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Marie Cardinal Le parole per dirlo Titolo originale Les mots pour le dire Traduzione di Natalie Banas con una nota di Giuliana Morandini I Grandi Tascabili Romanzi & Racconti Copyright 1975 ditions Grasset & Fasquelle Copyright 1976 Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas S.p.A' Copyright 1994 R.C.S' Libri & Grandi Opere S.p.A', Milano IV edizione "I Grandi Tascabili" febbraio 1997 Bompiani Incubi, angosce, paura della morte e della vita. E' un male che paralizza, inibisce, confonde, fa perdere coscienza di s, annulla il senso delle proprie azioni. La famiglia, i ruoli, la condizione di donna, la societ, la morale. E a monte un'infanzia tradita, presupposti sbagliati, pregiudizi, ossessioni arcaiche... E' la storia tutta al femminile di un'analisi, di un graduale ricupero di s, di una nuova nascita nella consapevolezza. Una storia che, tradotta nella pagina, ha sconvolto, commosso e convinto. Marie Cardinal ormai il simbolo di una certa scrittura, di un modo intimo, caldo e vero di affrontare il problema femminile dalla parte del linguaggio. Marie Cardinal, nata ad Algeri nel 1929, insegnante di filosofia e giornalista, autrice di numerosi romanzi di successo sulla condizione femminile. Tra le traduzioni italiane ricordiamo: ^In altri termini (1977), Una vita per due (1979), La trappola (1983), D'ora in poi (1984), Sconvolgimenti (1988), Come se niente fosse (1992) e I gioved di Charles e Lula (1994). Al medico che mi ha aiutata a nascere I Era un vicolo senza uscita, col selciato in rovina, tutto buchi e cunette, con due stretti marciapiedi in parte distrutti. S'infilava come un dito screpolato tra due file di villini a uno o due piani, stretti l'uno contro l'altro. In fondo, era chiuso da due cancelli coperti da una misera vegetazione. Nulla trapelava dalle sue finestre, nessun cenno di intimit, nessuna attivit. Sembrava di essere in provincia, invece si era nel centro di Parigi. Non c'era miseria, ma neppure ricchezza. Qui abitava la piccola borghesia, quella che nasconde i risparmi nelle calze di lana, dietro le crepe delle facciate, le persiane sdentate, le grondaie arrugginite e i muri decrepiti che si sgretolano pezzo dopo pezzo. Ma le porte erano solide e le finestre al pianterreno protette da robuste sbarre di ferro. Quest'isola tranquilla nel cuore della citt risaliva probabilmente a una cinquantina di anni prima. Si scorgevano qua e l alcune tracce di liberty in quelle facciate scompaginate. Chiss chi ci abitava. A

giudicare da certe vetrate, certi battenti di porta, certi motivi floreali, il vicolo era forse abitato da artisti in pensione, vecchi imbrattatele, vecchie cantanti liriche, anziani virtuosi del palcoscenico. Per sette anni, tre volte alla settimana, ho camminato lungo questo vicolo, fino in fondo, fino al cancello di sinistra. So come cade la pioggia sui ciottoli di pietra, so come gli abitanti si riparano dal freddo. So che d'estate la vita diventa quasi agreste, con i vasi di gerani alle finestre e i gatti addormentati al sole. Conosco il vicolo di giorno e di sera. So che sempre vuoto. E' vuoto anche quando qualche pedone si affretta a raggiunger la propria porta, o quando qualche macchina esce da un garage. Non mi ricordo che ora fosse la prima volta che passai quel cancello. Non so se feci caso al piccolo giardino abbandonato a se stesso, alla ghiaia dell'angusto vialetto. Non so se contai i sette scalini che conducono al portoncino d'ingresso, se guardai il muro di pietra mentre aspettavo che mi venissero ad aprire. Non credo. Vidi invece l'ometto bruno che mi porgeva la mano. Era minuto, vestito con cura e stava molto sulle sue. I suoi occhi erano neri, lisci come la testa di un chiodo. Gli obbedii quando mi disse di aspettare in una stanza che apr sollevando una tenda di velluto. Era una sala da pranzo in stile Enrico II, il cui mobilio - tavolo, sedie, credenza, buffet - occupava quasi tutto lo spazio e incombeva su un'estranea come me con le sue sculture di gnomi e di foglie di edera, le sue colonnine a spirale, i suoi vassoi di rame, i suoi vasi cinesi. Queste bruttezze non contavano. Quel che contava era il silenzio. Attesi, braccata e tesa, fino a quando sentii una porta a battenti che si apriva, a destra della tenda di velluto, due persone che passavano sfiorando la tenda, poi il portoncino d'ingresso che si apriva e una voce borbottare: "Arrivederla, dottore." Nessuna risposta e la porta si richiuse. Di nuovo i passi felpati verso la prima porta, alcuni secondi di silenzio, poi il parquet scricchiol sotto il tappeto, segno che la porta era rimasta aperta, e alcuni suoni irriconoscibili. Poi la tenda di velluto si scost e l'ometto bruno mi fece entrare nel suo studio. Eccomi seduta davanti alla scrivania. Lui sprofondato in una poltrona nera accanto alla scrivania in modo tale che devo stare di traverso se voglio guardarlo in faccia. Sulla parete davanti a me c' una libreria piena di volumi nella quale incastrato un divano marrone con un salsicciotto di velluto e un piccolo cuscino. Il dottore sta chiaramente aspettando che mi decida a parlare. "Dottore, sono malata da molto tempo. Sono scappata da una clinica per venire da lei. Non ce la faccio pi a vivere." I suoi occhi mi fanno capire che mi sta ascoltando, che devo andare avanti. Prostrata com'ero, rinchiusa com'ero nel mio universo, come facevo a trovare le parole che sarebbero passate da me a lui? Come facevo a gettare un ponte tra l'agitazione e la calma, il chiaro e l'oscuro, come facevo a saltare la fogna, il fiume straripante di materia in decomposizione, la corrente maligna della paura che ci separava, me da lui, me dagli altri? Avevo molte storie da raccontare, molti aneddoti. Ma della storia che abitava dentro di me, la Cosa, questa colonna del mio essere, ermeticamente chiusa, piena di buio in movimento, come facevo a parlarne? Era una colonna densa, spessa, percorsa talvolta da spasmi, da affanni, e da movimenti lenti come quelli dell'acqua nei sottofondi marini. I miei occhi non erano pi finestre. Bench fossero aperti sapevo che li avevo chiusi, che erano solo due fette di globi oculari.

Mi vergognavo di quello che succedeva dentro di me, di tutto quel fracasso, quel disordine, quella agitazione. Nessuno doveva guardare l dentro, nessuno doveva sapere, neanche il dottore. Mi vergognavo della mia pazzia. Qualsiasi altra condizione di vita mi sembrava preferibile. Navigavo senza tregua in acque terribilmente pericolose, piene di vortici, di rapide, di relitti e insidie nascoste, tutto questo dovendo far finta di scivolare su un lago tranquillo come fossi un cigno. Per nascondermi meglio avevo chiuso tutte le uscite: gli occhi, il naso, la bocca, la vagina, l'ano, i pori della pelle, la vescica. Il mio corpo collaborava producendo abbondanti sostanze; alcune molto dense, tanto da non venire pi fuori, altre al contrario fluide che colavano di continuo, vietando cos l'ingresso a qualsiasi altro elemento. "Pu dirmi qualcosa delle terapie che ha seguito? Degli specialisti che l'hanno avuta in cura?" "S." Di questo potevo parlare. Potevo recitare una lunga lista di medici, di farmaci. Potevo parlare del sangue, della sua presenza dolce e tiepida tra le mie cosce, da pi di tre anni, dei due raschiamenti che mi avevano fatto per tentare di fermare il flusso. Questo continuo fluire, con le sue variazioni d'intensit, mi era ormai familiare. Era un'anomalia che mi rassicurava, perch almeno si vedeva, si poteva misurare, analizzare. Mi piaceva fare del sangue il vero responsabile, il punto focale della mia malattia. Del resto, come facevo a non spaventarmi di queste perdite continue? Quale donna non sarebbe impazzita nel vedere colare via la propria linfa? Come facevo a non esaurirmi nel controllare a ogni momento questa fonte intima, imbarazzante, vistosa, vergognosa? Come non darle la colpa del fatto di non poter pi vivere insieme agli altri? Avevo macchiato tante poltrone, tanti divani, tante sedie, tanti tappeti, tanti letti! Avevo lasciato tante pozze, pozzette, gocce, goccioline in tanti salotti, sale da pranzo, anticamere, corridoi, piscine, autobus, e in tanti altri luoghi! Non potevo pi uscire di casa. Impossibile non parlare della mia gioia i giorni in cui il sangue sembrava esaurirsi e non si faceva pi vedere, se non per qualche macchia marrone, poi ocra, poi giallastra. In quei giorni non ero malata, ero in grado di muovermi, di vedere, di uscire da me stessa. Finalmente il sangue sarebbe andato a rannicchiarsi nel suo nido morbido e si sarebbe addormentato per ventitr giorni, come faceva una volta. Ero piena di speranza ed evitavo il pi piccolo sforzo. Mi muovevo con ogni precauzione: non dovevo prendere i bambini in braccio, portare le borse della spesa, restare in piedi a lungo davanti ai fornelli, fare il bucato, pulire i vetri. Tutto al rallentatore, tutto con calma, purch sparisse il sangue, purch la smettesse d'imbrattare tutto. Rimanevo sdraiata con un lavoro a maglia, e sorvegliavo i miei tre figli che giocavano. Con un gesto furtivo del braccio, che era diventato rapido e abilissimo a furia di ripeterlo, controllavo in continuazione il mio stato. Riuscivo a farlo in qualsiasi posizione, senza farmi vedere da nessuno. A seconda delle circostanze la mia mano scivolava lungo i peli duri e crespi, fino ad incontrare il punto caldo, morbido e bagnato del mio sesso, poi si ritirava in fretta. Oppure superava con facilit la zona piana tra la natica e la coscia e si tuffava, in un colpo solo, nell'orifizio rotondo e profondo, per uscirne immediatamente. Non guardavo subito la punta delle dita. Volevo farmi una sorpresa. E se non ci fosse stato niente? A volte ce n'era cos poco che dovevo grattare con forza, con l'unghia del pollice, la pelle dell'indice e del medio, per far apparire una macchiolina quasi incolore. Una strana felicit s'impossessava di me: "Se non faccio il pi piccolo movimento si fermer del tutto." Rimanevo ferma, come addormentata,

