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1 LO STOICISMO 1 La scuola stoica Zenone di Cizio, allievo del cinico Cratete, è il fondatore della scuola stoica, sorta ad Atene intorno al 300 a.C. nel cosiddetto Portico dipinto Fondatore della scuola stoica è considerato Zenone di Cizio (ca. 336-35 a.C.-263 a.C.), originario dell'isola di Cipro. Egli si accostò alla filosofia da giovane, grazie alla lettura di alcuni scritti socratici (in particolare i Memorabili di Senofonte e l'Apologia di Platone), che il padre Mnasea, commerciante, gli portò di ritorno dai suoi viaggi. Intorno ai ventidue anni si trasferì ad Atene. Diogene Laerzio, nelle Vite dei filosofi racconta: [Zenone] salì ad Atene [...] e sedette nella bottega di un libraio. Costui leggeva il secondo libro dei Commentari di Senofonte, e Zenone provò tanta gioia da domandare dove mai si potessero trovare uomini come Socrate. In quel momento appunto passava Cratete e il libraio glielo additò dicendo: «Segui quest'uomo». Da allora divenne discepolo di Cratete. Zenone divenne, dunque, scolaro del filosofo cinico, che fu per lui un maestro e un modello di vita. Intorno al 300 a.C. fondò la scuola stoica, che prese il nome dalla Stoà poikíle, il Portico dipinto dell'agorá di Atene, in cui si svolgevano le sue lezioni. [Zenone] era solito tenere le sue lezioni passeggiando su e giù nel Portico dipinto, detto anche di Pisianatte, designato come dipinto per i quadri di Polignoto [...]. Quelli che convenivano ad ascoltarlo - ed erano in gran numero - furono per questo chiamati stoici; così furono chiamati anche i suoi seguaci, che in un primo tempo erano detti zenoniani. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi) Secondo la tradizione, Zenone dopo aver contratto una grave malattia, morì suicida, coerentemente con gli insegnamenti della dottrina stoica. Le numerose opere da lui scritte, soprattutto di argomento etico e gnoseologico, sono purtroppo andate interamente perdute. Lo stretto rapporto di Zenone con Cratete fa sì che lo stoicismo nasca come prosecuzione ideale della scuola cinica. L'indagine degli stoici è, infatti, animata dallo stesso presupposto che ha originato la riflessione cinica: la filosofia deve essere tesa non alla conoscenza della verità, bensì alla ricerca della felicità per mezzo della virtù. A differenza dei cinici, però, gli stoici ritengono che il conseguimento della felicità tramite la virtù sia possibile solo attraverso la scienza. La storia della scuola stoica si snoda in un lungo arco di tempo ed è suddivisa dagli studiosi in tre periodi: antico, medio e nuovo Gli studiosi suddividono la storia dello stoicismo in tre periodi, ciascuno dotato di caratteristiche particolari. Il primo è quello dello stoicismo antico, che si sviluppa tra la fine del IV e il III secolo a.C., in cui le dottrine stoiche vengono elaborate dai tre grandi maestri dell'epoca: Zenone, Cleante e, soprattutto, Crisippo. Secondo scolarca del Portico, Cleante nacque ad Asso da una famiglia molto povera; da giovane, per sostenersi economicamente, si dedicò all'attività di pugile. Trasferitosi ad Atene si rivolse alla filosofia e la sua laboriosità divenne celebre, «così che di notte attingeva acqua ai pozzi nei giardini» scrive Diogene Laerzio «di giorno si esercitava nelle argomentazioni, perciò fu anche chiamato freantles» (in greco, "prosciugatore di pozzi"). Molto stimato dai concittadini, alla morte di Zenone divenne capo della scuola stoica. Coltivò gli studi ma non per questo smise di mantenersi col lavoro delle proprie mani e «giudicava la sua vita superiore a quella dei ricchi, dicendo: "Quelli giocano a palla, io con la zappa dissodo la terra dura e infruttuosa"». Tra le sue opere si ricorda un Inno a Zeus e i trattati, andati perduti, Sul Senso, Sul Dovere, Sull'Amore, Sulla Libertà, Sull'Onore, Sull'Amicizia, Sugli Dei, Sulle Virtù, Sulle Leggi.

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LO STOICISMO

1 La scuola stoica Zenone di Cizio, allievo del cinico Cratete, è il fondatore della scuola stoica, sorta ad Atene

intorno al 300 a.C. nel cosiddetto Portico dipinto

Fondatore della scuola stoica è considerato Zenone di Cizio (ca. 336-35 a.C.-263 a.C.), originario

dell'isola di Cipro. Egli si accostò alla filosofia da giovane, grazie alla lettura di alcuni scritti

socratici (in particolare i Memorabili di Senofonte e l'Apologia di Platone), che il padre Mnasea,

commerciante, gli portò di ritorno dai suoi viaggi. Intorno ai ventidue anni si trasferì ad Atene.

Diogene Laerzio, nelle Vite dei filosofi racconta:

[Zenone] salì ad Atene [...] e sedette nella bottega di un libraio. Costui leggeva il secondo libro dei

Commentari di Senofonte, e Zenone provò tanta gioia da domandare dove mai si potessero trovare

uomini come Socrate. In quel momento appunto passava Cratete e il libraio glielo additò dicendo:

«Segui quest'uomo». Da allora divenne discepolo di Cratete.

Zenone divenne, dunque, scolaro del filosofo cinico, che fu per lui un maestro e un modello di vita.

