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Per l’agente Pia Kirchhoff tre settimane di vacanza in Cina con Christoph, l’uomo che da tre anni le provoca ancora

lo stesso «piacevole ed eccitante formicolio», sono state un vero toccasana. Archiviato lo stress degli ultimi casi e

dimenticate la pioggia e la nebbia della Germania centrale, ora si sente finalmente pronta per tornare al lavoro.

Peccato che il volo da Shanghai sia arrivato con nove ore di ritardo, che la sua valigia spunti per ultima sul nastro

trasportatore e che ad aspettarla non ci sia la sua migliore amica, bensí il patologo Henning, suo collega e,

soprattutto, ex marito. Perciò, quando l’agente Oliver von Bodenstein la chiama per informarla che è stato appena

rinvenuto il cadavere di un uomo e la sua presenza sarebbe gradita sul luogo del delitto, Pia guarda con tristezza la

tintarella di Christoph e realizza che la vacanza è davvero finita. La vittima è il guardiano notturno della WindPro, un’azienda che sta realizzando un parco eolico alle pendici di

un piccolo paesino dell’Assia. La morte si direbbe accidentale: l’uomo era un bevitore, un solitario, niente di piú

plausibile di una caduta dalle scale. Pia e Oliver si lanciano un’occhiata. A loro quella storia non convince. Si apre cosí una nuova indagine dell’eccentrica coppia di agenti del Taunus che, sulle orme di cacciatori infuriati,

cittadini che inneggiano alla rivoluzione e manager doppiogiochisti e senza scrupoli, scopriranno che una guerra è

già in atto: da una parte l’associazione ambientalista, di cui fa parte anche il padre di Oliver, che non vuole che il

bosco della vallata venga raso al suolo dalle ruspe; dall’altra, la WindPro, che se non concluderà il lavoro dovrà

dichiarare fallimento. Come se la situazione non fosse già abbastanza ingarbugliata, il nostro saggio e riflessivo

Oliver von Bodenstein prende una sbandata per una donna comparsa dal nulla che lo allontana dalle indagini,

lasciando Pia da sola, con il caso piú complesso della sua carriera. Tra corruzioni e omicidi, ricatti e vendette personali, Chi semina vento è «uno straordinario eco-thriller» (Stern)

che ci svela un paese in cui nessuno è realmente chi dice di essere, e conferma il leggendario talento della nuova

regina del noir europeo.

Nele Neuhaus è nata in Germania nel 1967 e, prima di diventare scrittrice, ha studiato Giurisprudenza, Storia e

Letteratura, e ha lavorato in un’agenzia di pubblicità. I suoi romanzi, con la leggendaria coppia di investigatori

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Oliver von Bodenstein e Pia Kirchhoff, riscuotono sempre uno straordinario successo. Chi semina vento è stato a

lungo al primo posto nella classifica dei bestseller in Germania ed è rimasto per 49 settimane tra i top 100. Di Nele Neuhaus Giano ha già pubblicato Biancaneve deve morire (2011), Ferite profonde(2012) e La donna

malvista (2012).

I LIBRI DELLA CIVETTA

12 DELLO STESSO AUTORE

Biancaneve deve morire

Ferite profonde

La donna malvista

I LIBRI DELLA CIVETTA

NELE NEUHAUS

CHI SEMINA VENTO

traduzione di Alessandra Petrelli

Avviso di Copyright © Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo eBook può essere riprodotta o trasmessa in alcuna forma tramite alcun mezzo senza il preventivo permesso scritto

dell’editore. Il file è siglato digitalmente, risulta quindi rintracciabile per ogni utilizzo illegittimo.

I edizione eBook 2014-6

Collana I LIBRI DELLA CIVETTA

ISBN 978-88-6251-169-8

Titolo originale: Wer Wind sät © Ullstein Buchverlage GmbH, Berlin 2011 Published in 2011 by List Taschenbuch Verlag © Neri Pozza Editore/Giano 2013 www.neripozza.it

Per Vanessa

Prologo

La strada era deserta e lei correva a piú non posso, mentre nel cielo buio esplodevano

i primi botti di San Silvestro. Se solo fosse riuscita a raggiungere il parco, a

mescolarsi alla folla festante! Non conosceva la zona, aveva perso del tutto

l’orientamento. I passi dei suoi inseguitori riecheggiavano dai muri dei palazzi,

incalzandola, spingendola sempre piú lontana dalle vie principali, dai taxi, dalla

metropolitana, dalla gente. Se ora fosse inciampata, sarebbe stata la fine.

Il terrore le toglieva il respiro, il cuore le batteva forte. Non poteva resistere a lungo

mantenendo quell’andatura. Laggiú! Finalmente! Un varco buio si apriva tra le

facciate interminabili dei caseggiati. Svoltò a tutta velocità, ma il sollievo durò una

frazione di secondo, il tempo di rendersi conto che aveva commesso il piú grave

errore della sua vita. Di fronte a lei si alzava un muro liscio e senza finestre. Era in

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trappola! Il sangue le scrosciava nelle orecchie, i suoi ansiti erano l’unico rumore nel

silenzio. Si accucciò dietro dei bidoni maleodoranti della spazzatura, premette il viso

contro i mattoni ruvidi e umidi e chiuse gli occhi, nell’assurda speranza che gli uomini

proseguissero senza vederla.

«Eccola!» esclamò qualcuno a voce bassa. «Presa!».

Si accese un faro, lei alzò un braccio e fissò accecata la luce abbagliante. Mille

pensieri le vorticavano nella mente. Doveva chiamare aiuto?

«Non riuscirà a scappare da qui» disse un altro.

Passi sull’asfalto. Gli uomini si stavano avvicinando, lentamente, senza piú nessuna

fretta. La paura le contraeva dolorosamente tutto il corpo. Strinse i pugni sudati,

conficcandosi le unghie nella carne. E poi lo vide. Era lui! Entrò nel cono di luce e

chinò lo sguardo su di lei. Per un attimo fu pervasa dall’assurda speranza che fosse

venuto ad aiutarla.

«Per favore!» bisbigliò con un filo di voce, protendendo la mano. «Posso spiegare

tutto, io…».

«Troppo tardi» la interruppe lui. Il suo sguardo era carico di gelida collera e

disprezzo. L’ultimo barlume di speranza si trasformò in cenere, come la bella villa

bianca in riva al lago.

«Ti prego, non te ne andare!» supplicò con voce stridula. Voleva strisciare,

implorare perdono, giurargli che avrebbe fatto qualunque cosa, ma lui le voltò le

spalle e scomparve dal suo campo visivo, lasciandola sola con gli uomini da cui non si

aspettava alcuna pietà. Il panico la racchiuse sommergendola come un’ondata nera. Si

guardò intorno trafelata. No! No, non voleva morire! Non in quel vicolo buio e

sporco, che puzzava di urina e spazzatura!

Si difese con la forza della disperazione, tirando a casaccio calci e pugni,

combattendo la sua ultima disperata battaglia. Non aveva possibilità di successo, gli

uomini la schiacciarono a terra e le piegarono brutalmente le braccia all’indietro. Poi

avvertí una puntura al braccio. I muscoli le si rilassarono, il vicolo svaní davanti ai

suoi occhi, mentre la spogliavano e la lasciavano nuda e inerme. Si sentí trascinare

via, lanciò un’ultima occhiata alla sottile striscia di cielo nero tra i muri dei palazzi,

vide le stelle che brillavano. Poi precipitò e cadde in un abisso nero e infinito. Per un

brevissimo istante si esaltò, sentendosi incorporea, poi la caduta velocissima le tolse il

respiro, venne buio e si sorprese di quanto fosse facile morire.

Si sollevò di slancio. Il cuore galoppava; impiegò qualche secondo per comprendere

che si era trattato solo di un sogno. Un sogno che la perseguitava da mesi, ma non era

mai stato tanto reale, non era mai giunto alla conclusione. Si strinse le braccia al petto

rabbrividendo e aspettò che i muscoli si distendessero e il freddo l’abbandonasse. La

luce di un lampione entrava dalla finestra con le sbarre. Per quanto tempo sarebbe

stata al sicuro lí? Si lasciò ricadere all’indietro, premette il viso sul cuscino e

cominciò a singhiozzare, perché sapeva che non si sarebbe piú liberata da quel terrore.

Lunedí, 11 maggio 2009

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Il sole era appena sorto quando richiuse il cancelletto del giardino dietro di sé e, con il

fucile in spalla, imboccò come tutte le mattine il sentiero in leggera salita verso il

bosco. Tell, il pudelpointer bruno a pelo duro, trotterellava un paio di metri davanti a

lui, annusando qua e là per raccogliere con il naso le migliaia di uste lasciate dalla

notte. Ludwig Hirtreiter respirò a pieni polmoni l’aria fresca e frizzante e rimase ad

ascoltare il concerto degli uccelli mattutini. Due caprioli si erano spinti sul prato ai

margini del bosco. Tell girò il muso verso di loro, ma non diede segno di volerli

spaventare. Era un cane intelligente e ubbidiente, che sapeva di doversi interessare

alla selvaggina solo quando il padrone lo autorizzava.

«Bravo, cosí» borbottò Ludwig Hirtreiter. La sua fattoria non era distante dal bosco.

Superò la sbarra bianca e rossa che era stato necessario installare sulla strada qualche

anno prima perché i pigri villeggianti della domenica da Francoforte si inoltravano

sempre di piú nel bosco con la macchina. Al giorno d’oggi, soprattutto alle persone di

città, mancava qualsiasi rispetto per la natura. Non sapevano distinguere un albero

dall’altro, cianciavano chiassosi e lasciavano i loro cani liberi di scorrazzare anche nel

periodo della riproduzione. C’era gente che si esaltava addirittura quando la sua bestia

stanava la selvaggina e la inseguiva. Ludwig Hirtreiter non aveva nessuna

comprensione per un simile atteggiamento. Il bosco per lui era sacro. Lo conosceva

come se fosse il suo giardino, ne conosceva le radure isolate, sapeva dov’era la

selvaggina e quali tracciati percorrevano i cinghiali. Qualche anno prima aveva

addirittura ideato e collocato i cartelli esplicativi del percorso didattico di Lindekopf,

per avvicinare il pubblico ai segreti della foresta.

I raggi del sole filtravano attraverso il fitto fogliame, trasformando il bosco in una

cattedrale verde dorata solenne e silenziosa. Alla prima biforcazione, Tell imboccò il

sentiero di destra, come se avesse letto nel pensiero del padrone. Superarono la

massiccia carbonaia e raggiunsero la zona brulla dove l’autunno precedente un

temporale aveva inciso una cicatrice nel bosco. Ludwig Hirtreiter si fermò di colpo.

Anche Tell si bloccò drizzando le orecchie. Rumore di motori! Poco dopo il silenzio

fu squarciato dal rombo molesto di una motosega. Non poteva trattarsi della forestale,

in questa stagione non c’erano lavori da fare. Ludwig Hirtreiter si sentí assalire da

un’ondata di collera. Tornò sui propri passi e si incamminò nella direzione da cui

provenivano i rumori. Il cuore gli batteva forte. Aveva intuito che non avrebbero

rispettato gli accordi e avrebbero cominciato subito a disboscare, per mettere la

cittadinanza davanti al fatto compiuto durante l’assemblea pubblica.

Pochi minuti piú tardi vide confermati i propri timori. Passò sotto il nastro rosso e

bianco svolazzante che delimitava la piccola radura sotto la cresta del monte e guardò

allibito i furgoncini arancioni parcheggiati e la mezza dozzina di uomini che si

muovevano indaffarati qua e là. La motosega tornò in azione, con un lancio di trucioli

di legno. Un grande abete ondeggiò e cadde di schianto nella radura. Che farabutti

bugiardi! Tremante di rabbia, Ludwig Hirtreiter imbracciò il fucile e tolse la sicura.

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«Fermi!» ordinò mentre la motosega borbottava in folle. Gli uomini si voltarono

dalla sua parte, alzando le visiere dei caschi. Hirtreiter avanzò nella radura, affiancato

da Tell.

«Se ne vada!» gli gridò uno degli uomini. «Non è autorizzato a stare qui!».

«Andatevene voi!» ribatté Ludwig Hirtreiter torvo. «All’istante! Chi vi ha dato il

permesso di abbattere gli alberi qui?».

Il responsabile del gruppo notò l’arma e la determinazione nello sguardo di

Hirtreiter.

«Suvvia, si calmi». Alzò le mani in un gesto conciliante. «Facciamo soltanto il

nostro lavoro».

«Andatelo a fare da qualche altra parte. Fuori dal bosco, e subito».

Gli altri si avvicinarono. La motosega taceva. Tell ringhiava minaccioso e Hirtreiter

posò il dito indice sul grilletto. Era serissimo. L’inizio del cantiere era fissato per i

primi di giugno, quell’intervento di disboscamento anticipato era illegale, anche se

veniva compiuto con il tacito accordo del sindaco o del consiglio provinciale.