desideravo con tutte le mie forze ridiventare normale, essere come le altre. Facevo e rifacevo i conti di cui sono pratiche le donne: "Se le mie mestruazioni finiscono oggi, le prossime verranno il... vediamo, questo mese ha trenta o trentun giorni?..." Ero persa nei miei calcoli, nella mia gioia, nei miei sogni. Finch la carezza forte e inequivocabile, segretissima, dolcissima, di un grumo trascinato dal sangue non mi faceva trasalire. Lava densa e compatta che sgorga dal cratere, invade le cavit, e rotola gi, calda. Il cuore ricominciava immediatamente a battere, l'angoscia tornava, la speranza svaniva mentre correvo in bagno. Il sangue aveva raggiunto le ginocchia, a volte i piedi, sottile striscia d'un bel rosso vivo. Quanti anni vissuti nell'attesa senza fine, nell'ossessione di questo sangue! Ero andata da non so quanti ginecologi. Ormai ero bravissima nell'appoggiare le natiche sull'orlo del lettino, con le gambe divaricate nelle staffe alte. Non sbagliavo d'un millimetro. Le mie viscere aperte e offerte al calore della lampada, agli occhi del medico, alle sue dita nel sottile guanto di gomma, ai ferri di acciaio bellissimi e spaventosi. Chiudevo gli occhi e guardavo con ostinazione il soffitto mentre nel centro del mio essere si stavano compiendo perquisizioni esperte, esplorazioni indiscrete, palpeggiamenti scientifici. Violentata. Tutto questo - mi sembrava - bastava a giustificare i miei nervi a pezzi, li rendeva pi accettabili, meno equivoci. Non si manda una donna in manicomio perch sanguina ed terrorizzata da questo fatto. Fino a quando avrei parlato unicamente del sangue, avrebbero visto soltanto quello, non ci che vi si nascondeva dietro. E ora eccomi qua, seduta vicino al dottore, nella pace di questo villino barocco, in fondo al vicolo silenzioso, ubbidiente e garbata, come avrebbe dovuto essere il sangue in fondo al mio ventre. Non sapevo che questo luogo e quest'uomo sarebbero diventati l'inizio di tutto. Mi compiacevo a raccontargli la mia visita, qualche settimana prima, a un grande professore di ginecologia. Lo specialista, tutto vestito di bianco, giacchetta e pantaloni, all'americana, aveva affondato la mano destra dentro di me, mentre con la sinistra premeva sul mio ventre, da ogni lato, spingendo le mie viscere verso il basso, proprio dove le sue dita fasciate di gomma stavano palpando: una massaia che pulisce un pollo e lo svuota d'un colpo solo. Mi aspettavo che gli organi si mettessero a fare strani rumori melmosi, "pluf", "slop", "splash". Il soffitto era bianco come la menzogna. Un bianco infinito per far perdere le vagine deformi e logore, un bianco profondo per inghiottire le immagini ignobili che mi venivano in mente. Dopo un lunghissimo esame il professore si era raddrizzato, aveva tolto il guanto, e lasciandomi l sul lettino, con le cosce spalancate, aveva dichiarato: "Per ora solo un utero fibromatoso. Le consiglio di sbarazzarsene quanto prima. Altrimenti va incontro a grossi guai, prima di quando non si aspetti. Fissiamo subito la data dell'operazione. Vedr, dopo andr tutto bene... Non stiamo a rimandare, la opero la settimana prossima... vediamo, quale giorno preferisce? Luned o marted?" Risposi "marted." Mi diede le sue istruzioni per gli esami preoperatori e per il ricovero in clinica. Pagai la parcella, dissi grazie, me ne andai. Non avevo ancora trent'anni. Non volevo che mi portassero via quella sacca e quelle due palline. Non volevo pi che il sangue colasse di l, ma volevo tenermi questi organi nel ventre. La Cosa si muoveva nella mia testa, si agitava. Scesi di corsa le scale di marmo con le colonne, la passatoia, le bacchette di ottone, gli specchi su ogni pianerottolo. Ero fuori, sul grande marciapiede grigio dei

quartieri alti. Mi misi a correre, mi precipitai nel metr, e l la Cosa mi riemp, spingendo questa volta le sue radici proprio nel mio utero fibromatoso. Fibromatoso. Che razza di parola! Una caverna foderata di alghe sanguinolente. Un pertugio bolso e mostruoso. Un rospo pieno di pustole. Una piovra. Per i malati mentali, le parole hanno una vita propria, come la gente o gli animali. Possono palpitare, svanire o amplificarsi. Passare attraverso le parole come camminare in mezzo alla folla. Rimangono delle facce, delle sagome che si dileguano presto nel nostro ricordo, oppure vi si fissano, non si sa bene perch. In quel periodo, estraevo una parola dalla massa delle altre parole, ed essa cominciava ad esistere, diventava una cosa importante, forse la pi importante e mi abitava, mi torturava, non mi lasciava pi, mi appariva nel sonno e mi aspettava al risveglio. Aprivo gli occhi lentamente, riemergevo dal sonno pesante, impastato, che i tranquillanti mi procuravano. Per prima cosa prendevo coscienza del mio corpo intatto. Poi dell'ora, del sole e stavo abbastanza bene. Risalivo alla superficie della mia coscienza. Un secondo, due secondi, tre al massimo: fibromatoso! Splash eccolo qua, come un grosso schizzo di vernice grassa su un muro bianco. Ed ecco i brividi, il cuore che martella e il sudore della paura. Cominciava una nuova giornata. Devo assolutamente ricordare e ritrovare la donna dimenticata. Pi che dimenticata, dissolta. Una donna che camminava, parlava, dormiva. Al pensiero che i suoi occhi erano capaci di guardare, le sue orecchie di udire, la sua pelle di sentire, mi commuovo. Era con i miei occhi, le mie orecchie, la mia pelle, che quella donna viveva. Guardo le mie mani, le stesse mani, le stesse unghie, lo stesso anello. Io e lei. Io sono lei. La pazza ed io abbiamo iniziato una vita nuova, piena di speranza, una vita che non potr pi essere brutta. Io la protegger, lei mi dar la fantasia, la libert. Se voglio raccontare questo passaggio, questa nascita, devo allontanarmi dalla pazza, prendere le distanze, sdoppiarmi. La vedo in una strada, ha molta fretta. So quanti sforzi sta facendo per sembrare normale, per trattenere la paura dietro lo sguardo. Me la ricordo in piedi, la testa affondata nelle spalle, triste, tutta presa dall'agitazione che sente salire dentro di s, intenta a fare dei suoi occhi una diga. L'importante che non si veda niente! Che non cada per terra, in mezzo alla strada, che non venga portata via dagli altri, che non la conducano in ospedale. Il solo pensiero di non essere in grado di strozzare la follia, le cui ondate sempre pi grosse avrebbero finito prima o poi col rompere le dighe e straripare, la faceva tremare come una foglia. I suoi itinerari in citt diventavano sempre pi brevi. Poi, un giorno, smise di uscire. In seguito, ridusse il suo spazio vitale all'interno della casa. Le trappole erano sempre pi numerose. Negli ultimi mesi, prima di essere consegnata ai medici, poteva vivere solo nella stanza da bagno. Una stanza bianca con le piastrelle di ceramica. Una stanza buia, fiocamente illuminata da una finestra a mezzaluna ostruita quasi completamente dai rami di un grosso pino. Nei giorni di vento si udiva il pino grattare il vetro. Una stanza pulita con l'odore asettico delle saponette. Niente polvere negli angoli. Le dita scivolavano sulle piastrelle come sul ghiaccio. Niente decomposizione, niente fermentazione. Soltanto materie capaci di marcire cos lentamente che il concetto di putrefazione non poteva essere loro applicato. Lo spazio tra la vasca e il bid, ecco il suo posto preferito quando non riusciva pi a domare la Cosa. Era l che si rintavana in attesa che i farmaci facessero il loro effetto. Raggomitolata su se

stessa, con i talloni contro le natiche, le braccia strette attorno alle ginocchia ripiegate sul petto, le unghie conficcate nel palmo delle mani fino a procurarsi delle ferite, la testa che dondolava avanti indietro oppure da un lato all'altro, troppo pesante per essere retta dal collo, il sangue e il sudore che colavano. La Cosa dentro di lei era costituita da un mostruoso formicolio d'immagini, di suoni, di odori, proiettati in ogni parte da una pulsione distruttiva; rendeva incoerente ogni ragionamento, assurda ogni spiegazione, inutile ogni tentativo di fare ordine; all'esterno si rivelava con un tremito violento e un sudore nauseabondo. La prima volta che andai dallo psicoanalista, era sera, mi par di ricordare. Ma forse no, forse rimasta la nostalgia di una di quelle sedute serali, in fondo al vicolo, ben riparata dal freddo, dalla gente, dalla pazza, dalla notte. Una di quelle sedute in cui prendevo coscienza di maturare, di venire al mondo. Si aprivano larghe falle luminose, la strada si faceva pi larga, cominciavo a capire. La pazza non era pi quella poveretta che andava a nascondere i suoi tremiti nelle toilette dei bar, quella che fuggiva da un nemico innominabile, che sanguinava per le strade, e sudava rintanata nella sua stanza da bagno. Non era pi quella malata che rifiutava di essere toccata, guardata, che non voleva che le si rivolgesse la parola. La pazza stava diventando un essere tenero, ricco e sensibile. Cominciavo ad accettare la pazza, a volerle bene. Le prime volte, venivo nel vicolo per il solo motivo di farmi curare per un po' da un dottore che non mi avrebbe fatta internare. (Gli psicoanalisti non mandano i loro pazienti in ospedale, questo lo sapevo.) La clinica mi terrorizzava, come mi aveva terrorizzata l'idea dell'operazione che mi avrebbe amputato il ventre. Ero fuggita da una clinica per poter venire nel vicolo, ma temevo che fosse troppo tardi, e che mi rimandassero da dove venivo. Mi sembrava inevitabile, specie da quando la mia malattia si era arricchita di un nuovo sintomo, un'allucinazione. Ero ben decisa a non parlarne col dottore, perch pensavo che si sarebbe rifiutato di curarmi e mi avrebbe rimandata seduta stante in clinica psichiatrica. Quell'occhio vivo che di tanto in tanto mi fissava esisteva realmente, anche se solo per me (di questo mi rendevo perfettamente conto), e mi sembrava il segno inequivocabile della pazzia, della malattia incurabile. Avevo trent'anni, un'ottima salute, e quindi rischiavo di passarne altri cinquanta rinchiusa in manicomio, e se non fosse stato per i bambini, credo che mi sarei lasciata definitivamente andare. Forse senza di loro avrei smesso di lottare. Questa continua battaglia contro la Cosa mi stremava, e sempre pi ero tentata di ricorrere alle medicine che mi conducevano dolcemente in una nebbia morbida ed accogliente. I miei figli erano degli esseri umani, li avevo voluti con tutte le mie forze, non erano nati per caso. Da bambina dicevo sempre: "Quando sar grande avr dei bambini e costruir per loro e insieme a loro una vita fatta di allegria, di calore, di affetto." Quello, cio, che avevo sognato per tutta la mia infanzia. Erano venuti al mondo traboccanti di questa loro nuova vita, robusti, molto diversi l'uno dall'altro. Crescevano bene e li adoravo. Mi piaceva farli ridere, cantare loro delle canzoni. Poi, tutt'a un tratto, lo sfacelo: La Cosa era venuta, era tornata, e ora non mi lasciava pi. Mi assorbiva al punto che non riuscivo ad occuparmi d'altro. In un primo tempo avevo sperato di poter vivere con la Cosa, come altri vivono con una gamba sola, un occhio solo, una malattia allo stomaco o ai reni. I farmaci infatti relegavano la Cosa in un angolo, dove non si muoveva. In quei momenti riuscivo ad ascoltare, a parlare, a camminare. Riuscivo a portare i bambini a