Intorno al 300 a.C. fondò la scuola stoica, che prese il nome dalla Stoà poikíle, il Portico dipinto

dell'agorá di Atene, in cui si svolgevano le sue lezioni.

[Zenone] era solito tenere le sue lezioni passeggiando su e giù nel Portico dipinto, detto anche di

Pisianatte, designato come dipinto per i quadri di Polignoto [...]. Quelli che convenivano ad

ascoltarlo - ed erano in gran numero - furono per questo chiamati stoici; così furono chiamati

anche i suoi seguaci, che in un primo tempo erano detti zenoniani. (Diogene Laerzio, Vite dei

filosofi)

Secondo la tradizione, Zenone dopo aver contratto una grave malattia, morì suicida, coerentemente

con gli insegnamenti della dottrina stoica. Le numerose opere da lui scritte, soprattutto di argomento

etico e gnoseologico, sono purtroppo andate interamente perdute. Lo stretto rapporto di Zenone con

Cratete fa sì che lo stoicismo nasca come prosecuzione ideale della scuola cinica. L'indagine degli

stoici è, infatti, animata dallo stesso presupposto che ha originato la riflessione cinica: la filosofia

deve essere tesa non alla conoscenza della verità, bensì alla ricerca della felicità per mezzo della

virtù. A differenza dei cinici, però, gli stoici ritengono che il conseguimento della felicità tramite la

virtù sia possibile solo attraverso la scienza.

La storia della scuola stoica si snoda in un lungo arco di tempo ed è suddivisa dagli studiosi in

tre periodi: antico, medio e nuovo

Gli studiosi suddividono la storia dello stoicismo in tre periodi, ciascuno dotato di caratteristiche

particolari. Il primo è quello dello stoicismo antico, che si sviluppa tra la fine del IV e il III secolo

a.C., in cui le dottrine stoiche vengono elaborate dai tre grandi maestri dell'epoca: Zenone, Cleante

e, soprattutto, Crisippo. Secondo scolarca del Portico, Cleante nacque ad Asso da una famiglia

molto povera; da giovane, per sostenersi economicamente, si dedicò all'attività di pugile.

Trasferitosi ad Atene si rivolse alla filosofia e la sua laboriosità divenne celebre, «così che di notte

attingeva acqua ai pozzi nei giardini» scrive Diogene Laerzio «di giorno si esercitava nelle

argomentazioni, perciò fu anche chiamato freantles» (in greco, "prosciugatore di pozzi"). Molto

stimato dai concittadini, alla morte di Zenone divenne capo della scuola stoica. Coltivò gli studi ma

non per questo smise di mantenersi col lavoro delle proprie mani e «giudicava la sua vita superiore

a quella dei ricchi, dicendo: "Quelli giocano a palla, io con la zappa dissodo la terra dura e

infruttuosa"». Tra le sue opere si ricorda un Inno a Zeus e i trattati, andati perduti, Sul Senso, Sul

Dovere, Sull'Amore, Sulla Libertà, Sull'Onore, Sull'Amicizia, Sugli Dei, Sulle Virtù, Sulle Leggi.

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Terzo e ultimo grande maestro del primo stoicismo, Crisippo nacque a Soli, nei pressi di Tarso. Fu

allievo di Cleante, con cui era solito trovarsi in disaccordo e faceva notare «che a lui occorre solo

l'insegnamento della dottrina, perché le dimostrazioni le avrebbe trovate da solo». Alla morte di

questi gli succedette a capo della scuola. Crisippo fu un pensatore estremamente prolifico: a lui si

devono oltre 700 testi e la definizione delle grandi dottrine del primo periodo dello stoicismo.

Presso i suoi concittadini ha goduto di grande prestigio, al punto da avere originato il detto «Senza

Crisippo, non sarebbe esistita la Stoà». Il secondo periodo della scuola è detto del medio stoicismo,

si sviluppa tra II e I secolo a.C. ed è caratterizzato dall'incontro dello stoicismo con le dottrine

eclettiche. L'ultimo è il periodo dello stoicismo romano, detto nuovo stoicismo, collocato in età

cristiana e dominato da una riflessione morale a sfondo religioso. I tre periodi, segnati ciascuno da

dottrine e teorizzazioni particolari, devono essere illustrati separatamente: inizieremo dall'analisi

delle teorie principali dell'antico stoicismo.

LA METAFORA DEL FRUTTETO

Per definire la propria concezione della filosofia, finalizzata al raggiungimento delle tre virtù

principali, gli stoici utilizzano la metafora del frutteto: la filosofia è considerata come un intero ed è

rappresentata dal frutteto; il muro di cinta, che delimita il terreno e difende il frutteto stesso, è la

logica; gli alberi, senza i quali non esisterebbe il frutteto, sono la realtà e rappresentano la fisica,

mentre l'etica, che è il fine della filosofia, è raffigurata dai frutti.

Il MONDO dello STOICISMO 1. A Cizio, nell'isola di Cipro, nacque nel 336-335 a.C. ca. Zenone, che si trasferì in seguito ad

Atene.

2. Nel 300 a.C. Zenone fondò ad Atene, nel cosiddetto Portico dipinto, la scuola dello stoicismo.

Nella direzione della scuola gli successero Cleante di Asso proveniente dalla Troade,

Crisippo, Zenone di Tarso, Diogene di Seleucia, che si recò anche a Roma, e Antipatro di Tarso.

