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Pietro Rinaldi ha ottant’anni e vuole essere lasciato in pace. Ormai è convinto che

la sua vita sia arrivata al capolinea e, mentre mangia penne all’arrabbiata, riflette

su quanto i libri siano meglio delle persone. Se già fatica a sopportare se stesso,

figuriamoci gli altri! Non ha proprio intenzione di avere a che fare con l’umanità…

fino a quando, un giorno, nel suo mondo irrompe Diego, il nipotino quindicenne.

Lui ha l’entusiasmo degli adolescenti e la forza di chi non si lascia abbattere dagli

eventi, neanche da quelli più terribili, e non ha paura di zittire i malumori del

nonno. Da Genova partono in direzione di Roma, a bordo di una Citroën DS Pallas

decapottabile su cui sembra di volare. Sul sedile posteriore c’è Sid, l’enorme

incrocio tra un San Bernardo e un Terranova – vera e propria calamità. Ed è così

che un viaggio di sola andata si trasforma in un’avventura on the road, piena di

deviazioni e ripensamenti, vecchi amori e nuove gioie. Perché è proprio quando

credi di aver visto tutto che scopri quanto la vita riesca ancora a sorprenderti.

L’ultima settimana di settembre è il racconto esilarante e commovente del viaggio

di un nonno e un nipote alla ricerca di se stessi. È una storia che, senza giri di

parole, scava nei sentimenti più profondi e ci porta di fronte alle emozioni più

vere, quelle che richiedono una buona dose di coraggio per essere affrontate ma

rimangono impresse indelebili dentro di noi.

LORENZO LICALZI è nato a Genova e vive a Pieve Ligure. Di formazione psicologo,

ha esordito con il romanzo Io no, da cui è stato tratto il film di Simona Izzo e Ricky

Tognazzi. Successivamente ha pubblicato Non so, Il privilegio di essere un

guru (Premio Selezione Bancarella 2005), Che cosa ti aspetti da me, Vorrei che

fosse lei, 7 uomini d’oro (Premio Selezione Bancarella 2009), La vita che

volevo e Un lungo fortissimo abbraccio.

Il suo sito è www.lorenzolicalzi.it.

Lorenzo Licalzi

L’ultima settimana di settembre

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Proprietà letteraria riservata

© 2015 RCS Libri S.p.A., Milano

eISBN 978-88-58-68231-9

Prima edizione digitale 2015 da edizione agosto 2015

In copertina: fotografia © Alix Martinez

Art Director: Francesca Leoneschi

Graphic Designer: Laura Dal Maso / theWorldofDOT

www.rizzoli.eu

Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

L’ultima settimana di settembre

A Camilla e Tomaso

E quando tutto andava a catafascio,

nessuno ci faceva tanto caso.

Talking Heads

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Il 22 settembre 2008, giorno del mio ottantesimo compleanno, intorno alle

sette di sera, scrivevo la lettera che annunciava il mio suicidio. Non la classica

lettera d’addio melodrammatica, infarcita di “mi dispiace”, richieste di perdono o

piagnistei di autocommiserazione, ma piuttosto un gioco, un regalo che facevo

prima di tutto a me stesso (ammetto che a scriverla mi sono divertito), e in

seconda battuta ai miei vecchi lettori, ammesso che venisse pubblicata da

qualche parte. Vecchi lettori non solo perché erano secoli che non pubblicavo, ma

anche perché, inevitabilmente, erano invecchiati con me. Diciamo che quella

lettera poteva considerarsi l’ultima fatica letteraria di Pietro Rinaldi, scrittore

(Milano 1928 – Genova 2008). E aggiungerei scrittore di un certo successo,

almeno fino al definitivo ritiro avvenuto, già in pieno declino, nel 1990, con la

pubblicazione del romanzo: Andate tutti affanculo. Lettori compresi quindi, come

avevo spiegato in modo esaustivo nel celebre capitolo finale Tutti quelli che mi

stanno sul cazzo, di cui i lettori, o meglio, certi tipi di lettori, erano nondimeno

soltanto una goccia nell’oceano mare composto da tutti coloro a cui avevo

dedicato il capitolo. Un flop.

Il titolo lo imposi io, l’editore non voleva, insistette fino allo sfinimento per

farmelo cambiare, ma fui irremovibile, anche se, col senno di poi, forse non aveva

tutti i torti. Cedetti solo per la copertina, sulla quale avrei voluto una foto o un

disegno di una mano con il dito medio alzato. Per avere garanzia di riuscita nel

flop (era il mio desiderio, neppure tanto inconscio, così mi avrebbe offerto la

scusa per l’addio alle armi e nessuno mi avrebbe più chiesto di riabbracciarle)

avevo fatto inserire nel contratto due interessanti postille: che non ci sarebbe

stata nessuna promozione al libro che comportasse la mia presenza e che non

avrei partecipato ad alcun premio letterario (del resto, con un titolo così,

difficilmente avrei vinto lo Strega). Inoltre, misi bene in chiaro che non avevo la

benché minima intenzione di sottopormi alla solita manfrina delle copie firmate e

inviate ai critici letterari, alcuni dei quali, tra l’altro, erano citati con tanto di nome

e cognome nella classifica del suddetto celebre capitolo. Come logica

conseguenza, non uscirono molte recensioni, e quelle che uscirono furono

micidiali stroncature. Naturalmente, giusto per restare in tema, nel celeberrimo

capitolo finale erano citati anche gli scrittori, intesi vuoi come categoria dello

spirito vuoi, in qualche caso, come singole individualità. Avevo acconsentito

invece a che la casa editrice facesse pubblicità sui vari quotidiani, ma purtroppo,

mi dissero dopo, nessun giornale accettò. Del resto, che «Repubblica» o il

«Corriere della Sera», nel 1990, se ne uscissero in prima pagina con una finestra

pubblicitaria dove era scritto “Andate tutti affanculo” era piuttosto improbabile.

Ecco la lettera.

