Luce & Vita Giovani n. 93

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Caro Papa Francesco, ti scrivo di carmela zaza........................3 Come un pittore di giuseppe mancini................6 Mamma call cenrer di maria teresa giancaspro......4 Effetto placebo di annarita marrano................7 Profumo di mimosa di maria carla pisani.................5 Amici a quest’etá di francesca messere................8 IO SONO LA RISURREZIONE Cristo a Pasqua non è semplicemente il Risorto: egli è la Risurrezione stessa. L’ha deo a Marta: «Io sono la risurrezione e la vita» (Gv 11,25). In quest’ordine preciso: prima la risurrezione e poi la vita. Ci saremmo aspea il contrario, invece prima viene la risurrezione, da tue le nostre tombe, dal nostro respiro insufficiente, dalla vita chiusa e bloccata, dal cuore spento, dal gelo delle relazioni. Prima la risurrezione di noi, né caldi né freddi, né buoni né cavi – «di noi, i mor vivi», scriveva Charles Peguy –, poi la vita piena nel sole, la vita che meriterà finalmente il nome di vita. La Risurrezione non riposerà finché non sia spezzata la tomba dell’ulma anima, e le sue forze, come cantava Mario Luzi, non arrivino all’ulmo ramo della creazione: «Tu tuo in tu,/ il mondo intero/ carne risorta/ per la Tua carne,/ crocefisso amore». Inserto mensile di informazione e comunicazione del mondo giovanile a “Luce e Vita” n.13 del 31 marzo 2013 Piazza Giovene 4 -70056 Molfetta www.lucevitagiovani.it [email protected] 93

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Inserto mensile della diocesi di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi di informazione e comunicazione giovanile (marzo 2013)

Transcript of Luce & Vita Giovani n. 93

Caro Papa Francesco, ti scrivodi carmela zaza........................3

Come un pittoredi giuseppe mancini................6

Mamma call cenrerdi maria teresa giancaspro......4

Effetto placebodi annarita marrano................7

Profumo di mimosa di maria carla pisani.................5

Amici a quest’etá di francesca messere................8

io sono la risurrezioneCristo a Pasqua non è semplicemente il Risorto: egli è la Risurrezione stessa. L’ha detto a Marta: «Io sono la risurrezione e la vita» (Gv 11,25). In quest’ordine preciso: prima la risurrezione e poi la vita. Ci saremmo aspettati il contrario, invece prima viene la risurrezione, da tutte le nostre tombe, dal nostro respiro insufficiente, dalla vita chiusa e bloccata, dal cuore spento, dal gelo delle relazioni. Prima la risurrezione di noi, né caldi né freddi, né buoni né cattivi – «di noi, i morti vivi», scriveva Charles Peguy –, poi la vita piena nel sole, la vita che meriterà finalmente il nome di vita. La Risurrezione non riposerà finché non sia spezzata la tomba dell’ultima anima, e le sue forze, come cantava Mario Luzi, non arrivino all’ultimo ramo della creazione: «Tu tutto in tutti,/ il mondo intero/ carne risorta/ per la Tua carne,/ crocefisso amore».

Inserto mensile di informazione e comunicazione del mondo giovanile a “Luce e Vita” n.13 del 31 marzo 2013

Piazza Giovene 4 -70056 [email protected]

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2la nostra persona: sede vacanteantonello tamborra

La scelta di Benedetto XVI di lasciare il proprio ufficio papale, si dice abbia messo in “crisi” la Chiesa stessa. C’è chi parla addirittura di fallimento della Chiesa.Va fatta chiarezza. Benedetto XVI, papa di spessore culturale e di grande forza morale, con i suoi documenti, le sue norme ed i suoi scritti, non avrebbe mai messo la Chiesa di Gesù Cristo in ginocchio. Piuttosto da vero profeta ha intuito sin dall’inizio del suo pontificato che l’uomo (non il solo “cattolico”), figlio di un apparente benessere, di lì a poco sarebbe entrato nella sua stessa trappola: quella del profitto e del libertinaggio. Aveva intuito che prima o poi la politica del relativismo e del materialismo avrebbe intaccato tutte le realtà umane, se in esse non fosse inserita l’etica sociale. Aveva, inoltre, previsto anche un forte rinnovo nella Chiesa stessa e “del bisogno di conversione che, anche chi è cristiano, deve “rinnovare” continuamente davanti a Dio”. Oggi siamo di fronte ad una scelta fatta da Benedetto XVI, mi verrebbe da dire non dall’uomo Josef Ratzinger, nuova, forte, figlia del tempo. Voler lasciare vacante quell’ufficio di Pontefice per rinuncia - anche la storia lo ricorda - non è poi così comune. Tuttavia il gesto andrebbe compreso, evitando giudizi troppo repentini. Per questo consiglierei una lettura più spirituale che “politica” della rinuncia del Pontefice, perché le scelte “politiche” restano immortali nella storia, mentre le scelte spirituali mirano all’eterno nell’interiorità dell’uomo.