«Avete cinque minuti di tempo per raccogliere le vostre cose e sparire!» gridò al

gruppo. Nessuno si mosse. Allora prese la mira sulla motosega che uno degli uomini

teneva in mano e premette il grilletto. Risuonò uno sparo. All’ultimo istante Ludwig

Hirtreiter aveva spostato l’arma leggermente verso l’alto, e il colpo passò a circa un

metro dalla testa dell’uomo. Per un paio di secondi tutti rimasero come paralizzati,

fissandolo attoniti. Poi corsero via a gambe levate.

«Non la passerà liscia!» gli gridò il responsabile dei lavori. «Chiamerò la polizia!».

«Si accomodi». Ludwig Hirtreiter annuí e si rimise in spalla il fucile. Nessuno

avrebbe chiamato la polizia, perché sarebbe stato un autogol per questi delinquenti

vigliacchi.

Era stato a un passo dal credere alle promesse tanto sbandierate. Non sarebbe stato

abbattuto neppure un albero prima che venisse decisa ogni cosa, glielo avevano

ripetuto in pompa magna giusto il venerdí prima. In realtà dovevano aver già affidato

l’incarico all’impresa di disboscamento, con l’accordo di cominciare il lunedí

successivo. Aspettò che i furgoncini si fossero allontanati dalla radura portandosi via

il rombo dei motori, poi appoggiò il fucile al tronco di un albero e si accinse a togliere

il nastro di delimitazione. Qui non sarebbe stato abbattuto nessun altro albero, finché

lui avesse potuto impedirlo. Era pronto a combattere.

Con il braccio già allungato a recuperare la valigia dal nastro della consegna bagagli,

Pia Kirchhoff sentí un trillo nella tasca della giacca. Impiegò qualche istante per

collegare la melodia al cellulare che aveva acceso subito dopo l’atterraggio. Per tre

superbe settimane l’apparecchio aveva taciuto e da strumento fondamentale della vita

quotidiana era diventato un accessorio del tutto inutile. In quell’istante, tuttavia, il

bagaglio era decisamente piú importante della chiamata. La valigia di Christoph era

stata una delle prime ad arrivare e lui era già uscito presumendo che Pia lo avrebbe

seguito quasi subito, invece lei aveva dovuto aspettare quindici minuti buoni, in

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quanto i bagagli del volo LH729da Shanghai venivano scaricati sul nastro a singhiozzo

e con irritante lentezza.

Una volta sistemata la valigia rigida grigia sul carrello portabagagli, si decise a

pescare il telefono dalla tasca. Nel terminal rimbombavano gli annunci degli

altoparlanti, qualcuno la colpí rudemente al polpaccio con il proprio carrello, senza

neppure scusarsi. Una nuova orda di passeggeri era stata sputata fuori dall’ennesimo

aereo, davanti alla dogana si era formato un ingorgo. Finalmente Pia trovò il cellulare

che continuava a squillare imperterrito e rispose.

«Sono all’aeroporto!» esclamò. «Mi richiami piú tardi, per favore!».

«Oh, scusami tanto» rispose il commissario capo Oliver von Bodenstein all’altro

capo della linea con tono divertito. «Credevo che foste tornati ieri sera».

«Oliver!». Pia sospirò rincresciuta. «Scusami. Il nostro volo ha accumulato nove ore

di ritardo, siamo appena atterrati. Che cosa succede?».

«C’è un piccolo problema» spiegò Bodenstein. «Abbiamo un cadavere, ma oggi

alle 11 è fissato il matrimonio di Lorenz e Thordis. Se non mi faccio vedere, verrò

radiato dalla famiglia».

«Un cadavere? Dove?». Pia stava per oltrepassare il controllo doganale, ma una

funzionaria bassa e grassottella che osservava con espressione distaccata i viaggiatori

di passaggio, alzò la mano. Evidentemente le parole pronunciate da Pia avevano

risvegliato il suo interesse. Davvero inopportuno, quando si era di fretta.

«Nella sede di un’azienda di Kelkheim» rispose il suo capo. «La comunicazione è

appena arrivata. Manderò il nostro nuovo aiuto, ma preferirei che ti recassi lí anche tu,

se possibile».

«Qualcosa da dichiarare?» gracchiò la poliziotta.

«No». Pia scrollò la testa.

«Come… no?» chiese Bodenstein allibito.

«No, volevo dire… sí» replicò Pia spazientita. «No, non ho niente da dichiarare. Sí,

ci vado».

«Che cosa sarebbe questa storia?». L’agente della dogana alzò le sopracciglia. «Per

favore, apra la valigia».

Incastrando il cellulare tra la guancia e la spalla, Pia armeggiò con il lucchetto della

valigia rompendosi un’unghia. La magia rilassata della vacanza si dissolse nel nulla.

Lo stress tornò ad assalirla.

«Sí, d’accordo, ci vado. Dammi l’indirizzo».

Aprí la valigia. La poliziotta rovistò con circospezione il contenuto sistemato alla

rinfusa, nella speranza di trovare tra la biancheria da lavare un vaso Ming importato

illegalmente, una bottiglia di grappa di contrabbando o diverse stecche di sigarette.

Intanto la fila dei passeggeri in attesa si era allungata. Pia scoccò un’occhiata ostile

alla donna che, dopo la vana perquisizione, la congedò con un arrogante cenno del

capo. Pia chiuse con foga la valigia, la gettò sul carrello e si incamminò verso l’uscita.

Le porte scorrevoli si aprirono. Christoph aspettava dietro le transenne con un sorriso

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vagamente nervoso e accanto a lui c’era, chiaramente contrariato, l’ex marito di Pia, il

dottor Henning Kirchhoff. Ci mancava solo questa! Prima del decollo aveva sentito

Miriam, che durante la loro assenza si era occupata degli animali a Birkenhof, ed

erano rimaste d’accordo che sarebbe stata lei ad andarli a prendere all’aeroporto.

«La mia valigia è stata scaricata per ultima» si scusò Pia. «E poi l’addetta alla

dogana ha voluto perquisirmi il bagaglio. Mi spiace. Che cosa ci fai tu qui?».

La domanda era rivolta al suo ex marito. Accanto a Christoph con la sua

abbronzatura orientale, Henning sembrava ancora piú pallido e smunto.

«Anch’io sono felice di rivederti» rispose questi sarcastico facendo una smorfia.

«Ho l’auto da piú di un’ora in divieto di sosta. Se mi hanno dato la multa, la paghi

tu».

«Perdonami». Pia lo baciò sbrigativamente sulla guancia. «Grazie di esserci venuto

a prendere. Come mai non è venuta Miriam?».

La relazione tra il suo ex marito e la sua migliore amica si era complicata da quando

Henning era sospettato di essere il padre del nascituro della sua ex amante. Dopo un

silenzio radio totale durato tre mesi, durante il quale Henning, per vigliaccheria, aveva

seriamente pensato di trasferirsi all’estero, lui e Miriam si erano riavvicinati, ma non

si poteva certo dire che tra di loro fosse tornato a regnare un rapporto di fiducia.

«Miriam ha un appuntamento a Magonza alle nove e non poteva aspettare che il

vostro volo atterrasse» spiegò Henning con una nota di rimprovero, mentre si

avviavano verso il parcheggio. «Siccome secondo lei l’istituto è a poca distanza da

qui, ha pensato che potessi venire io. Ma ditemi, com’è andata la vacanza?».

«Bene» rispose Pia scambiando un’occhiata fugace con Christoph. “Bene” non si

avvicinava nemmeno lontanamente all’assoluta perfezione di quelle tre settimane

trascorse in Cina. Erano state la sua prima vera vacanza ed erano state sublimi.

Sebbene stessero insieme ormai da diverso tempo, la vista di Christoph le causava

ancora quel piacevole ed eccitante formicolio e a volte stentava a credere di aver

avuto la fortuna di trovare un uomo come lui. Si erano conosciuti l’estate di tre anni

prima nel corso di un’indagine per omicidio, quando Pia si era ormai già quasi

rassegnata a trascorrere il resto della vita da sola con i suoi animali a Birkenhof. Tra

di loro era stato amore a prima vista, anche se all’epoca Bodenstein aveva annoverato

Christoph tra i sospettati, e questo non aveva certo facilitato le cose.

L’aria fresca del mattino di maggio fece rabbrividire leggermente Pia. Dopo

quattordici ore di volo si sentiva appiccicosa e sporca e anelava a una doccia, ma

avrebbe dovuto rimandare ancora.

Sulla macchina di Henning non c’era nessuna multa, il che probabilmente

dipendeva dal fatto che dietro il parabrezza era ben visibile il cartello con la scritta

«medico in visita». Lui e Christoph caricarono le due valigie nel portabagagli mentre

Pia si accomodava sul sedile posteriore della Mercedes.

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«Che cosa vuoi fare adesso?» si informò qualche minuto piú tardi, mentre Henning

imboccava l’autostrada in direzione di Kelsterbach. Il traffico verso Francoforte

causava forti rallentamenti.

«In che senso?» domandò lui subito diffidente. Pia alzò gli occhi al cielo. Non era

mai stato capace di rispondere in maniera semplice a una semplice domanda! Si

massaggiò le tempie che le pulsavano. Nelle tre settimane appena trascorse aveva

davvero staccato la spina, gettandosi alle spalle le ansie quotidiane, il lavoro, persino

l’imminente ordine di demolizione che incombeva sulla fattoria. Adesso tutto le

ricadeva addosso. Non avrebbe avuto esitazioni a prolungare all’infinito la vacanza,

ma forse la vera felicità stava proprio nel fatto che era limitata.

«Devo andare sulla scena di un crimine a Kelkheim» rispose. «Mi ha appena

telefonato il capo. La vacanza è proprio finita».

Il grande cancello del canile era chiuso a chiave, il parcheggio davanti al basso

edificio dell’amministrazione era vuoto. Mark camminava inquieto su e giú lungo

l’alta recinzione, gettando occhiate nervose al cellulare. Le sette e un quarto. Dove si

era cacciata Ricky? Gli restavano ancora al massimo venti minuti. Se fosse arrivato a

scuola anche con un solo minuto di ritardo, i professori avrebbero fatto un casino e

avrebbero scritto subito un’email a sua madre, solo perché negli ultimi tempi era

mancato un paio di volte. Al diavolo. Perché i suoi non volevano capire che non aveva

piú voglia di studiare? Da quando aveva lasciato il collegio, tutta la vita gli sembrava

assurda e sbagliata. Avrebbe preferito mille volte fare qualcosa di intelligente, invece

di sprecare le ore seduto in classe. Qualcosa con gli animali, magari vivere in un

appartamento pieno di cani e gatti, come da Ricky e Jannis. Sarebbe stato forte. A suo

padre però sarebbe venuto un colpo se gli faceva una proposta del genere. Diploma e

laurea erano d’obbligo, magari con qualche semestre di studio all’estero tanto per

gradire. Qualunque scelta inferiore era da proletari. Un fallimento su tutta la linea.

Praticamente la strada diretta verso l’abisso della disoccupazione.

Da dove si trovava aveva un’ottima visuale sul viottolo asfaltato che scendeva fino

a Schneidhain ma, a parte qualche proprietario che portava a spasso il cane, non c’era

in giro nessuno. Era rimasto seduto per gran parte della notte davanti al computer,

perché non riusciva a dormire. Non appena chiudeva gli occhi, i ricordi tornavano ad

assalirlo. Aveva scritto un SMS a Ricky, e lei gli aveva risposto che quella mattina

sarebbe stata al canile alle sette. Oramai erano le sette e mezza. Mark decise di

andarle incontro.

Quando il giudice aveva stabilito per lui una condanna a ottanta ore di lavoro

socialmente utile al canile, era quasi andato fuori di testa: che enorme cazzata. Ma poi

aveva conosciuto Ricky e Jannis, il suo compagno, e all’improvviso aveva avuto di

nuovo qualcosa che lo rendeva felice. Il lavoro al canile lo divertiva e continuava a

lavorarci anche se oramai aveva scontato da tempo la pena. Gli sembrava di aver

trovato una nuova casa, una nuova famiglia, nella quale era sempre il benvenuto.

Jannis era il suo grande modello, a volte la sera discutevano a lungo di cose per le

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quali finora Mark non aveva mai nutrito alcun interesse: il conflitto in Afghanistan, gli

insediamenti in Israele, il trasferimento dei prigionieri di Guantánamo in Germania,

oppure il tema preferito di Jannis, la menzogna sul clima. Jannis si intendeva di tutto e

aveva idee diametralmente opposte a quelle del padre di Mark, che al massimo si

indignava per la politica fiscale del governo federale oppure per la sinistra e i verdi.

Ma l’aspetto piú importante era che Jannis faceva seguire i fatti alle parole. Mark lo

aveva accompagnato già alcune volte a incontri e manifestazioni ed era rimasto

profondamente impressionato, perché Jannis conosceva migliaia di persone.

Ora Mark si stava infilando il casco per montare in sella al suo scooter, quando

scorse la station wagon scura di Ricky risalire lungo la via. Il cuore gli balzò in gola,

quando lei si fermò accanto a lui e abbassò il finestrino.

«Buongiorno» lo salutò con un sorriso. «Mi spiace di aver fatto tardi».