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Domani per me sarà l’ultimo giorno di vita: mi suicido. Non sono depresso,

semplicemente mi sono stancato di vivere. Se ancora non mi sono deciso è per

svariati e insignificanti motivi, uno dei quali, forse il più importante, è la pigrizia di

organizzare il gesto, ma anche perché, non sia mai, non vorrei affrontare la fatica

di rinascere. Troverei disdicevole l’idea di dover ricominciare tutto da capo. Non

vorrei ritrovarmi un’altra volta a piangere perché mi è caduto il sonaglino. O a non

essere preparato in matematica sapendo che mi interrogano il giorno dopo. O a

struggermi nelle pene d’amore perché la mia fidanzatina mi ha lasciato e poi,

dopo due anni, non ricordare neppure più il suo nome. Comunque alla fine

vorrebbe dire sopportare il peso della vita per chissà quante volte e non me la

sento, non sono pronto. Riesco a malapena a sopportarlo essendo me stesso,

figuriamoci se dovessi addirittura reincarnarmi in un tizio che ancora deve

nascere e che non conosco nemmeno, e che dovrebbe completare quello che ho

lasciato in sospeso. Per esempio, io ho paura di volare, e allora probabilmente, se

inseguirò con impegno il mio karma, in occasione della prossima rinascita vivrò

una vita dove magari sarò un pilota di jumbo. Chissenefrega, non voglio fare il

pilota di jumbo, né di qualsiasi altro mezzo che volerà nel futuro. E poi rinascere

vuol dire invecchiare di nuovo e morire ancora. No, grazie. Io voglio invecchiare e

morire una volta sola, e con la paura di volare. Morire e poi sparire, per sempre.

Certo, è possibile che si nasca una volta sola, e che ci aspetti l’eternità. Se fosse

così, suicidandomi, l’Inferno non me lo toglierebbe nessuno. Essendo la vita un

Suo dono, pare che Dio sia spietato con chi lo rifiuta e ti spedisca dritto

all’Inferno. Questo dicono di Lui. Permalosetto. Non è possibile. Dio non può

essere permaloso. Però non è detto, del resto, se ha organizzato questa

gigantesca scenografia, ha indubbiamente talento, ma allo stesso tempo si può

tranquillamente escludere che sia un tipo normale, uno di cui ti aspetti quello che

fa, come minimo vuol stupire e puntare all’Oscar. Se invece ragiona secondo i

canoni classici del cristianesimo, è un problema. Metti che uno, non io, uno a

caso, si suicidi e dopo un secondo si ritrovi davanti a Dio che gli dice: «Vai

all’Inferno», non sarebbe una bella notizia. Immagino il dialogo:

«Ma come all’Inferno?».

«Te l’avevo detto, lo sapevi, uomo avvisato mezzo salvato, lo sapevi fin dai

tempi del catechismo.»

«Ma dài, Dio, non è possibile.»

«Possibilissimo invece, sai quanti ne ho visti, soprattutto di sinistra… arrivano

qui e si stupiscono. Io ti ho donato la vita e tu te la sei tolta, ora vai all’Inferno.»

«Ma no, ti prego…»

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«Adesso mi preghi! Troppo tardi.»

«Ok, ragioniamo… Mi sono tolto la vita, va bene, ma a parte questo non mi pare

di essere stato un gran peccatore.»

«A parte questo? Ti sei suicidato, ti sembra poco?»

«Ho capito che mi sono suicidato, però… Scusa eh, toglimi una curiosità, ma

Pippo Pardieri che fine ha fatto?»

Dio ci pensa un attimo e poi dice: «Paradiso».

«Paradisoooo? Come è possibile! Ma se ne ha combinate di tutti i colori…

tangenti, collusioni in odore di mafia, truffe alla povera gente e poi, non so se lo

sai, ma s’è anche scopato mia moglie…»

«Lo so, ovvio che lo so! Ma sul letto di morte si è pentito.»

«Eh sì, va bene, sul letto di morte si sarà anche pentito, ma nel mio no, e poi

scusa, di cosa si sarebbe pentito, di essersi scopato mia moglie?»

«Anche, il suo è stato un pentimento generale.»

«E vabbe’, ma allora vaffanculo, uno fa quel cazzo che gli pare e poi si pente…»

«Ehi! Calma eh, modera i termini…»

«E perché, se no cosa mi fai? Più che all’Inferno dove mi devi mandare?»

«C’è Inferno e Inferno.»

«Ma no, figurati… Dài, Dio, mi vuoi dire che ci sono i gironi come nella Divina

Commedia?»

«No, Dante è un bluff, s’è inventato tutto, infatti l’ho sbattuto all’Inferno.»

«Hai sbattuto Dante all’Inferno perché ha scritto la Divina Commedia?»

«La Commedia non c’entra. Ci sono cose che non sai, questioni con Beatrice, e

comunque noi siamo gli autori della Bibbia se permetti, e vendiamo molto di più

di Dante, tra l’altro.»

«Noi chi? Plurale maiestatis?»

«No, ho detto “noi” perché l’abbiamo scritta a tre mani.»

«A tre mani?»

«Certo, mai sentito parlare di Santissima Trinità?»

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«Ma dài… Dio… Hai scritto la Bibbia con Gesù e lo Spirito Santo? Non ci posso

credere… l’Inferno… ma allora c’è anche Lucifero, le fiamme e tutte queste

stronzate?»

«Chiamale stronzate.»

