Margaret Thatcher: tra riforme e controversie

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Margaret Thatcher: tra riforme e controversie L’introduzione al seguente approfondimento ha inizio da un articolo del 2 Febbraio del 1989 de La Repubblica. L’articolo, che riporterò qui di seguito, riesce a cogliere nel migliore dei modi il clima che si respirava nell’Italia di quegli anni in seguito al “megaprogetto di riforma”, così definito nello stesso articolo, del Primo Ministro di quegli anni, Margaret Thatcher. Vediamo in dettaglio cosa diceva il giornalista italiano Daniele Mastrogiacomo: «CROLLA UN MITO IN INGHILTERRA LA SANITÀ DIVENTA INDUSTRIA ROMA Crolla un altro pilastro del mitico Welfare State inglese. La più antica e radicata istituzione pubblica, il Servizio sanitario nazionale, rischia di soccombere sotto i colpi di Margaret Thatcher. Per il momento, il megaprogetto di riforma del National Health Service è limitato a semplici rilievi. Ma le indicazioni e i suggerimenti raccolti in un corposo dossier prestano il fianco ad un primo coro di critiche e di consensi. L' obiettivo del ministro della Sanità inglese, l'esponente della destra tory, Kenneth Clarke, che martedì ha presentato ai Comuni il libro bianco di riforma, è chiaro: la sanità deve trasformarsi in un business. Attraverso una pioggia di incentivi che stimoli la concorrenza delle strutture pubbliche e una maggiore professionalità degli operatori. Dai medici agli infermieri. Il piano non scatterà prima del 1991. Ma la riforma del Servizio sanitario nazionale prevede tre fasi di adattamento che sin dal prossimo autunno potrebbero produrre importanti cambiamenti. Nel mirino ci sono gli ospedali, motore centrale dell'assistenza pubblica. Secondo il progetto, le 320 strutture con oltre 250 posti letto si troveranno di fronte ad una scelta: staccarsi economicamente dalle autorità regionali e comunali e affrontare una gestione del tutto autonoma. Continueranno ad ottenere i finanziamenti dello Stato, ma i risparmi che riusciranno a ricavare da una più attenta amministrazione potranno essere reinvestiti in attrezzature o in progetti di ricerca. Trasformati in vere aziende private, gli ospedali saranno quindi in condizione di offrire migliori servizi, a prezzi competitivi, con vantaggi economici per i pazienti e per gli stessi medici. L'altro caposaldo interessato dalla riforma sono i medici di famiglia, i circa 32 mila General practitioners, cioè le strutture periferiche del Servizio sanitario nazionale. Invece di ricevere dallo Stato una quota per paziente, gli ambulatori avranno a disposizione un budget autonomo per un numero non limitato di assistiti. Lo scopo è di incentivare i servizi, l'assistenza ed evitare il flusso costante dei malati dal medico di famiglia verso gli ospedali. In cambio, se il tetto del finanziamento verrà rispettato, il 50 per cento dei risparmi potrà essere diviso tra gli operatori che esercitano negli ambulatori. La mini-rivoluzione del premier inglese ha già suscitato le violente reazioni dell'opposizione. Dal fronte laburista si grida al tradimento: In questo modo,

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Margaret Thatcher: tra riforme e controversie

L’introduzione al seguente approfondimento ha inizio da un articolo del 2 Febbraio del 1989 de La Repubblica.

L’articolo, che riporterò qui di seguito, riesce a cogliere nel migliore dei modi il clima che si respirava nell’Italia di quegli anni in seguito al “megaprogetto di riforma”, così definito nello stesso articolo, del Primo Ministro di quegli anni, Margaret Thatcher.

Vediamo in dettaglio cosa diceva il giornalista italiano Daniele Mastrogiacomo:

«CROLLA UN MITO IN INGHILTERRA LA SANITÀ DIVENTA INDUSTRIA

ROMA Crolla un altro pilastro del mitico Welfare State inglese. La più antica e radicata istituzione pubblica, il Servizio sanitario nazionale, rischia di soccombere sotto i colpi di Margaret Thatcher. Per il momento, il megaprogetto di riforma del National Health Service è limitato a semplici rilievi.

Ma le indicazioni e i suggerimenti raccolti in un corposo dossier prestano il fianco ad un primo coro di critiche e di consensi. L' obiettivo del ministro della Sanità inglese, l'esponente della destra tory, Kenneth Clarke, che martedì ha presentato ai Comuni il libro bianco di riforma, è chiaro: la sanità deve trasformarsi in un business. Attraverso una pioggia di incentivi che stimoli la concorrenza delle strutture pubbliche e una maggiore professionalità degli operatori. Dai medici agli infermieri. Il piano non scatterà prima del 1991. Ma la riforma del Servizio sanitario nazionale prevede tre fasi di adattamento che sin dal prossimo autunno potrebbero produrre importanti cambiamenti. Nel mirino ci sono gli ospedali, motore centrale dell'assistenza pubblica. Secondo il progetto, le 320 strutture

con oltre 250 posti letto si troveranno di fronte ad una scelta: staccarsi economicamente dalle autorità regionali e comunali e affrontare una gestione del tutto autonoma.