Allora non chiediamoci il perché-storico di questa scelta, ma il perché l’uomo Ratzinger abbia scelto questa strada, sicuramente generatrice di un senso pedagogico per la Chiesa in cammino. Pertanto, come cristiani, dovremmo un po’ fare la stessa scelta, magari partendo prima dalla nostra storia personale per arrivare alla vita delle nostre comunità. Dovremmo fare verifica su chi siamo e domandarci se siamo in grado di lasciare la nostra persona “sede vacante” al fine di fare entrare Dio in noi. Noi cristiani siamo sempre pronti a dettare logiche risolutive di problemi sociali, cadendo spesso nel perbenismo di “facciata”. Siamo avvinghiati alle nostre cariche, ai nostri riti, alle nostre abitudini, alle nostre liturgie, al punto che li consideriamo inattaccabili e immodificabili. Abbiamo costruito tesori, idoli d’oro. A questo punto potrebbe intervenire Gesù di Nazaret che dice a ciascuno: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio». Questa è la genesi della stoltezza di ciascuno e del mondo intero che

vive per la conquista di “appezzamenti” di gloria sociale, collocando l’io davanti a Dio, a danno della vera spiritualità e del bene comune.E allora, Grazie Santità! La sede vacante, che coincide con il deserto della quaresima, sia un momento di riflessione più che di “totoscommesse” sul suo successore! Cogliamo il momento di vacanza per fare silenzio anche nel nostro cuore come singoli e come comunità. Stacchiamoci dalle nostre certezze e indirizziamo le nostre forze per il vero bene della persona e della comunità sociale. Rimoduliamo la nostra vera missione nella Chiesa, riprendiamoci il senso vero della nostra cristianità, comprendendo bene il senso spirituale del gesto di Benedetto XVI e ammettendo, non come sconfitta, ma come gesto di conversione, che forse dovremmo “rinunciare”alla nostra vita per il bene della Chiesa. Allora la nostra sede sarà vacante, ma noi saremo consapevoli che nel nostro nuovo “conclave interiore” la scelta del successore sarà davvero Dio.

3caro papa francesco, ti scrivo

carmela zaza

Caro Papa, da poche ore sei apparso alla loggia di piazza San Pietro; stiamo prendendo confidenza con il tuo volto e le tue fattezze e con il nome che ti sei scelto. Ma che tu sia Giovanni, Paolo, Bernardo, Giulio, Francesco, Benedetto, a me non importa. Per me tu sei Pietro.“Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”.Mi ritorna spesso in mente questo episodio del Vangelo: immagino Gesù e i Dodici raccolti intorno al fuoco a raccontarsi quello che era loro successo nei giorni passati, poi la professione di fede di Simone e la risposta di Gesù che lo investe di quella autorità di cui forse nessuno di loro aveva capito il senso e le conseguenze.Gesù scelse Pietro forse per la sua anzianità, per il suo coraggio o per la sua semplicità; ma forse anche (mi piace pensare) per la sua umanità, per la sua impulsività, per la sua lealtà, per la sua paura e il suo abbandono e poi anche per la sua corsa piena di gioia e speranza verso il sepolcro che le donne avevano trovato vuoto.Così Gesù sceglie Pietro ancora oggi. Così ha