Magari senza le fiamme e Lucifero… basterebbe la Noia, o la Solitudine:

l’Inferno potrebbe essere annoiarsi per l’eternità, da soli. Mille volte peggio di

qualsiasi altra pena dantesca. Strano che il Sommo Poeta non ci abbia pensato,

ma forse perché aveva troppa fantasia e per un castigo come questo ne occorre

poca, di fantasia. Eppure immaginatevi un uomo solo, in una landa desolata, che

non può andare da nessuna parte perché tutte le parti sono uguali, anzi sono la

stessa, che non prova né fame né sete, né freddo né caldo, soltanto una immensa

infinita Noia; non sarebbe mille volte peggio che sguazzare in fiumi di sangue o

essere immersi nel fango puzzolente o inseguito da cagne feroci o scarnificato

dalle arpie? Certo, spingere avanti e indietro massi giganteschi anche oltre il

normale orario di lavoro, ad esempio, deve essere terribilmente faticoso, ma io,

piuttosto che un’eterna e annoiata solitudine, scelgo di spingere per sempre. E in

quel cerchio, il decimo, il più terribile di tutti, ci sbatterei gli uomini che si sono

macchiati delle colpe più gravi, o che almeno io considero tali: la meschinità e

l’ipocrisia.

Ma se anche l’Inferno esistesse, nessuno ti ci dovrebbe mandare perché hai

avuto le palle di ucciderti, o perché non le hai per vivere, soprattutto se la vita l’ha

creata lui. Non avrebbe senso, invece di scusarsi ti sbatte all’Inferno? Quindi

posso suicidarmi tranquillo. E poi l’Inferno è già qui, quale mente potrebbe essere

così diabolica da concepirne uno peggiore? Eppure la maggior parte delle persone

è convinta che la vita sia bella. Lo dice perlomeno, lo sente dire e lo ripete. Si fa

condizionare dal pensiero comune, finché non ci sbatte la testa contro, alla vita. Il

tramonto, la meraviglia della natura, le emozioni… Tutte scemenze buone solo

per poesie di basso livello. Quando la vita ti tocca duro, ed è la regola, non

l’eccezione, te ne fotti della meraviglia della natura. Certo, ci sarebbe l’amore. Un

inganno. È proprio l’amore a fotterti. Se vivi perdi le persone che ami, se muori

loro perdono te. La vita è crudele, l’unica fortuna che hai è quella di accorgertene

tardi e così, se proprio non sei un imbecille, riesci ogni tanto a essere felice. C’è

chi se ne accorge subito, in realtà, basta nascere nel posto sbagliato o nel corpo

sbagliato, difettoso, per dire. Tutti gli altri se ne accorgono da vecchi.

Mi suicido domani, perché poi non c’è più tempo. In realtà ci sarebbe, potrei

uccidermi anche tra un mese, o tra due. Ma sapete quanti ne ho visti? Alla mia

età, voglio dire. Li incontri per strada che stanno bene, per come si possa stare

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bene a ottant’anni ovviamente, ma camminano, trotterellano con il loro bel

sacchetto della spesa o tengono al guinzaglio un mostruoso cagnolino o per mano

la loro mostruosa mogliettina e se gli chiedi: «Come va?» ti rispondono: «Non c’è

male, ringraziando Iddio». Ma Dio, che se ne fotte dei loro ringraziamenti, lascia

che un mese dopo si rompano un femore e due mesi dopo siano dei paralitici su

una sedia a rotelle, col catetere o il pannolone, alla mercé di una badante dell’Est

(o della loro mogliettina, che è peggio). E allora provaci a suicidarti, che tra l’altro

ne avresti ben donde, provaci se ci riesci. Non voglio correre questo rischio. E poi

mi suicido domani mattina perché, già che ci sono, voglio vivere fino a ottant’anni,

e però non mi va di suicidarmi proprio il giorno del mio compleanno. Questi che si

suicidano durante le feste o il giorno del loro compleanno non li sopporto,

toccano i vertici assoluti dell’autocommiserazione, che tra tutti i difetti degli

uomini è quello che trovo più indegno. Anzi, per evitare che, giorno più giorno

meno, qualcuno potesse pensarlo, avrei aspettato ancora una settimana, anche

due, ma ieri mi ha telefonato mia figlia per invitarmi a pranzo e festeggiarmi. Non

potevo dirle di no, ci tiene, e poi mi ha detto che, per l’occasione, vuole fare i

ravioli. Gustarmi un buon piatto di ravioli, e mia figlia devo ammettere che li fa

buonissimi, era un’idea stuzzicante che tuttavia comportava l’altra,

insopportabile, di dovermi sorbire per tutto il pranzo quel saputello di mio

genero, uno che spara sentenze in continuazione, per lo più frutto del

condizionamento mediatico, con l’aria di chi sta dicendo una novità, e tutto

questo almeno per due ore (quindi per più del tempo necessario per mangiare i

ravioli). Tutto ciò mi ha fatto decidere di anticipare la partenza, ma intanto la

bella figura di aver detto di sì a mia figlia ormai l’avevo fatta. Quindi all’ora di

pranzo sarò morto, conto di suicidarmi subito dopo colazione (prima vado al bar

sotto casa per l’ultimo cappuccino con l’ultima brioche alla crema della mia vita).

Mi dispiace solo non poter vedere la faccia di quel presuntuoso di mio genero

quando mi troverà (ma chissà, forse svolazzerò fuori dal corpo e la vedrò).

Immagino la scena. Roberta, non vedendomi arrivare, mi telefonerà a casa, visto

che l’ultimo cellulare l’ho buttato via già da tre anni. Essendo io in coma e vivendo

da solo (sono vedovo, mia moglie Sara è morta sette anni fa) non risponderà

nessuno, con ansia crescente aspetterà ancora un po’ e poi verso l’una inizierà a

preoccuparsi per davvero, e allora spedirà mio genero a vedere cosa è successo.