Continueranno ad ottenere i finanziamenti dello Stato, ma i risparmi che riusciranno a ricavare da una più attenta amministrazione potranno essere reinvestiti in attrezzature o in progetti di ricerca. Trasformati in vere aziende private, gli ospedali saranno quindi in condizione di offrire migliori servizi, a prezzi competitivi, con vantaggi economici per i pazienti e per gli stessi medici. L'altro caposaldo interessato dalla riforma sono i medici di famiglia, i circa 32 mila General practitioners, cioè le strutture periferiche del Servizio sanitario nazionale. Invece di ricevere dallo Stato una quota per paziente, gli ambulatori avranno a disposizione un budget autonomo per un numero non limitato di assistiti. Lo scopo è di incentivare i servizi, l'assistenza ed evitare il flusso costante dei malati dal medico di famiglia verso gli ospedali.

In cambio, se il tetto del finanziamento verrà rispettato, il 50 per cento dei risparmi potrà essere diviso tra gli operatori che esercitano negli ambulatori. La mini-rivoluzione del premier inglese ha già suscitato le violente reazioni dell'opposizione. Dal fronte laburista si grida al tradimento: In questo modo,

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osservano molti deputati, si vuole strangolare l'assistenza pubblica a beneficio delle cliniche private. Ma il ministro Kenneth Clarke replica rassicurando i più scettici: Il Servizio sanitario nazionale non è in discussione. Esso continuerà ad esistere, deve restare aperto a tutti e continuerà ad essere finanziato in massima parte dalla tassazione. Quello che occorre è snellire l'apparato burocratico e rilanciare le strutture per renderle più dinamiche. La nuova iniziativa del premier ha avuto una vasta eco anche in Italia. I due servizi sanitari nazionali si assomigliano. Entrambi sono basati sul solido principio di garantire uguale e gratuita assistenza a tutti, ma soffrono di strutture obsolete e di gestioni paralizzate dalla burocrazia. Da mesi si parla di rinnovamento delle Usl, le Unità sanitarie nazionali, per renderle più efficienti e simili a delle industrie. Ma il dibattito ristagna e il disegno di legge giace ancora in Parlamento. Eolo Parodi, presidente della federazione degli ordini dei medici, ha da poco letto gli estratti del libro bianco del ministro Clarke. Pondera le parole e evita giudizi affrettati. È presto per commentare un'iniziativa importante. Mi limiterò ad una battuta, scherzosa. E cioè che se noi piangiamo sul nostro sistema ridotto allo sfascio, gli inglesi non hanno nulla da ridere. Detto questo bisogna fare dei distinguo: le strutture pubbliche in Gran Bretagna funzionano meglio, ma lo Stato, come in molti paesi europei, non è in grado di garantire la piena tutela della salute. I campi che oggi affronta la medicina sono tanti e molto diversi da quindici anni fa. Quello che mi fa paura della proposta Thatcher non è tanto la privatizzazione degli ospedali, quanto il trasferimento della responsabilità finanziaria sulle spalle del medico. Ai medici di base viene attribuito un budget annuale. Poi gli si dice: su tutto quello che risparmi il 50 per cento te lo intaschi. È un discorso pericoloso. Che non considera gli aspetti umani della professione, del rapporto delicato e spesso fragile tra medico e paziente. Insomma, non vorrei che per risparmiare sul bilancio si facessero delle diagnosi di comodo con conseguenze deleterie

per i pazienti. Che succede con gli anziani? Siccome costano troppo e rendono meno, si finirà per rifiutarli. E questo francamente mi sembra assurdo. Andiamo verso una società di pensionati e non si può applicare una sorta di eutanasia economico-finanziaria. Alle critiche si contrappongono i consensi. Il tema è di scottante attualità nel nostro paese. E molti, dirigenti sindacali in testa, premono per l'avvio di una riforma. Giorgio Benvenuto, leader della Uil, da sempre sensibile ai problemi dell'assistenza sanitaria, aggiusta il tiro: Non possiamo più muoverci con i tempi lenti delle leggi, della burocrazia, delle circolari. Bisogna operare subito. Bisogna avviare un confronto stringente sui modi di rendere più efficiente il nostro sistema sanitario nazionale. Anche con una gestione ispirata a criteri privatistici. Con tre obiettivi: separare il controllo politico da quello della gestione e rivalutare il ruolo delle dirigenze; raggiungere l'autonomia degli ospedali che devono essere delle aziende; affrontare il problema della mobilità e della flessibilità del lavoro. Il dibattito continua. Ma da Londra potrebbe arrivare la spinta decisiva.»

Già da questo articolo, sebbene emerga il

punto di vista di un italiano, si possono

delineare le prime “paure” legate alle azioni

della Lady di ferro.

Ma per ricostruire al meglio i punti chiave

della riforma e far emergere con forza le

successive critiche, è necessario prima dar vita

a un iter che riassuma al meglio tutti i

cambiamenti in ambito sanitario che hanno

caratterizzato i paesi OCSE (Organizzazione

per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico)

negli ultimi 30 anni.