scelto anche te, caro Pietro dei nostri giorni. Ti avrà scelto per il tuo valore e anche per la tua umiltà, per il tuo coraggio e i tuoi dubbi, per la tua umanità e anche per la tua forza.E così ti accettiamo anche noi, giovani e meno giovani, uomini di questo tempo così disperato ma anche pieno di speranze. Ti chiediamo, caro Papa Francesco, di essere soprattutto testimone della fede che condividiamo. Ti vogliamo sempre davanti a noi a ricordarci di pregare e di lottare per i più poveri, per i più sfortunati, per gli ultimi di questo mondo così difficile in cui ci troviamo a vivere. Ritrova in tutti noi i volti dei tuoi compatrioti che tante volte avrai accarezzato e incoraggiato nei momenti di difficoltà e miseria. La barca da manovrare ha molte falle, i pesci sono ancora tanti nel mare, i marinai a volte pochi e scoraggiati. Ma vogliamo che tu ci inciti sempre a non mollare, ci richiami al Vangelo, alla sua novità nonostante i suoi duemila anni di vita. Vogliamo, caro Papa Francesco, che tu sia in mezzo a noi, che tu sia con noi ogni giorno, mentre prendiamo il treno per andare a scuola o all’università o al lavoro, mentre

facciamo la spesa, quando sediamo a tavola con la famiglia, quando stiamo tra la gente, con gli amici o con i colleghi. Vogliamo un Pietro che getti le reti anche dopo tre giorni di magra, un Pietro che non si stanchi di predicare la pace, che non tema di bussare alle porte dei potenti del mondo per difendere chi non ha voce. Vogliamo un Pietro che sia accanto agli emarginati e ai deboli, che ci guidi e si confronti anche con noi. Vogliamo un Pietro che risponda ai nostri perché e si sforzi di capire le nostre esigenze, che ci aiuti e che ci chieda anche aiuto. Già da quel balcone hai chiesto la nostra preghiera per te, ci hai incitati a continuare il nostro cammino, ci hai invitati a cominciarlo con te e noi non aspettiamo altro. Caro Papa Francesco, siamo con te, siamo insieme su questa strada.

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Sonia ha 27 anni, è laureata in economia e commercio ma studia ancora per poter prendere la specializzazione. Fino all’estate scorsa secondo il classico sondaggio universitario alla voce studenti lavoratori si inseriva in quel gruppo di ragazzi che generalmente dedicano il 75% del loro tempo allo studio perche non occupati in altre attività. Lo studio, gli esami, le lezioni e tutto quello che l’avrebbe aiutata a raggiungere il prima possibile la meta erano, in effetti, la sua priorità e, per tanto, l’assordante ansia per la ricerca di un lavoro non la toccava minimamente. Come è possibile rifiutare l’occasione che

mamma call centermaria teresa giancaspro

le si è presentata?? 4 ore di lavoro al giorno , sabato e domenica liberi, uno stipendio sufficiente per un giovane e tutto quello che bisogna fare é stare seduti e chiamare!!!Cosi quella che sarebbe stata un’estate calda e monotona per Sonia è diventata l’inizio di una nuova esperienza che continua ancora oggi! Perciò: Sonia ha 27 anni laureata in economia e commercio studia per la specializzazione e lavora presso il call- center. Nello stesso call-center si ritrova a lavorare , proprio nella postazione accanto, Luigi. Lui però non sta studiando e non è laureato e diciamo che non è solo “la matematica che non sarà mai il suo mestiere”. E’ un ragazzo di vent’anni che dopo

essersi diplomato ha provato a cercare lavoro nell’ambito dove più è portato ma la risposta che gli veniva data era sempre la stessa, … ma invece di farsi prendere dallo sconforto e di aspettare qualcosa che non sarebbe mai arrivato ha deciso di “rimboccarsi le maniche “ e crearsi da sé il suo futuro … e così eccolo, anche lui, lì dietro quella scrivania tra tanta altra gente, tanto indaffarato a chiamare, chiamare e richiamare con lo scopo di far accettare più contratti possibili! A Luigi tuttavia non interessa fare carriera perché sa che quello non è il lavoro che farà per tutta la vita, ma di sicuro non si può dire la stessa cosa di mamma Sara…. To be continued

crayongaetano ciccolella

L’inserto è curato da : Nico Tempesta;

Caterina Aruta, Silvia Ayroldi, Mauro Capurso, Gaetano Ciccolella, Mariella Cuocci, Gian Paolo de Pinto, Antonella de Virgilio, Sante Drago, Teresa Giancaspro, Giuseppe Mancini, Annarita Marrano, Fedele Marrano, Francesca Messere, Manlio Minervini, Maria Teresa Mirante, Maurizia Mongelli, Maria Carla Pisani, Maria Nicola Stragapede, Antonio Tamborra, Giusy Tatulli, Angelantonio Tavella, Carmela Zaza.