«Buongiorno». Si rese conto di essere diventato tutto rosso. Purtroppo per lui

arrossire come uno stupido era una reazione abituale.

«Dammi una mano con il foraggio» gli propose lei. «Cosí intanto possiamo parlare,

okay?».

Mark era titubante. Ma sí, al diavolo la scuola. Aveva già imparato tutto quello che

serviva per vivere. La vita vera d’altronde si svolgeva altrove.

«Okay» rispose.

Il sole del mattino si rifletteva sull’alta facciata a vetri dell’edificio ipermoderno

adagiato come una nave spaziale su un prato impeccabilmente curato nella zona

industriale. Henning lasciò l’auto nel parcheggio, ancora quasi completamente vuoto a

parte un paio di macchine. Tirò fuori dal bagagliaio le due valigie di alluminio

brontolando un «ce la faccio» quando Pia fece per prendergliene una. Da quando

avevano lasciato Christoph al cancello di Birkenhof un quarto d’ora prima, era

piombato in uno scontroso silenzio mattutino, ma dopo sedici anni di matrimonio con

lui, Pia conosceva perfettamente il suo carattere e non se ne curò. A volte Henning

poteva restare in silenzio anche per tre giorni di fila. Attraversarono il cortile lastricato

con rigogliose aiuole fiorite e una fontana, accanto alla quale erano parcheggiate due

auto della polizia. Pia rivolse lo sguardo sull’insegna dell’azienda. WindPro GmbH.

La pala a vento stilizzata che ne costituiva il logo indicava il settore in cui operava.

Un poliziotto in divisa sbadigliò in piedi sulla scala davanti alla porta d’ingresso e li

lasciò passare con un cenno del capo. L’inconfondibile odore dolciastro di carne in

putrefazione colpí violento Pia non appena ebbero messo piede nel maestoso atrio

aperto.

«Allora, direi che qualcuno è rimasto in questa incubatrice per tutto il fine

settimana» osservò Henning accanto a lei. Pia fece finta di non cogliere il cinismo

nelle parole dell’ex marito. Il suo sguardo salí al terzo piano, raggiungibile con una

slanciata scala a giorno e un ascensore di vetro. Davanti a un bancone di acciaio sul

lato destro c’era una donna seduta piegata in avanti, i gomiti appoggiati alle

ginocchia, il volto nascosto tra le mani. Intorno a lei alcuni agenti in uniforme e un

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uomo in abiti civili. Doveva essere il nuovo collega di cui le aveva parlato

Bodenstein.

«Toh, guarda chi c’è» disse Henning.

«Chi? Lo conosci?».

«Sí. Cemalettin Altunay. Lavorava all’ufficio 11 di Offenbach».

In qualità di vicedirettore dell’istituto di medicina legale di Francoforte, Henning

conosceva la maggior parte dei collaboratori delle varie sezioni per i crimini violenti

della regione Reno-Meno e di tutta l’Assia meridionale.

Pia osservò l’uomo che si era chinato verso la donna e le parlava sottovoce. Doveva

avere meno di quarant’anni e se non altro da un punto di vista estetico rappresentava

un decisivo miglioramento rispetto al suo predecessore Frank Behnke. Camicia

immacolata, jeans scuri, scarpe lucidissime, folti capelli neri con taglio militare: un

aspetto impeccabile. Pia provò istintivamente un certo disagio per la propria maglietta

grigia spiegazzata con agli aloni di sudore sotto le ascelle e i jeans macchiati. Forse

sarebbe stato meglio passare da casa a fare una doccia e a cambiarsi. Troppo tardi.

«Salve, dottor Kirchhoff» salutò il nuovo collega con una piacevole voce baritonale,

poi si girò verso di lei e le porse la mano.«Commissario Cem Altunay. Mi fa piacere

conoscerti, Pia. Kai e Kathrin mi hanno già raccontato tantissime cose di te. Hai fatto

buone vacanze?».

«Io… hm… sí, gra… grazie» balbettò lei. «Sono atterrata giusto mezz’ora fa, con

nove ore di ritardo…».

«Non hai fatto in tempo a tornare e ti trovi già un cadavere ad aspettarti. Mi

rincresce». Cem Altunay sorrise dispiaciuto, quasi dipendesse da lui. Rimasero a

fissarsi per qualche istante, poi Pia abbassò gli occhi. Quello sguardo intenso come

cioccolato fondente la irritava. Passò qualche secondo ancora, il silenzio stava

diventando imbarazzante. Alle loro spalle Henning emise una specie di breve sbuffo

sarcastico che riportò Pia alla realtà. Si riscosse.

«Che cosa abbiamo?» si informò.

«La vittima si chiama Rolf Grossmann e lavorava qui come guardiano notturno da

un paio d’anni. A prima vista sembra un incidente» rispose Cem Altunay.

«Un’impiegata ha trovato il cadavere stamattina verso le sei e mezza. Venite».

L’odore dolciastro si fece piú intenso. Di solito i cadaveri che spargevano un puzzo

cosí penetrante non offrivano un bello spettacolo. Pia seguí il collega, superò le scale

e si preparò psicologicamente. Tuttavia la vista che le si presentò le tolse il respiro per

un attimo. Il morto, con la faccia gonfia e livida ormai quasi irriconoscibile, era

riverso con le membra grottescamente piegate sul pianerottolo tra il secondo e il terzo

piano. Nonostante gli anni di esperienza accumulati, Pia provò una stretta allo

stomaco di fronte alle mosche che ronzavano intorno al cadavere. Se evitò di vomitare

davanti al nuovo collega fu solo grazie alla sua forza di volontà e professionalità.

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«Perché pensi che si tratti di un incidente?» chiese cercando di soffocare i conati di

vomito. Il calore accumulato nel vasto ambiente la faceva sudare copiosamente.

«Uffa! Non si può accendere il condizionatore o almeno aprire le vetrate?».

«Non ti azzardare!» esclamò Henning, che stava indossando una tuta bianca. «Non

vorrai rovinarmi la scena del crimine».

Pia si accorse dell’espressione allibita del nuovo collega.

«Siamo stati sposati» spiegò succintamente. «Allora dimmi, che cosa ne pensi?».

«Direi che è inciampato ed è caduto dalle scale» rispose Cem Altunay.

«Hm». Lo sguardo di Pia percorse la scalinata che saliva al terzo piano compiendo

una lieve curva. «Hai già parlato con la donna che l’ha trovato? Che cosa ci faceva qui

alle sei e mezza di mattina?».

Henning aprí rumorosamente la valigia. Le mosche si misero a ronzargli intorno

quando si chinò sul cadavere e lo esaminò con occhio critico.

«Comincia a lavorare sempre molto presto. Si occupa dell’amministrazione».

Altunay si girò verso la donna che per tutto il tempo era rimasta seduta immobile

davanti al bancone. «È sotto shock. A quanto pare conosceva bene il morto, si

incontravano tutte le mattine».

«Per quale motivo dovrebbe essere caduto dalle scale?» chiese.

«Aveva qualche problema con l’alcol, almeno è quanto sostiene l’impiegata»

rispose Cem Altunay. «Il cadavere puzza di alcol e nella cucina dietro al banco della

portineria c’è una bottiglia di Jack Daniels aperta».

Il fattorino con la divisa marrone scuro le porse ansimando il tablet e la penna perché

firmasse la ricevuta della consegna.

La donna scarabocchiò sul display rigato e sorrise soddisfatta. L’uomo non si

preoccupò di nascondere il proprio malumore per essere stato costretto a trascinare il

pacco fino al magazzino invece di lasciarlo nel cortile. Ma Frauke Hirtreiter non ci

badò.

Entrò nel negozio, accese la luce e si guardò intorno. Sebbene l’attività

commerciale appartenesse a Ricky Franzen, lei l’amava come se fosse di sua

proprietà. Finalmente aveva trovato un luogo dove si sentiva sempre a suo agio. Il

Paradiso degli animali si meritava tale nome; non aveva niente a che fare con i negozi

per animali ammuffiti, umidi e male illuminati che Frauke ricordava dall’infanzia.

Aprí la porta della stanza attigua che serviva da sala per la toelettatura. Era il suo

regno. Si era specializzata come parrucchiera per cani – oggi si diceva groomer – alla

scuola serale, il suo lavoro era apprezzato dalla clientela e la riempiva di

soddisfazioni. A questo si aggiungeva la scuola per cani di Ricky e da qualche

settimana il negozio online, che funzionava sempre meglio. Frauke tornò in ufficio,

dove Nika era già seduta al computer e stava evadendo gli ordini arrivati.

«Quanti sono?» si informò Frauke curiosa.

«Ventiquattro» rispose Nika. «Rispetto a lunedí scorso c’è stato un aumento del

cento percento. Però non riesco a inserire i nuovi articoli».

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«Perché?». Frauke prese due tazze dal pensile sopra il lavandino della piccolissima

cucina. La caffettiera borbottava e sbuffava allegramente.

«Non ne ho idea. È sempre lo stesso problema. Inserisco l’articolo ma quando

voglio salvarlo, non succede niente».

«Bisogna chiedere a Mark di dargli un’occhiata. Di sicuro lui saprà che cosa fare».

«Penso che sia la cosa migliore». Nika diede il comando di stampa e subito dopo il

foglio con le ordinazioni uscí dalla stampante a getto d’inchiostro. Nika si stiracchiò

sbadigliando. «Vado al magazzino».

«Prima beviamoci un caffè. Abbiamo ancora un po’ di tempo».

Frauke versò il caffè nelle tazze e ne porse una a Nika.

«Il latte è già dentro».

«Grazie». Nika sorrise e soffiò sul caffè bollente.

Frauke era felicissima che Nika arricchisse il team del Paradiso degli animali,

perché Ricky aveva sempre meno tempo per il negozio. Le commesse mandate

dall’ufficio di collocamento non valevano granché. La prima rubava, quella

successiva era troppo stupida per occuparsi dei clienti e la terza dopo tre giorni

accusava dolori alla schiena apparentemente dovuti al lavoro faticoso. Nika al

contrario era sveglia e non si lamentava mai, aveva organizzato la caotica contabilità e

la sera, da quando la donna delle pulizie si era licenziata, spazzava addirittura il

negozio. Frauke non sapeva molto di lei, a parte che era una vecchia amica di Ricky e

che alloggiava da lei e Jannis a Schneidhain. La prima volta che l’aveva vista non era

rimasta particolarmente colpita: era una ragazza magra, taciturna, con capelli stopposi

biondo cenere, gli occhiali e un colorito pallido. Portava abiti che chiunque altro

avrebbe messo nei sacchi per la Croce Rossa e a confronto di Ricky scompariva come

una starna di fronte a un pavone, ma forse proprio per questo erano diventate amiche.

Ricky non apprezzava particolarmente la concorrenza e Nika non rappresentava un

pericolo in tal senso, al pari di Frauke. Le sarebbe piaciuto avere piú informazioni su

Nika, era sempre cosí laconica e a volte sembrava triste ma, con suo rincrescimento,

la ragazza non parlava quasi mai di sé. Ogni tanto Frauke non ce la faceva a tenere a

freno la curiosità e le chiedeva qualcosa, ma Nika si limitava a sorridere dicendo che

la sua vita era stata cosí anonima che non valeva la pena parlarne.

«Io allora vado». Nika posò la tazza nel lavello. «Ricky dovrebbe arrivare intorno

alle nove e mezza per spedire gli ordini. Ci pensi tu a chiamare Mark?».

«Certo». Frauke annuí e sorrise soddisfatta. La sua vita aveva subito una svolta

decisamente positiva. C’era da sperare che restasse cosí. Magari per sempre.

Henning aveva esaminato a fondo il cadavere raccogliendo le prime informazioni.

Abbassò la mascherina sul mento e si rivolse a Pia e Cem Altunay.

«Direi che la morte risale a un momento compreso tra le tre e le sei di sabato

mattina» disse. «Il rigor mortis non è piú presente, le macchie cadaveriche sono ormai

stabili».

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«Grazie». Pia rivolse un cenno all’ex marito che continuava a fissare il cadavere

con la fronte aggrottata.

«Che cosa c’è?» gli domandò.

«Mah, può darsi che mi sbagli, ma qualcosa mi dice che la morte non è stata causata

da una caduta dalle scale. Non ha il collo spezzato».

«Secondo te è intervenuto qualcuno?».

«È possibile» confermò Henning con un cenno. Pia valutò se fosse il caso di

telefonare a Bodenstein, poi decise di non farlo. Il commissario capo le aveva affidato

la direzione delle indagini, quindi stava a lei giudicare la situazione. Il vago sospetto

di Henning che la morte non fosse stata accidentale bastava per mettere in moto il

meccanismo degli accertamenti.

«Chiamiamo la scientifica e qualche altro collega per isolare la scena» disse a Cem

Altunay. «L’edificio resterà sotto sequestro finché non sapremo che cosa è successo.

E voglio un’autopsia».