passeggio, a fare la spesa, a preparare dei dolci e a raccontare loro delle storie per farli ridere. Ma l'effetto delle pillole diminuiva di giorno in giorno e dovetti raddoppiare, poi, triplicare la dose. Poi, un bel giorno, mi sono svegliata prigioniera della Cosa. Non ricordo da quanti medici sono stata. Il sangue si messo a colare ininterrottamente. In certi momenti la mia vista si abbassava, vivevo nella nebbia, tutto diventava sfocato e pericoloso. La testa mi si affondava nelle spalle, i pugni si serravano a difesa. Il mio cuore batteva a centotrenta, centoquaranta pulsazioni al minuto per giorni e giorni, sembrava che volesse sfondarmi il petto e saltar fuori, impazzito, agli occhi di tutti. Il suo battito scatenato mi stremava. Pensavo che gli altri lo potessero sentire e mi vergognavo. Mi erano venute due manie, due gesti che ripetevo mille volte al giorno. Il primo, che ho gi descritto, era di andare a verificare il flusso del sangue, e il secondo di provarmi il polso. Come per il sangue, anche questo lo facevo furtivamente e non se ne accorgeva nessuno. Non sopportavo l'idea di sentirmi dire: "Che cos'ha, non si sente bene?" Il flusso del sangue e i battiti del polso erano i due poli sensibili, evidenti, della mia malattia; due sintomi che mi permettevano di dire, quando non ce la facevo pi a nasconderli: "Sono malata di cuore", "Ho un cancro all'utero." Ricominciava la girandola degli specialisti. La morte era sempre pi presente, con la sua materia in decomposizione, le sue secrezioni nauseabonde. Ora mi sono messa in testa di raccontare la mia malattia. Mi sono concessa l'orrendo privilegio di descrivere quelle terrificanti immagini, quei dolori abominevoli, che nascevano in me al ricordo di avvenimenti passati. Mi sembra di essere un regista con la cinepresa, appollaiato in cima a una gru gigantesca: pu scendere a livello della terra per riprendere in primo piano i particolari deformati di un viso, oppure salire in alto, sopra il set, per le scene d'insieme. Ricordo ad esempio quella prima visita, in una Parigi autunnale (ma era poi autunno?), con le luci della sera, e il vicolo nel quartiere di Alesia. Dentro il vicolo, il villino, dentro il villino lo studio immerso in una luce calda, dentro lo studio un uomo e una donna. Questa donna sul divano, raggomitolata come un feto nell'utero. Allora non sapevo che cominciavo appena a nascere e che vivevo i primi istanti di una lunga gestazione che doveva durare sette anni. Ero un embrione, il grosso embrione di me stessa. Al dottore avevo gi detto del sangue e della Cosa che mi faceva venire le palpitazioni. Non avrei detto nulla dell'allucinazione, gli avrei parlato dei giorni precedenti, della clinica. Cos gli avrei raccontato tutto. Il dottore mi ascoltava con molta attenzione, eppure niente di quel racconto provoc in lui la minima reazione. Quando ebbi finito di descrivere la stanza da bagno e le mie crisi di angoscia, mi chiese: "Che cosa prova in quei momenti, oltre al malessere fisico?" "Ho paura." "Paura di che cosa?" Per la verit, non sapevo nemmeno io di che cosa avevo paura. Avevo paura della morte, ma anche della vita, perch essa genera la morte. Avevo paura del mondo esterno, ma anche di quello interno. Avevo paura degli altri, e avevo paura di me stessa perch mi sentivo un'altra. Avevo paura, paura, paura, paura, paura. Nient'altro. Questa paura mi aveva relegata nel mondo dei malati di mente. La mia famiglia, da cui ero appena uscita, aveva di nuovo tessuto il

bozzolo attorno a me, sempre pi fitto, via via che la malattia progrediva. Non si preoccupavano soltanto di proteggere me, volevano proteggere loro stessi. La pazzia non si ammette in un certo ambiente, bisogna nasconderla a tutti i costi. Nell'aristrocrazia la pazzia un'eccentricit, nelle classi popolari una tara, in tutti e due i casi si giustifica. Ma nella nuova classe egemone non tollerata. Quando dipende dalla consanguineit o dalla miseria endemica, va bene, si pu anche capire, ma il benessere, la buona salute, i soldi guadagnati bene, non possono generare psicosi: quando succede, una vergogna. Da principio mi tranquillizzavano: "Non nulla, sei un po' nervosa. Riposati, fa' dello sport." Infine un ordine categorico: "Andrai dal dottor Tale, un amico di tuo zio e un grande specialista di malattie nervose." Il grande specialistaamico aveva prescritto una terapia "sotto stretto controllo medico". Mi avevano prenotato una stanza all'ultimo piano della clinica di mio zio. Era una specie di mansarda, tutta tappezzata di stoffa, con un motivo campestre molto riposante: una pastorella con le sue pecore e il suo bastone, un albero d'ulivo dal tronco nodoso. La pastorella, le pecore, l'albero, la pastorella, le pecore, l'albero: questo susseguirsi d'immagini pacifiche mi rassicurava. Dietro un paravento rivestito della stessa stoffa, c'erano un lavandino e un bid di porcellana bianca, con gli angoli arrotondati. Di fronte, un tavolo e una sedia, poi una finestra a lucernario, fuori, la deliziosa campagna dell'ledeFrance: una fila di pioppi che fremevano, i meli piantati a scacchiera, campi di grano digradanti fino all'orizzonte. Il cielo aperto. Ma forse quel tessuto con la pastorella non era quello della mia camera in clinica, forse era quello della mia stanza di bambina. In clinica c'era alle pareti un tessuto con dei grossi fiori, o forse i muri erano verniciati di azzurro. Non ricordo. Non so pi come sono arrivata l, n chi mi ha portata. Ricordo chiaramente la scala di legno, molto stretta, che conduceva alla mia camera. Ricordo la stanza, il mobilio, la finestra, la toilette. Mi fecero spogliare, infilare un pigiama nuovo ed entrare nel letto morbido con le lenzuola fresche. Mi fecero sdraiare, mi misurarono la pressione e provarono il polso. Ero in balia dei medici. Chiusi gli occhi per continuare la battaglia dentro di me, dato che per il resto mi ero ormai arresa: ero sdraiata sulla schiena, con le braccia distese sulle lenzuola ben tirate e le mani aperte. Vista dall'esterno sembravo normale, ma dentro di me c'erano le palpitazioni e dovevo calmarle. Mi misero il bracciale, sentivo il soffio corto e ripetuto della pompa di gomma, sentivo la stoffa gonfiarsi e stringersi sempre di pi attorno al mio braccio. Mi irrigidivo al contatto freddo del disco di metallo nell'incavo del mio gomito. Il medico aveva insistito sulla pressione, che era molto bassa: dovevano controllarla ogni quattro ore, prima di darmi la compressa. Non m'interessava che la pressione fosse bassa. Per me contavano solo i battiti impazziti del mio cuore. Mentre mi misuravano la pressione ne approfittavo per cercare di calmarli. Chi c'era in quella stanza? Mio zio? Il professoreamico? Qualcun altro? Non so. In quel periodo ero talmente occupata a controllarmi e a lottare contro la Cosa che non vedevo bene, mi pareva di diventare cieca, di muovermi guidata da un radar, come se fosse l'istinto pi che la vista ad impedirmi di andare a sbattere contro le persone, contro i muri. Poi sentii quattro polpastrelli esperti che si posavano sul mio polso. Quattro minuscole palline morbide. Non ci fu bisogno di cercarla, la Cosa era l, e subito il sangue si mise a battere contro

quelle dita. Appena le dita sentirono i battiti, essi si ingigantirono e risuonarono per tutto il mio corpo, per tutta la stanza. Novanta, cento, centodieci, centoventi, centotrenta, centoquaranta. Avevo un bel nasconderla e tappare tutto per non farla uscire, la Cosa si manifestava lo stesso, attraverso le mie vene, attraverso la mia pelle. Quella figlia di puttana era l, si prendeva burla di me, non mi obbediva, batteva come una forsennata contro i quattro polpastrelli. Le dita lasciarono il mio polso, ormai sapevano. Qualcuno si mosse vicino a me, ci furono vari rumori, piccoli rumori per niente minacciosi. "Ora prender la sua compressa. Un quarto soltanto, per una settimana, quattro volte al giorno. Poi aumenteremo la dose. Vedr che le far bene." Era una donna a parlare, una donna piccola e minuta, con i capelli bianchi. Nei suoi occhi si leggeva che aveva capito il messaggio trasmesso alle sue dita. Sapeva. Presi il frammento di compressa, il bicchiere d'acqua che mi porgeva, e feci finta d'ingoiare normalmente: erano settimane che non riuscivo a buttar gi nessuna compressa senza averla diluita. La mia gola era cos stretta che non lasciava passare niente. La medicina mi era rimasta in gola, enorme, come una pietra. La donna usc. Balzai gi dal letto e corsi fino al lavandino per sputare la medicina. Dovetti infilarmi le dita in fondo alla gola per vomitare. Finalmente venne fuori il minuscolo triangolo giallastro, insieme con catarro, schiuma, e filamenti vischiosi. (Quella compressa era veramente giallastra? Non era rossa, o bianca?) Mi sedetti sul bid, con il corpo scosso dai brividi e la fronte contro il bordo fresco e duro del lavandino. Il tempo s'era fermato. Non so quanto tempo rimasi senza muovermi. A un certo punto ricordo che mi tolsi il tampone che bloccava il flusso del sangue. Cominci a cadere, lentamente, goccia a goccia, mentre io mi dondolavo avanti indietro, per cullarmi, sapendo bene che cullavo anche la Cosa. Le gocce di sangue si schiacciavano e si diluivano in parte sulla ceramica bianca e bagnata, e ora formavano un sottile ruscello che andava fino allo scarico. Mi piaceva guardarlo, mi teneva occupata. Osservavo la metamorfosi del sangue che usciva dal mio corpo e acquistava una vita propria, scopriva la fisica, il peso, la densit, la velocit. Mi faceva compagnia, lo sentivo sottomesso come me alle leggi incomprensibili e indifferenti della vita. La Cosa aveva vinto. Ormai eravamo sole io e lei, per sempre. Eravamo finalmente isolate, noi e le nostre secrezioni: il sangue, il sudore, le feci, la saliva, il pus, il muco, il vomito. La Cosa aveva cacciato via i miei figli, le strade piene di gente, le luci dei negozi, la spiaggia a mezzogiorno con le piccole onde dell'estate, gli alberi di lill, le risate, il piacere di ballare, il calore degli amici, l'esaltazione intima dello studio, le lunghe ore di lettura, la musica, le braccia tenere di un uomo attorno a me, la crema al cioccolato, la gioia di nuotare nell'acqua fresca. Non mi restava che raggomitolarmi in questa toilette di una clinica, il posto pi pulito della stanza, sudare e rabbrividire. Tremavo cos forte che le mie mascelle facevano uno stupido rumore meccanico. Per fortuna, gli scalini di legno scricchiolavano. Al minimo rumore tornavo a letto e assumevo un atteggiamento normale. Non mi piaceva quella donna con i capelli bianchi e non le parlavo mai. Mi portava i pasti su un vassoio e mi dava le compresse dopo avermi misurato la pressione e provato il polso. Non riuscivo a mangiare. Buttavo nel lavandino tutto quello che poteva andar gi, e il resto nella grondaia che scorreva sotto la mia finestra, lungo il tetto di tegole. Non ho il ricordo di un periodo lungo o corto, e nemmeno

della notte o del giorno. Ero prigioniera. Avevo guardato fuori dalla finestra per vedere se sarei riuscita ad uccidermi buttandomi gi. S, mi sarei uccisa, c'erano almeno quattro piani. Ma il tetto nascondeva la base della casa e non sapevo dove sarei caduta, forse sulla vetrata di una veranda o su un'aiuola. Non volevo suicidarmi con questo sistema. Oltretutto la morte mi faceva paura e, allo stesso tempo, mi sembrava l'unica soluzione per eliminare la Cosa. Non so quanti giorni passarono prima che un violento desiderio di fuga s'impadronisse di me. Almeno otto, perch quella mattina (era mattina, ne sono certa) la signora mi aveva fatto prendere mezza compressa, e mi ricordavo perfettamente che dovevo prenderne un quarto per una settimana, poi mezza. Presi improvvisamente coscienza di essere sdraiata nel mio letto, coricata normalmente sulla schiena, col viso scoperto. Rimasi sorpresa, erano mesi che vivevo raggomitolata su me stessa, che dormivo in posizione fetale, con la testa affondata nelle coperte. Mentre constatavo questo cambiamento, mi sentivo la nuca pesante, come se il cervelletto fosse stato di piombo. Mi accorsi che gi da qualche tempo avvertivo questa pesantezza, anche se meno localizzata. Mi accorsi anche che la Cosa non era pi come prima, inquieta, affannosa, rapida; era diventata densa, vischiosa, collosa. Non era pi la paura che mi abitava, ma piuttosto la disperazione, la tristezza, il disgusto. No, non volevo. Non so quale istinto mi abbia fatto scegliere la lotta con la Cosa infuriata invece della convivenza con la Cosa molle, appiccicata a me in un abbandono nauseante. Nel corso della mattinata - la testa mi pesava e mi doleva sempre pi, affondata tra i cuscini - misi in relazione questo mio stato e le compresse che prendevo. Mi torn in mente una conversazione tra lo psichiatraamico e mio zio. Parlavano di una nuova terapia, un "elettroshock chimico", ancora difficile da controllare, ma che dava risultati ben pi soddisfacenti dell'elettroshock tradizionale. Ne parlavano davanti a me come fossi stata una sedia. E infatti, in quel momento, non ero per nulla interessata ai loro discorsi. Pensavo soltanto che il cerchio era ormai chiuso, che stavano per internarmi e che non c'era niente di strano, poich ero incapace di vivere come gli altri, incapace di allevare i miei figli. Eppoi non ce la facevo pi, volevo solo che mi liberassero dalla paura, dalla Cosa, a qualunque prezzo. Eppure quella mattina in clinica intuii che questo prezzo sarebbe stato altissimo e che non volevo pagarlo. Non avrei pi preso le loro schifose compresse, questo era certo. Quando la signora fosse tornata, avrei finto d'ingoiare la compressa ma non l'avrei ingoiata, avrei sputato tutto fuori dalla finestra. Nella grondaia! E' ci che feci. Quando cerco di ricordare quel periodo, mi stupisco ogni volta di non trovare nulla all'infuori di grandi spazi abbandonati, pieni di frammenti di persone e di oggetti, grandi spiagge coperte da vaghi detriti delle mie giornate, poi, tutt'a un tratto, costruzioni nette, precise, intere, perfettamente equilibrate e chiare. In certi momenti durante la mia malattia sono stata pi acuta e pi lucida di quanto non sar mai pi. Ne serbo un ricordo struggente. Durante la pazzia avevo scoperto nella mia mente certe strade di cui non avrei mai sospettato l'esistenza se fossi stata normale. Ero capace di un'incredibile agilit intellettuale. Mi venivano, di tanto in tanto, dei pensieri acuti, sottili, chiari, che mi portavano a una maggiore conoscenza, a una comprensione pi profonda di ci che mi circondava. Osservavo gli altri e li vedevo prendere direzioni tanto diverse dalla mia, addirittura opposte, tanto pericolose per loro che volevo