Grafica: Gian Paolo de Pinto | Webmaster: Valentina de Leonardis.

Collaboratrice allestimento: Milena Soriano

LUCEeVITA GIOVANIleggi e commenta su www.lucevitagiovani.it

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profumo di mimosamaria carla pisani

Nell’aria si sente profumo di Primavera! Ma prima della data che simboleggia la rinascita della natura non si può tralasciare l’appuntamento che ricorda a tutte le donne di dover essere orgogliose di ciò che sono: l’8 marzo, festa della donna. Una tradizione tutta italiana è quella di regalare un rametto di mimosa alla propria donna, madre, moglie, figlia o amica che sia. Ma come ha fatto la mimosa, umile fiore, a vincere il confronto con la dolcezza di una scatola di cioccolatini o con la raffinatezza di altri fiori? Certamente la scelta sarà stata influenzata dal periodo in cui la festa cade, momento di maggior fioritura e bellezza del fiore. Ma un altro motivo lo si potrebbe ritrovare nel fatto che la mimosa rappresenta l’indole del sesso femminile più di quanto possiamo immaginare.La mimosa è il fiore che per primo spunta nel freddo invernale, forte, temerario; svegliata dal lungo letargo in anticipo, si staglia come una macchia gialla tra gli alberi spogli. É il primo fiore che sfida le intemperie per annunciare al mondo che la primavera è vicina. La stessa forza è presente nelle donne, pronte a mettersi in gioco, combattere per i loro sogni, pronte a sacrificarsi per le persone che amano. Le donne non esitano a donare loro stesse per amore: come amiche sanno ascoltare e consigliare, come lavoratrici si

impegnano con fatica negli incarichi che vengono loro affidati, come mogli e fidanzate vivono intensamente la loro relazione, come madri accudiscono e proteggono il loro bambino, tenendolo vicino al petto in un abbraccio infinito che da fanciullo lo aiuterà a crescere e diventare uomo. . Il sorriso della donna è come il giallo della mimosa che dà gioia, vitalità soprattutto in quei pomeriggi di febbraio in cui anche i timidi raggi di sole non riescono a vincere i nuvoloni carichi di pioggia. E come la mimosa non può fare a meno di sprigionare il suo profumo e ad invadere le strade della città, anche la donna non può fare a meno di donare, consapevole che non sempre riceverà in cambio un gesto di gratitudine.Una grande abilità della donna non è solo quella di svolgere mille lavori nello stesso momento ma anche quella di saper fronteggiare tutte le situazioni che le si presentano, di essere, potremmo dire, “multitasking”. I grappoli d’oro della mimosa non rappresentano solamente questa sua versatilità, ma essi possono essere visti come gli innumerevoli aspetti dell’animo e della mente femminile: simile ad un intricato gioco matematico, in cui sogni, speranze, paure, desideri si affollano, si mescolano e cadono

alcune volte anche in contraddizione, la mente della donna risulta incomprensibile al genere maschile, che, scoraggiato, desiste dal tentativo di comprenderla, e talvolta confusa anche alle donne stesse.Ma la mimosa per quanto forte è pur sempre un fiore che può essere spezzato da una folata di vento o da un gesto poco attento. La sensibilità femminile fa sì che anche una parola detta distrattamente o per rabbia venga percepita più intensamente. L’8 marzo commemora un episodio che manifesta contemporaneamente la forza e la fragilità di un gruppo di operaie dell’industria Cotton, intrappolate nella loro fabbrica e arse vive a causa di un incendio dilagato all’interno perché “colpevoli” di aver osato scioperare contro lo sfruttamento di un datore di lavoro appartenente ad una società ancora fortemente maschilista.Perciò l’8 marzo regaliamo a tutte le donne che conosciamo una mimosa accompagnata non da uno sterile “auguri” ma da un caloroso e sentito “Grazie!”; dimostreremo così la nostra gratitudine nei loro confronti e restituiremo quella parte di loro stesse che ci hanno donato e che, da piccola gemma, si è trasformato in uno splendido fiore.