«Okay, me ne occupo io». Cem prese dalla tasca il cellulare. Scesero insieme,

mentre delle voci concitate si levavano nei pressi della porta d’ingresso sempre

chiusa. Uno degli agenti, incaricato di impedire agli impiegati della WindPro

l’accesso all’interno della palazzina per evitare la distruzione di eventuali prove

presenti sul luogo, si allontanò dal proprio posto e andò incontro a Pia.

«Che cosa succede?» si informò lei.

«È arrivato il capo e vuole entrare» rispose il poliziotto.

«Lo faccia passare. Però gli altri devono rimanere fuori».

Il poliziotto annuí e tornò all’ingresso.

«Adesso possiamo far entrare un po’ d’aria fresca?» chiese Pia a Henning. Era

madida di sudore e non sopportava piú l’intenso odore di putrefazione.

«No» rispose Henning asciutto. «Prima aspettiamo l’arrivo della scientifica. Non

voglio che Kröger mi faccia dei rimproveri».

«Te li farà comunque» osservò Pia, «perché hai toccato il cadavere prima di lui».

Cem Altunay aveva finito di telefonare e si rimise in tasca il cellulare.

«La scientifica è già partita, ci manderanno dei rinforzi e Kai penserà ad avvisare il

procuratore» riferí.

«Molto bene. È arrivato il capo del nostro morto. Come ci regoliamo?» chiese Pia al

nuovo collega.

«Tu fai le domande, io ascolto» rispose questi.

«Okay». Si sentiva sollevata perché sembrava che con Cem Altunay non ci sarebbe

stato un conflitto di competenze come con Behnke, il quale aveva l’abitudine di

ficcare il naso in ogni indagine e ogni interrogatorio forte del suo status di piú anziano

in servizio. Poco dopo un uomo alto e con le spalle larghe attraversò l’ingresso

accompagnato dall’agente di polizia. L’odore nauseabondo e la notizia che un

impiegato della sua azienda era deceduto avevano fatto perdere ogni colorito al suo

viso. Ma prima che potesse presentarsi a Pia, la donna che aveva trovato il morto si

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riscosse dallo shock che l’aveva paralizzata. Balzò in piedi e si gettò verso il suo capo

lanciando un gemito affranto. Lui dapprima le rivolse un’occhiata carica di irritazione,

poi l’abbracciò e le accarezzò le magre spalle. Esercitando una rispettosa pressione,

Cem Altunay riuscí a convincere la donna in preda ai singhiozzi a staccarsi. Gli

impiegati rimasti al di là della transenna che delimitava la scena ammutolirono

impietositi. Il capo della WindPro era visibilmente scosso, ma manteneva un perfetto

controllo di sé.

«Commissaria Pia Kirchhoff dell’ufficio 11 di Hofheim. Lui è il mio collega Cem

Altunay» si presentò Pia.

«Stefan Theissen» replicò lui. «Che cosa è accaduto?».

La stretta di mano di Theissen era vigorosa e leggermente sudata, cosa che non

sorprese Pia alla luce della temperatura e delle circostanze. Per guardarlo in viso era

costretta ad alzare la testa. Doveva essere alto almeno un metro e novanta e aveva un

aspetto piacente. Per un attimo l’aroma pungente del suo dopobarba scacciò l’odore di

morte. I capelli accuratamente pettinati erano ancora umidi, la pelle sopra il colletto

della camicia era leggermente arrossata per la rasatura.

«Sembra che il suo guardiano notturno, il signor Grossmann, sia stato vittima di un

incidente mortale».

Pia esaminò attentamente Theissen, per coglierne la reazione.

«È terribile. Come… che cosa… cioè…» tacque turbato. «Santissimo Iddio».

«Stando ai primi accertamenti, è caduto dalle scale» proseguí Pia. «La prego, però,

andiamo a continuare la nostra conversazione da qualche altra parte».

«Certo. Vogliamo andare nel mio ufficio?». Theissen rivolse un’occhiata

interrogativa a Pia. «È al terzo piano. Possiamo prendere l’ascensore».

«Meglio di no. Stiamo ancora aspettando i colleghi della scientifica. Finché non

saranno arrivati nessuno può entrare nell’edificio».

«E i miei impiegati?» si informò Theissen.

«Oggi purtroppo dovranno cominciare piú tardi» spiegò Pia. «Prima è necessario

ricostruire accuratamente la dinamica dell’incidente».

«Quanto tempo ci vorrà?».

Sempre la stessa domanda. E Pia dava sempre la stessa risposta.

«Non sono in grado di dirglielo con precisione».

Poi si girò verso Cem Altunay.

«Cem, potresti dire che mi chiamino quando arriva la scientifica?».

Era strano dare del tu in maniera tanto spontanea a quello sconosciuto. Per qualche

motivo Pia non riusciva ancora a considerarlo un collega. Forse la routine le risultava

piú faticosa del solito perché il giorno prima a quell’ora era ancora molto distante da

lí. Pensò brevemente a Christoph e si toccò con il pollice l’anello che portava al dito e

che era sfuggito persino agli occhi di falco di Henning. Le sarebbe piaciuto indugiare

ancora per un istante nel ricordo della loro ultima notte in Cina, ma si rese conto che

Theissen la guardava carico di aspettativa.

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Cem tornò da loro e insieme seguirono il capo della WindPro in una saletta al

pianterreno.

«Accomodatevi». Theissen indicò il tavolo da conferenza. Chiuse la porta e posò la

valigetta su una sedia. Prima di mettersi seduto, si slacciò la giacca. Neppure un

grammo di grasso superfluo, constatò Pia, anche se doveva essere vicino alla

cinquantina. Molto probabilmente faceva jogging tutte le mattine, oppure era uno di

quei fanatici della bicicletta che alle prime ore dell’alba pedalano su e giú per il

Taunus in sella alle loro mountain-bike. Superato il primo shock, Theissen appariva

leggermente piú rilassato e anche il suo viso stava riprendendo colore.

«Come posso aiutarvi?».

«Una delle sue impiegate ha trovato il cadavere del signor Grossmann stamattina»

esordí Pia, ripensando a come qualche istante prima Theissen avesse abbracciato la

donna per confortarla. Un capo compassionevole. Un punto a suo favore.

«La signora Weidauer». Theissen confermò con un cenno del capo. «È la nostra

contabile e viene al lavoro sempre molto presto».

«Ci ha detto che il signor Grossmann aveva un problema con l’alcol. È vero?».

Il direttore assentí con un sospiro.

«Sí, è cosí. Non beveva sempre, ma ogni tanto si ubriacava sul serio».

«In questo caso non rappresentava un rischio per la sua azienda come guardiano

notturno?».

«In effetti». Stefan Theissen si passò una mano tra i capelli mentre cercava le parole

giuste. «Rolf era un mio compagno di scuola».

Pia ne rimase sorpresa. O si era grossolanamente sbagliata a valutare l’età di

Theissen, oppure la morte e la decomposizione avevano fatto sembrare Rolf

Grossmann molto piú anziano di quanto non fosse.

«Ai tempi della scuola eravamo molto amici, poi ci perdemmo di vista. Quando

partecipai a una rimpatriata qualche anno fa, rimasi scioccato. La moglie lo aveva

lasciato, viveva in un dormitorio pubblico a Francoforte ed era disoccupato». Theissen

si strinse nelle spalle con aria rattristata. «Mi fece pena, cosí lo assunsi. Come autista

e poi, dopo che gli venne ritirata la patente, come guardiano notturno. In genere non

c’erano problemi, era una persona affidabile e non beveva mai quando era in

servizio».

«In genere» osservò Cem. «Significa che non era sempre cosí?».

«Purtroppo no. Una volta l’ho sorpreso venendo qui in azienda a tarda ora di ritorno

da un viaggio di lavoro. Era sdraiato in cucina privo di sensi e completamente ubriaco.

Dopo di allora rimase tre mesi ricoverato per disintossicarsi. Era piú di un anno che

non succedevano incidenti e credevo che oramai si fosse lasciato il problema alle

spalle».

Schietto. Onesto. Senza abbellimenti.

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«Secondo le analisi preliminari del medico legale, il signor Grossmann è deceduto

sabato mattina intorno alle quattro» disse Pia. «Come è possibile che nessuno si sia

accorto della sua assenza fino a oggi?».

«Grossmann viveva da solo. E nei fine settimana qui non c’è nessuno, a meno che

non ci troviamo nella fase terminale di un progetto» spiegò Stefan Theissen. «A volte

vengo in ufficio il sabato o la domenica, ma questo fine settimana ero via. Rolf… cioè

il signor Grossmann… finisce il turno solitamente intorno alle sei per poi rientrare in

servizio alle diciotto».

Le dichiarazioni di Theissen erano convincenti. Pia lo ringraziò delle informazioni

che aveva fornito e tutti si alzarono. Proprio in quel momento il cellulare della

commissaria squillò. Era Henning.

«Ho trovato qualcosa di estremamente interessante» le annunciò laconico. «Vieni

sulle scale. Meglio se subito».

La guardò in viso, lottando contro i sensi di colpa per non essere andato a trovarla

tanto a lungo. Lei aveva gli occhi aperti, ma il suo sguardo fissava il nulla. Chissà se

capiva ciò che lui le diceva, se avvertiva le sue carezze?

«Ieri sera è stato un successo incredibile». Le accarezzò la mano. «C’erano tutti,

proprio tutti. Persino la cancelliera Merkel. E naturalmente la stampa. Oggi il libro è

su tutti i giornali. Sono sicuro che ti sarebbe piaciuto, tesoro mio».

Dalla finestra socchiusa entravano i rumori della città: lo sferragliare del tram, colpi

di clacson, rombo di motori. Dirk Eisenhut prese la mano della moglie e baciò le dita

fredde. Tutte le volte che entrava nella sua camera e la trovava sdraiata a letto con gli

occhi aperti, in lui si riaccendeva la speranza. C’erano stati casi di persone che si

erano svegliate dal coma dopo diversi anni. Finora nessuno poteva dire con sicurezza

che cosa succedeva nella mente di tali pazienti. Lui sapeva che lei lo sentiva. A volte

sembrava addirittura reagire alla sua voce, ogni tanto ricambiava la stretta della sua

mano e in qualche occasione gli era sembrato di vederla sorridere, quando le

raccontava del passato oppure la baciava.

Le riferí a voce bassa della presentazione del suo nuovo libro, avvenuta la sera

precedente alla Deutsche Oper, con grande partecipazione dei media. Le elencò i nomi

degli illustri ospiti del mondo politico, economico e culturale, le portò i saluti di

conoscenti e amici. Quando sentí bussare alla porta non si girò neppure.

«Ora purtroppo non potrò venire a trovarti per diverso tempo» bisbigliò. «Devo

partire. Ma ti penso sempre, tesoro mio».

Ranka, l’efficiente caposala della casa di cura, era entrata nella camera. Lui aveva

riconosciuto il suo inconfondibile profumo di lavanda e acqua di rose.

«Ah, abbiamo qui il professore. Era da molto tempo che non passava a trovarci».

Gli parve di cogliere una nota di disappunto nella voce, ma decise che non era il caso

di giustificarsi.

«Buongiorno, Ranka» si limitò a rispondere. «Come sta mia moglie?». In genere lei

era solita fornirgli un resoconto dettagliato della giornata di Bettina, raccontandogli di

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un’uscita sul balcone oppure di un minimo progresso nella fisioterapia. Oggi invece

rimase taciturna.

«Bene» disse soltanto. «Bene. Come sempre».

Una brutta risposta. Dirk Eisenhut non voleva sentirsi dire che non era cambiato

niente. La stasi significava regresso. In un primo momento la riabilitazione precoce

aveva dato buoni risultati e le condizioni di Bettina erano migliorate lentamente ma in

maniera costante grazie al trattamento di stimolazione basale, alla fisioterapia e alla

logopedia. Aveva imparato di nuovo a deglutire da sola e cosí era stato possibile

eliminare la cannula tracheale e in seguito la sonda gastrica. Esisteva un cinquanta

percento di possibilità di recupero dalla sindrome apallica. Essendo uno scienziato, lui

sapeva che non c’erano garanzie e che quel cinquanta percento significava in realtà

che difficilmente sarebbe andato tutto bene. Se nel giro di un anno non fossero

subentrati evidenti miglioramenti nelle facoltà fisiche e mentali e la paziente fosse

rimasta incosciente, il trattamento sarebbe passato alla fase F. La cruda terminologia

medica per questa fase riabilitativa era «trattamento riabilitativo intenso e continuo».

E stava a significare la fine di qualsiasi speranza di guarigione.

Salutò la moglie con un bacio, informò Ranka che si sarebbe assentato per un

viaggio di lavoro di alcuni giorni e uscí dalla camera.