Mio genero, scocciatissimo e affamato (e io ci godo), si metterà in macchina e

verrà a casa mia. Suonerà, aprirà la porta con le chiavi di riserva, mi chiamerà due

o tre volte e poi finalmente mi troverà morto stecchito. Non credo che si

strapperà i capelli dal dolore, perché l’antipatia è reciproca, l’unico sottile

inconfessabile dispiacere che proverà sarà quello di dover rinunciare ai ravioli. Ma

sicuramente li mangerà la sera, dirà a Roberta affranta: «Cosa dici? Preparo

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qualcosa per Diego?» (mio nipote che non vedo mai). «Avrà fame poverino, è

tutto il giorno che non mangia, magari, visto che li hai fatti, metto l’acqua a bollire

e butto i ravioli…»

Certo, mi dispiace per Roberta, le procurerò un grande dolore, comunque tra

qualche tempo anche mia figlia se ne farà una ragione, e riderà di nuovo, magari

sentendo un comico in tv. In ogni caso il mio dolore di vivere è più grande di

quello che le darò uccidendomi, quindi scelgo di morire. Sono egoista. Come tutti,

del resto. L’egoismo vince su tutto, perde soltanto contro l’amore, l’unica forza in

grado di annichilirlo; ma di amore non ce n’è a sufficienza, mentre l’egoismo è

molto più diffuso e radicato in noi. È l’egoismo il motore del mondo, per questo

va avanti male; in ogni caso, se non ci fosse ci saremmo già estinti.

Ora il vero problema è come.

Scarto subito due modalità tra le più in voga: spararsi e la canna fissata al tubo

di scappamento della macchina con l’aspirante (in tutti i sensi) suicida chiuso

dentro.

Non mi sparo perché non ho una pistola, non saprei dove andare a comprarla

(non mi ci vedo, io, vecchio di ottant’anni, a girovagare per i vicoli di Genova,

chiedendo ai tipi meno raccomandabili se conoscono qualcuno in grado di

vendermi una pistola) e poi, ammesso che riesca a procurarmene una, non la so

caricare, scarrellare o cose del genere (l’eventualità che, inavvertitamente, mi

spari in un piede è altamente probabile). E infine non saprei neppure bene dove

spararmi, sono certo che per un tempo indefinito porterei la canna della pistola,

nell’indecisione più totale, alternativamente alla tempia, alla bocca e al cuore.

Tempia bocca cuore. Tempia bocca cuore. Tempia bocca cuore. Matematico che

all’una, quando suona mio genero, sarei con la pistola alla tempia, e poi suona di

nuovo, velocemente alla bocca, e poi suona ancora, al cuore, e poi apre con la

chiave e io infilo in fretta e furia la pistola in un cassetto e trillo: «Eccomi, scusa

non ti avevo sentito».

Scarto anche il suicidio con il gas di scarico per due motivi. Il primo: non

sopporto l’odore dello smog, mi fa tossire, forse sono allergico allo smog, non so.

Figuriamoci se dovessi suicidarmi nello smog, morirei di tosse. Come è morto?

Tossendo. Il secondo è che non voglio morire per mano della mia macchina, una

splendida Citroën DS21 Pallas decappottabile; che oltretutto tengo ferma in

garage dal 2001, quindi, ammesso che parta (ma credo di sì, ho staccato la

batteria), si potrebbe spegnere sul più bello, anche perché è in riserva da sette

anni.

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Quindi le alternative più o meno praticabili sono:

A) Gettarsi da un ponte (dalla finestra è escluso perché abito al primo piano, al

massimo potrei andare sul tetto di casa ma ho perso le chiavi della porta

d’accesso al terrazzo).

B) Impiccarsi a un albero o al soffitto.

C) Lasciare aperto il gas tutta la notte.

D) Annegamento in mare.

E) Pastiglie di sonniferi in numero spropositato per evitare il fallimento che in

questi casi è sempre in agguato.

F) Tagliarsi le vene.

G) Veleno per topi.

H) Varie ed eventuali, tipo buttarsi sotto macchine o treni, camminare in

autostrada di notte in mezzo alla carreggiata ecc.

Scarterei le alternative A e G (e H), forse le più facilmente praticabili, perché ho

ancora paura del dolore fisico. Non voglio sbattere sull’asfalto, suppongo che

l’impatto sia sgradevole. Ma la cosa più fastidiosa sarebbe l’istante prima

dell’impatto. Io voglio morire, e su questo non ci piove, ma voglio essere libero di

scegliere di non farlo, di cambiare idea magari all’ultimo momento. Non la

cambierei, intendiamoci, ma è una questione di principio, non mi va di rinunciare

come ultimo atto della mia vita alla cosa più preziosa che abbiamo: il libero

arbitrio. Cosa faccio, urlo: «Spostati asfalto»? Per quanto riguarda il veleno per

topi, invece, non mi va di contorcermi a causa di atroci spasmi addominali, anche

se in quel caso non ci sarebbe il problema del coraggio, perché se pure sono

decisissimo a farla finita, temo di non avere il fegato del gesto, non tanto del

gesto in sé, quanto di quello specifico di lanciarmi nel vuoto. Probabilmente finirei

per temporeggiare perdendo sempre l’attimo fuggente, con il rischio di vedermi

salvare da qualche angelo della strada, oppure, come minimo, di dover

sopportare tutti i suoi ridicoli tentativi di convincermi a non farlo, magari

puntando sulle banalità più sconcertanti, quelle classiche di chi ti vuole salvare

che, tra l’altro, sono in gran parte i motivi per cui mi suicido.

Ho scartato, almeno provvisoriamente, l’alternativa B perché non ho la più

pallida idea di come si esegua un nodo scorsoio, né potrei chiederlo a qualcuno,

magari a quel demente del portiere del mio palazzo. Sarà pure un demente, ma la

cosa lo potrebbe insospettire, e anche lui certamente mi vorrebbe salvare, e poi

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lo racconterebbe a tutto il vicinato. Inoltre, non potendomi impiccare al

lampadario, perché date le condizioni del soffitto e del lampadario verrebbero giù

entrambi, mi pare piuttosto squallida anche l’idea di impiccarmi a un albero. Non

mi ci vedo a penzolare da un ramo. La morte, come del resto la vita, esige una sua

dignità. Tra l’altro, per trovare un albero adatto all’impiccagione, robusto e

riservato (diciamo dignitoso), dovrei prendere l’autobus, e prendere l’autobus per

andare a suicidarmi è una cosa ancora più deprimente della stessa depressione

che ti porta al suicidio.