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Cosi, immagino, si sentì don Tonino Bello quando apprese della sua nomina a Vescovo della nostra diocesi. Come un pittore. A vent’anni dalla sua prematura scomparsa, le nuove combinazioni di “colori” e le originali “tecniche pittoriche” che hanno intriso la realtà di allora, lo fanno ancora. Come un pittore.Un pittore è attento a rispettare il volere di “Chi” gli ha commissionato l’opera; cerca di interpretare, attraverso la sua maestria e la sua più folle intuizione, il messaggio finale che la sua opera deve mostrare a chi attende l’apertura della mostra. Numerosi sono stati i tentativi per raggiungere quell’unico capolavoro da esporre, da tramandare, da affidare.

come un pittoreCome un pittore, ha voluto creare un colore ad hoc per raffigurare l’insicurezza, l’umiltà, il servizio, l’impegno, il sacrificio e in ultimo la sofferenza. Un colore che odora di cose semplici come “il pane”, come il mare del Salento, come le goccioline d’acqua di un “arcobaleno”. Ha dovuto lavorare sulle sue “bozze” perfezionandole in modo maniacale, con indosso quel caro “grembiule”, per trasformare vecchie ciabatte in calzari di arcangeli e vecchi stracci da cucina in tovaglie d’altare. Aveva bene in mente che più che i “segni del potere”, l’opera rappresentasse “il potere dei segni”.Questa è la mia visione dell’opera Omnia di don Tonino. Opera che è stata oggetto

di studio di un’equipe diocesana, che ha voluto rappresentarne la vera essenza attraverso un’azione scenica dal titolo “Una Croce con le Ali”, da inserire nell’ambito delle iniziative di commemorazione del ventennale della morte di don Tonino previste per i giorni 19, 20 e 21 aprile 2013. Fino ad ora tanto si era “detto” e poco si era “visto/sentito”. Questa è l’occasione.Come un pittore. Solo chi ha la capacità di intravedere già sulla tela bianca i colori, può immaginare di dipingere, partendo da un “mare di piombo”, opaco, un “tramonto luminoso” … luminoso così.

giuseppe mancini

UNA CROCE CON LE ALI

DON TONINO BELLO: IL SEGNO E LA PROFEZIA

Azione drammaturgica in dieci quadri

21 APRILE 2013

di compiacere qualcuno. Ricordo le serate trascorse in discoteca con i tacchi a spillo e il vestito elegante, accettate per il semplice desiderio di sentirmi parte di un gruppo. Penso ai pettegolezzi assecondati e ai successivi sensi di colpa: esprimere un giudizio su qualcuno che non conoscevo era per me la più noiosa perdita di tempo, ma mi lasciavo trasportare dalla volontà di risultare simpatica e mettevo da parte ogni mio interesse a parlare di altro. Rivedo me nelle prime cene a Nord e ricordo la mia insicurezza, il mio continuo controllarmi per paura di rivelarmi per quella che sono e di non piacere. Probabilmente il nostro effetto placebo “sociale” deriva da un insicurezza di fondo, da un non piacersi, dal timore di scoprire di essere imperfetti e di accettarsi così come si è. Il nostro desiderio di compiacere qualcuno scaturisce dalla nostra paura di andare controcorrente. Ci vuole più coraggio a cambiare direzione piuttosto che a seguire la via più semplice, quella consumata e arata da qualcun altro. E’ più facile cedere alle pressioni della società piuttosto che cercare di cambiarla. Impegniamo più tempo a cercare di piacere agli altri senza cercare di conoscere realmente noi stessi: lasciamo che essi costruiscano le nostre opportunità, le nostre coincidenze, la nostra vita. Guardo il mio riflesso sul finestrino dell’autobus: ho i capelli spettinati, il trucco sbavato e sono fradicia per la pioggia. Io sono questa! Che mi piaccia o no!

7è SOLO UN CANEsilvia ayroldi

EFFETTO PLACEBOannarita marrano

Ogni volta che acquisto il mio giornale preferito il primo articolo che leggo è quello della sezione “Scienze”. Probabilmente per deformazione professionale sono subito portata a scoprire le novità nell’ambito scientifico, nonostante spesso mi ritrovi di fronte a tante incongruenze che di sperimentale e veritiero hanno ben poco. La scorsa settimana mi sono imbattuta in un articolo interessante relativo al famoso “effetto placebo”, ossia una serie di reazioni dell’organismo ad una terapia non derivanti dai principi attivi della medesima, bensì dalle attese dell’individuo. In altre parole, l’effetto placebo è una conseguenza del fatto che il paziente si aspetta o crede che la terapia funzioni, indipendentemente dalla sua efficacia “specifica”. È stato interessante lo studio di un medico statunitense il quale ha dimostrato come le cure e le attenzioni di un medico, oltre alle sue gentilezza e disponibilità, possono influenzare enormemente la sensazione di benessere di un paziente. Placebo deriva dal latino e tradotto letteralmente significa “io piacerò”. Pertanto, l’effetto placebo può essere visto come la volontà del paziente di “compiacere” il proprio medico, o semplicemente se stesso. Aldilà delle basi scientifiche della ricerca, ciò che più ha attratto la mia attenzione è stato proprio il significato latino della parola placebo. Mi sono chiesta quante volte siamo vittime dell’effetto placebo legato alle realtà contingenti, quante volte abbiamo pensato, agito, valutato con lo scopo