Da quella terribile notte di San Silvestro era tornato solo due volte nella villa di

Potsdam, o meglio in ciò che ne rimaneva dopo l’incendio: con i periti della polizia e

per recuperare i documenti conservati nello studio in gran parte rimasto intatto. Poi

basta. Adesso occupava l’appartamento in centro che Bettina aveva tanto amato, a

poca distanza dalla casa di cura in Rosenthaler Strasse. Non lo disturbava dover

attraversare la città tutte le mattine per andare al lavoro, era il suo castigo. Rivolse un

cenno di saluto al portiere e uscí sul marciapiede. Si fermò e fece qualche profondo

respiro, mentre il frastuono e la frenesia della metropoli lo assalivano. Un’orda di

turisti diretti agli Hackeschen Höfe gli passò davanti chiacchierando e sghignazzando,

un tassista si fermò davanti a lui scoccandogli un’occhiata interrogativa, ma gli

rispose con un cenno del capo di non aver bisogno di un mezzo di trasporto. Dopo

essere stato a trovare Bettina aveva sempre bisogno di una passeggiata e inoltre era a

pochi passi di distanza da casa. Si mise in marcia, attraversò la strada e dopo qualche

centinaio di metri imboccò Neue Schönhauser Strasse, dove si trovava il suo

appartamento.

Forse avrebbe sopportato meglio tutto quanto se non avesse potuto impedire la

tragedia. Tornando a casa nel tardo pomeriggio dopo la festa all’istituto, aveva trovato

la villa avvolta dalle fiamme. Il freddo intenso e ulteriori problemi all’autopompa

avevano ritardato all’infinito l’intervento dei vigili del fuoco. Quando finalmente le

fiamme erano state domate, Bettina era stata portata fori viva per miracolo. Il medico

era riuscito a rianimarla, ma il cervello aveva subito gravi danni a causa della

prolungata mancanza di ossigeno dovuta all’intenso fumo sprigionato dall’incendio.

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Lui non aveva ancora superato lo shock ed era perfettamente consapevole di essere

il responsabile di quanto accaduto. Aveva commesso un terribile sbaglio, uno sbaglio

al quale non avrebbe mai piú potuto rimediare.

Oggi era la giornata che poteva risultare decisiva. Aveva raccolto informazioni per

settimane, anzi mesi, valutandole e traducendole in un tedesco comprensibile a tutti

per ottenere il maggior numero possibile di adesioni alla sua causa. I suoi sforzi erano

stati coronati dal successo, l’iniziativa popolare «Niente pale eoliche nel Taunus»

contava piú di duecento partecipanti e dieci volte altrettanti simpatizzanti. Era stata

sua l’idea di portare in televisione il tema poco prima dell’assemblea pubblica, si era

occupato di ogni cosa e quel pomeriggio era il gran giorno. La posta in gioco era

altissima! La controparte doveva comprendere che non si trovava di fronte una

manciata di fanatici, bensí centinaia di cittadini contrari al folle progetto della centrale

eolica. Jannis Theodorakis uscí dalla doccia, prese la salvietta e si asciugò. Si passò

una mano assorto sul mento non rasato. Quella barba di tre giorni in realtà gli piaceva,

ma forse sarebbe stato meglio mostrarsi curato e serio alle telecamere. Dopo essersi

rasato, andò in camera da letto e sottopose il guardaroba a un attento esame. Giacca e

cravatta sarebbero stati esagerati? Erano passati anni dall’ultima volta che aveva

indossato un abito formale per andare al lavoro, molto probabilmente quei capi non gli

stavano nemmeno piú. Alla fine scelse un paio di jeans che abbinò a una camicia

bianca e a una giacca sportiva. Da quando Nika si occupava della casa, gli armadi

erano sempre pieni e i vestiti accuratamente stirati. Jannis posò camicia e jeans sul

letto matrimoniale, la cui vista gli provocò un’involontaria diminuzione del buon

umore. Ricky ormai dormiva sul divano in salotto oppure sul pavimento, adducendo

come spiegazione che il mal di schiena non le permetteva di stare sdraiata a letto. Da

molto tempo ormai era oberata dal lavoro che si andava accumulando, ma non lo

avrebbe mai riconosciuto. Il negozio, il canile e la scuola di addestramento, le

incombenze domestiche e l’organizzazione dell’iniziativa di protesta le richiedevano

piú tempo di quanto ne avesse a disposizione, e per la vita privata non c’era

praticamente piú spazio. Il risultato di questa frenesia erano dolori alla schiena sempre

piú forti, che curava con sedute dal chiropratico e che le offrivano, questo era il parere

di Jannis, un’ottima scusa per non concedersi piú a lui.

Jannis uscí dalla camera da letto ed entrò in cucina. I gatti acciambellati sulla panca

e sulla sedia a godersi il sole scapparono fulminei sul terrazzo dalla gattaiola. Tutte

quelle bestie che Ricky si portava a casa nel suo sconfinato amore per gli animali gli

davano sui nervi. Poteva ancora accettare i due cani, ma i gatti, quegli arroganti esseri

felpati che lasciavano peli dappertutto, lo ripugnavano. A loro volta, essi

ricambiavano il suo odio con fiero disprezzo e disdegnavano la sua compagnia quanto

lui la loro.

La stanza era inondata dalla luce del sole che entrava dalla finestra. Era un

pomeriggio di inizio estate perfetto per le riprese previste per il pomeriggio. Jannis si

preparò un caffè, spalmò con burro e marmellata di fragole uno dei panini fragranti e

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lo addentò con gusto. I suoi pensieri vagarono pigri su Nika, come gli capitava spesso

negli ultimi tempi.

In un primo momento si era accorto solamente del suo aspetto esteriore: i vestiti

grotteschi, la pettinatura impossibile, gli occhiali da gufo. Nika parlava poco ed era

cosí riservata che spesso lui si dimenticava della sua presenza in casa. Non sapeva

niente di lei e non aveva provato alcun interesse nei suoi confronti fino a un fatto

accaduto tre settimane prima.

Jannis si sentí avvampare richiamando alla memoria l’evento che aveva cambiato

tutto. Era sceso in cantina a prendere una bottiglia di vino per la cena e, proprio nel

momento in cui tornava di sopra, Nika era uscita dal bagno completamente nuda, i

capelli umidi pettinati all’indietro. Erano rimasti a guardarsi sbigottiti per qualche

secondo, poi lui aveva proseguito frettolosamente verso le scale mormorando delle

scuse. Nessuno di loro aveva piú parlato di quell’incontro, ma da allora la disinvoltura

nel loro rapporto era svanita. L’immagine di Nika si era impressa indelebile nella sua

mente. Jannis non faceva che pensare a lei quando era sdraiato a letto solo e Ricky

dormiva russando sul pavimento; dopo ogni notte andata in bianco il desiderio per lei

cresceva, ormai era diventata un’ossessione che lo tormentava e lo faceva infuriare. Se

Ricky, gelosa com’era, avesse sospettato anche solo lontanamente, sarebbe scoppiato

l’inferno. Nonostante questo lui non riusciva a scacciare dalla propria mente

l’immagine dei seni nudi di Nika.

«Nika» mormorò, gustando il tenero tormento che gli provocava pronunciare il suo

nome. Il ricordo del loro incontro, che nelle sue fantasie sempre piú sfrenate ormai

non si concludeva piú con la sua fuga in preda alla vergogna, lo fece eccitare suo

malgrado. «Dannazione, Nika, dannazione a te».

Il commissario capo Oliver von Bodenstein era in piedi davanti allo specchio

dell’armadio e si annodava la cravatta contrariato. Che idea balzana sposarsi un lunedí

mattina, costringendo cosí la parte della famiglia che lavorava a prendere un giorno di

ferie! Si guardò con occhio critico di profilo. Anche tirando in dentro la pancia, questa

continuava a sporgere sfacciata sopra la cintura dei pantaloni. La sera precedente, per

la prima volta in vita sua, la lancetta della bilancia aveva superato la tacca dei novanta

chili, provocandogli un autentico shock. Ancora nove chili e sarebbe arrivato al

quintale! Se non la smetteva subito di cenare tutte le sere con i suoi genitori e poi di

concedersi una bottiglia di vino rosso insieme al padre, ben presto avrebbe dovuto

valutare se voleva portare la pancia sopra oppure sotto la cintura.

S’infilò la giacca. L’abito mascherava la maggior parte dell’adipe, ma lui si sentiva

lo stesso a disagio. E non dipendeva soltanto dall’imminente banchetto di nozze e dal

suo aumento di peso. Per piú di vent’anni la sua vita aveva seguito binari prevedibili e

ordinati, ma dopo la separazione da Cosima sei mesi prima, era scoppiato il caos, e

non solo nelle sue abitudini alimentari. Si era accorto ben presto di aver commesso un

errore a farsi coinvolgere in una storia con Heidi Brückner, conosciuta nel novembre

precedente durante un’indagine. Si erano incontrati quando la sua vita era stata

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sconvolta fino alle fondamenta dal tradimento di Cosima e lei lo aveva aiutato a

superare il dolore iniziale, ma lui non era ancora pronto a buttarsi in una nuova

relazione stabile. Dopo qualche telefonata, aveva smesso di chiamarla e la cosa era

finita da sola, senza discussioni e senza il minimo turbamento da parte sua.

Tuttavia, il vero motivo per cui adesso avrebbe preferito trovarsi con i colleghi

accanto a un cadavere invece di essere diretto al municipio di Kelkheim, era Cosima.

Da quando lo aveva messo di fronte al fatto compiuto sei mesi prima ed era partita

poco dopo per una crociera intorno al mondo con il suo amante russo, lui non le aveva

piú parlato. Ce l’aveva ancora con lei, perché aveva distrutto la famiglia e la sua vita

per puro egoismo. La relazione segreta con quell’avventuriero di Alexander Gavrilov

era andata avanti per mesi, senza che lui avesse nutrito neppure il minimo sospetto. Si

era presa gioco di lui, coprendolo di ridicolo, e ancora una volta non gli era rimasta

altra scelta se non di accettare le decisioni prese da lei, se non altro per il bene dei

figli. Lorenz e Rosalie erano ormai adulti e potevano cavarsela da soli, ma Sophia

aveva solo due anni e mezzo. Aveva diritto a un padre e a una madre, qualunque cosa

fosse successa tra Cosima e lui. Bodenstein gettò un’ultima occhiata rassegnata allo

specchio. Aveva deciso di utilizzare il ritrovamento del cadavere come scusa per

lasciare i festeggiamenti subito dopo la cerimonia nuziale, nel caso che Cosima fosse

tanto spudorata da venire in compagnia di quel Gavrilov. In cuor suo sperava quasi

che lo facesse.

Vide le due auto parcheggiate in cortile già da lontano e intuí ciò che lo aspettava.

Ludwig Hirtreiter non era persona da evitare i conflitti, cosí continuò a camminare e

aprí il cancello del giardino. Tell corse verso i due uomini e cominciò ad abbaiare.

«Tell!» lo richiamò lui. «A cuccia!».

Il cane ubbidí prontamente.

«Che cosa volete?» ringhiò Hirtreiter. Era ancora molto nervoso a causa dell’azione

illegale dei taglialegna nel bosco. I suoi figli non avrebbero potuto trovare un

momento peggiore per fargli visita.

«Buongiorno, papà» lo salutò Matthias, il piú giovane, con un sorriso. «Hai tempo

per prendere un caffè con noi?».

Che manovra assolutamente prevedibile.

«Se ricominciate con la storia del Pfaffenwiese, no». Sapeva benissimo che erano

venuti apposta per questo. Avevano interrotto qualsiasi contatto per anni, tranne

l’anonimo biglietto di auguri per Natale e la telefonata d’obbligo per il suo

compleanno, e per lui andava benissimo cosí. Guardò i figli e inarcò le sopracciglia.

Se ne stavano lí abbacchiati e impacciati, con i loro abiti eleganti, le loro macchine

costose.

«Papà, per favore» lo implorò Gregor in un tono sottomesso che gli si addiceva

poco quanto l’assurda auto sportiva. «Non è possibile che desideri davvero che

perdiamo tutto ciò che ci siamo costruiti».

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«Perché dovrebbe interessarmi?». Ludwig Hirtreiter si tolse il fucile di spalla, lo

posò in terra e ci si appoggiò. «Voi non vi siete mai interessati a me, quindi perché

adesso io dovrei farlo con voi?».

Gli avevano telefonato per la prima volta un paio di settimane addietro. Per fargli

un saluto, avevano detto. Lui si era subito insospettito, e a ragione, come era emerso

ben presto. Ludwig Hirtreiter continuava a ignorare come avessero fatto i figli a

venire a sapere dell’offerta della WindPro, ma era stata proprio questa l’unica ragione

che aveva riacceso quell’improvviso amore filiale. Dovevano essere davvero disperati

per farsi vedere da lui dopo tutto quel tempo. Era stato Matthias a parlare per primo

del Pfaffenwiese. Alla fase delle cortesie era succeduta quella delle suppliche,

annidate nella timida rivelazione delle loro precarie condizioni finanziarie. Quando

neppure questo approccio aveva dato i frutti sperati, si erano appellati al senso di

responsabilità paterno. Praticamente erano in bancarotta, l’uno paventava l’arrivo del

commissario giudiziale, l’altro dell’ufficiale giudiziario. Entrambi avevano urgente

bisogno di denaro, entrambi temevano le malignità e la derisione di quelli che

avevano abbagliato per anni con la loro vita lussuosa in prestito.