fermarli, avvertirli del rischio che correvano. Non lo facevo perch mi credevo malata e pensavo che queste mie scoperte fossero frutto della pazzia. Come potevo tremare all'idea che gli altri si perdessero se ero io la pazza? Allo stesso modo, quel giorno, previdi con estrema chiarezza quello che mi stava per succedere. Eppure non avevo ancora incontrato nessuno "guarito" dalla psichiatria. Pi tardi ne ho visti alcuni: mummificati, inoffensivi, preoccupati di se stessi, esseri umani con le mani madide e lo sguardo doppio: una fiammella, la cenere, una fiammella, la cenere... Penso che la Cosa non li faccia pi soffrire ma che sia rimasta dentro di loro, viva. E' ancora lei che guida la carrozza. Con quella testa malata, dolente, greve, (quel cervelletto che la droga mi strappava via!), avevo capito tutto. Non volevo finire cos! Architettai un piano perfetto per poter scappare. Previdi tutto, nei minimi particolari. In primo luogo, non prendere pi la mezza compressa. Poi mangiare qualcosa, perch per uscire dovevo avere un po' di forze. Ottenere che mi lasciassero andare nel parco. Dopo, sarebbe stato facile. Ma soprattutto previdi che, scomparendo l'effetto della droga, la Cosa mi avrebbe assalita di nuovo, con l'angoscia, i brividi, i tremiti, la paura, il sudore. Avrei ricominciato a vederci male, a sanguinare come un bue. Pazienza, l'importante era tagliare la corda. Sapevo di disporre di sole ventiquattr'ore per recitare la mia commedia. Dopo, rischiavo di non essere pi in grado di andarmene, perch tutte le mie forze sarebbero state nuovamente mobilitate nella battaglia contro la Cosa. Immaginavo che non sarebbe stato possibile recuperare la mia borsetta piena di tranquillanti, di sonniferi e di tutti i toccasana che mi servivano per la mia guerra: zollette di zucchero per i crampi allo stomaco, mentine per la lingua impastata e la gola serrata, aspirina contro il caldo alla testa, deodorante contro il puzzo del sudore, tampax, fazzoletti di carta, cotone idrofilo per bloccare il sangue, occhiali scuri per nascondere lo sguardo agli altri e ripararmi gli occhi dalla luce intollerabile. Quella borsetta conteneva anche del denaro che mi avrebbe fatto comodo, dato che mi trovavo in mezzo alla campagna: non potevo prendere la corriera, il treno, il taxi. Bisognava trovare un'altra soluzione. L'avrei trovata. Sarei andata in paese e avrei telefonato a un mio amico. (Quelli della posta mi conoscevano: "E' la nipote del direttore... pagher la prossima volta." Mi era gi capitato in passato.) Chiedere la mia borsetta significava rovinarmi, questo era certo. Non dovevo suscitare il minimo sospetto. Per fortuna ero molto pratica del parco dove da bambina andavo a giocare e dove avevo portato spesso i miei figli a passeggio. Sapevo che esistevano passaggi nel muro di cinta e che sarei potuta uscire senza farmi vedere dai guardiani. Loro non sapevano che cosa facevo in clinica, non era un posto per soli malati di mente. Ero sicura che solo mio zio, mia zia e l'infermiera conoscessero il segreto. Per c'era il rischio che i guardiani parlassero e che mio zio venisse a sapere che ero uscita dal parco. Tutto il mio piano sarebbe andato in rovina. Con gli impiegati della posta, non c'erano problemi, non avevano rapporti regolari col personale della clinica. L'avrei fatto domani. Dopodomani me ne sarei andata. L'unica cosa che mi poteva tradire era il polso. L'effetto della droga sarebbe durato abbastanza a lungo? Per la compressa di mezzogiorno mi faccio trovare seduta a letto. L'infermiera entra nella stanza. "Buongiorno." "Buongiorno, sembra che stia meglio oggi." "S, mi sento meglio."

Pressione, polso, bicchiere d'acqua e mezza compressa sul piccolo vassoio di metallo. Da un po' di giorni non c'era pi bisogno di scioglierla nell'acqua, deglutivo normalmente. La mezzaluna incastrata sotto la mia lingua, l'acqua va gi. Un sorriso, se ne va. La compressa nella grondaia. Quando viene per la compressa del pomeriggio, mi trova in piedi davanti al lavandino. "Bel tempo oggi." "S, una bellissima giornata." "Vorrei vedere mio zio, ho voglia di uscire." "Piano, piano, non credo che sia possibile. In piena cura!" "Potrei vedere mio zio? Ho voglia di leggere." "Sicuro." Pressione, polso, compressa nella grondaia. Poco dopo appare mio zio. "Allora, m'hanno detto che stai meglio, che vuoi leggere. Ti ho portato delle riviste e dei gialli." "Mi piacerebbe muovermi un po'. Potrei andare nel parco domani?" "Devo chiederlo al tuo medico." "Chiamalo. So che mi far bene, ho una voglia matta di uscire." "Ora lo chiamo; dovrebbe venire a visitarti dopodomani, mi pare." "Non dovr mica stare sempre senza muovermi. Sai, sto molto meglio." Largo sorriso. E' seduto sulla sponda del letto. Quasi non osa guardarmi. Per darsi un contegno studia la mia cartella clinica, dove ogni giorno segnano la mia pressione, il mio polso e le dosi di farmaco somministrato. Conosce questa cartella a memoria. Ogni mattina l'infermiera gliela porta a vedere. "Sembra proprio che tu stia meglio, mi fa piacere. Verr a dirti che cos'ha deciso il tuo medico." Il mio medico! Se non conosco nemmeno il suo nome! In attesa del ritorno di mio zio, decido di farmi un po' di toilette. Mi spazzolo i capelli a lungo, avanti e indietro, poi mi lavo i denti. Mi stanco subito, respiro con fatica. Sto aspettando la Cosa, ma non si fa viva. Mi siedo per vedere colare il sangue nel bid. E' il mio passatempo preferito da quando sono in clinica. Mi ricorda il mare e le onde che vengono a fare l'inchino sulla battigia, con un sospiro. Penso ai pianeti che girano con regolarit. Appena sento scricchiolare il primo scalino mi tiro su le mutande e mi siedo al tavolo, con una rivista aperta davanti a me. C' Gina Lollobrigida con un vestito scollatissimo che sorride a tutt'andare. Dio mio, come fa quella donna a essere cos felice? Mio zio entrato, ha ancora il camice bianco che lo stringe un po' sullo stomaco e il berrettino bianco che porta in sala operatoria. "Il tuo medico d'accordo. Potrai fare una passeggiata domani. E' molto soddisfatto dei risultati della cura. Pare che a volte questo farmaco abbia l'effetto contrario, che renda i pazienti abulici, che faccia venire mal di testa. L'infermiera verr con te. Tua zia ha chiesto se vuoi venire a cena da noi." "No, stasera no, ti ringrazio. Ho gi cenato e ora andr a dormire. Verr domani se la passeggiata mi avr fatto bene. Ringraziala da parte mia, sono sicura che capir." "Ma certo. Sai, non ha mai dubitato che ne saresti uscita in fretta. Non sono cose che capitano nella tua famiglia. Ti sei stancata troppo con i bambini, senza nessun aiuto. Tutto qui. Pi che altro in pensiero per tua madre che si preoccupa tanto per te. Sai come si vogliono bene. Passano intere giornate al telefono, loro due. La tua povera mamma non si regge pi in piedi. I bambini la distruggono." "Guarir molto presto. Dovete rassicurarla. Non ne avr per molto." "Oh, sai, per me... Lo dico per tua madre. Questa povera donna ne

ha passate abbastanza, ha il diritto di tirare il fiato... Insomma, ti sto parlando come a una... persona adulta. Non ingigantire le cose." "No, no. Capisco quello che vuoi dire, ma vedrai che finir presto. Lo sento, sto gi meglio." "Buonanotte, bambina." Mi bacia in fronte, esce. Non voglio pensare a mia madre. Non devo pensare ai bambini... Quello che segue molto confuso. La lotta corpo a corpo con la Cosa era feroce. Sentivo di non avere le forze per combattere contro di lei, con le mie mani, senza il minimo farmaco per aiutarmi, senza niente. Eppure tenevo duro. Uscii senza l'infermiera. Corsi per i campi. (Cerco di ricordare se il grano era alto ma non ci riesco.) Parlai per telefono col mio amico. "Mi prometti di venire domani, a quest'ora? Al bivio tra la strada statale e il viale che porta alla clinica, c' un cartello che la indica, un chilometro prima di arrivare al paese, sulla sinistra." "Non ti preoccupare, ci sar." Quella sera, seduta davanti al televisore, tra mio zio e mia zia, mi sembrava di essere in un grande acquario. Loro due erano due bravi pesciolini che brucavano tranquillamente le alghe e io ero una piovra. Soprattutto non aggredirli, non fare nulla che possa dar loro fastidio, non una parola, non un gesto. Non sapevo che mi preparavo a lasciarli definitivamente. Sapevo solo che stavo per ingannarli, e questo mi sconvolgeva. Proprio loro, i migliori della famiglia. Abbandonarli significava abbandonare il Bene. Ma quella era la strada che avevo deciso di prendere. Ora che ci pensavo, non ero mai stata normale, non ero mai stata in grado di vivere normalmente, come facevano loro. Tanto valeva sparire, liberarli dalla mia presenza. L'indomani trovai la macchina che mi stava aspettando. Partimmo subito e potei lasciarmi andare a tremare e a battere i denti. "Non stai bene? Dimmi che cosa posso fare." "Niente. Non c' niente che tu possa fare. Portami da Michle. Dopo telefonerai alla clinica. Digli che sto bene, che non mi facciano ricercare. Ma non dire dove sono. Non voglio vederli." Il giorno dopo andavo nel vicolo per la prima volta. Chi telefon al dottore? Io? Michle? Non so pi. Lei lo conosceva, io ne avevo sentito parlare. (A casa di Michle trovai dei tranquillanti e riuscii a controllare la Cosa.) Non so pi. Ecco, avevo detto tutto. Volevo parlare del sangue e invece ho parlato soprattutto della Cosa. Il dottore mi avrebbe mandata via? Non osavo guardarlo. Mi sentivo bene, l, in quello spazio angusto, a parlare di me stessa. Che fosse una trappola? L'ultima? Forse avevo fatto male a fidarmi di lui. Disse: "Ha fatto bene a non prendere quelle compresse. Sono molto pericolose." Sentii che tutto il mio corpo si stava sciogliendo. Provai un'immensa gratitudine per quel piccolo uomo. Forse esisteva una via tra me e qualcun altro. Magari fosse vero! Magari potessi trovare qualcuno che mi ascolti veramente! Riprese a parlare: "Penso di poterla aiutare. Se per lei va bene, potremmo fare un'analisi insieme, a cominciare da domani. Lei dovrebbe venire tre volte alla settimana, per tre sedute di tre quarti d'ora. Ma, nel caso lei accetti, mio dovere avvertirla che la psicoanalisi rischia di sconvolgere completamente la sua vita. Inoltre dovr smettere fin d'ora di prendere qualsiasi medicina, sia