Sfida a colpi di riforme (e contro-riforme)

Nel corso degli ultimi tre decenni significative

riforme sanitarie sono state approvate in

molti paesi dell’area OCSE. Sebbene i singoli

sistemi nazionali abbiano avuto indirizzi

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differenti, non è difficile intravedere alcune

tematiche e strategie comuni, le quali

consentono di raggruppare le principali

riforme dell’ultimo trentennio in tre

differenti ondate. La prima, da collocare nei

primi anni Novanta, ha insistito soprattutto

sui temi della concorrenza e della libertà di

scelta del paziente. Nella seconda metà degli

anni Novanta si è avuta, in molti paesi,

un’inversione di rotta: i richiami al mercato e

alla competizione sono stati accantonati, per

insistere piuttosto sull’integrazione sistemica

e sulla regolazione pubblica. Negli anni

Duemila si è notata infine una sempre

crescente attenzione al tema dei diritti del

paziente.

i) I primi anni novanta e le riforme volte a stimolare la concorrenza

In analogia con quanto avvenuto in altri settori, molte delle riforme sanitarie adottate nei primi anni novanta puntarono a stimolare meccanismi più concorrenziali tra i diversi attori del sistema sanitario. A seconda dei paesi, tale obiettivo fu perseguito

incentivando la concorrenza tra i fornitori attraverso la creazione di «mercati interni» (nei paesi dotati di un servizio sanitario nazionale), stimolando la competizione fra le casse di malattia (nei sistemi di assicurazione sociale di malattia), riconoscendo ai pazienti maggiore libertà di scelta. Per fare un esempio che coinvolga il punto focale del nostro approfondimento, basti pensare a come nel Regno Unito la riforma approvata nel 1990 dal governo Thatcher intese stimolare la concorrenza tra le diverse componenti del servizio pubblico attraverso la creazione di un «mercato interno». Condizione necessaria a tale progetto era la separazione tra strutture acquirenti e strutture erogatrici di prestazioni sanitarie. A fungere da agenzie acquirenti sarebbero state le District Health Authorities (DHA): queste, non avendo più tra le loro mani la responsabilità della gestione diretta degli ospedali e di parte dei servizi territoriali, si sarebbero potute concentrare sulla sola attività di committenza. Della fornitura delle cure secondarie si sarebbero invece occupati gli ospedali, che furono messi in competizione tra loro e trasformati, nella maggior parte dei casi, in trusts autonomi. Ai medici di base venne data l’opportunità di associarsi e di ricevere un budget (come citava Mastrogiacomo nel suo articolo) con cui acquistare alcune prestazioni per conto dei propri pazienti; tali medici (detti fundholders) avrebbero perciò costituito una seconda categoria di soggetti acquirenti, in aggiunta alle autorità distrettuali.

A livello internazionale, la riforma Thatcher suscitò fin da subito grande suggestione, e il modello del mercato interno trovò estimatori in molti paesi, tra cui la Nuova Zelanda, la Svezia, la Spagna e persino l’Italia.

ii) I secondi anni novanta: politiche di integrazione e regolazione pubblica

Senza aspettare che le riforme intraprese in precedenza sortissero pienamente i propri effetti, nella seconda metà degli anni novanta

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molti governi nazionali accantonarono il richiamo alla competizione e al pluralismo, per insistere piuttosto sulla programmazione pubblica e sul coordinamento tra le diverse componenti del sistema sanitario. Le riforme varate nei secondi anni Novanta finirono così per rendere molti sistemi sanitari un po’ più integrati di quanto non fossero in precedenza.

Alcuni dei paesi dotati di un servizio sanitario nazionale - complice spesso un’alternanza di governo - vararono vere e proprie contro-riforme, tese a mitigare (se non addirittura a neutralizzare) gli effetti dei provvedimenti adottati solo pochi anni prima: la separazione tra agenzie committenti ed erogatrici venne molto attenuata; si diede maggior peso alla programmazione pubblica; vennero resi più stabili i rapporti tra i diversi attori del sistema. Questo avvenne, ad esempio, nel Regno Unito con il ritorno al governo dei laburisti (dopo 18 anni ininterrotti di dominio conservatore, nel 1997 il leader laburista Blair fu eletto come Primo Ministro).

Nei paesi dell’Europa continentale, in cui vige il principio dell’assicurazione sociale di malattia, i governi mirarono soprattutto a ridurre la frammentarietà del sistema di produzione: fu rafforzato il coordinamento tra i diversi fornitori, e furono introdotti meccanismi di gatekeeping per accedere alle cure specialistiche. Indicativo a tal proposito il caso francese. Obiettivo dapprima del governo Juppé e poi del governo Jospin fu infatti di integrare le diverse parti del sistema sanitario transalpino, anche a costo di sacrificare parte della grande libertà tradizionalmente goduta sia dai medici che dai pazienti. A partire dal 1996, gli ospedali devono sottostare a più rigide procedure di accreditamento e sono tenuti a coordinarsi con le strutture limitrofe al fine di evitare sprechi e sovrapposizioni. Ulteriore novità consistette nell’introduzione del cosiddetto «carnet de santé»: trattasi di un libretto (ora in formato elettronico) in cui i medici devono annotare tutte le informazioni rilevanti per la

diagnosi e le terapie di un determinato paziente; l’intento era evidentemente di promuovere la continuità delle cure, evitando prescrizioni ridondanti o contraddittorie. Nel 1998 partì infine la sperimentazione dei medici di famiglia, i cosiddetti gatekeeper. Misure simili a quelle adottate in Francia vennero riprese poi anche in Belgio e in Germania.