Anche l’alternativa C (gas) è pressoché impraticabile. Da un lato, è assodato che

morire a causa dell’ossido di carbonio che satura la stanza sia indolore, non si fa

altro che sentir dire: “Sono stati sorpresi nel sonno”, e per quanto non sia certo

una bella sorpresa, credo si possa escludere la sofferenza; dall’altro, c’è il rischio

strage. Certo, l’idea che mio genero, quando suona il campanello, esploda con

buona parte del palazzo, devo ammettere che mi solletica (tra le vittime inoltre,

visto che abito al primo piano, ci sarebbe anche il portiere). Però finirei

sicuramente sulle prime pagine dei giornali, e l’ultima cosa che voglio è dare

visibilità alla mia morte.

Depennerei anche l’ipotesi F (tagliarsi le vene) perché odio gli spargimenti di

sangue.

Scarto a malincuore l’ipotesi D (annegamento) perché è probabile che alla fine

possa prevalere l’istinto di sopravvivenza e dunque, essendo ancora un nuotatore

provetto, finirei per tornarmene a riva. Bagnato. Potrei aspettare una mareggiata

(ma adesso c’è bonaccia e quindi la faccenda andrebbe per le lunghe e domani mi

toccherebbe andare a pranzo da mia figlia), e comunque non è detto che non

riuscirei a cavarmela anche col mare forza otto. Inoltre, ho letto che per una

rapida e quasi indolore morte per annegamento, occorre che entri in gioco anche

il fattore assideramento. Siamo a fine settembre, fa ancora caldo; o vado a

suicidarmi in Norvegia, o tanto vale che tenti l’annegamento nella vasca da bagno

(cosa, tra l’altro, di una tristezza infinita), andando incontro a sicuro fallimento.

Naturalmente ci sarebbe l’opzione pietra al collo, ma mi sembra un’idea un po’

troppo scenografica. Anche difficile da realizzare. Dovrei prima di tutto trovare

una pietra di almeno dieci chili, e poi? Cosa faccio, me la porto sull’autobus fino

alla spiaggia? Oltre alla tristezza di andare a suicidarsi con l’autobus ci sarebbe la

fatica del trasporto. Andarci col taxi non ne parliamo. I tassisti sono

potenzialmente dei rompicoglioni, se gli dici dove vuoi andare e poi fai finta di

affaccendarti in qualcosa o rispondi a monosillabi alle loro eventuali domande o

considerazioni varie (traffico e tempi moderni sono le più gettonate) riesci a

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cavartela, viceversa sei fottuto. Ma se il passeggero è uno che entra in macchina

con un pietrone legato a una corda che si fa portare nei pressi di una spiaggia, può

star zitto finché vuole che è fottuto a priori. È vero, potrei andarci con la mia

meravigliosa Citroën cabrio detta volgarmente “lo Squalo” o, con molta più

eleganza, come la chiamavano i francesi, “la Dea”. Ma, come ho spiegato, sono in

riserva da una vita e andare a far benzina prima di morire mi sembra abbastanza

ridicolo.

«Cosa ha fatto prima di morire?»

«Benzina.»

E comunque, sono troppo affezionato a quella macchina. Non mi va di lasciarla

posteggiata fuori, sola e abbandonata per chissà quanto tempo, non si fa questo

sgarbo a una Dea. E neppure voglio che sia il mezzo con cui vado a morire, ha

sempre rappresentato gioia per me, e suicidarmi, per quanto sia il mio desiderio,

non è esattamente un atto gioioso. Ma detto tutto questo, in realtà ho sempre

saputo come morire: so benissimo che, almeno per me, il migliore dei modi per

farla finita è quello di prendere sonniferi in dosi massicce.Il problema è che da soli

non bastano, e così, dopo lunghe e tormentate ricerche, sono arrivato alla

definizione di un cocktail micidiale di farmaci, che nel tempo mi sono fatto

prescrivere dal mio medico curante accusando i disturbi più vari, e che, assunti in

contemporanea con gli psicofarmaci (e resi più efficaci dall’alcol) hanno effetti

fatali; inoltre mi ero procurato anche del cianuro di potassio, che avrei usato in

dose omeopatica (la miseria di 50 mg, contro i 250 che sarebbero la dose

necessaria per avere la garanzia del successo) giusto per darmi il colpo di grazia

ma senza fastidiosi effetti collaterali. Naturalmente la parte del leone l’avrebbero

fatta le benzodiazepine che, oltre alla loro ben nota pericolosità, mi avrebbero

traghettato nell’aldilà dormendo come un angioletto.

È tutto, non mi resta che salutare. Addio… con due D, spero.

P.S. Le mie ultime volontà:

Chiedo di essere cremato e che le mie ceneri vengano buttate nel cesso.

Bye bye mondo, venti anni fa l’ho solo scritto, ora ti ci mando davvero…

affanculo.

PIETRO RINALDI

2

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Ho finito di scrivere, rileggere e correggere minuziosamente la mia lettera

d’addio verso le otto di sera. Considerando che avevo programmato il mio suicidio

per le dieci di mattina avevo ancora ben quattordici ore da vivere, più l’agonia.

Come impiegarle? Ho acceso la tv, e ho fatto un po’ di zapping. Mi sono passati

davanti i volti dei cosiddetti personaggi televisivi, ho goduto molto sapendo che

non li avrei più rivisti, del resto, molti di loro rientravano a pieno titolo nella top

ten della classifica del celebre capitolo finale Tutti quelli che mi stanno sul cazzo,

categoria “Personaggi famosi”.

Breve digressione: il suddetto capitolo finale, in realtà un’appendice pseudo

saggistica al romanzo, è composto da quattro paragrafi: “Tipi psicologici”, nel

quale erano descritti i caratteri o gli atteggiamenti che il protagonista del

romanzo, tale Lorenzo Perfido, diventato spudoratamente il mio alter ego, non

sopportava.

Secondo paragrafo: “Quelli che”.

Terzo paragrafo: “Varie”, nel quale rientravano sottocategorie come “Mestieri”,

“Hobby” e “Sport amatoriali”.