3. Nel 185 a.C. a Rodi nacque Panezio, fra i maggiori esponenti della seconda fase dello stoicismo,

la cosiddetta media stoà, che si protrasse dal II al I secolo a.C.

4. L'ultima fase dello stoicismo, detta stoicismo romano, si sviluppò fra il I e il III secolo d.C. ed

ebbe tra i suoi maggiori esponenti Seneca, Epitteto e l'imperatore romano Marco Aurelio.

In questo periodo Roma raggiunse la sua massima espansione territoriale.

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L'antico stoicismo, con Zenone, ritiene che la scienza sia condizione necessaria per la virtù e

divide la filosofia in fisica, etica e logica

Zenone pensa che la scienza non abbia un valore autonomo, ma sia una condizione necessaria per

diventare virtuosi. Vi è dunque una naturale connessione tra scienza e virtù e infatti le suddivisioni

della scienza corrispondono ad altrettante suddivisioni della virtù. Per gli stoici, le virtù principali

sono tre: naturale, morale e razionale. Poiché la filosofia ha come scopo il raggiungimento della

sapienza attraverso l'esercizio della virtù, anche la filosofia si suddivide in tre parti: la fisica, l'etica

e la logica. I vari filosofi della scuola assegnano valore diverso alle tre parti e le insegnano a partire

da un ordine ogni volta diverso. Zenone e Crisippo iniziano con la logica per poi passare a fisica ed

etica.

2 La logica La logica stoica è la scienza dei discorsi: si articola in retorica e dialettica; quest'ultima è

ulteriormente suddivisibile in grammatica e logica in senso stretto

Forse fu proprio Zenone il primo a utilizzare il termine logica per designare la disciplina che ha per

oggetto i lógoi (cioè i discorsi). Aristotele che, come sappiamo, fondò la logica, preferì parlare di

analitica. A differenza di Aristotele, inoltre, Zenone considera la logica una scienza autonoma e non

un semplice órganon, cioè uno strumento, a disposizione delle scienze.

La logica stoica si articola in retorica e dialettica:

• la prima è la scienza dei discorsi continui (le orazioni);

• la seconda è la scienza dei discorsi divisi, fatti di domande e risposte. A sua volta la dialettica si

distingue in due parti, la grammatica, che tratta delle parole, e la logica in senso stretto, che ha per

oggetto le forme del ragionamento: rappresentazioni, proposizioni, argomentazioni e sofismi.

Ne risultano due grandi ambiti di indagine:

• i problemi della conoscenza e la formazione dei concetti;

• le forme del ragionamento.

Il criterio di verità è la rappresentazione catalettica, cioè una rappresentazione mentale

(fondata sulla sensazione) cui l'intelletto assente con il giudizio

Gli stoici definiscono la dialettica come «scienza di ciò che è vero e di ciò che è falso e di ciò che

non è né vero né falso»:

• né veri né falsi sono i singoli termini o concetti (Giorgio o animale di per sé non possono essere né

veri né falsi) e i ragionamenti senza sbocco (come sofismi, paradossi e dilemmi) sulla cui verità o

falsità non si può decidere;

• vere o false sono invece le proposizioni (Giorgio è un animale razionale sarà vera o falsa).

Il problema fondamentale è quindi individuare un criterio di verità, attraverso cui distinguere il vero

dal falso. In questa prospettiva la prima domanda che bisogna porsi è: come avviene la formazione

dei concetti? Gli stoici ritengono che la conoscenza derivi dai sensi. A loro avviso, l'anima è una

tabula rasa su cui si registrano le sensazioni, cioè le impressioni prodotte dagli oggetti del mondo

esterno sui nostri organi di senso.

Gli stoici dicono: quando l'uomo nasce, ha la parte egemonica [razionale] dell'anima come un foglio

di carta pulita, adatta per copiarvi uno scritto. Su questa parte registra ogni singolo concetto. Il

primo modo di questa trascrizione è mediante i sensi. (Aezio, Placita, IV, 11)

La sensazione viene accolta dall'anima imprimendosi in essa sotto forma di rappresentazione

mentale degli oggetti esterni. Ma la rappresentazione vera non è semplicemente frutto del sentire

del soggetto attraverso gli organi di senso, è anche espressione dell'assenso dato dalla ragione a tale

rappresentazione: a differenza degli epicurei, dunque, per gli stoici il criterio di verità non si riduce

alla sola sensazione. Da un lato, infatti l'uomo è passivo rispetto alla sensazione, non può in alcun

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modo sottrarsi alle impressioni e alle rappresentazioni che si generano in lui: la realtà gli si dà

indipendentemente dalla sua volontà. Dall'altro, l'uomo è libero di dare o meno l'assenso

(synkatáthesis) a queste rappresentazioni attraverso il suo intelletto. Gli stoici chiamano

apprensione l'atto attraverso il quale l'intelletto assente a una rappresentazione ritenuta vera.

Chiamano poi rappresentazione catalettica (dal greco katalambano, prendo) quella rappresentazione

che abbia ricevuto l'assenso: la rappresentazione catalettica è l'unico criterio di verità ammissibile.

L'assenso dato o meno a una rappresentazione è, secondo gli stoici, un atto libero dell'intelletto, che

chiamano giudizio. Mediante il giudizio l'uomo afferma o nega qualcosa o rinuncia a entrambi gli

atti. È interessante osservare che per gli stoici l'assenso dell'intelletto alla rappresentazione è un atto

sostanzialmente spontaneo: l'intelletto in pratica tende a prendere atto dell'evidenza della

sensazione. In ultima istanza, dunque, è questa evidenza il fondamento del criterio di verità.