iii) L’avvento dei diritti dei pazienti con gli anni duemila

Tra la fine degli anni novanta e i primi anni duemila ha preso corpo una terza ondata riformistica. Il filo conduttore di questa terza ondata è consistito nella tutela dei diritti del malato e nel riconoscimento ai pazienti di maggiore libertà di scelta. Parlando di diritti fondamentali del paziente si fa riferimento a garanzie quali:

i) il diritto ad essere trattati con dignità; ii) il diritto alla privacy; iii) il diritto del paziente a ricevere tutte

le informazioni relative ai trattamenti cui deve sottoporsi;

iv) il diritto ad esprimere il proprio consenso al trattamento;

v) il diritto al reclamo e al risarcimento; vi) il diritto ad accedere alla propria

cartella clinica; vii) il diritto ad una second opinion.

Che non differiscono tanto dai diritti che ora vanno concessi in termini di protezione dei dati grazie al GDPR.

A livello di opinione pubblica internazionale, comunque, la pressione per il riconoscimento formale di tali diritti iniziò ad aumentare con l’approvazione della Patient’s Charter nel Regno Unito (1991). Tale documento ebbe il merito di rendere espliciti i diritti che il National Health Service (NHS, di cui si parlerà in seguito) si impegnava a garantire ai propri utenti. Tale approccio, sicuramente importante sul piano culturale e simbolico,

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mostrava tuttavia un evidente limite: i diritti enunciati nella Carta non erano impugnabili sul piano legale. Questo è il motivo per cui molti paesi hanno in seguito preferito garantire i diritti del paziente per via legislativa. Il governo olandese legiferò in materia di diritti del paziente già nel 1995. Altri paesi (quelli nordici, ma anche Belgio, Francia e Spagna) ne seguirono l’esempio tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila.

In parte collegato con il tema dei diritti del paziente è quello della tempestività delle cure. Tra i diritti del paziente andrebbe infatti incluso anche quello ad essere curati in tempi ragionevolmente brevi. Quello delle lunghe liste d’attesa è invece un punto dolente per molti servizi sanitari nazionali.

Ormai da qualche anno nei paesi del Nord Europa il problema delle liste d’attesa viene affrontato attraverso la strategia del «tempo massimo d’attesa garantito». In Svezia, ad esempio, a partire dal 2005 il servizio pubblico si impegna a rispettare la formula «0-7-90-90». Formula che significa: zero attesa per avere il primo contatto con il sistema sanitario; un’attesa massima di 7 giorni per essere visitati da un medico di famiglia; un massimo di 90 giorni per il consulto di uno specialista; un intervallo non superiore ai 90 giorni tra la diagnosi e l’inizio del trattamento terapeutico o dell’intervento chirurgico. Per far sì che i cittadini ricevano le cure nel minor tempo possibile viene loro riconosciuto il diritto a recarsi in qualunque struttura ospedaliera, sia pubblica che privata, anche al di fuori della contea di residenza. Grazie alla strategia del «tempo massimo d’attesa», Svezia, Norvegia e Danimarca stanno ottenendo ottimi risultati, che hanno portato le liste d’attesa ad accorciarsi sensibilmente. Per questa ragione il modello nordico è oggi considerato un benchmark, che altri paesi stanno tentando di emulare.

Il ruolo chiave del fattore ideologico

Mettendo a confronto le tre ondate sopra accennate, se ne trae l’impressione che il fattore ideologico abbia avuto un peso non irrilevante nel determinare i contenuti degli interventi di riforma. Se guardiamo all’orientamento ideologico dei governi proponenti le riforme, notiamo infatti un’interessante regolarità. Ad alimentare le riforme della prima ondata (pro-concorrenza) sono stati prevalentemente governi conservatori (tra cui rientra, ovviamente, quello di Margaret Thatcher). La situazione si ribalta completamente nella seconda ondata: quasi tutte le riforme pro-integrazione della seconda metà degli anni novanta sono state promosse da governi di sinistra.

La cosa non è poi così sorprendente: è infatti del tutto plausibile che i governi conservatori siano più sensibili a temi quali la concorrenza e la libertà di scelta dei pazienti, così come non stupisce che i governi socialdemocratici attribuiscano maggiore importanza alla regolazione pubblica e all’integrazione del sistema.

Per quanto riguarda la terza ondata, si deve invece concludere che la tutela dei diritti dei pazienti sia un tema, tutto sommato, trasversale. Leggi a tutela dei diritti dei pazienti o favorevoli alla riduzione dei tempi d’attesa sono state infatti approvate indifferentemente da governi sia conservatori sia socialdemocratici.