per le emorragie, sia per il sistema nervoso. Neanche un cachet, niente. Deve anche sapere che l'analisi dura almeno tre anni, che verr a costarle molto cara. Le chieder quaranta franchi a seduta, centoventi franchi alla settimana. Parlava con molta seriet e sentivo che voleva che lo ascoltassi, che ci riflettessi sopra. Per la prima volta da tanto tempo qualcuno mi parlava come fossi una persona normale. E, per la prima volta da tanto tempo, mi comportavo come una persona capace di assumersi le proprie responsabilit. In quel momento mi resi conto che mi avevano tolto tutte le mie responsabilit, una dopo l'altra. Non ero pi niente. Meditai sulla mia situazione e su quello che mi aveva appena detto. Quale sconvolgimento poteva accadere nella mia vita? Forse avrei divorziato, perch era dopo il matrimonio che la Cosa si era insediata in me. Pazienza, divorzier, staremo a vedere. A parte quello, che cosa poteva cambiare nella mia vita? I soldi invece erano un problema, non ne avevo. Vivevo con i soldi che guadagnava mio marito e quelli che mi passava la famiglia. "Dottore, non ho soldi." "Dovr guadagnarseli. Si deve pagare le sedute col suo denaro. E' molto meglio." "Ma non posso uscire, non posso lavorare." "Ce la far. Posso aspettare tre mesi, sei mesi, fino a quando non avr trovato un lavoro. Possiamo metterci d'accordo. Ma fin da ora voglio che sappia che mi dovr pagare e che le coster caro. Dovr pagare anche le sedute alle quali non verr, come le altre. Se non costretta a pagare, non prender l'analisi sul serio. E' sicuro." Aveva un tono piuttosto staccato, come di chi sta trattando un affare. Non v'era ombra di commiserazione nella sua voce, nessun atteggiamento dotto o paterno. Allora non sapevo che accettando di prendermi subito, egli sottraeva altre tre ore alla sua vita gi affollata dai pazienti. Non accenn nemmeno a questa fatica supplementare, n al fatto che agiva in modo del tutto eccezionale, perch capiva che stavo molto male. Non una parola di tutto ci. All'apparenza, si trattava solo di un affare, lui correva il rischio, stava a me decidere. Eppure sapeva che, al di fuori di lui, mi rimanevano solo due soluzioni: l'ospedale psichiatrico o il suicidio. "Va bene, dottore. Non so come far a pagarla ma sono d'accordo." "Bene, cominciamo domani." Tir fuori una piccola agenda e mi indic i giorni e le ore in cui venire. "E se mi viene un'altra emorragia?" "Non faccia niente." "Ma guardi che sono gi stata ricoverata a causa delle emorragie; mi hanno fatto delle trasfusioni, dei raschiamenti." "Lo so. Ma lei non faccia niente, l'aspetto domani... solo una cosa le chiedo: cerchi di dimenticare tutto quello che sa della psicoanalisi, cerchi di non servirsi delle sue conoscenze; trovi delle parole per sostituire quelle del vocabolario analitico che abituata a usare. Quello che sa pu solo farle perdere del tempo." Era vero, credevo di sapere tutto in fatto d'introspezione e dentro di me pensavo che l'analisi non mi sarebbe servita a nulla. "Ma, dottore, mi pu dire che cos'ho?" Fece un gesto vago, come per dire: "A che cosa servono le diagnosi?" "Lei stanca, turbata, credo di poterla aiutare." Mi accompagn alla porta. "Arrivederci, signora, ci vediamo domani." "Arrivederci, dottore." II

La notte che segu a questa prima visita fu difficile. La Cosa formicolava dentro di me. Da tempo mi addormentavo solo con massicce dosi di sonniferi. Ma il dottore aveva detto: "Deve smetterla di prendere qualsiasi medicina..." Ero a letto, oppressa, con l'affanno, coperta di sudore. Se aprivo gli occhi avevo l'impressione di assistere alla decomposizione della realt, degli oggetti, dell'aria. Se li chiudevo vivevo la mia decomposizione, quella delle mie cellule, della mia carne. Mi faceva paura. Niente e nessuno, neppure per un solo attimo, era in grado di arrestare questa degradazione di ogni cosa. Annaspavo, non riuscivo pi a respirare, dappertutto c'erano microbi, dappertutto vermi, dappertutto acidi corrosivi, dappertutto pustole piene di pus. Perch questa vita che si nutre di se stessa? Perch queste gestazioni sazie di agonia? Perch il mio corpo invecchia? Perch fabbrica liquidi e materie puzzolenti? Perch questo sudore, queste feci, questa orina? Perch il letame? Perch questa lotta tra tutto ci che vive, finch chi vince si rimpinza del cadavere del vinto? Perch questa ronda ineluttabile, maestosa, dei fagociti? Chi dirige questo mostro perfetto? Quale instancabile motore muove la strage? Chi agita gli atomi con tanta forza? Chi sorveglia ogni sasso, ogni filo d'erba, ogni bolla di sapone, ogni neonato, con un'attenzione costante fino a condurli alla putrefazione? Cosa c' di certo oltre la morte? Dove ci si pu riposare se non nella morte che solo decomposizione? A chi appartiene la morte? Cos' questa Cosa enorme e molle, indifferente alla bellezza, alla gioia, alla pace, all'amore, che si stende su di me e mi soffoca? Chi ama allo stesso modo la merda e la tenerezza, senza fare nessuna differenza? Dove la trovano gli altri la forza di sopportare la Cosa? Come fanno a vivere insieme a essa? Sono pazzi! Sono tutti pazzi! Non posso nascondermi, non posso fare niente, sono in balia della Cosa che si avvicina lentamente, inesorabilmente, che mi vuole per nutrirsi. Una corrente di vita putrefatta mi stava portando via, mio malgrado, verso la morte invincibile e obbligatoria che era l'orrore stesso. Tutto questo m'ispirava una paura agghiacciante, insopportabile. Se non avevo altro destino, se dovevo proprio cadere nell'ignobile ventre dell'orrido, tanto valeva caderci il pi presto possibile. Volevo suicidarmi, farla finita. Mi addormentai all'alba, esausta, arrotolata su me stessa come un feto. Mi svegliai in un lago di sangue, aveva imbevuto il materasso e ora gocciolava sul parquet. Il dottore aveva detto: "Non faccia niente, l'aspetto domani." Ancora sei ore di attesa, non ce la far mai. Rimanevo immobile nel mio letto, rigida come la morte, pronta al peggio. Due ricordi orribili mi tornavano in mente nei minimi dettagli, due drammi, due incubi che avevo vissuti ad occhi aperti. Una volta il sangue era uscito a grumi, cos grossi da sembrare fette di fegato che emettevo una dopo l'altra, con una ostinazione assurda e che passando mi accarezzavano dolcemente. Ero stata ricoverata d'urgenza in ospedale per un raschiamento. Un'altra volta invece il sangue era uscito sotto forma di una cordicella rossa che non smetteva mai di srotolarsi: un rubinetto aperto. Ricordo con quale stupore avevo accolto il fenomeno, e con quale terrore: "Se va avanti cos, muoio dissanguata in meno di dieci minuti." Di nuovo l'ospedale, la trasfusione, i medici, le infermiere, tutti imbrattati del mio sangue, indaffarati sulle mie braccia, le mie mani, le mie gambe, per trovare una vena, tutta una notte passata a lottare. Poi, al mattino, la sala operatoria, e di nuovo il raschiamento. Non mi rendevo conto che lasciandomi sopraffare dal sangue mi nascondevo, mascheravo la Cosa. In certi momenti quel sangue

maledetto invadeva totalmente la mia esistenza e mi lasciava senza forze, ancora pi fragile di fronte alla Cosa. Arrivai in fondo al vicolo, tutta imbottita di assorbenti, di ovatta, di pannolini che mi ero fabbricata. Dovetti aspettare un po' perch ero in anticipo. La persona che mi precedeva usc. Come il giorno prima, sentii aprirsi e chiudersi le due porte. Poi entrai nello studio e dissi: "Dottore, sono esangue." Ricordo benissimo di aver usato quella parola perch mi sembrava bella. Ricordo anche che facevo di tutto per sembrare patetica. Il dottore rispose tranquillamente: "Sono disturbi psicosomatici, non m'interessano. Mi parli d'altro." C'era quel divano e non volevo sdraiarmi. Volevo stare in piedi e lottare. Le parole appena pronunciate da quell'uomo erano state uno schiaffo in piena faccia, non avevo mai ricevuto un colpo cos violento. In piena faccia. Non gl'interessava il mio sangue! Allora crollava tutto! Ero atterrita, fulminata. Non voleva che gli parlassi del sangue! Ma di cosa dovevo parlare? Di che cosa? A parte il sangue c'era solo la paura e non potevo parlarne, non potevo nemmeno pensarci. Crollai e piansi. Io che non piangevo da tanto tempo, io che da mesi cercavo invano il sollievo delle lacrime, eccole finalmente scendere a grosse gocce, sciogliermi i muscoli della schiena, del torace, delle spalle. Piansi a lungo. Mi crogiolavo in quella tempesta, la lasciavo impadronirsi delle mie braccia, della mia nuca, dei miei pugni chiusi, delle mie gambe ripiegate sotto il ventre. Da quanto tempo non assaporavo pi la calma languida della tristezza? Da quanto tempo non lasciavo pi il mio viso guazzare tra il calore delle lacrime mescolate a muco e saliva? Da quanto tempo non sentivo pi colare lungo le mie mani il dolce e tiepido nettare della disperazione? Stavo bene dov'ero, come un neonato sazio nella sua culla, con le labbra ancora bagnate di latte, in preda al torpore della digestione, protetto dallo sguardo della mamma. Ero distesa supina, con la schiena ben dritta, ubbidiente, fiduciosa. Mi misi a parlare della mia angoscia e compresi che ne avrei parlato per molto tempo, per anni. Sentii in fondo a me stessa che forse, chiss, ce l'avrei fatta a uccidere la Cosa. E invece, uscendo da questa prima seduta, non appena la porta si richiuse dietro di me, mi ricordai del sangue e pensai che quel dottore era un pazzo, un ciarlatano come tutti gli altri. In quale stregoneria mi ero lasciata coinvolgere? Ora bisognava muoversi, in fretta, prendere un taxi e andare da un medico, da uno vero. Il tassista era un gran chiacchierone, oppure gli ero parsa un po' strana, sta di fatto che non smetteva di parlare e incrociavo continuamente il suo sguardo nello specchietto retrovisore. In quelle condizioni, e anche perch ero imbottita di pannolini, non potevo controllare il flusso del sangue. Pi ci si avvicinava all'indirizzo del medico che gli avevo dato, e pi il bisogno di verificare il mio stato si faceva imperioso. Diventavo nervosa, aggressiva. Volevo che il tassista si fermasse e volevo che proseguisse la corsa. Lui non capiva pi niente. Alla fine mi sedetti sull'orlo del sedile misi il braccio sinistro sullo schienale di quello davanti. Vi appoggiai la testa e feci finta di ascoltare quello che l'uomo stava raccontando. Intanto, con la mano destra, frugavo sotto il mio vestito, rompevo la cernieralampo, strappavo i pannolini attaccati con spilli da balia, arrivavo alla fonte del sangue. Non era successo nulla di rilevante. L'emorragia non era aumentata, anzi sembrava che si fosse un po' calmata. Difficile dirlo. Un'ora prima, quand'ero uscita, sanguinavo