Quarto paragrafo: “Persone”, suddiviso in due parti, “Famosi” e “Meno famosi”,

questi ultimi, personaggi di una certa famosità, ma probabilmente sconosciuti ai

più.

Ogni voce dei primi tre paragrafi era solitamente accompagnata da una

dettagliata descrizione delle ragioni per cui gli stavano sul cazzo, mentre il

paragrafo “Persone” era semplicemente un elenco di nomi in ordine alfabetico

senza alcuna spiegazione (anche perché quasi mai conoscevo le persone citate, si

trattava semplicemente di una questione, come dire… istintiva), con l’unica

particolarità che accanto ai nomi c’erano tre, due o un asterisco. Purtroppo, dato

che la suddetta classifica è ormai decisamente datata (andrebbe continuamente

aggiornata, come faccio, del resto, ma in un’agenda che tengo sulla scrivania), la

maggior parte di loro, essendo delle new entry, non è citata. Il grado

difamosità non incideva sul numero degli asterischi anche perché le ragioni,

seppur spesso istintive, erano variegate, con un unico denominatore comune, e

cioè fino a che punto erano intimamente convinti di essere amati dal (loro)

pubblico, che in alcuni casi, a prescindere appunto dal grado di famosità, sfiorava

la patologia. Già che ci sono, vorrei dirvelo una volta per tutte: il pubblico non vi

ama, neppure i vostri fan più scatenati vi amano. Vi cercano, vi scrivono, quando

vi incontrano per strada vi fermano, vogliono autografi, foto, dediche su foglietti,

vi fanno scoppiare l’ego dai complimenti, ma fondamentalmente se ne fottono di

voi. Se a tutti coloro che dicono di amarvi offrissero cento euro per non amarvi

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più, per spegnere la televisione, ad esempio, ogni volta che comparite, il 90%

accetterebbe i cento euro (molti anche meno), il 9% tratterebbe sul prezzo, ma

alla fine arriverebbe a un accordo, e solo l’1% non scenderebbe ad alcun

compromesso, ma quelli si chiamano “stalker”, voi li denunciate, di solito.

Ho spento la tv, con la soddisfatta certezza di sapere che non l’avrei mai più

riaccesa.

Ho guardato l’orologio, erano le otto e dieci. Che fare? Mangiare. Incominciavo

a sentire un certo languore. Ho pensato di andare al ristorante ma cenare da solo

in un locale pubblico non mi è mai piaciuto, così mi sono preparato una pasta:

penne all’arrabbiata, la mia specialità. Ho finito di cenare intorno alle nove. Mi

sono acceso un sigaro, un cubano che avevo comprato due giorni prima

per l’occasione, e mi sono versato un goccio di rum millesimato quasi più vecchio

di me. Ho riacceso la tv (l’abitudine). Mi pare superfluo dire che quelli che “Io la

televisione non la guardo” o “Non ce l’ho”, sono ampiamente citati nel paragrafo

“Quelli che”. Io la televisione la guardo, e mi piace anche, mi fa compagnia, se non

altro. Mi piacciono i talk show, le fiction, lo sport, perfino i talent (anche se il mio

talent preferito è sempre stato La Corrida) o i reality (il primo Grande Fratello con

Sara lo guardavamo anche di notte, e se non fosse stato che avevo deciso di non

pubblicare più già da dieci anni, avrei scritto un pamphlet, molto impegnato, dal

titolo: Fenomenologia di Pietro Taricone). Mi piacciono anche i programmi di

intrattenimento. Mi piacciono quando sono ben fatti, e anche quando sono mal

fatti, anche quando sono tremendi, perché mi piace guardare una cosa tremenda

per vedere fino a che punto può arrivare a essere tremenda, non so se mi spiego.

E col tempo la tremenditudine si è spinta sempre un po’ più in là. Sono affascinato

da certi personaggi e certe storie. Piccole dosi naturalmente, giusto uno stop

incantato durante uno zapping. Però l’ho detto, tra tutte le cose del mondo,

questa scatola luminosa che a poco a poco si è trasformata inevitabilmente nella

sua essenza, vale a dire uno schermo, è quella che più di tutte mi ha fatto vedere

il mondo. Abbandono volentieri il mondo e di conseguenza abbandono volentieri

anche la televisione.

Ho deciso di andare a dormire per l’ultima volta nella mia vita e per l’ultima

volta mi sono svegliato alle due e non ho più chiuso occhio. Ho passato il resto

della notte a rimuginare sul mio suicidio. In realtà avrei preferito riuscire a

dormire, ma per farlo avrei dovuto prendere almeno tre pasticche di Tavor, e

temevo che le rimanenti non bastassero per morire; ne ho sei scatole, è vero, più

tutto il resto,ma mi sono accorto che una era scaduta.

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Mi sono tirato su dal letto alle sette. Appena ho posato i piedi per terra il primo

pensiero è stato: “Oggi è il giorno della mia morte”. È privilegio di pochi

conoscerne la data, sarebbe stato meglio (o peggio) saperlo cinquant’anni fa, se

non altro avrei saputo che mi restavano ancora cinquant’anni da vivere, ora è un

po’ tardi. In ogni caso l’idea di morire l’ultima settimana di settembre mi piaceva,

ha un non so che di nostalgico, direi quasi di letterario. E poi morire in autunno è

troppo triste, in piena estate troppo caldo, in inverno troppo freddo, l’ideale

sarebbe stata la primavera, ma sarebbe troppo faticoso arrivarci. È incredibile,

ogni volta che facevo una cosa non potevo fare a meno di pensare: “È l’ultima

volta che compio questo gesto”. È l’ultima volta che mi lavo i denti, la faccia, che

mi faccio la barba (se si può, sempre farsi la barba prima di morire, è una

questione di rispetto, e poi si evita che te la facciano da morto, che è una cosa

tristissima, per chi la fa, ma anche per chi se la fa fare). Fare una cosa per l’ultima

volta, sapendolo prima, ha un non so che di epico. Ogni gesto acquista un valore

speciale. Pisciare, ad esempio, mi ha fatto provare un grande piacere, ho pisciato

consapevolmente ed è stato intrigante. Ah, dimenticavo, ho letto l’ultima pagina

del mio ultimo libro, ovviamente non mio, ma inteso come ultima pagina

dell’ultimo libro che uno legge nella vita. In realtà, visto che mia figlia, per motivi

insondabili, tempo fa me ne aveva regalato uno di Margaret Mazzantini e che da

un po’ lo tenevo sul comodino guardandolo con sospetto, ho iniziato a leggere

quello, ma l’ho chiuso a pagina 3. Non mi andava di morire leggendo un libro della