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Come la rivoluzione ebbe inizio e il NHS quasi trovò la sua fine

Dopo quasi circa trent’anni di totale stabilità, nonostante l’alternanza al governo di laburisti e conservatori, con la vittoria di questi ultimi alle elezioni politiche del 1979 e la nomina a premier di Margaret Thatcher, strenua paladina del neoliberismo, inizia per il NHS una fase di grande instabilità e di profondi cambiamenti che arriva fino ai giorni nostri (che influenzeranno, come in passato, le scelte della politica italiana). Il primo atto della signora Thatcher - a tratti quasi simbolico - è la scelta di un certo Roy Griffith, amministratore delegato di una grande catena di supermercati, come esperto e consulente. A lui sarà affidato il compito di diagnosticare i principali difetti del NHS (si veda il report del signor Griffith, detto proprio “Griffith Report”, qui: https://www.sochealth.co.uk/national-health-service/griffiths-report-october-1983/) e, successivamente, un ruolo di direzione presso il ministero della sanità.

Alla base dell’idea della Thatcher vi era il pensiero che, dopo una serie di privatizzazioni di servizi e enti statali imposte dal suo governo - dalla scuola alle ferrovie, alle banche, all’energia, alle poste - dovesse essere la volta della sanità. Nel 1987 arruolò allo scopo un gruppo d’esperti USA, guidato da A. Enthoven (teorico della managed care), con l’incarico di confezionare per il Regno Unito un modello assicurativo simile a quello americano. Ma la proposta non decolla per l’ostilità dello stesso partito conservatore (un sondaggio tra gli elettori Tory rileva che il 70% non vuole rinunciare al NHS e non accetta lo smantellamento del sistema di welfare che esso garantisce). Ma Margaret Thatcher, pur dovendo fare a meno della consulenza dell’economista americano e del modello da lui proposto, non rinuncia all’idea di introdurre nel sistema sanitario britannico elementi di mercato (da qui il titolo dell’articolo di cui sopra) realizza nel 1991 una riforma che - pur mantenendo inalterati i

principi fondanti del modello Beveridge - separa nettamente le funzioni d’acquisto e/o committenza di servizi da quelle di produzione degli stessi. Le prime sono assegnate alle Health Authority che diventano acquirenti (dall’inglese purchaser), le seconde ai Trusts (identificabili con gli ospedali, ma anche aziende che erogano servizi territoriali) che diventano produttori-erogatori (provider). Ai Trusts viene riconosciuta una completa autonomia gestionale, compresa la privatizzazione dei rapporti di lavoro. Il razionale della riforma è quello di creare la competizione tra i produttori, una competizione tutta interna al NHS, di qui il nome di internal market (o quasi-market), assegnato alla formula.

Fin dall’inizio la riforma Thatcher fu fortemente osteggiata dai laburisti: il timore principale era che ci fosse una hidden agenda, un disegno nascosto per privatizzare progressivamente l’intero sistema e - in conclusione - per smantellare i principi su cui si basava il NHS. Nella campagna elettorale del 1997, per l’elezione del premier e il rinnovo del parlamento, la questione “sanità” rappresentò uno dei temi centrali del dibattito politico. Il Labour pubblicò un “libro bianco” in cui si criticava l’introduzione di meccanismi commerciali di mercato all’interno del servizio pubblico, l’esasperata competizione tra i vari attori del sistema, la perdita di una guida nazionale nel governo della sanità. Di tutto l’impianto scaturito dalla riforma del 1991 i laburisti salvano solo la separazione tra committenti e produttori, all’interno però di una cornice di programmazione e collaborazione. Dopo la vittoria elettorale dei laburisti, uno dei primi atti del governo Blair fu quello di riformare la riforma Thatcher.

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“Thatcherization”

Sebbene i testi dell'indagine trattino separatamente gli anni della Thatcher e della Major, l'egemonia conservatrice del 1979-97 costituisce indubbiamente un periodo discreto nella storia politica del NHS.

I conti generali del welfare state lo vedono come uno spartiacque, caratterizzato da una contenuta spesa pubblica, dal confronto con gli interessi delle multinazionali e dall'imposizione di discipline di mercato. Tutte queste erano caratteristiche della "Thatcherizzazione" del NHS.

Le spese reali sono cresciute ad un tasso inferiore rispetto a qualsiasi momento dai primi anni '50, a parte il 1989-93, quando è cominciato a crescere per riorganizzare le ristrutturazioni organizzative. È stato introdotto anche uno stile di gestione più "accattivante", rafforzando le mani dei burocrati rispetto ai medici.

Il coinvolgimento del settore privato è stato incoraggiato attraverso i servizi di supporto contrattuale e la promozione dell'assicurazione medica privata (PMI). Un momento decisivo fu la Griffiths Management Enquiry del 1983, di cui si è parlato precedentemente, che portò alla nomina di un amministratore delegato del NHS, e alla fine della "gestione del consenso", in base alla quale le decisioni delle autorità sanitarie richiedevano l'approvazione di una squadra

multidisciplinare. Learmonth svela il passaggio discorsivo da "amministratore" a "manager" che seguì, rilevando in questo nuovo uso una ricostituzione dell'esecutivo come un leader eroico e bellicoso che affronta l'intransigenza dei consulenti. Le prime valutazioni hanno rilevato che la riforma di Griffiths era stata solo parzialmente efficace, senza alcuna infusione di nuovo personale e poche prove che l'autonomia clinica fosse limitata. Tuttavia, Harrison sostiene che la legittimità della gestione generale è stata stabilita, preannunciando un periodo più deciso nell'era della riforma che seguì.