“E’ solo un cane!”.Questa frase rimbomba nella mia testa come un eco. Quante volte l’ho sentita dalle persone che non sanno cosa un cane ha da offrire..e ad ognuna di quelle ho sempre risposto che qualsiasi animale, ma soprattutto i cani, hanno la capacità di amare in senso assoluto. In qualsiasi momento sono lì, e quando sei triste vengono a consolarti portandoti giochi, quando sei felice gioiscono con te, quando vogliono farti capire che gli sei mancato, perchè lo hai lasciato solo a casa, combinano disastri. E’ fantastico come, pur non avendo la parola come mezzo di comunicazione riescano ad instaurare con le persone dei legami così forti.E quando passi la vita intera con un cane, perchè i tuoi lo hanno adottato che eri solo una bambina, quell’animale smette di essere “solo un cane” e diventa tuo fratello, tuo amico, tuo difensore.

Purtroppo però, i cani non hanno la lunghezza di vita dell’uomo, così mi sono ritrovata un giorno a vederlo soffrire del male moderno, e la sofferenza è la stessa..uomo o cane..e a dover prendere una scelta: praticare la soppressione o lasciarlo soffrire?La soppressione non è altro che un sinonimo dell’eutanasia, e vi assicuro che fa male allo stesso modo.Non potevamo più vederlo così sofferente, non mangiava più, non riusciva ad abbaiare, rischiava una emorragia, così abbiamo preso la decisione di alleviare le sue pene, pensando che se avesse potuto parlare lo avrebbe chiesto lui stesso.Quando prendi una decisione così, sei consapevole che soffrirai, che conoscerai da giorni prima ora e data in cui te lo porteranno via, ma credi di poterlo affrontare.Nell’attimo in cui tutto finisce, invece, tutto ha inizio..i sensi di colpa perchè lui si fidava

di te e ti senti di averlo tradito, il dolore del sapere di aver preso in mano il destino di un’altro..il vortice del dolore ti dilania l’anima ma tu non potevi esserne consapevole.Sono sempre stata concorde con l’eutanasia perchè credevo fosse sintomatica di libero arbitrio, e forse nei casi in cui è espressamente richiesta lo sarebbe, ma dopo questa esperienza se mi chiedessero di votare pro eutanasia il mio voto sarebbe NO. NO perchè il dolore del pensiero non è lo stesso del dolore fisico che proverai, NO perchè da una decisione così non si torna indietro e il tormento lo prova chi rimane ogni giorno, NO perchè forse è giusto che solo Dio decida quando il cuore deve cessare di battere perchè forse è l’unico a poter sopportare il dolore di questa decisione.Ma “in fondo era solo un cane...”. Ciao Black.

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Nel romanzo di Tolstoj c’è tutta l’umanità. Anna che si perde irrimediabilmente, inseguendo una felicità che si rivelerà un’effimera illusione perché non c’è pace per chi vive fuori dalle regole, non

ANNA KARENINAc’è rispetto per chi infrange i vincoli della società, non c’è comprensione per chi ha scelto di macchiarsi di una colpa che non si può dimenticare. Vrònskij, sfacciato e perfetto nella sua vita piena di feste, corse, balli in società: un’esistenza desiderabile quanto claustrofobica una volta che la si raggiunge perché è facile rendersi conto che una vita degna di essere vissuta necessita di uno scopo e la sua ne è del tutto priva. E poi c’è Levin, la semplicità e l’umiltà di chi sa aspettare, di chi rispetta le regole. Levin che, come tutti noi, si interroga sul senso di un’esistenza che deve necessariamente avere un fine, Levin che va alla ricerca di una morale che scoprirà avere già dentro di sé, impressa nella propria anima, forte e incancellabile, guida ai suoi passi giusti anche se incerti. È lui il vero vincitore di una storia che si snoda tra il palco scenico e le quinte di un antico teatro, l’ambientazione scelta dal regista Joe Wright che si è cimentato nel rifacimento cinematografico del romanzo russo più celebre di tutti i tempi. Ma mentre la storia di Anna, come una tragedia d’altri tempi, si snoda tutta all’interno del vecchio teatro a