Mazzantini (anche se sarebbe un buon motivo per suicidarsi). Ho preso l’agenda

che tengo sulla scrivania dove aggiorno la lista di Tutti quelli che mi stanno sul

cazzo e sono andato alla M per scrivere il nome di Margaret Mazzantini, ma ho

notato con piacere che l’avevo già appuntato.

3

Alle otto, indossato il mio abito migliore, sono sceso al bar per l’ultima

colazione della mia vita. Ho pensato di morire vestito bene, in giacca e cravatta, in

pratica col vestito con cui dovrei essere seppellito, o meglio cremato, almeno così

non mi dovranno cambiare per infilarmi provvisoriamente nella bara. Risparmio la

vista di un vecchio nudo a chi avrebbe dovuto farlo, non per l’incaricato/a, che è

senza alcun dubbio abituato/a a operazioni del genere e lo avrebbe fatto

pensando ai fatti suoi, ma per me. L’idea che un estraneo mi veda nudo mi dà più

fastidio da morto che da vivo.

Sono entrato nel bar sotto casa, mi conoscono, e ogni tanto, nella bella

stagione, mi regalo una colazione seduto fuori al tavolino.

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«Maestro, buongiorno!» Il tizio del bar mi chiama irragionevolmente “maestro”.

«Dove va di bello così elegante?»

«Di bello da nessuna parte, sto per andare al cimitero.»

«Ah, mi scusi, non immaginavo, comunque fa bene, è giusto, ci vuole rispetto

per i morti, anche io quando vado…»

«Sì, guardi, lo immagino, ma purtroppo ho un po’ fretta, mi faccia per favore un

cappuccino con poca schiuma e ci metta una spruzzata di cacao» e non rompa i

coglioni. Ma questo l’ho solo pensato. Non sono mai scortese con baristi e

camerieri, si vendicano sempre, tranquilli, è garantito. L’ultima cosa che avrei

voluto era che nel mio ultimo cappuccino ci fosse lo sputazzo di un barista…

«Subito. Lo beve qui o si siede fuori?»

«Fuori, mi porti anche una brioche alla crema per cortesia.»

«Certo, vada pure, tra un attimo sono da lei.»

Ho bevuto il mio ultimo cappuccino con tre cucchiaini di zucchero (fanculo alla

glicemia), ho mangiato la mia ultima brioche, ho letto per l’ultima volta il giornale

scorrendo distrattamente tutte le vicende politiche e dei politici italiani sapendo

che, viva iddio, sarebbe stata l’ultima volta (inutile dire che la maggior parte dei

politici italiani era ai primi posti nella classifica del celebre capitolo finale, in

continuo aggiornamento sulla mia agenda), ho guardato cosa davano la sera in tv

(magari se ci fosse stato un programma che non volevo perdere avrei potuto

rimandare il suicidio), ho speso per l’ultima volta dei soldi e non ho salutato per

l’ultima volta il cameriere perché tanto non l’avrei rivisto mai più (e neanche gli

ho lasciato la mancia come facevo di solito).

Prima di rientrare a casa ho fatto quattro passi fino a Spianata Castelletto, con

tutte queste “ultime volte” non potevo rinunciare all’ultimo sguardo sulla mia

città. Dico “mia” perché la sento dentro, ma in realtà mi ha adottato quando

avevo diciassette anni. Sono nato a Milano, e a Milano ho abitato fino a quando la

nostra casa è stata bombardata durante la guerra. Siamo sfollati nel paese di

origine dei miei, nelle Langhe, e poi nel ’46 il destino ha voluto che, a mio padre,

un ingegnere navale, offrissero un lavoro a Genova. Un’occasione prestigiosa e

irrinunciabile, si ricostruiva l’Italia e si ricostruivano anche le navi, allora. E così ci

siamo trasferiti, ho finito il liceo a Genova, e poi mi sono iscritto all’università e

poco prima di laurearmi ho conosciuto Sara. Giorgio Caproni, in una sua poesia,

ha scritto che il giorno in cui fosse andato in Paradiso avrebbe voluto salirci con

l’ascensore che dal centro porta a Spianata Castelletto. Ai suoi tempi, che poi

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erano anche i miei, andare in Paradiso costava 7 lire, io c’ero gratis. Con Sara

tante volte, soprattutto nella bella stagione, scendevamo in Spianata, facevamo

colazione in un bar con i tavolini fuori, poi attraversavamo la strada, arrivavamo

fino alla ringhiera che delimita i confini del Paradiso di Caproni e ce ne stavamo

qualche minuto in un silenzio incantato, a goderci questa vista imprendibile sulla

città. Centottanta gradi di Genova senza soluzione di continuità, niente può

interrompere lo sguardo, solo l’orizzonte. Sotto di me i tetti del centro storico e

quelli dei palazzi nobili della città, la cattedrale di San Lorenzo, la chiesa di Santa

Maria delle Vigne, dove mi sono sposato. Davanti a me il porto, il via vai di barche

piccole e grandi, un rimorchiatore, un traghetto che arrivava da chissà dove, una

grande nave da crociera ormeggiata, qualche cargo portacontainer, alcuni in rada

che aspettavano venisse il loro turno per scaricare, le gru, e sullo sfondo la

Lanterna. Durante l’università avevo un amico che ci abitava, alla Lanterna,

perché suo padre era il guardiano del faro. Noi, di notte e di nascosto, salivamo

su, fino in cima, sul terrazzino, pochi metri sotto il faro, e guardavamo la città, il

mare nero, la centrale a carbone che pompava fumo più nero del mare, le navi

illuminate in porto, ma soprattutto guardavamo dentro di noi, ed erano le prime

volte che lo facevamo. E non so, sarà stato il posto così assurdo e incredibile, così

proibito e suggestivo, così magico, ma pareva che la luce del faro illuminasse

anche la nostra anima, la scandagliasse, e ci indicasse la via per inseguire i nostri

sogni.