Data la retorica conflittuale del thatcherismo, non sorprende che i commenti sulle politiche conservatrici siano anche oppositivi. Klein è ampiamente comprensivo, vedendo il thatcherismo come un prodotto dei cambiamenti sociali del lento processo di deindustrializzazione e del consumismo emergente: lei «cavalcava le onde piuttosto che crearle». Per lui la crisi del welfare state non nasce dal sottofinanziamento ma dalla riluttanza ad adattarsi alle mutevoli circostanze (in parte grazie agli accademici di politica sociale nascosti); quindi il progetto Tory era un esercizio essenzialmente tecnico, basato su "ricette politiche" più diverse di quelle finora disponibili. L'assenza di pilotaggio non è stata una politica irrazionale guidata dal calcolo elettorale; invece il governo ha riconosciuto che i risultati perfetti erano irraggiungibili e che l'apprendimento della politica adattativa dal processo di attuazione era una strategia legittima. Inoltre, nonostante la percezione che le riforme fossero intrinsecamente distruttive, il loro risultato era quello di preservare intatto il SSN all'interno dello stato sociale, sul quale la spesa complessiva aumentava durante gli anni conservatori.

Altri non sono d'accordo. Gli storici-clinici sono particolarmente schietti contro l'assistenza sanitaria che viene «trattata come una merce come automobili, scarpe o fagioli al

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forno». L'opinione disinteressata è difficile da districare dall'interesse personale, sebbene la preoccupazione di Freeman che la commercializzazione abbia "minato" le "tradizioni etiche" e "umanitarie" del NHS è sentita. 96 L'analisi di Webster esemplifica il foglio delle accuse di sinistra, deplorando un sotto-investimento prolungato mancanza di trasparenza elettorale, dipendenza dal ruolo consultivo dei contabili e degli uomini d'affari, mancanza di volontà di consultare ampiamente o di guidare iniziative radicali. Fondamentalmente, considera le riforme Thatcher come un progetto ideologico il cui programma è stato un assalto al collettivismo. Sono anche criticate le letture kleiniane che affermano che al di sotto di tutte le spacconate i principi fondamentali del NHS erano stati poco toccati. In un pezzo preveggente del 1987, Davies sosteneva che cambiamenti apparentemente incrementali stavano aprendo la porta a una nuova era di "pluralismo del benessere", mentre Ruane in seguito fece un caso simile, che il managerialismo e la "valorizzazione del lavoro" avevano distinzioni cumulativamente cumulative tra NHS e mercati medici privati.

Ma chi era Margaret Thatcher?

Arrivati a questo punto, vale la pena di

spezzare qualche lancia in suo favore,

delineando i punti di intervento più importanti

nel corso della sua vita.

Definita spesso come uno dei grandi leader

del secondo novecento. Era figlia di un

commerciante ma aveva fatto buoni studi

(Grammar School e poi Oxford, Somerville

College), era quindi un tipico caso di ascesa

sociale basata sul merito. Interessante

osservare che Margaret si era laureata, nel

1947, in Chimica a Oxford; una materia

tipicamente a scarsa presenza femminile, fino

ad allora. Successivamente si dedicò agli studi

di legge per diventare avvocato. Nel 1975 fu

eletta leader del Partito Conservatore (prima

donna a diventarlo; per inciso si noti come in

Italia siamo ancora in attesa di vedere una

donna leader di un grande partito) e nel 1979

fu eletta primo ministro britannico (prima

donna a diventarlo); fu primo ministro dal

1979 al 1990. Un’era che ha rappresentato

una vera svolta nella vita del Regno Unito ma

anche nella storia dell’occidente nel suo

insieme.

La Thatcher fu la protagonista di una rinascita della destra e un personaggio di quelli che hanno diviso l’opinione pubblica.

La Gran Bretagna negli anni ’60 e soprattutto negli anni ’70 aveva sperimentato un lento e grave declino. Il concetto stesso di “declino” per gran parte del novecento è stato legato proprio alla Gran Bretagna, paese che aveva avuto una leadership tecnologica ed economica per un secolo, un vasto impero, un grande peso nella politica internazionale. Negli anni ’60 e ’70 tuttavia si era avuta una perdita forte di competitività. Mentre i paesi dell’Europa continentale (Germania, Italia e Francia) avevano sperimentato un rapido processo di catching-up nei confronti degli Stati Uniti, la Gran Bretagna era rimasta

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indietro e anzi aveva perduto parte rilevante del proprio vantaggio relativo.

Al centro del “male britannico” vi era un forte conflitto distributivo tra capitale e lavoro. Il 5 agosto 1974 il Times titolava: “Nel destino della Gran Bretagna c’è un colpo di Stato militare”, si trattava di un articolo di Lord Chalfont, ministro della Difesa laburista, che prevedeva come sbocco al clima di conflittualità diffusa un putch. Cito questo esempio solo per dare un’idea di quale clima si respirasse in Gran Bretagna (e in buona parte dell’Europa, a metà degli anni ’70).