In conclusione, la conoscenza si configura come un procedimento complesso, articolato in una serie

di fasi che Zenone illustra attraverso l'immagine della mano:

1. nell'atto del ricevere una sensazione, il soggetto è passivo e viene paragonato alla mano aperta.

2. Successivamente, quando la mente dà il proprio assenso alla rappresentazione, il soggetto diviene

attivo, come una mano parzialmente chiusa, cioè nella posizione di "afferrare" la rappresentazione.

3. La comprensione piena della realtà, cioè quando la rappresentazione è totalmente acquisita

dall'intelletto, è paragonata alla mano chiusa a pugno, che ha ormai "afferrato" l'oggetto esterno.

4. Infine la scienza, che consiste nel conoscere qualcosa in modo certo, senza che alcuna

argomentazione possa più scalfire la nostra comprensione, viene paragonata al pugno nell'atto di

venire stretto dall'altra mano, esprimendo così il pieno possesso dell'oggetto.

MAPPA CONCETTUALE La gnoseologia stoica

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Dall'unione delle rappresentazioni sensibili si forma, con un procedimento spontaneo, il

concetto

Quando le rappresentazioni sensibili si assommano, si genera spontaneamente l'anticipazione o

prolessi (prolepsis), ovvero il concetto di una cosa: una conoscenza universale di cui tutti gli

uomini hanno una nozione comune. I concetti sono entità logiche, cioè non hanno consistenza

ontologica, esistono solo nell'anima: secondo gli stoici, infatti, l'essere è sempre individuale e

corporeo, mentre i concetti sono universali e incorporei.

I concetti si distinguono in naturali e artificiali:

• i primi sono quelli, appena descritti, prodottisi per esperienza, come semplice accumulo di

rappresentazioni mentali (per esempio, "cane", "uomo"). Sono concetti universali perché

racchiudono le caratteristiche comuni a molteplici individui particolari, cui possono in tal modo

essere riferiti;

• i secondi, invece, sono concetti che si sono prodotti in modo artificiale, attraverso il ragionamento

e l'istruzione (per esempio, "triangolo" o "bene").

I concetti artificiali sono fondamentali nella costituzione delle scienze. I concetti più generali,

corrispondenti alle categorie aristoteliche, secondo gli stoici sono solo quattro: sostanza, qualità,

modo d'essere, relazione. Il genere sommo, ovvero il concetto più esteso, è quello di essere, che può

riferirsi a tutte le cose in quanto sono, cioè esistono.

La logica stoica è importante per aver messo a punto la teoria del significato, che ha esercitato

un'importante influenza sullo sviluppo della filosofia

Gli stoici riprendono il problema del rapporto tra linguaggio e realtà, già affrontato da Platone e

Aristotele, in una chiave originale che porta alla definizione di una teoria del significato destinata a

esercitare una grande influenza sulla storia del pensiero filosofico. Secondo la logica aristotelica, il

concetto esprime l'essenza della cosa; per gli stoici, invece, il concetto è un segno che significa

(cioè, indica) una cosa e che quindi può essere riferito a tutte le realtà dello stesso tipo: ad esempio,

il concetto di casa è un segno e si riferisce alle molte e diverse case esistenti nella realtà. Tre sono

gli elementi che si collegano: il significato, ciò che significa, e ciò che è. Ciò che significa è la voce,

per esempio "Dione". Il significato è la cosa indicata dalla voce e che noi cogliamo pensando alla

cosa corrispondente. Ciò che è, è il soggetto esterno, per esempio lo stesso Dione (Sesto Empirico,

Contro i logici)

È necessario dunque distinguere:

• la parola («ciò che significa»), cioè l'insieme dei suoni, attraverso cui ci si riferisce a essa (cioè i

fonemi "D-i-o-n-e");

• il «significato», cioè l'immagine o la rappresentazione mentale che si forma in noi ogni qual volta

sentiamo la parola che indica l'oggetto;

• l'oggetto reale («ciò che è»), nell'esempio lo stesso Dione, oppure una casa vera e propria, quella

casa su una collina.

In questo "triangolo semantico", la parola, espressa dal suono, e l'oggetto sono corporei, mentre il

significato è incorporeo.

La logica aristotelica è fondata sui termini e sul sillogismo dimostrativo, mentre quella stoica è

proposizionale e privilegia il ragionamento anapodittico

Come abbiamo già osservato, gli stoici affermano che solo le proposizioni possono essere vere o

false. I singoli termini non hanno un senso compiuto: per esempio, "uomo" o "cammina" di per sé

non significano nulla, solo la proposizione "l'uomo cammina" ha un significato preciso e può essere

vera o falsa. Anche Aristotele sostiene che solo la proposizione può essere vera o falsa ma la

scompone nei termini che la costituiscono. La logica aristotelica, dunque, era incentrata sui termini,

mentre quella stoica fa perno sulle proposizioni, ed è stata infatti definita logica proposizionale:

Aristotele osserva soprattutto le relazioni tra i termini all'interno della proposizione, mentre gli

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stoici studiano la relazione tra le proposizioni nel ragionamento. Gli stoici, infatti, definiscono la

proposizione compiuta axióma, cioè enunciato, e il ragionamento è solo la concatenazione di più

enunciati. Secondo Aristotele il ragionamento perfetto è il sillogismo dimostrativo, che è vero se le

premesse sono vere. Gli stoici invece danno particolare rilievo al ragionamento anapodittico, cioè

non dimostrativo (il sillogismo ipotetico di Aristotele), nel quale la premessa (che in questo caso si

chiama antecedente) è ipotetica e ha un legame immediatamente evidente con la conclusione (che in

questo caso si chiama conseguente). Crisippo individua cinque figure del ragionamento

anapodittico. Vediamole nella loro formulazione logica e in alcuni esempi classici.

