Quando si trovano delle vertebre con margini osteofitici bisogna fare un’attenta analisi

differenziale per non confonderla con altre patologie, quali la DISH (Iperostosi Scheletrica

Ideopatica Diffusa - Diffuse Idiopathic Skeletal Hyperostosis) e la spondilite anchilosante,

malattie con conseguenze lesive simili nella manifestazione, ma molto diverse

nell’eziologia.

Anche i processi degenerativi a carico dei dischi intervertebrali, definiti ernie di Schmorl,

possono essere annoverati tra le lesioni dovute a stress meccanico. La riduzione di spessore

e la minore efficienza dei dischi intervertebrali implicano una maggiore sollecitazione delle

articolazioni intervertebrali posteriori, che possono andare incontro a fenomeni

degenerativi di tipo artrosico.

Gli indicatori di stress associati a malattie specifiche da carenze alimentari

Accanto ai segnali non specifici di deperimento organico che abbiamo osservato finora, si

collocano anche altre lesioni ossee, che testimoniano stress associati a malattie specifiche

da carenze alimentari o, più semplicemente sono l’effetto di una alimentazione che,

quantitativamente e qualitativamente scadente, abbia indotto gravi carenze di ferro e

conseguenti gravi stati anemici, nei soggetti più sensibili e predisposti, ossia bambini ed

adolescenti, oppure donne in età fertile, sottoposte allo stress di ripetute e ravvicinate

gravidanze e allattamenti.

Tra questo tipo di lesioni, bisogna menzionare le stigmate lasciate dalle anemie

sideropeniche, cioè dalla carenza di ferro e presumibilmente di alimenti proteici, le quali

sono ben note perché molto studiate in funzione della diagnosi differenziale delle sindromi

anemico-emilitiche ereditarie. Decenni di studi, sia propriamente di impronta medico-

patologica ma anche socio-culturale, hanno sottolineato lo stretto legame esistente tra le

lesioni dovute a stress episodici e la possibile propensione di questi individui alle malattie

da contagio. E’, anzi, molto difficile riuscire a distinguerle: tali stigmate risultano molto

simili a quelle provocate dall’infestazione di parassiti intestinali e si avvicinano, nei casi

più gravi, a quelle della malaria e di alcune lievi dei difetti ereditari. Se si eccettua

quest’ultima possibile eziologia, ci si trova di fronte a un segnale inequivocabile, qualunque

sia la diagnosi precisa, di basso livello di salute e di qualità della vita. I segnali dei primi

stadi di anemia sideropenica possono, inoltre, essere simili, o associarsi in un generale

stato di malnutrizione, a quelli delle carenze calciche. Possono così costituire un indicatore

diretto dei forti stress e del deperimento, cui erano particolarmente esposte ad esempio le

donne con continue gravidanze, o cui soccombevano in molti periodi di ripetute carestie e

guerre.51 Di conseguenza, sono indice di difficoltà di esistenza e di sopravvivenza, o ancora

più semplicemente caratterizzano le società che vivono nella “fame” che, sia in base ai

documenti, sia in base alla tradizione orale, sappiamo essere una realtà sempre presente

nella vita quotidiane degli uomini del medioevo.52

Strati anemici di varia origine possono dare vita alla cribra orbitalia. Questo aspetto

assunto dalla volta cranica, consiste in lesioni che la fanno apparire cribrata a causa di un

alto numero di cavità scavate nel tavolato cranico. Nei casi più gravi il tavolato esterno

scompare, e quello interno è notevolmente assottigliato. Tutto ciò accade perchè gli stadi

anemici sollecitano la produzione di eritrociti, oltre che nelle cavità midollari delle ossa

lunghe, anche nella diploe delle ossa piatte. Per questa ragione la diploe si espande, sino a

far scomparire lo strato più esterno. Tutto ciò può essere causato da diete povere di ferro o

che ne inibiscono l’assorbimento.

Un’altra lesione caratterizzante gli stati di carenze sono le linee di arresto della crescita, o

strie di Harris, linee metafisali trasverse, di maggiore radiodensità, rilevabili sulle

radiografie delle ossa lunghe. Si tratta di zone di più forte calcificazione: all’esame

radiologico delle ossa lunghe sono infatti leggibili le tracce dei momenti in cui il processo

di accrescimento veniva bloccato più o meno a lungo da uno stress maluntrizionale, ad

esempio una grossa carenza di calcio subito dopo lo svezzamento o una carestia, o da uno

stato morboso acuto.

Durante lo sviluppo di un osso lungo di un soggetto, ad esempio la tibia o il femore, si

possono registrare episodi di arresto della crescita, causati da un periodo di carestia o

anche, come si è detto, da una malattia acuta. Al momento in cui viene ripristinata la

51 MAZZI M.S., Note per una storia dell’alimentazione nell’Italia medievale, in Studi di storia medievale e moderna per Ernesto Sestan, vol. I, Firenze, 1980.

52 ANDREOLLI B.- MONTANARI M., L’azienda curtense in Italia. Proprietà della terra e lavoro contadino nei secoli VIII-XI, Bologna, 1983.

normale nutrizione, si ha un’attiva proliferazione del tessuto osseo, perpendicolarmente

all’asse diafisario. Le trabecole così orientate sono visibili radiologicamente.

Questi episodi di arresto di possono anche ripetersi, e ad ogni nuovo ripristino della

crescita si ha la formazione di una nuova stria, fino all’età adulta. Ben si capisce come dal

numero e dalla posizione di queste linee è possibile quindi avere un’idea del numero e del

periodo di vita in cui gli arresti della crescita ebbero luogo: la quantificazione degli episodi

di arresto della crescita, pur non potendo chiarire fino in fondo l’eziologia del fenomeno,

né tantomeno le eventuali malattie responsabili dei momenti critici, costituisce però un

prezioso indicatore dei livelli di salute e di nutrizione in età infantile.

Determinate analisi sui denti, in associazione all’osservazione delle strie di Harris, ma

anche come parametro isolato, offrono informazioni simili. Le interruzioni nella crescita

lasciano, infatti, segnali chiari anche sui denti, ipoplasia dello smalto, dai quali è

addirittura possibile risalire all’età del soggetto nei diversi momenti critici attraversati.53

A partire da ciò si può, quindi, ricostruire in maniera abbastanza verosimile l’andamento

cronologico, individuale e collettivo, della morbilità e dei momenti di denutrizione. Per

giungere ad un’accurata indagine paleodemografica, risulta quindi molto importante

accostare le considerazioni sulla mortalità infantile e sulla probabilità di giungere all’età

adulta, a quelle suggerite dalle strie di Harris, dalle linee di ipoplasia dello smalto, dalle

tracce di cribra orbitalia e da tutti gli altri segnali di carenze, deperimento e problemi della

crescita.

53 FORNACIARI G., MALLEGNI F., Paleopatologia e Nutrizione, in Rivista di Archeologia (1986), Nuovi metodi e prospettive nella paleoantropologia di età storica, in «Atti V, II Congresso Internazionale Etrusco», Firenze, 26 Maggio-2 Giugno 1985.