moltissimo. Di colpo cambiai idea e dirottai il taxi dandogli l'indirizzo di Michle. Poi mi rintanai in un angolo dell'automobile. Forse ce l'avrei fatta ad aspettare due giorni, la prossima seduta. Feci le scale di corsa tenendo su con le mani i vestiti che avevo fatto a pezzi. Presto, in bagno. I miei stracci sporchi per terra, tra i piedi, io seduta sul bid. Il sangue non colava pi. Non credevo ai miei occhi. Il sangue non colava pi! Non sapevo, non potevo sapere che da quel giorno in poi il sangue non sarebbe mai pi colato come aveva fatto, senza tregua, per mesi, per anni. Pensavo che si fosse fermato per pochi minuti, e volevo godermeli tutti, come prima mi ero goduta le mie lacrime. Mi lavai, poi mi sdraiai, nuda, a gambe aperte, sul letto. Pura. Ero pura! Ero un vaso sacro, il tabernacolo del mio sangue, l'ostensorio delle mie lacrime. Pulita, liscia! Il dottore aveva detto: "Deve cercare di capire quello che le succede; quello che provoca, attenua o accentua le sue crisi. Qualsiasi cosa: rumori, colori, odori, gesti, ambienti... tutto. Veda di procedere per associazione d'idee e d'immagini." Quel giorno, sebbene fossi ancora del tutto inesperta nel maneggiare l'analisi, non ebbi difficolt a identificare il legame tra l'emorragia e l'arresto del flusso, con lo schiaffo del dottore: "Non m'interessa il suo sangue, mi parli d'altro..." poi, le mie lacrime. Durante la notte la mia mente, sgombra dal sangue, si avventur in riflessioni semplici, calcoli elementari, pensieri riposanti: attivit mentali che consideravo di solito parentesi di svago proibite, nelle quali non potevo indugiare, perch rischiavo di ritrovarmi in preda alla Cosa, che riuscivo a combattere solo se ero all'apice della mia intelligenza, acuta, nel profondo della mia immaginazione, sulla strada dell'infinito, dell'incomprensibile, del mistero, della magia. In tutta tranquillit, con l'agilit del ruscello, la stessa leggerezza della nuvola, la stessa semplicit dell'uovo, presi coscienza delle decine di esami cui ero stata sottoposta, radiografie, test e analisi varie, senza che nessun risultato indicasse la minima anomalia nelle varie parti del mio organismo. N sotto l'aspetto ormonale, n sotto quello cellulare, o circolatorio, n per la composizione del sangue. Ora capivo chiaramente che il sangue era il salvagente che ci permetteva, a me e ai medici, di rimanere a galla nel mare dell'inesplicabile. Io sanguino, lei sanguina. Perch? Perch c' qualcosa che non funziona, qualcosa di organico, di fisiologico, di gravissimo, di fibromatoso, di retroverso, di lacerato, qualcosa che non va. Le analisi non dicono niente, ma non vuol dire, non si sanguina cos senza ragione. Bisogna aprire e andare a vedere. Bisogna fare una lunga incisione nella sua pelle, nei suoi muscoli, nelle sue vene, bisogna scostare le carni del ventre, le viscere, e impossessarsi dell'organo caldo, rosato, bisogna tagliarlo, eliminarlo. Cos almeno non ci sar pi sangue. Mai nessun ginecologo, nessun neurologo, nessuno psichiatra ha voluto riconoscere che il sangue veniva dalla Cosa. Anzi, mi suggerivano che era la Cosa che veniva dal sangue: "Capita spesso alle donne di essere "nervose" perch hanno un equilibrio ginecologico precario, fragilissimo." Quella sera mi apparve chiaro che la Cosa era l'essenziale, che poteva tutto. Ora affrontavo la Cosa. Non era pi cos vaga, bench non fossi ancora in grado di definirla. Quella sera accettai la pazza per la prima volta. Ammisi la sua esistenza. Volli accettare la malattia cos com'era. Compresi che ero io la pazza che mi faceva paura,

perch portava la Cosa dentro di s. Un punto era chiaro: la Cosa stava dentro la mia mente, non stava in nessuna parte del mio corpo e nemmeno all'esterno. Ero sola con lei. La mia vita era soltanto una storia tra me e lei. In questa ottica il mio isolamento acquistava un nuovo senso: forse era un passaggio; un mutamento. Forse stavo per rivivere? In effetti soffrivo molto della dimensione alienata nella quale avevo trovato rifugio. Mi sentivo dilaniata, pretendevo dagli altri soluzioni che, una volta prese, mi ferivano e mi allontanavano ancora di pi. Chi mi poteva raggiungere? Che senso poteva avere quel trambusto che facevano attorno a me? Che cosa poteva significare quell'incomprensibile rimescolamento di parole, gesti, azioni legali e impeti selvaggi? Mi era impossibile capire la divisione della vita umana in anni, degli anni in mesi, dei mesi in giorni, dei giorni in minuti, in secondi. Come mai le persone facevano tutte le stesse cose nelle stesse ore? Non capivo pi niente, la vita di chi mi stava vicino non aveva alcun senso. Ero prigioniera di un universo ostile, o, nella migliore delle ipotesi, indifferente. E mi toccava fare i conti con questo universo, mi toccava accusarmi continuamente delle cattiverie compiute e fare penitenza. Avevo la mente tanto confusa che, via via che passavano gli anni, mi pareva di affondare sempre pi nel Male o nell'imperfezione, nella scorrettezza, nella sconvenienza, nella indecenza. Non ero mai contenta di me stessa. Mi consideravo un relitto, un rebus, un'anomalia, una vergogna e, ancora peggio, pensavo che fosse a causa della mia brutta indole che a poco a poco mi ero lasciata sommergere dall'errore. Bastava un po' di coraggio, un briciolo di volont, bastava ascoltare i consigli che mi si prodigavano, per entrare a far parte del mondo dei buoni. Io invece, con la mia vigliaccheria, la mia pigrizia, la mia mediocrit, la mia bassezza d'animo, avevo scelto il mondo sbagliato, mi ero irrimediabilmente tuffata nell'abiezione. Perfino il mio corpo si era appesantito, afflosciato. Mi sembrava di essere diventata brutta fuori come lo ero dentro. Eppoi, quella sera, il sangue ha smesso di colare, perch il dottore mi aveva parlato come a una persona normale, e ora consideravo me stessa in modo diverso, mi vedevo sotto un'altra luce. Quale meccanismo aveva messo in moto quel piccolo uomo? Quale istinto mi guidava? Ho seguito la mia nuova strada con ostinazione. Nient'altro m'interessava. Non pensavo a nient'altro. Non mi nemmeno venuto in mente di telefonare a mio zio. Ho avvertito mio marito mesi dopo. III Venne l'autunno, poi l'inverno. Il vicolo era sempre bagnato, pieno di pozzanghere che luccicavano nella luce fioca dei lampioni. A volte mi capitava d'incontrare i pazienti che mi precedevano o mi seguivano; camminavano, stretti nei loro cappotti, radendo i muri, di fretta. I nostri sguardi s'incrociavano, li avremmo voluti anonimi ma in realt sapevamo di essere malati che hanno in comune lo stesso dottore, lo stesso divano, lo stesso soffitto, la stessa scultura stupida sulla stessa trave finta, di fronte al divano. Tutti facevano parte della confraternita dei perduti, dei braccati. Camminavano come me tra il suicidio e la paura, come tra due gendarmi. Sapevo anche che le parole che venivo a riversare a fiumi, tre volte alla settimana, erano diverse dalle loro, che ognuno aveva la propria storia, altrettanto penosa, altrettanto irrisoria, altrettanto incomprensibile per gli altri, altrettanto intollerabile per loro. Ho vissuti i primi tre mesi dell'analisi convinta di essere in

libert provvisoria, convinta che non sarebbe durata a lungo, che prima o poi mi avrebbero scoperta e ripresa. Eppure il sangue fluiva ormai normalmente, nei giorni delle mestruazioni. L'angoscia allentava la stretta, mi lasciava in pace sempre pi spesso. Ma non avevo ancora detto niente della mia allucinazione, continuavo a pensare che mi avrebbe condotta all'ospedale psichiatrico. Avevo ancora posizioni da difesa: la testa affondata tra le spalle, la schiena curva, i pugni chiusi, rifugiata dietro i miei occhi, le mie orecchie, il mio naso, la mia pelle. Tutto mi aggrediva, vedevo pericoli ovunque. Dovevo riuscire a vedere senza vedere, sentire senza sentire. Quella che per me contava era solo la lotta con la Cosa annidata nella mia testa, quella lurida matrona le cui gigantesche natiche erano i lobi del mio cervello. A volte sistemava quel suo grosso culo nel mio cranio (la sentivo mentre cercava il posto pi comodo) e, a testa in gi, maneggiava i nervi che mi stringevano la gola e il ventre, che aprivano le dighe del mio sudore. Emetteva un'aria gelida e la pazza cominciava a correre, terrorizzata, allucinata, incapace di gridare, incapace di parlare, di esprimersi in alcun modo, a mollo nel proprio sudore freddo, col corpo scosso dai tremiti, finch non trovava un buco pulito e buio in cui raggomitolarsi su se stessa, come un feto. Nondimeno, da quando avevo cominciato l'analisi, mi lasciavo sopraffare dalla pazza sempre pi di rado. La stavo a guardare. Alla Cosa non piaceva essere osservata cos, dall'esterno, e dopo qualche tentativo di resistenza, mollava la presa. Non se ne andava, ma stava l triste, a pensare con malinconia ai bei tempi della sua irrequietudine. Luned, mercoled, venerd. Tre fermate nella mia corsa, durante le quali consegnavo il mio raccolto e comunicavo con qualcuno. Unici punti di contatto con la vita degli altri. La lunga distanza tra il venerd e il luned mi sembrava, di settimana in settimana, impossibile da superare. Trascorrevo tutta la giornata di domenica a risparmiare le mie forze, a mettermi il pi che potevo al riparo. Il luned ritrovavo il mio vicolo umido con una felicit immensa, una grande speranza. All'inizio parlavo dei miei primi incontri con la Cosa, che allora chiamavo semplicemente angoscia. Poi ho cominciato a parlare degli elementi principali che costituivano la mia vita, dei grandi lembi della mia esistenza che conoscevo. La prima crisi di angoscia venne durante un concerto di Louis Armstrong. Avevo quasi vent'anni. Stavo per laurearmi in filosofia. Cercavo un professore col quale fare una tesi su Aristotele. Mi piaceva la matematica e ne parlavo in modo pedante, come allora usava tra gli studenti di filosofia, soprattutto tra le ragazze. Sapevamo che ben poche tra di noi sarebbero arrivate alla libera docenza: meno del due per cento. Tuffarsi in quegli studi equivaleva a entrare in convento, e diventare la Filosofia in persona, con le gambe, le braccia, i capelli. Mi piaceva la matematica, ma la mia famiglia riteneva che non fosse sufficientemente femminile. Una ragazza che studia matematica non riuscir mai a trovare marito, tutt'al pi un professore di matematica. Mi aspettavano tempi difficili. Scegliendo la filosofia invece potevo orientarmi verso la logica. "Studierai matematica, sotto forma letteraria..." Cos, se m'andava bene, rischiavo di piacere a uno studente del Politecnico, o a un ufficiale di marina, o, perch no?, a un banchiere. Sempre meglio di un professore di matematica! E quindi scelsi la facolt di filosofia con l'intenzione di dedicarmi alla logica e, se si presentava l'occasione, anche a uno studente del