Approfondiamo la comparazione con la logica aristotelica:

• il sillogismo aristotelico collegava due premesse a una conclusione tramite il termine medio; i

sillogismi anapodittici collegano invece direttamente due proposizioni senza l'uso di un termine

medio;

• per Aristotele le premesse del sillogismo dimostrativo sono affermazioni categoriche; la logica

stoica si costruisce invece a partire da premesse ipotetiche;

• infine il sillogismo aristotelico istituiva un collegamento tra i termini, valido dal punto di vista

razionale; al contrario la logica stoica ruota su relazioni tra eventi, empiricamente verificabili per

mezzo del criterio di verità.

A tale proposito, nell'ambito del ragionamento gli stoici distinguono la correttezza formale, che

stabilisce unicamente che un ragionamento è valido, dalla verità di fatto, che dipende dalla effettiva

corrispondenza delle proposizioni a una realtà empiricamente verificabile. Per esempio,

consideriamo l'assunto "Se piove prendo l'ombrello. Ma piove, dunque prendo l'ombrello"; si tratta

di un ragionamento sempre valido dal punto di vista logico, ma vero solo se piove: se c'è il sole è

falso, e questo va verificato empiricamente, cioè ricorrendo al criterio di verità. Va sottolineato che

il ragionamento proposizionale degli stoici anticipa la logica moderna con l'uso dei cosiddetti

connettivi logici (se, se... allora, o, e, non) , cioè quelle particelle linguistiche che ci permettono di

legare le proposizioni tra loro con una determinata funzione logica: "se" introduce l'ipotesi, "o"

indica la disgiunzione, "e" la congiunzione, e "non" la negazione. Oltre che dei ragionamenti

ipotetici, gli stoici trattano anche della dimostrazione, cioè il procedimento attraverso cui viene

portato alla luce un significato inizialmente sconosciuto. Secondo gli stoici, la dimostrazione parte

da un indizio (semeion) da cui ricava una premessa evidente che consente di pervenire a una

conclusione non evidente, cioè a individuare la causa. «Se questa donna ha latte nelle mammelle, ha

partorito. Ma questa donna ha latte nelle mammelle, dunque ha partorito» (Sesto Empirico):

dall'indizio (la presenza del latte) si risale alla causa (il parto). Tutte le grandi dimostrazioni della

filosofia stoica (l'esistenza della provvidenza, di Dio o dell'anima) sono il risultato dell'utilizzo di

questo procedimento dimostrativo.

MAPPA CONCETTUALE Il triangolo semantico

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"Se a allora b. Ma a dunque b."

In questo primo caso si tratta dello schema logico di ragionamenti come: "Se è notte è buio. Ma è

notte, dunque è buio".

"Se a allora b. Ma non b dunque non a."

Questa è la forma logica dei ragionamenti come: "Se è notte è buio. Ma non è buio quindi non è

notte".

"È impossibile che siano sia a che b. Ma è a. Dunque non è b."

Questo è lo schema seguito dai ragionamenti come: "Non può essere sia sera che mattina. Ma è

sera, dunque non è mattina".

"O è a o è b. Ma non è b, dunque è a."

Questo è lo schema dei ragionamenti come: "O è mattina o è sera. Ma non è sera, dunque è

mattina".

"O è a o è b. Ma è a. Dunque non è b."

Corrisponde a frasi come: "O è sera o è mattina. Ma è sera, dunque non è mattina".

GLI STOICI E I PARADOSSI

Stando alla testimonianza di Diogene Laerzio, gli stoici si occuparono anche dei discorsi viziati da

errori logici come i sofismi, i paradossi, le antinomie ecc. Tra gli altri studiarono il famoso

paradosso del mentitore, che nella formulazione attribuita da Diogene Laerzio a Eubulide di Mileto

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si può rendere come: «Io sto mentendo». Il paradosso consiste nel fatto che che se dico il vero

mento, mentre se mento dico il vero! I ragionamenti di questo tipo individuati dagli stoici sono

molti. In alcuni casi si tratta di semplici sofismi (dal greco sophisma, ragionamento capzioso,

artificio). In altri, di vere e proprie antinomie della ragione (dal greco antì, contro, e nòmos, legge;

quindi contraddizione, ragionamento sbagliato).

Tra i più celebri ricordiamo:

• il sofisma del calvo: la perdita di un solo capello non rende un uomo calvo. Si dia il caso di un

uomo che incomincia a perdere un capello dopo l'altro. Quando potrà essere chiamato calvo? Se ne

conclude che la differenza tra la sua calvizie o meno risiede in un solo capello!

• Il dilemma del coccodrillo, che forse risale addirittura ai sofisti: un coccodrillo ruba un bambino a

sua madre e promette di renderlo solo a patto che ella indovini la sua volontà o meno di farlo. La

madre risponde che il coccodrillo non restituirà il bambino.