Il prezzo delle materie prime e delle derrate alimentari era in forte crescita. Il Club di Roma nel 1972 aveva pubblicato un Rapporto sui Limiti della crescita nel quale si preannunciava l’imminente esaurimento del petrolio e delle principali materie prime. I tassi d’inflazione erano a due cifre e in crescita. Il sistema dei cambi fissi che aveva regolato il commercio mondiale per tutto il dopoguerra si era disfatto ad agosto del 1971. La produttività era in calo. Il prodotto per ora lavorata si era dimezzato tra il 1973 e il 1979. Aspro, continuo, profondo era il conflitto nelle fabbriche tra operai e imprenditori. La domanda intanto era caduta anch’essa, con una spirale di caduta della produzione, conseguente caduta dell’occupazione e aumento del conflitto tra sindacato e padronato.

La spesa pubblica, soprattutto per fini di welfare, era cresciuta molto. Dalla fine degli anni ’60, si era avuto un forte aumento delle assunzioni pubbliche: insegnanti, medici, lavoratori sociali. Vasti settori erano di proprietà dello Stato. Il partito laburista aveva ripetutamente prospettato piani di nazionalizzazioni di vasti settori produttivi per contrastare la crisi. Lo spettro dell’iper-inflazione, alimentata dall’aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime e dal conflitto tra capitale e lavoro, stava provocando un impoverimento dei ceti medi

con lavoro dipendente. Nel 1979 l’inflazione in Gran Breatagna era del 18 per cento (in Italia del 21 per cento).

Sembrava trovare conferma insomma la tesi di Kalecki che nel 1943 aveva scritto un famoso saggio “Political Aspects of Full Employment” nel quale aveva sostenuto che la piena occupazione non fosse compatibile con il capitalismo. Se per troppi anni c’è pieno impiego, il licenziamento cessa di essere una misura che disciplina gli operai e i lavoratori e questo alimenta richieste e aspettative crescenti di redistribuzione del reddito dal profitto ai salari. Ma questo meccanismo finisce per minare le basi del processo di crescita e quindi porta alla crisi sistemica.

Ebbene, in questo quadro di crisi profonda e protratta, la Thatcher ebbe la forza di proporre un disegno di riforma organica dell’economia e della società.

L’idea di base era quella che solo l’impresa e l’iniziativa privata fosse in grado di scongiurare il declino e far tornare a crescere la Gran Bretagna. Bisognava quindi abbandonare le politiche stataliste e restituire all’impresa la centralità smarrita. Allo stesso tempo si trattava di ridurre lo strapotere delle Trade Unions, i sindacati britannici che si erano radicati in molti settori produttivi. La Thatcher quindi avviò un vasto programma di privatizzazioni che fu aperto dalla vendita ai privati nel 1979 della British Petroleum. La Thatcher si fece portatrice di un disegno di riduzione della presenza dello Stato, di lotta all’inflazione come priorità della politica economica e di rilancio dell’iniziativa privata. La Thatcher si conquistò il soprannome di Lady di ferro per la determinazione con la quale si impegnò nella realizzazione del suo programma. Memorabile fu lo scontro con i minatori del Galles e del nord dell’Inghilterra a seguito della decisione governativa di chiudere le miniere. La Thatcher voleva che si creasse in Gran Bretagna un capitalismo popolare, favorì pertanto la vendita delle

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azioni delle imprese privatizzate ai piccoli risparmiatori.

La soluzione thatcheriana divenne la ricetta della nuova destra: meno spesa pubblica, liberalizzazioni, più concorrenza, privatizzazioni, riduzione del potere dei sindacati, diffusione dell’azionariato, e così via. Dopo un decennio nel quale il pendolo aveva oscillato verso il lavoro, il socialismo, l’intervento pubblico (gli anni ’70) si ebbero decenni di centralità del mercato e dell’impresa. La politica thatcheriana diede i suoi frutti dopo una decina d’anni circa. La Gran Bretagna uscì dal declino al quale sembrava condannata. Ma, ovviamente, ci furono dei costi, non banali peraltro. L’industria manifatturiera britannica subì un forte dimagrimento. I servizi divennero il cuore dell’economia e la City finanziaria in particolare aumentò il suo peso e il suo ruolo. Parte del sistema di welfare venne smantellato. L’ineguaglianza nella distribuzione del reddito aumentò significativamente. Ma questo in parte era un disegno voluto a compensazione dell’eccesso di egalitarismo vissuto negli anni ’70.

Non si può fare un’analisi completa dell’esperimento thatcheriano in poche righe di un approfondimento. Quindi è chiaro che andrebbero valutati molti più aspetti, ma questi possono rappresentare dei punti di partenza. La conclusione più interessante, forse, è tuttavia legata al fatto che la Gran Bretagna è uno dei pochi casi di un paese in declino che seppe invertire la rotta. La Thatcher ebbe il coraggio di assumersi la responsabilità delle proprie azioni e di potarle avanti fiera. Nel pieno delle contestazioni durissime che la signora di Ferro subì, amava ripetere: «Vado avanti, la storia mi darà ragione».

Il timore dei laburisti: il piano segreto della

Iron Lady

Nel Regno Unito sono stati desecretati dopo

trent'anni i documenti riservati del primo

governo della Thatcher. Emerge un progetto

di attacco al Welfare ancora più radicale di

quanto poi fu realizzato. E parte il dibattito su

che cosa darebbe successo, anche in Europa,

se quelle misure fossero passate.