«Avete finito?». Hirtreiter squadrò i due uomini che gli erano ormai indifferenti.

Non provava piú alcun sentimento verso di loro, né buono, né cattivo. «Ho da fare».

Imbracciò il fucile e fece per andarsene.

«Aspetta, papà, per favore!». Matthias fece un passo verso di lui. Nel suo sguardo

non c’era piú traccia di superiorità, soltanto pura disperazione. «Non riusciamo a

capire perché ti opponi cosí alla vendita di quel pascolo. Non vogliono mica costruirti

un’autostrada sotto il naso. Al massimo avrai qualche settimana di disagi durante i

lavori, ma poi capiterà solo saltuariamente qualche tecnico per la manutenzione».

Non aveva tutti i torti. Era davvero assurdo rifiutare l’offerta della WindPro,

soprattutto adesso che avevano rilanciato di un altro milione. Ma poi, come diavolo

avrebbe fatto a presentarsi di fronte agli altri, che si fidavano di lui e della sua

integrità? Heinrich non gli avrebbe piú rivolto la parola! Se vendeva il pascolo, non

sarebbe piú stato possibile impedire la creazione del parco eolico e tutto sarebbe

diventato inutile.

Matthias interpretò il silenzio paterno come segnale positivo.

«Siamo davvero addolorati per quanto successo all’epoca» proseguí. «Abbiamo

detto molte stupidaggini e ti abbiamo offeso. Non possiamo piú rimediare, ma forse

potremmo provare a ricominciare daccapo. Come famiglia. Ai tuoi nipoti farebbe

piacere frequentare piú spesso il loro nonno».

Che rozzo tentativo di manipolazione.

«È davvero un gesto apprezzabile da parte tua» ribatté Ludwig Hirtreiter. Vide la

speranza accendersi nello sguardo del figlio e allora la distrusse con gioia maligna.

«Purtroppo però arriva troppo tardi. Voi non mi interessate piú. Nessuno dei due.

Lasciatemi in pace, come avete fatto per vent’anni».

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«Ma papà» si umiliò Gregor in un ultimo, disperato tentativo. «Siamo pur sempre i

tuoi figli e…».

«Siete stati un episodio della mia vita, nient’altro» lo interruppe brusco Ludwig

Hirtreiter. «Non venderò il prato. Fine della discussione. E adesso sloggiate dalla mia

proprietà».

Gli agenti della scientifica avevano assunto il comando sotto la direzione del

commissario capo Christian Kröger. Infilati nelle loro tute bianche con cappuccio e

mascherina, conclusero gli accertamenti sulla scena del crimine in maniera rapida e

precisa, prelevando e catalogando tutte le prove che in un secondo tempo avrebbero

potuto rivelarsi decisive. Un lavoro meticoloso ed estenuante, per il quale Pia non

avrebbe mai avuto la pazienza necessaria. Due agenti erano impegnati a cospargere il

corrimano in acciaio inossidabile della scala fino al terzo piano di polvere nera per

rilevare le impronte digitali. Pia lo trovava perfettamente inutile, dato che ogni giorno

dozzine di persone posavano la mano sulla balaustra, ma tenne quest’opinione per sé,

per non attirarsi l’antipatia di Kröger fin dal primo giorno dopo il rientro dalle ferie.

La folla di impiegati sopraggiunti nel frattempo era stata sospinta all’esterno e

anche la signora Weidauer era sparita. Regnava un silenzio quasi religioso, interrotto

solo dagli scatti delle macchine fotografiche.

«Ciao, Christian». Pia salutò il capo della scientifica. Lui e Henning erano

inginocchiati sul pianerottolo accanto al cadavere, incuranti del fetore e del nugolo di

mosche ronzanti.

«Ciao, Pia» rispose Kröger senza alzare la testa. «Guarda che cosa ha trovato il

medico legale».

Pia e Cem Altunay si avvicinarono. Il dottor Henning Kirchhoff e Christian Kröger

lavoravano insieme da anni e si erano incontrati tantissime volte sul luogo di morti

accidentali e premeditate, ma tra di loro non c’era alcuna simpatia, piuttosto il

contrario: nutrivano loro malgrado il dovuto rispetto per le reciproche competenze

professionali, ma per il resto non si potevano soffrire.

«Ecco». Henning afferrò la mano destra della vittima, stretta a pugno, e tirò le dita

per aprirla. «Se non mi sbaglio, quello che tiene in mano è il frammento di un guanto

in lattice».

«E allora?». Pia scosse il capo perplessa. «Che cosa dovrebbe significare?».

«Naturalmente esiste la possibilità che il nostro uomo compisse il suo giro di ronda

notturna stringendo in mano un pezzo di guanto in lattice, magari come una specie di

feticcio» ribatté Henning con quel tono paternalistico che mandava su tutte le furie

Pia. «Ne ho già viste tante di cose strane. Ti ricordi quel direttore di banca qualche

anno fa, che si era impiccato nel suo ufficio? Quello del reggiseno di sua madre…».

«Me lo ricordo» lo interruppe Pia spazientita. «Che cosa c’entra con questo

morto?».

«Niente» rispose serafico Henning. «Il guanto in lattice può essere irrilevante, ma

che cosa mi dite di questa?».

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Si alzò e fece segno a Pia e Cem di seguirlo su per le scale. Si fermò sul quinto

gradino e indicò una macchia grossa quanto il palmo di una mano in una chiazza di

sangue secco sul granito grigio.

«Questa» disse, «è indubbiamente l’impronta parziale di una scarpa. Ma non della

scarpa di Grossmann».

Pia si chinò a esaminare la misteriosa macchia. Poteva rappresentare la prova che

Grossmann era stato ucciso?

Al pianterreno Stefan Theissen era appoggiato al bancone nell’atrio e parlava al

telefono a voce bassa, seguendo con attenzione l’attività sulla scala, ma senza

manifestare alcuna emozione.

«Capo!». Un collega della scientifica si sporse dalla balaustra del terzo piano.

«Venga su!».

Christian Kröger salí le scale tenendosi sulla sinistra, per non rischiare di inquinare

le prove.

«Con il cadavere abbiamo finito. Puoi farlo portare via» disse Henning a Pia

togliendosi la tuta e ripiegandola con cura.

«Bene. Lo faccio portare da te. L’autorizzazione all’autopsia dovrebbe essere una

pura formalità».

«Speriamo. Alla procura diventano sempre piú esigenti». Henning chiuse la

valigetta e s’infilò la giacca. «La vacanza ti ha fatto bene. Hai l’aria piú riposata».

«Grazie» rispose Pia, stupita e insieme lusingata da questa affermazione quasi

distratta, che sulla bocca di Henning assumeva il significato di un vero e proprio

complimento. Se si fosse limitato a quello, sarebbe stata una delle rare occasioni in cui

l’incontro con l’ex marito le avrebbe lasciato un ricordo piacevole. Ma Henning, che

possedeva una perspicacia notevole sul lavoro, ma non nei rapporti con il prossimo,

rovinò completamente quell’impressione.

«Sono contento per te, che tu abbia trovato qualcuno in grado di offrirti un po’ di

piú di quanto potessi fare io».

Pia non se la sarebbe presa a male per questa osservazione, se non fosse stata

pronunciata con tanta condiscendenza.

«Non ci voleva certo un miracolo» rispose piccata. «A ben vedere, tu non mi hai

offerto mai niente».

«Ma dai! Una bella casa, un’auto di lusso, i cavalli e una quantità di competenze

forensi che piú di un collega ti invidia». Henning la guardò con le sopracciglia alzate.

«Non lo definirei propriamente niente».

«Ognuno si aggiusta le cose come meglio può» sibilò Pia, assalita di colpo dal

ricordo del suo prestigioso appartamento di Francoforte, raffinato ma privo di vita,

dove aveva trascorso tante ore di solitudine mentre Henning si dedicava al suo lavoro,

senza preoccuparsi minimamente di lei. Aveva sopportato quella situazione fin troppo

a lungo, fino al giorno in cui lui, senza neppure informarla, era partito per la scena di

un crimine sulle Alpi austriache. Lei aveva fatto i bagagli e se n’era andata. Per non

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smentirsi, lui se n’era accorto solo due settimane piú tardi. Pia avrebbe voluto

aggiungere qualcosa al riguardo, ma fu interrotta dallo squillo del cellulare. Era

Kröger.

«Venite su nell’ufficio del capo. Terzo piano, ultima porta a sinistra» le disse

soltanto, poi riagganciò.

«Ciao. Salutami Miriam» disse Pia in tono brusco all’ex marito, poi fece segno a

Cem Altunay, che aveva appena organizzato telefonicamente la rimozione del

cadavere, di seguirla.

L’ufficio di Theissen era l’ultimo del corridoio. Era spazioso e arredato con molto

gusto. Pia apprezzò il contrasto creato dal parquet sul pavimento con la vetrata a tutta

altezza, i mobili di cristallo e legno scuro. Si guardò intorno e arricciò il naso. L’odore

di decomposizione era penetrato fin lassú. Non c’era da sorprendersi, dal momento

che la porta sul corridoio era rimasta aperta e l’aria calda tendeva a salire. Tuttavia

l’intensità del puzzo la sorprese.

«Che cosa c’è?» domandò.

«Ah». Christian Kröger, chino sulla scrivania, si voltò. «Venite a dare un’occhiata

qui».

L’odore dolciastro e nauseabondo diventò soffocante. Com’era possibile? Pia si

annusò in maniera discreta dentro l’orlo della maglietta, che sapeva leggermente di

sudore e conservava una traccia di detersivo. Si fermarono davanti alla scrivania e lei

trattenne il fiato per il puzzo. In mezzo al piano di cristallo perfettamente lucidato,

c’era un batuffolo di pelliccia bruno e bianco. Poi Pia notò i vermi. Erano centinaia,

bianchi, che strisciavano sulla scrivania dopo essersi saziati dal piccolo cadavere.

«Un criceto morto». Cem Altunay fece una smorfia. «Che cosa significa?».

«Credo che sia il caso di chiederlo al signor Theissen» rispose Pia. Due minuti dopo

il capo della WindPro usciva dall’ascensore. Non era particolarmente entusiasta

dell’occupazione della sua azienda, ma non se ne lamentò.

«Che cosa c’è?» si informò.

«Venga». Pia lo condusse nel suo ufficio e gli indicò la scrivania. Theissen notò il

criceto morto e sobbalzò all’indietro.

«Saprebbe darci una spiegazione e dirci che cosa significa?» gli chiese Pia.

«No, non ne ho idea» borbottò lui nauseato. Pia notò un tic nervoso sul suo viso

pallido e in quel momento la sua mente scattò d’impulso dall’ozioso stand-by delle

ferie alla massima concentrazione professionale. Il suo istinto era all’erta. Theissen

sapeva benissimo che cosa stava a significare il criceto morto sulla sua scrivania. La

sua ultima affermazione era una bugia pura e semplice.

Al negozio era tornata la calma dopo un breve affollamento. Frauke aveva finito con i

primi appuntamenti di quel lunedí mattina, occupandosi del recalcitrante airedale

terrier di una cliente di Kronberg e dei due yorkshire di una vedova di Johanniswald,

che erano ospiti fissi ogni due settimane. Mentre Ricky consigliava i pochi clienti

della mattinata dopo essere tornata dal giro di consegne, Nika e Frauke sistemarono

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sugli scaffali i nuovi articoli appena arrivati. La campana della vicina chiesa di Santa

Maria stava battendo undici rintocchi quando Mark entrò nel negozio.

«’giorno» disse a Frauke, sfilandosi dall’orecchio uno degli auricolari bianchi

collegati all’immancabile iPod nella tasca del giubbotto e fermandosi accanto a lei. Il

suo sguardo si spostò su Ricky, che si stava dando da fare piena di slancio per rifilare

uno dei fondi di magazzino a un cliente entrato per acquistare semplicemente un

collare antipulci per il suo rhodesian ridgeback. Con proprietà di linguaggio e grande

carisma elencava all’uomo le qualità di una costosissima sportina di lusso, dopo che

aveva scoperto che l’uomo era in procinto di partire per un lungo viaggio in Canada

portandosi appresso il cane.

«Ricky sa vendere proprio tutto, vero?» commentò Mark con un sorriso ammirato e

Frauke assentí concorde. Il cliente ormai non opponeva piú resistenza e sorrideva

come se fosse ipnotizzato. Bisognava riconoscere che Ricky era una venditrice

eccezionale. Inoltre sapeva come incantare l’universo maschile comandandolo a

bacchetta. I capelli biondi spartiti in due trecce, il colorito abbronzato e la profonda

scollatura del suo abito tradizionale con il corpetto che aderiva al busto slanciato: tutto

questo era una combinazione che le aveva creato intorno un vero e proprio fan club.

Non le mancavano mai aiutanti volontari per il canile e lei si beava letteralmente nella

loro adorazione.