Il coccodrillo viene, così, a trovarsi di fronte a un dilemma: se non restituisce il bambino, la madre

ha detto il vero e quindi sarebbe tenuto a restituirle il figlio; se invece lo restituisce, la madre ha

detto il falso e dunque il coccodrillo non dovrebbe renderlo! Per secoli i logici si sono sforzati di

trovare una soluzione per paradossi come questi. Nel Novecento, il filosofo e matematico Bertrand

Russell ha risolto matematicamente molti paradossi: in molti casi la regola per aggirare la

contraddittorietà di certe affermazioni è di limitarne il carattere universale premettendo che non

devono venire riferite a se stesse. Ad esempio, l'affermazione «io mento» in senso assoluto significa

«tutto ciò che affermo è falso»: se la frase ha un'estensione e un valore universale deve essere estesa

anche a se stessa, dal che si genera l'antinomia (se io mento la frase è vera, quindi dico la verità; se

dico il vero, poiché affermo di mentire, mento). Ma se la validità dell'affermazione è circoscritta a

tutte le frasi tranne che a se stessa («io mento ogni volta che affermo qualcosa, tranne che ora»), la

frase perde la propria assolutezza e con essa il suo carattere paradossale.

FILOSOFI a CONFRONTO

La logica in Aristotele e negli stoici

3 La fisica La fisica stoica è panteista e materialista: l'universo è interamente corporeo ed è retto da un

ordine perfetto, immutabile, eterno e necessario che viene identificato con Dio

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La fisica stoica non è un insieme di nozioni relative a uno specifico settore della realtà, ma è una

vera e propria metafisica della phýsis, la natura, così come l'avevano intesa i presocratici. La fisica

stoica, infatti, è in primo luogo una teoria che esprime una comprensione globale della realtà,

attraverso l'individuazione dei suoi principi primi e delle sue leggi e in questo senso è strettamente

panteista. Secondo gli stoici, infatti, esiste nell'universo un ordine perfetto e immutabile, eterno e

necessario che essi identificano con Dio e chiamano lógos. Tale ordine regola in modo infallibile

tutte le cose e in virtù di esso l'universo è e si conserva così come lo conosciamo. Al tempo stesso la

concezione stoica della realtà è rigorosamente materialista. Tutto è corpo, anche Dio:

Platone e Zenone lo Stoico, trattando dell'essenza di Dio, non la concepirono nello stesso modo, ma

Platone pensò Dio come incorporeo, Zenone, invece, lo pensò come corpo. (Pseudo Galeno,

Historia Philosophica, 16)

Come aveva insegnato Platone nel Sofista, esiste solo ciò che può agire o subire un'azione e ciò è

possibile solo al corpo, dunque solo il corpo esiste: ciò che non è corpo non è realtà, non è essere.

Per questo motivo, secondo gli stoici, sono corpo la voce, l'anima, il bene, le emozioni e anche il

lógos divino. Più precisamente, il corpo può essere ridotto a due principi inseparabili l'uno

dall'altro: un principio passivo e un principio attivo. Quello passivo per gli stoici è la materia,

amorfa e priva di qualità; quello attivo è il lógos divino, che, agendo sulla materia, dà a essa un

ordine e una struttura e produce gli esseri singoli. La materia, infatti, è inerte e ricettiva, e necessita

dell'azione formatrice del lógos per assumere le diverse forme e le molteplici determinazioni che

caratterizzano gli oggetti della realtà. Per gli stoici, dunque, la sostanza della realtà è la materia; la

forza generatrice che la plasma è il lógos

Il fuoco è energia vitale che si estende all'intero cosmo, è corporeo ed è la "ragione seminale"

dell'universo

Gli stoici concepiscono il lógos come pnéuma, che corrisponde all'immagine di soffio caldo e

"infuocato" che dà vita, nutre, fa crescere e conserva tutto ciò che esiste. Cicerone scrive nel De

natura deorum, II, 23-24:

Tutti gli esseri che si nutrono e crescono contengono in sé energia calorifica senza la quale non

potrebbero né nutrirsi né crescere. [...] Tutto ciò che vive, dunque, sia esso animale o vegetale, vive

in forza del calore che reca chiuso in sé. Dal che si deve dedurre che la sostanza che costituisce il

calore possiede una forza vitale che si estende all'intero universo.

Secondo gli stoici, lo pnéuma è la ragione seminale dell'universo perché contiene le "ragioni"

particolari che costituiscono i semi di tutte le cose, cioè ogni realtà esistente nasce da un proprio

seme razionale o ragione seminale e non vi sono nell'universo due sole cose che siano uguali.

Il panteismo degli stoici non contraddice il politeismo greco tradizionale che personifica

l'ordine di Dio nel mondo

Il panteismo stoico non esclude ma anzi si integra con il politeismo della religione tradizionale

greca. Scrive a proposito Diogene Laerzio: «Gli stoici affermano che vi sono alcuni demoni che

hanno affetti e sentimenti comuni all'umanità e vigilano sul corso delle umane vicende». Dio si

identifica, infatti, con la Natura e gli dei del pántheon greco sono considerati dagli stoici

personificazioni dei vari aspetti dell'azione ordinatrice di Dio nel mondo. Leggiamo ancora Diogene

Laerzio:

Dio è un essere immortale, razionale, perfetto e intelligente, beato, non suscettibile di alcun male,

sollecito, per la sua provvidenza, del cosmo e di tutto ciò che è in esso; ma non è antropomorfo. È il

demiurgo dell'universo e, quasi padre di tutte le cose, è ciò che penetra dovunque in tutto o in parte

ed è chiamato con molti nomi secondo i modi della sua potenza. È chiamato [...] Zeus (Zéna)

perché è l'autore del vivere (zén) o perché pervade tutta la vita; è chiamato Atena (Athenán) perché

la sua egemonia si estende fino all'etere (aithéra); Era (Eˇ ran) perché domina l'aria (aéra); Efesto

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perché è signore del fuoco creativo; Poseidone perché domina tutte le acque; Demetra perché

domina tutte le terre. Similmente gli imposero anche altri nomi, per rilevare altre particolari

proprietà. (Diogene Laerzio, Le vite dei filosofi, Libro VII, 147)

Il mondo nel suo complesso, identificandosi con l'ordine, è perfetto. Anche il male, come vedremo,

rientra nella perfezione dell'ordine naturale.