Politecnico. Ma a quei tempi la logica non andava pi di moda, si pensava soprattutto alla psicologia, alle scienze sociali... Trangugiavo tutte queste materie pensando che, una volta ottenuti tutti i miei bravi diplomi, nulla m'impediva di fare una tesi in logica. Sognavo di penetrare nel rigore apparente dei numeri, sapendo che poi sarei stata libera di lasciarmi andare all'invenzione di cui essi abbondano. I miei primi idoli furono, ovviamente, Riemann e Lobacewski, poi Einstein. Amavo Bach e il jazz per il loro aspetto matematico e fu in quell'epoca della mia adolescenza che scoprii, incantata, la musica seriale e il lettrismo. Arrivai quindi molto eccitata al concerto di Louis Armstrong, anche perch gli organizzatori avevano annunciato una jamsession. Satchmo avrebbe improvvisato con la sua tromba, avrebbe costruito un universo musicale in cui ogni nota avrebbe avuto la sua importanza, il suo valore necessario all'insieme di questa serata musicale. Non rimasi delusa; l'ambiente si riscald subito. Un bell'edificio si alzava nell'aria. Le impalcature e le travi fornite dagli altri strumenti davano sostegno alla tromba di Armstrong, gli preparavano lo spazio necessario per poter salire, fermarsi, salire di nuovo. I suoni che scaturivano dagli strumenti si ammucchiavano l'uno contro l'altro, si mischiavano, si urtavano a vicenda per formare una base musicale, una matrice dalla quale nasceva una nota singola, precisa, il cui cammino sonoro era difficile, quasi penoso da seguire, tanto il suo equilibrio e la sua durata erano diventati indispensabili all'orecchio: tendeva i nervi a chiunque l'avesse seguita. Il cuore cominci a battermi forte, sempre pi forte. Al punto di sovrastare la musica stessa. Scuoteva le sbarre del mio torace, gonfiava e comprimeva i miei polmoni nei quali l'aria non riusciva pi a entrare. Terrorizzata all'idea di morire l dentro, in mezzo agli spasimi, le trepidazioni, le urla della folla in delirio, scappai via. Corsi per la strada, come una pazza. Era una notte d'inverno, fredda e serena, la gente era a casa, al caldo. Correvo e il rumore dei miei passi rimbombava come un galoppo lungo i viali, le strade e i vicoli che mi sembravano grandi tubi di tromba. "Sto per morire, sto per morire." Il mio cuore batteva il tempo, rapido, chiassoso. Ricordo di aver visto una pianta di camelia splendente, in piena fioritura nel suo vaso di cemento, all'angolo di una strada, prima di tuffarmi nella galleria dell'Universit. Quant'erano belli quei fiori, cos spessi e lucidi! Correvo, erano gi lontani dietro di me, eppure i petali di uno di quei fiori, che avevo intravisto per una frazione di secondo, erano rimasti insieme a me, accompagnavano questa mia folle cavalcata, sereni quanto io ero agitata, lisci quanto io ero dilaniata. La galleria mi rassicurava perch era illuminata, perch era una scorciatoia comoda in mezzo alla citt ed era percorsa da molte macchine che scivolano sull'asfalto. Numerosi pedoni camminavano lungo i marciapiedi. All'estremit della galleria c'era un'insegna luminosa che luccicava con allegria. Ma nulla poteva dar pace al mio cuore e continuavo a correre. Arrivai a casa, non presi l'ascensore, feci le scale di corsa, fino al quinto piano e l, davanti alla nostra porta, mi resi conto dell'incredibile sforzo fisico che aveva appena compiuto e pensai: "Se fossi malata di cuore, sarei morta, non avrei fatto il decimo di quello che ho fatto." Questo pensiero non mi tranquillizzava. Andai in camera mia, mi buttai sul letto per calmare l'affanno. Ero sola, con gli occhi chiusi, niente aveva pi importanza al di fuori del mio cuore che palpitava e sussultava: "Sto morendo, sono malata di cuore." L'angoscia in cui m'imbattevo per la prima volta si impossess di me, mi ricopriva col suo sudore freddo, scuoteva i miei

muscoli con tremiti grotteschi, giocava con me come si gioca con una cagna. Chiamai mia madre che dormiva nella camera accanto. Una volta, due volte. Non so quante volte la chiamai, sempre pi forte: "Mamma, mamma, mamma!" Mia madre, con i vestiti in disordine e la faccia gonfia di sonno, entr nella mia stanza. Il suo chignon era disfatto, e i capelli le pendevano dal cranio, in lunghi ciuffi arruffati. Pensavo che a vedermi cos, il suo volto, i suoi grandi occhi verdi sarebbero scoppiati in mille pezzi, che si sarebbe dissolta nella mia paura e mi avrebbe fatto compagnia: la sua bambina agonizzava, la sua figliola maggiore stava morendo. Macch, mise un po' d'ordine nei suoi vestiti e nei suoi capelli. Mi guardava con compassione; si sedette sul letto, vicino a me. Mi prese la mano. L'espressione era la stessa di quando visitava i cimiteri, triste e intenerita, disperata e consapevole. "E' una crisi di angoscia, non nulla, non aver paura, non grave, sono i nervi." Non mi piaceva questa sua calma, questa sua sicurezza, questa sua rassegnazione. Come poteva chiamare "nulla" quello che stavo provando? Come poteva chiamare "nulla" questa ondata di liquidi appiccicosi che m'inondava, piena di ganci, di lame, di materia in decomposizione? Quel "nulla" era invece di grande importanza, lo sapevo, ne ero certa, e vedere che lo trattava come i suoi morti accresceva la mia angoscia. Soffocavo. L'aria non entrava pi nei miei polmoni, quel soffio che riuscivo ancora a far entrare fischiava con un suono stridulo e ridicolo. "Soffoco, sto morendo." "Ma va', sono i nervi. Hai il polso un po' rapido, ma batte regolarmente. Credimi, non stai morendo." Non mi piaceva questa complicit tra noi due. Per troppi anni avevo desiderato il suo affetto, la sua attenzione, avevo aspettato quello sguardo che ora scivolava su di me, sul mio viso, i miei occhi scuri, i miei capelli ricci, il mio naso a patata, il mio mento, la mia bocca, le mie spalle quadrate, il corpo solido. Sembrava che stesse facendo la mia conoscenza e che, chiss perch, mi riconoscesse. Un incontro dolce e un po' triste. Non era questo che volevo, non ora. Quello sguardo su di me lo avevo desiderato con tutte le mie forze quando facevo i tuffi nell'acqua, quando correvo, quando ridevo, quando portavo ineccepibili pagelle da scuola; allora volevo che fosse fiera di me. La mia forza le apparteneva, non il mio malessere, la mia paura. Investita dall'attenzione, dalla premura, dalla complicit che lei mi offriva quella notte, compresi che nel giorno della mia nascita mi aveva donato la morte, che era la morte che voleva indietro, che il legame tra noi due, quel legame che avevo cercato tanto, era solo la morte. Mi faceva orrore. I giorni successivi alla crisi, bench calmi, si trascinarono pesantemente nel ricordo dell'angoscia, nell'ossessione di vederla ricomparire. Mia madre mi port da un medico, che conferm la sua diagnosi: "Non nulla, sono i nervi. E' stata una piccola crisi di tachicardia, probabilmente hai un po' di aerofagia." "Piccola", "un po'". Solo diminutivi! Ma cosa poteva esserci di peggio della crisi che avevo passato? Esisteva davvero qualcosa di peggio? Uno sfacelo umano pi importante? Parlavano tra di loro di casi gravi di tachicardia e di aerofagia, incontrati nel corso delle loro carriere. Facevo ridere in confronto a quei poveri disgraziati. Mi guardavano con gentile ironia, mi davano buffetti sulle guance e sulle mani: "Non nulla, sei giovane, hai un'ottima salute." Il dottore confess che pure lui, di tanto in tanto, era soggetto all'aerofagia, e mi insegn un trucco per sbarazzarmene in fretta. Si prese anche la briga di darmene una dimostrazione. Bisogna mettersi a quattro zampe e alzare un po' la gamba, la sinistra o la destra a seconda del

dolore che si prova, un po' come un cane che piscia contro un muro. Serve a spingere il gas verso l'uscita, quel gas che preme sul diaframma e d il senso di soffocamento. I loro commenti affettuosi erano accompagnati da sorrisi, le loro frasi addobbate di belle parole come "giovinezza", "amore", "matrimonio". Sapevo perfettamente a che cosa si riferivano e guardavo il pavimento, li lasciavo parlare. Credevo che tutto quello che avevo imparato all'Universit in fatto di psicologia e soprattutto di psicoanalisi, i due anni passati a studiare la fisiologia del sistema nervoso (all'istituto di psicotecnica) fossero sufficienti perch potessi definirmi, collocarmi, capirmi. Sapevo di aver sofferto moltissimo quando i miei genitori avevano divorziato e avevano continuato a litigare sopra la mia testa, fino alla morte di mio padre. Sapevo che mia madre mi aveva sempre rimproverata inconsciamente di essere nata. (Ero nata, difatti, durante la causa del divorzio). Sapevo che per questo motivo non conoscevo affatto mio padre. Che queste loro liti mi avevano creato dei problemi, al punto che la mia sessualit ne risentiva. Per il momento preferivo accettare la mia verginit. Questa prima crisi di angoscia rimase per molti mesi la mia unica crisi. Ne ebbi un'altra, meno forte, la notte in cui persi la mia verginit. Quando vidi l'uomo nudo in erezione, quando sentii nella mia mano il suo sesso, morbido come la seta, tiepido come il pane appena sfornato, sentii in me una gioia immensa. Ero fiera di me e felice di essere l. Il suo bel corpo giovane e asciutto mi piaceva fino alle lacrime, sembrava che ogni suo muscolo, ogni suo pelo, ogni millimetro della sua pelle, fossero fatti per ostentare il suo membro eretto. Quando mi apr le gambe e, inginocchiato, inizi dolcemente a deflorarmi, con quel suo sguardo ostinato che mi faceva capire che nulla poteva fermarlo, che dovevo lasciarlo fare, pensai che quanto stava facendo era utile, necessario, in perfetta armonia con il profondo del mio essere. Me la presi con me stessa per aver trattenuto cos a lungo quei movimenti dei reni che la sua spinta mi suggeriva di fare, quelle onde di piacere che mi attraversavano il corpo, dai piedi alla nuca. Nessun trauma. Nessuna sorpresa. Nemmeno quando il ritmo divenne brutale e ho sentito rompersi in me come una barriera di seta. Ci che pi mi colp, dopo, fu la sua tenerezza, la sua debolezza, la sua fragilit, come se mi avesse dato tutta la sua forza. Provavo riconoscenza verso di lui. Non ero arrivata all'orgasmo ma non provavo disgusto, anzi. Quando and via, lavai le lenzuola sporche di sangue. Faceva caldo, avrebbero fatto presto ad asciugarsi. Mi sdraiai sul materasso, al buio. Non riuscivo a prendere sonno. Quel ragazzo lo avevo scelto perch era noto per essere un dongiovanni, un bravo amante. Sapevo che era innamorato di una donna sposata, pi anziana di me. Mi era simpatico, intuivo che ci sapeva fare. Lui aveva accettato con molta seriet la parte dell'iniziatore. Era riuscito nella sua missione, dato che ero l, sul mio letto, contenta, sicura che l'indomani avrei di nuovo fatto l'amore con lui, sicura di averne voglia. Eppure il cuore mi batteva, mi sentivo oppressa. Ero consapevole dell'importanza di quell'atto, sapevo che nel farlo avevo agitato il mio piccolo mare interiore, che vi avevo suscitato addirittura una tempesta. Avevo passato i vent'anni. Non solo ero rimasta vergine fino a quel giorno, ma non avevo nemmeno mai avuto dei flirt con nessuno. (Salvo per un bacio, verso i quattordici anni, in pieno sole, la testa rovesciata sulla sabbia, giusto il tempo di assaporare tra le labbra la saliva dolce che sapeva un po' di Gauloises. Un piccolo ricordo nascosto come un fiore secco tra le pagine di un grosso libro.) Ero virtuosa per rispetto alle regole imposte da mia