«Che problema avete?» si informò Mark. Frauke lo precedette in ufficio. Lui si

tolse lo zaino di spalla, lo lasciò cadere distrattamente per terra e si mise seduto alla

scrivania. Frauke gli spiegò l’errore che compariva ripetutamente, tutte le volte che

voleva inserire un nuovo articolo nel sistema. Mark si mise comodo sulla sedia, infilò

di nuovo l’auricolare e avvicinò a sé la tastiera. Frauke lo osservò di sottecchi. Aveva

capelli scuri e unti che portava pettinati davanti al viso e che gli ricadevano

continuamente negli occhi. Muoveva la testa a ritmo con la musica e teneva il tempo

con un piede.

«C’è altro?». Alzò il capo e le lanciò un’occhiata spazientita.

«No, no. Fa’ pure con comodo». Gli sorrise, reprimendo l’impulso di dargli una

pacca sulla spalla, e tornò in negozio. Ricky stava aiutando il cliente a caricare in

macchina l’ingombrante trasportino e poco dopo rientrò con un sorriso soddisfatto

sulle labbra.

«Finalmente ci siamo liberati di quel coso» ridacchiò tra sé. «Gli ho fatto il venti

percento di sconto. Ma gliel’avrei anche regalato».

«Complimenti» rispose Frauke. «Adesso finalmente posso risistemare l’angolo».

«Già, finalmente».

Frauke aveva un talento naturale per allestire gli spazi espositivi. Gradualmente

Ricky aveva lasciato a lei la responsabilità della decorazione del negozio e Frauke

gliene era grata.

«Venite, ragazze, beviamoci un caffè» propose Ricky. Frauke e Nika la seguirono

in ufficio. Mark interruppe il lavoro, si tolse gli auricolari e lanciò un’occhiata a

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Ricky. L’espressione concentrata e scontrosa abbandonò il suo volto e per un attimo

sembrò quasi carino.

«Ah, c’è anche il mio collaboratore piú prezioso» osservò Ricky raggiante. «Grazie

di essere venuto subito».

«Nessun problema» mormorò Mark impacciato, arrossendo violentemente.

Frauke versò un caffè per sé e Ricky e le porse la tazza, Nika si serví da sola.

«A proposito, Mark» disse Ricky in tono casuale. «Non è che avresti ancora un po’

di tempo? Dovrei sistemare i nuovi ostacoli per il corso di agility, e potrebbe servirmi

aiuto».

«Io… io non avrei ancora finito qui». Mark gettò un’occhiata interrogativa a

Frauke. Nella sua sconfinata ammirazione per Ricky, sarebbe stato pronto a

raggiungere il Polo Nord a piedi scalzi, se lei glielo avesse chiesto, Frauke lo sapeva

benissimo. E anche Ricky, senza ombra di dubbio. Chissà se provava gusto nell’essere

idolatrata tanto platealmente da un sedicenne brufoloso? In realtà non era poi cosí

sicura di sé come voleva far credere, per questo cercava sempre inconsciamente un

pubblico che l’ammirasse in maniera acritica.

«Il computer non scappa mica» disse quindi Frauke.

Nascosti sotto la frangia che gli dava un aspetto esteriormente apatico e

indifferente, gli occhi di Mark lampeggiarono di felicità.

«Va bene, ho tempo». Si mise in spalla lo zaino e si alzò.

«Benissimo». Ricky posò la tazza del caffè. «Allora andiamo subito». Il giovane la

seguí in cortile insieme al golden retriever e al samoiedo che aspettavano pazienti la

loro padrona ai piedi della scala. Frauke osservò il bizzarro quartetto allontanarsi e

scosse la testa.

«Mi scusi, dottor Theissen» disse Cem Altunay. «Avrei da chiederle ancora una

cortesia. Su tutti i piani ci sono telecamere di sorveglianza. Potrebbe farci visionare le

registrazioni?».

Stefan Theissen esitò per una frazione di secondo, poi staccò lo sguardo dalla

scrivania e annuí.

«Ma certo. Il capo della sicurezza aspetta fuori. Vi metterà a disposizione tutti i

nastri il prima possibile. Forse potreste farlo entrare? E anche la centralinista, in modo

che possa rispondere al telefono?».

«D’accordo» concesse Pia. «Ma gli altri devono rimanere fuori, finché i colleghi

non hanno terminato».

Aspettò che Theissen e Cem si fossero allontanati.

«Che cos’altro hai?» chiese a Kröger.

«Come ti viene in mente che ci sia ancora qualcosa?» domandò lui di rimando.

«Non ti basta un criceto putrefatto nell’ufficio del capo?».

Pia sogghignò e inclinò la testa di lato.

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«E va bene» concesse Kröger. «Abbiamo trovato un foglio sotto la fotocopiatrice

nell’anticamera. Non so se sia importante. Forse è scivolato in terra alla segretaria,

oppure no».

Pia seguí Kröger nella stanza adiacente e afferrò il foglio che era già stato inserito

in una bustina di plastica. Ne scorse velocemente il testo.

«È la pagina 21 di una perizia sui venti» constatò. «Non mi sembra niente di

straordinario in un’azienda che produce impianti eolici».

«Pagina 21 di 63» ribatté Christian Kröger. «Al tuo posto chiederei di vedere tutta la

perizia. E controllerei quand’è stata fotocopiata l’ultima volta».

«È possibile farlo?».

«Con una fotocopiatrice di questo tipo sí. Dopo ogni sessione restano registrati dati

temporanei sul disco fisso. Come in un computer».

«Certo che ne sai una piú del diavolo» commentò Pia.

Christian Kröger era una persona con le competenze piú disparate. Bodenstein lo

avrebbe voluto in squadra con sé, ma Kröger era soddisfatto del suo ruolo nella

scientifica e con i suoi trentacinque anni probabilmente non era ancora arrivato ai

vertici della propria carriera.

«Posso rimettermi al lavoro?» domandò.

«Ma certo». Pia si appoggiò a braccia conserte allo stipite della porta dell’ufficio di

Theissen e osservò due degli uomini di Kröger, inginocchiati sul pavimento con le

loro tute bianche, infilare il criceto morto e i vermi piú che mai vivi in buste di

plastica e poi passare strisce adesive su quasi tutte le superfici, per raccogliere

impronte, peli e frammenti di pelle. Il suo cervello pensava alacremente.

Chi aveva messo il criceto morto sulla scrivania di Theissen? A giudicare dallo

stato di decomposizione dell’animaletto, doveva essere accaduto piú o meno

contemporaneamente alla morte di Rolf Grossmann. Si girò e percorse lentamente il

corridoio. Quale tragedia si era compiuta qui nella notte tra venerdí e sabato? Il suo

cellulare squillò un’altra volta. Era Kai Ostermann.

«Ehi, vacanziera» la salutò allegro, «com’è andata in Cina?».

«Ciao, Kai» rispose Pia, preparandosi a scendere le scale. «È stato fantastico.

Troppo breve. Cem si è messo in contatto con te?».

«Sí. Ho parlato con il procuratore. Si può procedere con l’autopsia».

«Magnifico. Ci vediamo piú tardi». Superati gli ultimi gradini, Pia si guardò intorno

alla ricerca del nuovo collega. Gli impiegati dell’obitorio stavano portando via il

sacco con il cadavere di Grossmann, l’impianto di condizionamento era tornato a

funzionare e il fastidioso odore si era diradato grazie all’apertura del grande

lucernario. Dietro il bancone all’ingresso stava seduta una donna bruna e rotondetta

sulla quarantina, con un’espressione raggelata che dimostrava quanto si sentisse a

disagio. Perfettamente comprensibile, dopotutto Grossmann aveva esalato l’ultimo

respiro a pochi passi di distanza e nella cucina alle sue spalle i funzionari di polizia in

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camice bianco erano impegnati a raccogliere indizi. Non era di sicuro il miglior lunedí

della sua vita.

«Sa dov’è il mio collega?» le chiese Pia.

«Al CED». L’impiegata si sforzò di sorridere ma non si mosse di un millimetro.

«Seconda porta a sinistra lungo quel corridoio».

«Grazie». Pia stava per allontanarsi, poi pensò di fare qualche domanda anche a lei.

«Senta, lei conosceva il signor Grossmann, vero?».

«Sí, certo».

«Che tipo era come collega?».

La donna indugiò un secondo di troppo.

«Simpatico» rispose poi senza troppa convinzione. «Non abbiamo mai lavorato

insieme. Lui arrivava la sera. E nei fine settimana».

«Capisco». Pia tirò fuori il bloc-notes dalla tasca e prese qualche appunto. Tanja

Simic lavorava da due anni per la WindPro con uno stipendio di quattrocento euro al

mese e conosceva tutti i quarantotto impiegati oltre ai ventidue esterni che stavano nei

cantieri dei parchi eolici. Le sue prime risposte furono evasive; cominciò a sciogliersi

solo quando Pia le assicurò che la loro conversazione sarebbe rimasta confidenziale.

«Lei sapeva che Grossmann aveva un problema con l’alcol?».

Eccome se lo sapeva. Non era rimasto segreto a nessuno in azienda che Grossmann

spesso alzava il gomito. Inoltre aveva litigato con il capo della sicurezza, perché nel

mese precedente si era dimenticato per tre volte di accendere il circuito di

videosorveglianza e il mercoledí prima si era assentato dal suo posto nel cuore della

notte per andare in motorino al chiosco del benzinaio.

«Probabilmente voleva comperarsi delle sigarette e qualcosa da bere». Tanja Simic

alzò gli occhi al cielo. «Però si era dimenticato le chiavi. La mattina lo hanno trovato

ubriaco davanti all’ingresso posteriore, e non c’era verso di svegliarlo. E due

settimane prima…» abbassò la voce e si guardò furtivamente intorno, per accertarsi

che nessuno origliasse «… si era portato una donna e aveva fatto baldoria con lei

nell’ufficio del capo».

Rolf Grossmann era tutt’altro che ben visto tra i collaboratori della WindPro.

Frugava nelle scrivanie, origliava, quand’era ubriaco faceva pipí sulle macchine nel

garage sotterraneo, si permetteva osservazioni offensive che diventavano piú pesanti

man mano che beveva. Il personale femminile faceva in modo di non trovarsi mai da

solo nelle vicinanze di Grossmann. Pia ascoltò interessata prendendo appunti. Il

quadro che stava formandosi era del tutto diverso da ciò che Theissen aveva detto in

precedenza del suo guardiano notturno.

«Era un porco» concluse Tanja Simic arricciando il naso. «Nessuno riusciva a

capire perché potesse permettersi un simile comportamento».

Se lo chiedeva anche Pia. Forse dietro la tolleranza di Theissen si nascondeva

qualcosa di diverso dalla vecchia amicizia e dalla coscienza civile, come aveva voluto

lasciarle credere lui? E perché non aveva detto la verità? Pia ringraziò Tanja Simic per

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le informazioni e si mise alla ricerca di Cem Altunay. Avrebbe scoperto perché

Theissen le aveva mentito. Di colpo provò nuovamente quel fremito impaziente che

l’assaliva tutte le volte che affrontava un caso di cui non era possibile prevedere la

portata finale. Una cosa tuttavia sembrava appurata: non si trattava piú di indagini per

una morte accidentale. Dovevano dare la caccia a un assassino.

Frauke Hirtreiter apparecchiò con cura il tavolino nell’ufficio e tirò fuori con

prudenza dalla scatola di cartone la pizza con prosciutto di Parma, acciughe e doppia

mozzarella, posandola su un piatto. Bisognava mantenere un minimo di stile.

Naturalmente avrebbe potuto benissimo percorrere i pochi metri fino alla pizzeria in

Limburger Strasse e mangiare direttamente lí, ma non voleva farsi vedere a pranzare

in pubblico seduta da sola a un tavolo. Guardò la pizza pregustandone già la bontà, la

crosta croccante, il formaggio fuso, le fette di prosciutto. Proprio mentre tagliava il

primo boccone, lo infilzava e stava per portarselo alla bocca, sentí bussare alla porta

posteriore. Maledizione. Chi poteva essere? Detestava essere interrotta mentre

mangiava. Si alzò sbuffando e imprecando, raggiunse la porta e girò la chiave nella

toppa. Un uomo era appoggiato con disinvoltura alla ringhiera della scala e le

sorrideva con una dentatura di un bianco innaturale.

«Che cosa sei venuto a fare qui?» chiese Frauke in tono sgarbato.

«Ehi, sorellina. È questo il modo di salutare?».

Frauke scrutò con diffidenza il fratello minore. Matthias si presentava da lei

fondamentalmente solo quando aveva un problema. Oramai lo sapeva.

«Sto mangiando. Comunque entra».

Si voltò e tornò in ufficio. Matthias Hirtreiter la seguí, si richiuse la porta alle spalle

e rimase fermo sulla soglia, le mani nelle tasche dei calzoni.

«Sei dimagrita» constatò sorridendo. «Ti trovo bene».

Frauke schioccò la lingua sprezzante e addentò la pizza.

«Non c’è bisogno di ammorbidirmi con le lusinghe» ribatté a bocca piena. «So che

aspetto ho».

Si asciugò distrattamente con il dorso della mano l’unto che le colava sul mento e

gettò un’occhiata al fratello. L’abbronzatura, il completo di lino chiaro, la camicia

aperta sul collo e i mocassini beige gli conferivano un’aria da dandy. Ci mancava solo

un panama e sarebbe stato identico a un viaggiatore del primo Novecento.