rappresentare come la sua vita non sia che una menzogna che tutti tacciono, il copione di un attore ormai stanco di recitare, la vita di Levin prende corpo altrove, negli spazi sterminati delle sue campagne, in scenari reali come reale è la sua felicità, vera perché guadagnata percorrendo la via della giustizia e dell’onesta, rispettando le regole sociali e quelle dettate dal proprio animo buono. Se tutti noi abbiamo amato il personaggio di Anna perché ha avuto il coraggio di infrangere le convenzioni in nome del suo sentimento sincero, se tutti noi abbiamo compatito la sua solitudine quando ormai macchiata dalla colpa, una società gretta quanto ipocrita l’ha messa al bando, è ad essere come Levin che dovremmo aspirare, non scendendo a compromessi con noi stessi per ottenere ciò che vogliamo, non cercando scorciatoie morali. Alla fine risulterà chiaro anche a noi che l’esistenza di Dio è nelle piccole cose, una famiglia, un figlio che cresce, il sole che tramonta sui campi di grano. Che sia questa la felicità? Può essere. Ma non riusciamo a non sentirci così simili ad Anna nella sua triste e vera umanità.

maria teresa mirante

La prima volta che mi sono trovata di fronte a un foglio di carta ad affrontare il tema dell’amicizia, con tutta probabilità, frequentavo la scuola media. Non so ben spiegare, ma ho come l’impressione che a quell’età avessi un’altra idea di che cosa fosse questo legame che ci unisce ad altre persone, a volte per brevi tratti della vita, altre volte per percorsi molto più lunghi. Non posso certo affermare che ci sia un’età, cosiddetta “giusta” per essere o avere amici, ma sono sicura che si instaurino relazioni differenti, commisurate certamente con il tempo anagrafico ma, sopratutto collegate ai nuovi scenari che si profilano nel nostro cammino. A tredici anni forse il nostro migliore amico potrebbe essere quello con cui abbiamo per la prima volta infranto le regole ritirandoci più tardi la sera, o condividendo la prima sigaretta o scambiandoci le confidenze su come fosse stato il primo bacio. E’ passato un bel po’ di tempo per me, se si considera come adesso avvenga più velocemente il ricambio generazionale e, per tale ragione, con ogni probabilità, i ricordi della mia adolescenza forse potrebbero addirittura coincidere con quelli

AmIcI A quEst’Etá

dell’infanzia dei più giovani tra voi. Ma la mia riflessione è piuttosto orientata al mio adesso, al mio essere qui a metà strada tra il “bel mezzo del cammin di nostra vita” e la soglia dei trent’anni, a come molto sia cambiato anche solo rispetto a qualche mese fa. Per quelli tra di noi che hanno avuto la “fortuna” di continuare a studiare, hanno potuto arricchire il proprio bagaglio di affetti aggiungendo via via agli amici storici, quelli di comitiva, del liceo, e persino dell’università. Si condividono le ansie degli esami, del ragazzo che ti ha lasciata, o dei viaggi con cui scoprire il mondo e, anche se non sempre si ride, si tratta di amicizie sane. Poi si arriva alle porte del mondo del lavoro e qualcosa si incrina, le scelte si fanno più difficili, la paura della disoccupazione incombe e i punti di vista cominciano a cambiare. Gli altri pensano di sapere sempre cosa sia giusto fare, solo che ora alle volte il “giudizio” altrui può farsi pesante. Si cominciano a segnare alcune perdite tra le fila della schiera di amici. E’ doloroso, persino inspiegabile, sembra quasi che sia un passaggio obbligato per passare alla vita adulta; è come se e s s e r e “grandi”

significhi non avere amici, ma solo colleghi e conoscenti. Eppure voglio credere che ci saranno sempre quelli che capiranno le tue decisioni, ti appoggeranno o ti esorteranno a riflettere. Amici miei, restiamo amici!

francesca messere