Il destino e la provvidenza sono la legge divina e necessaria che dà ordine e armonia al cosmo

Quest'ordine immutabile della realtà, cioè Dio stesso, si identifica con il destino (in greco

heimarméne), la necessità che tutto domina. Ma tale ordine va ricondotto a Dio che ne è l'artefice,

dunque è provvidenza (in greco, prónoia), l'azione ordinatrice del lógos divino nel mondo. Gli

stoici, quindi, respingono il meccanicismo degli epicurei e propongono una concezione della realtà

finalista e conseguentemente ottimista: ciò che accade è bene che accada, in quanto Dio fa accadere

ciò che è opportuno che accada. Anche il male è necessario per il bene dell'uomo. In ogni

manifestazione della realtà (negli eventi atmosferici, nella sofferenza, nella gioia, nella paura, nel

dolore...), il saggio perciò deve cogliere questo ordine provvidenziale a cui non può né deve

sottrarsi. Conseguentemente, gli stoici ammettevano l'arte della divinazione o mantica, l'arte di

prevedere il futuro attraverso l'interpretazione dell'ordine necessario: se tutto è predeterminato

dall'azione del divino nell'universo, allora il futuro può essere scrutato e, con la tecnica adeguata,

anche previsto. L'interprete appropriato della divinazione può essere solo il filosofo, in quanto è

l'unico capace di comprendere e riconoscere tale ordine.

MAPPA CONCETTUALE

La fisica stoica

L'anima è per gli stoici il soffio divino presente nell'uomo: partecipa del lógos, vivifica il corpo

ed è immortale

L'essere che maggiormente partecipa del lógos divino è l'uomo, pertanto a lui spetta la posizione

centrale nell'universo stoico (antropocentrismo). L'uomo, infatti, oltre al corpo è dotato dell'anima,

che altro non è che parte del soffio vitale che pervade l'universo: «Per Zenone il seme della vita è

fuoco, che è anima e intelligenza».

L'anima pervade interamente il corpo umano, vivificandolo e presiedendo alle funzioni vitali.

Essa è divisa in otto parti:

• la parte centrale è detta egemonica, ha il compito di guida ed è identificabile con la ragione;

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• altre cinque parti corrispondono invece ai cinque sensi;

• le ultime due sono preposte alla fonazione e alla generazione, cioè il linguaggio e il seme.

L'anima seppure così divisa è una e viene raffigurata come un polipo in cui la testa, cioè la ragione,

unifica e controlla i tentacoli delle altre parti. Alla morte del corpo l'anima, pur essendo anch'essa

corruttibile, si separa dal corpo e gli sopravvive, fino al compimento della prossima conflagrazione

universale. Con la successiva palingenesi, comunque, ogni anima torna a esistere all'infinito come

ogni altra cosa. Pur nell'affermazione di un ordine divino necessario che pervade la realtà, per gli

stoici l'uomo è libero. La sua libertà coincide infatti con l'essere causa di sé e delle proprie azioni, è

cioè autodeterminazione. Tuttavia, la libertà non consiste nella possibilità di scegliere fra più

alternative: è piuttosto il riconoscimento dell'ordine naturale, divino, razionale che governa il

cosmo; grazie alla guida della ragione, l'uomo può conformare o meno a esso il proprio agire. Ne

consegue che solo il sapiente, che conosce l'ordine razionale dell'universo, cioè il destino e la

provvidenza, è libero. Ma è comunque una libertà praticabile entro un ordine necessario, al quale

possiamo dare o negare il nostro assenso: è quindi una libertà che si colloca in uno spazio

puramente interiore. Naturalmente il nostro assenso non modifica l'ordine delle cose ma solo il

modo in cui noi lo viviamo. L'uomo è come un cane legato a un carro in movimento: può seguirlo

volontariamente o farsi trascinare.

FILOSOFI a CONFRONTO

Il cosmo

EPICUREI STOICI

Mondo

I mondi sono infiniti. Nascendo e

morendo partecipano alla

trasformazione del cosmo e

sono costituiti da atomi che si

muovono nel vuoto.

Il mondo è uno ed è finito; è unito e

immerso nel vuoto.

Costituzione

del mondo

Atomi materiali, diversi per forma,

figura, peso, sono in numero

indeterminabile. Urtandosi

si aggregano dando vita ai corpi,

secondo la teoria del clinàmen, unico

evento casuale e non regolato dalla

necessità.

Tutto è corpo, la materia (principio

passivo) è animata dal lógos (principio

attivo). Ciò che non è corpo non è realtà .

Ordine

dell'universo

Tutto è dovuto ad aggregazioni e

disaggregazioni casuali degli atomi.