Niente più scuole pubbliche, niente più sanità aperta a tutti. Il giorno cruciale fu il 9 settembre 1982, quando nel cabinet, più o meno il nostro consiglio dei ministri, quasi scoppiò una rissa. A trent’anni da quel giorno, ora, nel Regno Unito vengono resi noti documenti tenuti a lungo secretati. Ed emerge che le tensioni all’interno del governo guidato da Margaret Thatcher erano tutte dovute a una proposta semplice, rivoluzionaria, che se si fosse avverata avrebbe cambiato per sempre la storia della Gran Bretagna e forse dell’Europa. La Lady di Ferro aveva un’idea: smantellare quasi completamente lo stato sociale britannico, molto più di quanto non abbia fatto realmente, partendo dal sistema scolastico e dalla sanità pubblica. Thatcher e il suo cancelliere Geoffrey Howe, in quell’ormai lontano 1982, lo dissero più volte: «Si potrà andare a scuola solo pagando una quota di iscrizione e il sistema sanitario dovrà essere reso accessibile tramite assicurazione privata, così come avviene negli Stati Uniti». I ministri, tuttavia, si ribellarono, il primo ministro iniziò a temere gli effetti di una possibile campagna mediatica di tabloid e stampa impegnata e, nelle successive riunioni, questi propositi di

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guerra - ma qualcuno ora li chiama di “macelleria sociale” - sparirono quasi del tutto.

In questi giorni, quindi, nel Regno Unito, si sta scrivendo una storia dei “se”. Che cosa sarebbe successo, sarebbe stata una decisione “apripista” per il futuro dello stato sociale in tutta Europa? Difficile dirlo, ora, dopo che le intenzioni di Thatcher e dei suoi sodali non si sono avverate, ma la stampa britannica, oggi, non lesina aggettivi allarmistici e arriva a definire quel piano del primo ministro come “tossico” e “potenzialmente mortale”. Ora che questi documenti sono stati resi noti dall’Archivio nazionale, si viene a scoprire, appunto, la forza dello scontro che si ebbe all’interno del governo. Il Central Policy Review Staff, un comitato governativo per l’analisi delle proposte dei ministri, scrisse: “Le intenzioni del primo ministro porterebbero a una scomparsa del National Health Service”. Poco importa se la stessa Thatcher, nelle sue memorie, scrisse che quelle proposte, in realtà, erano solo delle boutade e che nessuno le aveva mai prese seriamente in considerazione. Ora, secondo gli analisti politici, la presa di distanza del primo ministro servì solo a “rassicurare” la stampa britannica in un momento in cui le prime informazioni su quel piano stavano iniziando a trapelare. Thatcher, insomma, temeva più la titolazione e gli editoriali dei tabloid popolari piuttosto che gli scioperi e il malcontento dei britannici. Questo dicono ora commentatori e giornalisti, ma rimane comunque una storia dei “se” che la Lady di Ferro, ormai poco presente a se stessa, non potrà mai più confermare o smentire.

Resta il fatto che primo mandato governativo

dei tre fu quindi, si arriva a scoprire ora, il più

potenzialmente esplosivo. Gli scioperi nelle

miniere, con lo scontro fra polizia e minatori,

le grandi manifestazioni di massa e la guerra

coi sindacati dovevano ancora arrivare e si

sarebbero avuti solo due anni più tardi. Ma

rendere scuole pubbliche e servizio sanitario

sempre pubblico a pagamento avrebbe forse

fatto sollevare la popolazione britannica come

mai forse si era visto al di qua della Manica.

Questo temevano ministri e sottosegretari di

quel governo ed è per questo che quel 9

settembre, in consiglio dei ministri, ci fu quasi

un “riot”, come scrive ora la stampa, e cioè un

“tumulto”. Che Thatcher e il suo cancelliere

fossero affascinati dagli Stati Uniti d’America

era cosa ormai nota. Ma che gli stessi avessero

proposto di rendere il Regno Unito un

avamposto statunitense in Europa, questo

era ancora ignoto ai più. Il cancelliere dello

scacchiere, nel luglio del 1982, scrisse al primo

ministro: «Non dobbiamo farci spaventare da

certe idee, come ad esempio quella di una

impossibilità del cambiamento. Dobbiamo

prendere decisioni strategiche, che

cambieranno il corso del prossimo mandato

parlamentare e della storia britannica». Oggi,

nel Regno Unito, molti tirano un sospiro di

sollievo. E scuole pubbliche e sanità

“universale” continuano a essere un vanto di

molti britannici.

In conclusione, immaginando di manipolare

una delle sue frasi tipiche e rivolgerla alla

stessa Thatcher, si potrebbe quindi dire… La

storia le ha dato ragione?

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Bibliografia:

[1] MASTROGIACOMO G. (1989) - “Crolla un mito in Inghilterra, la sanità diventa industria” da La Repubblica [2] THATCHER M. (2002) - “Statecraft: Strategies for a changing world” [3] GRIFFITHS E. R. (1983) - “Griffiths Report on NHS October” [4] THATCHER M. (1998) - “The Collected Speeches of Margaret Thatcher” [5] TOTH F. (2009) - “Le riforme sanitarie in Europa: tra continuità e cambiamento”

[6] GORSKY M. (2008) - “The British National Health Service - From 1948 to 2008: a Review of the

Historiography”