madre. Avevo rifiutato perfino la masturbazione. Mi capitava di passare notti d'inferno, stesa a pancia in gi sul freddo pavimento di marmo, per sfuggire al letto morbido, ai profumi mischiati del timo, del gelsomino, della polvere mediterranea, al canto irritante delle cicale, alle note tenere del flauto arabo, tesa al punto di urlare la mia voglia, il mio bisogno. Poi, un bel giorno, decisi tra me e me di buttare a mare tutti i principi del mio ambiente, i pregiudizi della mia famiglia, le leggi di mia madre, di calpestare quel colosso rappresentato dalla religione, e di fare l'amore con un ragazzo di cui non ero nemmeno innamorata, col quale non si potevano trovare giustificazioni nella passione o nella ragione. Volevo farlo, ecco tutto, facevo l'amore perch ne avevo voglia. Quando arriv l'angoscia, la riconobbi subito. Questa volta per la sua presenza mi appariva pi normale, mi faceva meno paura. Sapevo di essere entrata nel mondo del sesso dalla porta sbagliata, di aver imboccato la stessa strada delle donne che mio padre riceveva a casa sua, di essermi arruolata nello stesso esercito vergognoso. Mia madre le chiamava "mignotte" e il solo ricordo di quella parola cos volgare nella sua bocca mi faceva tremare. Mi era capitato d'incontrarne qualcuna, molti anni addietro. Uscivano mentre arrivavo io. Mio padre si comportava come fossero state ospiti qualsiasi. Il suo sorriso era un po' forzato, i suoi modi fin troppo garbati. Sapeva controllarsi. Loro meno, il modo in cui muovevano i fianchi quando varcavano la soglia, in cui lo salutavano, lo guardavano, guardavano me, era fin troppo eloquente. Ogni volta sentivo l'intimit che c'era tra di loro, la complicit, i residui di un piacere di cui ignoravo tutto e che mi spaventava. Quegli incontri mi sconvolgevano. Le amanti di mio padre sbeffeggiavano mia madre, in preghiera sul suo inginocchiatoio. Lei era virtuosa, loro erano viziose, io ero viziosa... un angelo, dei demoni. Quella notte c'era tutto ci per impedirmi di dormire e c'era anche qualcosa d'altro, non sapevo che cosa, che mi mordeva il cuore, lo faceva battere. La mia camera allora dava su una stradina dove c'era un noleggio di carrozze. Era una stanza poco arieggiata, che odorava ancora di muffa e di ombra. All'alba arrivava un uomo, piazzava i cavalli in fila lungo il marciapiede e li faceva indietreggiare tra le stanghe delle vecchie carrozze che pi tardi avrebbero passeggiato sul lungomare, piene di turisti. Ricordo l'alba e la luce del giorno nascente attraverso le persiane, che formava delle strisce grigie e nere prima, gialle e nere poi. Gli zoccoli dei cavalli martellavano l'asfalto con colpi sempre pi impazienti via via che il caldo aumentava e riportava le mosche sulla strada. L'odore dei loro escrementi saliva fino a me. La mia notte in bianco era finita. Rifeci il letto con le lenzuola lavate. Tutto a posto, tutto in ordine. Non mi chiesi perch le avevo lavate. Uscii di casa e andai sulla spiaggia, la sabbia era gi calda. Bastava per affondarvi i piedi un poco per sentire il fresco umido della notte ancora vicina. Tutti gli anni successivi (circa una decina) sono stati rosicchiati dalla lenta gestazione della pazzia. Non me ne rendevo conto, ovviamente. Solo avevo sempre meno voglia di muovermi, di esprimermi, di proiettarmi nelle azioni o nel pensiero. Pi mi sforzavo di trovare la mia strada e pi dubitavo di scoprirla nel terreno definito dalla mia nascita. Diventavo pesante, impacciata, con rari momenti di agitazione che i miei chiamavano la mia "verve". Mi consideravano una ragazza ragionevole ed equilibrata. In quel periodo ottenni titoli di studio, mi tuffai nell'attivit sessuale come ci si tuffa nell'acqua temendo che sia fredda. Non la trovavo fredda ma non mi concessi nemmeno di nuotarvi in libert. Mi sposai, insegnai nelle

scuole medie. Ebbi tre bambini. Volevo dar loro la felicit, il calore, le attenzioni che io non avevo mai avuti, un padre e una madre sempre disponibili, innamorati l'uno dell'altra. E invece la lentezza, la vischiosit e l'assurdit della mia esistenza si facevano sempre pi precise nella mia testa, giorno dopo giorno fino a diventare la Cosa. IV Il mio primo inverno parigino. Il sole che non abbaglia. Gli alberi che non hanno foglie. E, come un ritornello, il mio monotono itinerario fino al vicolo. L, in mezzo al grigio della nebbia, al vuoto del freddo, alla tetraggine della pioggia, alle nuvole insipide, vengo a rivivere il caldo abbagliante, le bianche strade formicolanti di gente, l'infanzia e le sue tempeste, l'adolescenza che esplode. I fantasmi m'inseguono. Nel vicolo dissestato i ricordi si precipitano dietro di me, vivi, palpitanti, irridenti. Sobbalzano fino al lettino poi si mettono a sfilare, come i carri di Carnevale. Nessun uomo era mai intervenuto nella mia educazione. Ero nelle mani delle donne: mia madre, mia nonna, le "domestiche", le suore che insegnavano a scuola. Di mio padre, che avevo conosciuto molto poco, dato che non viveva con noi ed era morto quand'ero ragazzina, conservavo il ricordo di un uomo di bell'aspetto, che portava ghette, cappello e bastone. Aveva dei baffi tagliati corti, mani affusolate e un sorriso luminoso. Mi faceva paura. L'universo maschile mi era del tutto estraneo. A casa sua ero attratta e allo stesso tempo impaurita dalla stanza da bagno con il rasoio e il pennello da barba, dalla camera da letto con i cassetti pieni di camicie e di polsini. Il grande letto da scapolo, ricoperto da pelli di pantera, mi spaventava. Mio padre mi chiamava "lupetto". Mi trattava pi come una donnina che non come una bambina, e ci mi metteva a disagio. Da piccola andavo da lui insieme alla mia balia. Pi tardi mi avrebbero mandata da sola per colazione, tra le lezioni del mattino e quelle del pomeriggio. Erano pranzi difficili. Quando non mi faceva paura mi annoiava. Dovevo stare attenta ai gesti che facevo, alle parole che dicevo. Mi riprendeva spesso, e capivo che con questi rimproveri era mia madre che voleva colpire. Mia madre che mi allevava, che mi vestiva, che pensava alla mia educazione. Sentivo che mi voleva bene e che non era la mia persona che intendeva ferire. S'interessava molto dei miei studi. Diceva che dovevo imparare tutto: latino, greco, matematica, tutto... Non gli portavo mai le mie pagelle, e neanche i miei quaderni. Cos sapevo di difendere mia madre, cui ero stata affidata, di stare dalla sua parte. Per lui la mia cartella era chiusa, era la mia cassaforte, il mio tesoro, la mia importanza. Tenevo a distanza mio padre, gli vietavo l'accesso al mio universo. Di ci ero perfettamente consapevole. Solo tre volte vidi i miei genitori insieme. La prima volta fu per la mia cresima. Erano nella stessa stanza, seduti allo stesso tavolo, ma lontani l'uno dall'altro. Quel giorno la presenza affettuosa di mio padre mi metteva in imbarazzo. Avrei preferito sentire su di me soltanto lo sguardo rigido di mia madre mentre mi accingevo a tagliare l'enorme torta di bign e di panna montata. Mi sembrava che me la sarei cavata meglio. La seconda volta avevo dodici anni; si riunirono per assistere alla cerimonia della mia promessa nelle girlscouts. Era all'aria aperta, c'erano altri genitori. I miei erano vicini l'uno all'altra ma non parlavano mai tra di loro. Seguivano la cerimonia con estrema attenzione. Ricordo lo splendente cielo autunnale di quel giorno.

La terza volta, fu poco prima della sua morte, quando avevo circa quindici anni. Aveva avuto un'emottisi, credeva di morire e aveva chiamato mia madre. Tubercolosi: mostro terrificante della mia infanzia. Mio nonno morto di tisi, mio zio in sanatorio, mia sorella morta a undici mesi di meningite tubercolare, mio fratello predisposto alla tubercolosi, con la scoliosi. Vaccinazioni antitubercolotiche, bacillo di Koch, toracoplastia, pneumotorace, caverna, pleurite, sputi, radiografie, vaccino... Tutte queste parole, tutte queste disgrazie, per colpa di mio padre, della sua malattia, dei suoi polmoni distrutti dai gas della guerra '14-'18. "Poteva pensarci prima di sposarmi. Non me lo ha nemmeno detto. E' una vergogna, una mancanza di onest." La guerra, le trincee, mio padre sotto un ammasso di soldati morti asfissiati, vivo per miracolo, protetto dalla pila di cadaveri ammucchiati, con i polmoni a pezzi. "Ho visto le radiografie, ha i polmoni che sembrano spugne." Quante precauzioni dovevo prendere per entrare a casa sua e uscirne! "Non voglio che la baci troppo. Badi che la bambina non usi i suoi fazzoletti. Si porti dietro l'alcool e l'ovatta. La pulir quando sarete uscite. L'ho fatta vaccinare e non ha ancora avuto la reazione, non capisco come mai, non normale. Ne ho gi persa una, basta." I microbi! La loro presenza inquietante. "Sono minuscoli animali invisibili. Ce ne sono dappertutto. Ad ogni colpo di tosse tuo padre ne sputa di pericolosissimi. Mi puoi credere, sai, tua sorella morta cos. Stagli vicino meno che puoi." Come dicevo, li vidi una terza volta insieme. Lui aveva chiamato mia madre per telefono: "Vieni, ti prego. Vieni, la fine." Mia madre abbass la cornetta, disse che mio padre stava recitando e mi port con s. Perch? Per proteggersi? Lo trovammo sdraiato nel suo grande letto, con una bacinella sotto il mento, asciugamani stesi dappertutto, una schiuma rosa agli angoli della bocca. Non l'avevo mai visto a letto, mai visto in pigiama. Le lenzuola e i cuscini sgualciti dopo la nottata, i piccoli particolari che denunciavano le sue manie, mi mettevano in imbarazzo. Si mise a parlare con mia madre, le diceva che l'amava. Lei respingeva queste dichiarazioni: "Sei ridicolo, non ti rendi conto di quello che stai dicendo. Sta' attento a quello che dici, c' la bambina." Mi ero rifugiata in corridoio, poi nell'ingresso, poi sul pianerottolo. Seduta sugli scalini, con le mani sulle orecchie per non sentirli. Lei era cos dura, e lui cos pietoso. Stavo l a guardare l'ascensore, cercando di allontanare il pi possibile quello che avevo appena visto e sentito. Conoscevo a memoria quella macchina diabolica. M'intrigava sempre. Quando ero dentro mi sentivo in pericolo, eppure non la temevo. Era un abitacolo pesante che si chiudeva a fatica con una porta a fisarmonica. Quando la chiamavi, i cavi si tendevano con un rumore di frusta e tiravano su la cabina con singhiozzi e sobbalzi vari mentre, sotto, una colonna d'acciaio, rotonda, unta di olio nero, potente, la spingeva con forza. L'ascesa precisa, regolare, di questo stupendo tronco lubrificato contrastava incredibilmente con il dondolio chiassoso dell'abitacolo. Quel marchingegno custodiva la casa di mio padre e la trasformava in un territorio di difficile accesso, un po' pericoloso. Sapevo tutto di quella macchina, ad eccezione della profondit del buco sotto, dove scompariva la colonna di acciaio. Immaginavo che fosse

vertiginosa. A volte pensavo invece c