«Avanti, dimmi che cosa vuoi. Non sei certo capitato qui per caso».

«È vero». Matthias avvicinò la sedia della scrivania e si mise a sedere di fronte a lei.

«Oggi ho ricevuto una telefonata».

«Ah». Frauke mangiò un altro boccone di pizza. Secondo le ultime informazioni di

cui disponeva, la sua società di sistemi di sicurezza e allarmi andava a gonfie vele. I

figli frequentavano scuole private, lui era iscritto al Lions club, al golf club e a

numerose altre associazioni necessarie al prestigio e utili per espandere la rete di

contatti, abitava con la famiglia in una villa lussuosa e gli piaceva mettere in mostra

senza remore il proprio tenore di vita.

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«Sai, c’è quell’azienda che vuole installare il parco eolico a Ehlhalten. Forse ne hai

sentito parlare».

Frauke annuí. Il parco eolico era un tema scottante con Jannis e Ricky; entrambi

facevano parte dell’associazione di cittadini che si era organizzata contro le pale

eoliche.

«E allora?» chiese.

Matthias si passò una mano tra i capelli che si andavano diradando e per la prima

volta Frauke notò da vicino le rughe dovute all’ansia sul volto giovanile del fratello.

«Papà ha ricevuto un’offerta pazzesca per vendere il prato nei pressi della fattoria.

Due milioni di euro!».

«Come?». Frauke rimase con la forchetta a mezz’aria, la bocca spalancata. «Non

dirai sul serio!».

«Invece sí» confermò Matthias con un cenno del capo. «Naturalmente a noi non ha

detto niente, quel vecchio bastardo. E sembra che non abbia nessuna intenzione di

vendere».

«Non è possibile!». Frauke aveva perso l’appetito. Due milioni di euro! Per un

prato! «Come fai a saperlo tu?».

«I responsabili di questa azienda mi hanno chiesto di convincere papà». Matthias

scoppiò in una risata senza gioia. «Gregor e io siamo andati da lui per questo, ma

praticamente ci ha buttato fuori a calci».

«Da quanto tempo siete al corrente dell’offerta?» domandò Frauke diffidente.

«Da un paio di settimane» ammise il fratello.

«E perché io vengo a saperlo soltanto ora?».

«Ecco, vedi… insomma, non è che tu vada proprio d’accordo con papà» mormorò

lui impacciato. «Per questo pensavamo…».

«Non dire fesserie! Voi pensavate di tenermi all’oscuro e di spartirvi la torta da

soli». Sbatté rabbiosamente la forchetta sul piatto. «Siete due fottutissimi stronzi!».

«Non è vero!» protestò il fratello. «Te lo giuro! Comunque adesso ascoltami. Il

fatto è che la WindPro è pronta ad aumentare l’offerta, ma solo se papà acconsente

alla vendita entro le prossime ventiquattr’ore. Se non lo fa, avvieranno una richiesta di

esproprio».

Frauke comprese subito che cosa significava.

«Sono disposti a pagare tre milioni!». Matthias abbassò la voce e si sporse in avanti.

«Sono un sacco di soldi e mi farebbero proprio comodo».

«Ma se già nuoti nell’oro» commentò Frauke con un sorriso di scherno. Il fratello

balzò in piedi.

«La mia azienda è fallita» confessò alla fine, senza guardare in faccia la sorella.

«Probabilmente sono stato già denunciato per insolvenza permanente. Perderemo

l’azienda, la casa, praticamente tutto, se entro una settimana non riuscirò a racimolare

cinquecentomila euro».

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Si voltò. All’improvviso aveva perso ogni traccia della spensieratezza giovanile con

cui sapeva affrontare la vita e abbagliare tutti quelli che gli stavano intorno. L’attore

aveva lasciato cadere la maschera e ora rimanevano solo le occhiaie, le guance

incavate e la disperazione nello sguardo.

«Mi metteranno dentro». Alzò le spalle in un gesto di impotenza. «Mia moglie

minaccia di lasciarmi e il mio stesso padre si rifiuta di aiutarmi».

Frauke sapeva quanto fosse importante per il fratello e per sua moglie il prestigio

sociale. Erano incapaci entrambi di limitare le proprie aspettative e il proprio stile di

vita.

«E Gregor?» si informò.

«Le cose non vanno molto bene nemmeno a lui». Matthias scrollò il capo. Per un

istante rimasero entrambi in silenzio. Frauke provò un impulso di sincera compassione

per il fratellino, ma nel profondo del cuore sentí accendersi una scintilla di vile e

spregevole gioia maligna. Ecco che adesso i due ragazzi d’oro, fantastici e vincenti, si

trovavano nella sua stessa condizione, erano finiti nella trappola dei debiti e non

sapevano come uscirne. Ma mentre lei aveva trovato il modo di organizzarsi alla

meno peggio in quella disonorevole situazione, Gregor e Matthias cercavano

disperatamente di mantenere in piedi la facciata del successo.

«Che cosa volete fare?» chiese dopo un po’. «Sai com’è fatto il vecchio. Quando si

mette in testa qualcosa, non c’è verso di fargli cambiare idea».

«Non può piantarci in asso cosí» protestò Matthias con enfasi. «Sono stato da un

avvocato. Secondo le norme della successione ereditaria, abbiamo ereditato dalla

mamma una partecipazione ai terreni e alla fattoria».

«Non è vero. Avevano stipulato un accordo di successione reciproca. Puoi

scordartelo».

«No, non è giusto!» si infiammò Matthias. «Per me c’è in gioco tutto! Non

permetterò a mio padre di rovinarmi la vita!».

«Te la sei rovinata da solo».

«Maledizione, ho avuto sfortuna!». Matthias cercò di trattenersi per non gridare.

«La crisi economica ci ha annientato! Abbiamo avuto una diminuzione del giro

d’affari del sessanta percento, e poi uno dei nostri grandi clienti ha fatto bancarotta!

Praticamente ci siamo visti sfumare un milione di euro di profitti!».

Frauke inclinò la testa di lato e guardò negli occhi il fratello minore.

«Che cosa proponi di fare?» domandò.

«Parleremo di nuovo con lui tutti insieme. E se non dovesse cambiare idea, lo

costringeremo a farlo».

«E come pensi di riuscirci?».

«Non ne ho idea. Troveremo il modo». Matthias si infilò le mani nelle tasche

lasciando vagare lo sguardo inquieto per la stanza.

Frauke ripiegò l’ultimo pezzo di pizza ormai freddo e chiese: «Quando?».

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«La WindPro gli comunicherà la nuova offerta oggi o al piú tardi domattina e mi

faxerà una copia del documento. Direi che possiamo andare da lui domani sera. Sei

con noi?».

Frauke si infilò in bocca la pizza e masticò assorta. Tre milioni divisi per tre. Era

quasi inconcepibile. Finalmente sarebbe riuscita a ripagare i debiti e le sarebbe

comunque rimasto abbastanza da poter condurre una vita spensierata. Per la prima

volta in oltre dieci anni avrebbe potuto concedersi una vacanza. Si sarebbe permessa

l’intervento di chirurgia estetica all’addome che la mutua non le rimborsava. E si

sarebbe comperata una bella macchina.

«Certo» rispose sorridendo al fratello. «Ci sarò anch’io. Domani sera alla fattoria».

«Nell’edificio ci sono sei telecamere» spiegò Cem Altunay ai colleghi. «Una per ogni

piano, una nel garage sotterraneo e una nel corridoio d’ingresso, ma solo quelle nel

garage e nell’ingresso erano in funzione, chissà perché».

Erano seduti nella sala riunioni dell’ufficio 11 al primo piano del comando regionale

della polizia giudiziaria di Hofheim e aspettavano di visionare la registrazione della

telecamera di sorveglianza della WindPro.

«Grossmann a volte ingannava il tempo durante il turno di notte portando in azienda

compagnia femminile». Pia riferí ciò che le aveva raccontato la centralinista. «A

quanto pare di recente aveva organizzato una piccola festa privata con una donna

nell’ufficio di Theissen. Forse voleva farlo di nuovo e per questo aveva spento le

telecamere».

«Può darsi». Cem non sembrava troppo convinto.

«Ci siamo». Kai Ostermann digitava concentrato sulla tastiera del computer. «Ah,

eccola qua».

Pia e Cem rivolsero gli sguardi verso il grande monitor a muro dove comparve il

lussuoso atrio della WindPro in bianco e nero.

«Il sistema di sorveglianza della WindPro è programmato in modo da riprendere

sequenze di settantadue ore» spiegò Ostermann. «E possibile fare delle copie, ma se

questo non avviene, passato questo intervallo di tempo, la registrazione viene

automaticamente cancellata».

«Grossmann cominciava il turno sempre alle sei» disse Pia a Kai. «Potresti partire

dalla sera di venerdí, per favore?».

Ostermann annuí. Sul monitor si vide un notevole via vai, gli impiegati dell’azienda

uscivano dai loro uffici. Verso le cinque e mezza gran parte del personale se ne era

andato, e nell’atrio passava qualche sporadica figura.

Kathrin Fachinger entrò e posò una tazza di caffè davanti a Pia, poi si mise seduta

accanto a lei.

«Grazie» disse Pia sorpresa.

«Di niente». Kathrin le sorrise con simpatia. Da quando Frank Behnke e Andreas

Hasse non erano piú in servizio, l’atmosfera all’ufficio 11 era decisamente migliorata.

Il costante malumore di Behnke, il suo atteggiamento sempre velatamente aggressivo,

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che alla fine era sfociato in aperta ostilità nei confronti di Kathrin, aveva trasformato

il lavoro in un inferno per tutti quanti. Non si sentiva la mancanza neppure di Hasse,

con i suoi perenni malanni.

«Ecco Grossmann» osservò Cem indicando il bancone d’ingresso che si trovava

nell’angolo esterno destro dell’inquadratura. «Deve essere passato dalla porta

posteriore attraverso la cucina».

Fino a poco prima delle sette Rolf Grossmann era rimasto seduto al bancone, poi

aveva attraversato l’atrio, probabilmente per chiudere a chiave la porta d’ingresso.

Nell’immagine comparvero gli addetti dell’impresa di pulizie, che pulirono il

pavimento a velocità accelerata, mentre Grossmann era scomparso dall’inquadratura.

Intorno alle nove scambiò qualche parola con gli addetti alle pulizie, che quindi si

allontanarono nel corridoio dietro l’ascensore di vetro. Per due ore e mezza non

accadde piú niente. Il bagliore che proveniva dalla porta della cucina lasciava intuire

che Grossmann stesse guardando la televisione.

«Ferma qui!» gridò Pia all’improvviso. «È entrato qualcuno! Torna indietro».

Kai fece quanto chiesto e quindi fece ripartire la registrazione a velocità normale.

«È Theissen!» esclamarono in coro Pia e Cem sconcertati.

«Non ci aveva informato di essere tornato in azienda venerdí sera». Pia fissava

concentrata il monitor. Theissen era entrato nell’immagine da sinistra, ovvero dalla

direzione che portava al garage sotterraneo. Si spostò dietro il bancone, gettò

un’occhiata in cucina, ma Grossmann non si fece vedere.

«Abbiamo anche il sonoro?» si informò Cem

«Sí, ma il microfono non è particolarmente sensibile». Kai aumentò il volume. «I

dialoghi normali non si capiscono».

«Forse Theissen non ha detto niente e voleva semplicemente controllare se

Grossmann dormiva» osservò Pia. «Che strano. Se io fossi il capo, mi arrabbierei

molto a sorprendere il mio guardiano notturno addormentato».

Theissen andò all’ascensore, entrò e la capsula di vetro scivolò silenziosa verso

l’alto. I minuti trascorsero accelerati, fino alle 2:54, quando apparve Grossmann. Si

stirò e sbadigliò, poi attraversò l’atrio diretto alle scale.

«Un’ora di ritardo» dichiarò Cem. «Il capo della sicurezza mi ha detto che dovrebbe

compiere giri di ronda a mezzanotte, alle due e alle quattro e poi protocollarli».

Grossmann scomparve nel corridoio di sinistra, poi entrò in quello di destra. Quindi

si avvicinò alle scale. Giunto al primo piano, uscí dal campo visivo della telecamera.

La ripresa continuò senza che spuntasse anima viva.

«Avete sentito?». Kathrin si sporse in avanti. «C’erano dei rumori».

Kai tornò indietro, poi scrollò il capo, a indicare di aver già alzato il volume al

massimo. Anche gli altri tuttavia udirono una voce, poi delle urla. Le 3:17. Grossmann

non tornò piú indietro.

«Theissen non era uscito dall’edificio» osservò Pia a voce alta. «E non voleva farsi

vedere da Grossmann».

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«Credi che sia stato lui a spingerlo giú dalle scale?» domandò Cem senza

distogliere lo sguardo dal monitor su cui non si vedeva piú nessuno.

«Sarebbe plausibile».

Fine dell'estratto Kindle.

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