Sono tornato a casa seguendo il filo melanconico di questi pensieri, sempre più

pronto a farla finita, ma le cose non sono andate come immaginavo. Per niente.

Avevo preparato tutte le pastiglie in bella vista davanti a me, era un bel

mucchietto, più che sufficiente per evitare imbarazzanti lavande gastriche. Avevo

stappato una bottiglia di ottimo prosecco: perché suicidarsi accompagnando le

pastiglie con l’acqua quando lo si può fare benissimo col vino? (In realtà in casa

avevo anche una bottiglia di Dom Pérignon, ma ho pensato che suicidarsi bevendo

champagne è da imbecilli, non c’è proprio niente da festeggiare.) Ne ho bevuto un

bicchiere liscio per darmi forza, gustandolo per assaporarne gli aromi. Poi un altro

perché avevo bisogno di ancora un po’ di forza. E poi via con il primo sorso e tre

pastiglie di Tavor, così, come aperitivo e per vedere come andavano giù, prima di

aumentare il numero a ogni sorso. Mi sentivo già brillo (non ero più abituato a

bere), stavo per ingoiarne una quindicina tutte insieme (avevo paura che non mi

bastasse il vino), quando hanno suonato alla porta. E ora chi cazzo è? Mi sono

diretto verso la porta barcollando un po’. Ho guardato dallo spioncino ma non

capivo, ho aperto solo perché temevo fosse qualche vicino (mi era parso di

riconoscere l’inquilino del piano di sopra) che poi, sul più bello, tornasse alla

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carica e non sentendo risposta si preoccupasse con tutte le conseguenze del caso,

invece erano i testimoni di Geova. Ora lo so, uno dice: “Che combinazione,

proprio quella mattina i testimoni di Geova”. Mi rendo conto, ma è vero, porca

miseria! È successo davvero. Cosa faccio, non lo dico? Glisso sui testimoni di

Geova perché “poteva studiarsene un’altra un po’ più originale”? Erano in due, un

uomo e una donna, appena hanno detto: «Buongiorno, siamo testimoni di Geova

e se ha un po’ di tempo le vorremmo parlare di Dio» li ho mandati a cagare.

Letteralmente. Cioè non proprio subito. Ho aspettato che finissero di dire: «Se ha

un po’ di tempo le vorremmo parlare di Dio» e prima sono stato gentile, ho

risposto: «Statemi bene a sentire, tra un’oretta dovrei vedere il vostro capo,

quindi se non vi levate immediatamente dalle palle sarò io a parlare di voi a Lui, e

giuro che vi farò perseguitare per tutta la vita». Loro mi hanno guardato straniti,

hanno fatto un passo indietro e l’uomo ha detto alla donna: «Andiamo via». E

invece no, non sono andati via, si sono guardati, si sono ripresi e forse pensando

di non aver capito bene, o che scherzassi o che fossi una pecorella smarrita

inconsciamente desiderosa di ritrovare la retta via o forse, solo per il fatto che mi

avevano comunque sentito nominare il nome di Dio invano, e questo, in qualche

modo, doveva averli eccitati, come se non avessi mai parlato, con un sorriso largo

come una fetta d’anguria, mi hanno chiesto all’unisono: «Ha mai letto la Bibbia?».

A quel punto li ho mandati a cagare: «Mmaaaa andate a cagare» gli ho detto,

accompagnando il gesto con la mano e allungando notevolmente il suono

della M e dellaA di “ma”, e poi ho chiuso… ho sbattuto la porta senza concedere il

tempo a nessuna replica. Non hanno più suonato. Così sono tornato a occuparmi

del mio suicidio. Le tre pastiglie di Tavor che avevo già ingurgitato più il prosecco

mi stavano procurando una certa sonnolenza, mi si chiudevano gli occhi, se mi

fossi addormentato addio suicidio. Inoltre erano già le nove, tra quattro ore, forse

prima (dipendeva dall’ansia di mia figlia), sarebbe arrivato mio genero e avrebbe

dovuto trovarmi già morto, per nulla al mondo avrei voluto rischiare di farmi

salvare da mio genero, magari dopo una lavanda gastrica.

Neppure il tempo di sedermi sul letto per continuare l’operazione suicidio che

hanno di nuovo suonato alla porta. Sono andato ad aprire con un grosso coltello

in mano, nel caso, probabile, fossero stati ancora i testimoni di Geova. Non avevo

intenzione di usarlo, naturalmente, anche perché, se oltre al suicidio mi fossi

presentato davanti al Supremo con l’omicidio di due promotori del suo ufficio

stampa sul groppone, l’Inferno non me lo avrebbe tolto nessuno, visto che, tra

l’altro, se non te lo toglie Dio, l’Inferno, non vedo chi potrebbe togliertelo. Gesù e

lo Spirito Santo sono la stessa Persona, la Madonna è sempre in giro a fare

apparizioni e san Pietro non conta un cazzo, cioè, non credo che sia in grado di

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prendere decisioni del genere, vale a dire contro le Sacre Scritture (qui si tratta

dei Dieci Comandamenti, non so se mi spiego, è come riformare la Costituzione),

come minimo avrebbe dovuto consultarsi col Boss. Diciamo che era un modo per

dissuaderli dal farmi altre domande.

Fine dell'estratto Kindle.

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