Non esiste un vero e proprio ordine

nel mondo.

Esiste un ordine perfetto e immutabile,

eterno e necessario, identificato con Dio

e chiamato lógos.

Tutto è stato determinato: ciò che esiste è

legato necessariamente a qualcosa che ne

è la causa e determina necessariamente

un effetto: la catena di cause ed effetti

non può essere modificata

perché sarebbe spezzato l'ordine

razionale del mondo.

Destino

dell'universo

Non vi è un fine del mondo; i mondi

sono aggregazioni atomiche sempre

diverse.

La vita dell'universo è ciclica: nasce,

cresce, si trasforma e si distrugge con la

conflagrazione universale, per poi

rinascere identico e formare lo stesso

ordine cosmico, necessario e immutabile.

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Tutto si ripete infinitamente in un eterno

ritorno dell'uguale.

Dio

Nel cosmo non agisce alcuna forza

divina trascendente o immanente.

Esistono gli dei che hanno forma

umana e vivono negli intermundia,

ma sono indifferenti alle vicende

umane.

Anche Dio è corpo, si identifica con la

natura, si integra con il politeismo greco,

ma non è antropomorfo. Dio è ciò che dà

ordine alla realtà, è quindi destino e

provvidenza.

4 L'etica

L'etica stoica pone il fine dell'esistenza umana nel raggiungimento della felicità, che l'uomo

consegue vivendo secondo natura

Alla luce della successiva storia del pensiero, la parte più viva e importante della filosofia stoica è

l'etica. Infatti, il messaggio etico dello stoicismo non rimane confinato tra le mura del Portico

ateniese ma travalica i confini della scuola e, nel corso di oltre mezzo millennio, ha influenzato

molte tradizioni spirituali, a partire dal cristianesimo. Gli stoici ritengono che il fine dell'esistenza

umana sia la felicità. La riflessione etica ha dunque il compito di precisare che cosa sia la felicità e

quali mezzi siano atti a conseguirla. Nell'ordine naturale, divino, razionale che governa il cosmo, si

trova anche l'uomo: il principio fondamentale dell'agire umano nell'etica stoica è accettare questo

ordine, cioè "vivere secondo natura", dove il termine "natura" indica simultaneamente la natura

propria dell'uomo e la phýsis universale. La natura stessa, d'altronde, spinge ogni creatura vivente a

preservare il proprio essere, ricercando ciò che gli giova e fuggendo ciò che gli nuoce: gli stoici

definiscono questa tendenza all'autoconservazione oikéiosis. L'oikéiosis si esplica in ciascun

individuo in accordo con l'ordine necessario del Tutto. Nell'uomo, la natura ha predisposto due

strumenti, l'istinto e la ragione:

• l'istinto è il "primo impulso", garante della sopravvivenza, che spinge ciascun essere a compiere

tutte le azioni (alimentazione, sonno, riproduzione, cura di sé) che concorrono alla conservazione

sua e della specie;

• la ragione è peculiare dell'uomo e gli permette di vivere in accordo con se stesso, i suoi simili e la

natura.

A differenza degli epicurei, gli stoici non ritengono che il sentimento primario dell'uomo sia quello

del piacere-dolore: questo farebbe di lui un semplice animale. Gli stoici attribuiscono, invece,

all'uomo una dignità e uno status ontologico decisamente superiori, muovendo dall'assunto che il

lógos dell'uomo è parte di quello di Dio.

Ciò che è proprio dell'uomo è la ragione. Per essa l'uomo precede gli animali e viene subito dopo

gli dei. Una ragione perfetta è quindi il bene proprio dell'uomo; tutti gli altri sono beni comuni agli

animali e alle piante. [...] Se pertanto l'uomo ha per suo proprio bene la ragione, se ha portato

questa alla perfezione, ha raggiunto il fine ultimo della sua natura. (Seneca, Epistulae morales ad

Lucilium, 9, 76)

La specificità dell'uomo risiede, dunque, nella sua ragione, il cui sviluppo pieno è il compito a cui

ciascuno deve mirare nel corso dell'esistenza. Le norme dell'agire morale discendono, quindi, dai

modi adatti allo sviluppo razionale degli individui. Nelle piante e negli animali la tendenza

all'autoconservazione è presente ma resta inconscia, nell'uomo, invece, è consapevole e viene

sostenuta e potenziata dalla presenza della ragione. L'uomo, dunque, ha come scopo la realizzazione

di un'esistenza in accordo con se stesso: con la propria interiorità e il proprio essere specifico. Per

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l'uomo vivere secondo natura significa armonizzarsi con la propria parte razionale, preservandola,

potenziandola e portandola allo sviluppo più pieno. Scrive Diogene Laerzio: «Il vivere rettamente

secondo ragione è per questi [gli stoici] vivere secondo natura. Infatti la ragione è quella che regola

l'istinto».

A differenza delle riflessioni etiche che l'hanno preceduta, quella stoica si configura come la

prima etica del dovere

L'etica platonica e quella aristotelica avevano a loro fondamento, rispettivamente, la nozione della

giustizia e quella della felicità. L'etica stoica è la prima a porsi come un'etica del dovere: gli stoici

definiscono, infatti, il dovere come l'azione conforme all'ordine universale. Scrive Diogene

Laerzio:

Gli stoici chiamano dovere ciò la cui scelta può essere razionalmente giustificata. Delle azioni

compiute per istinto alcune sono doverose, altre contrarie al dovere, altre né doverose né contrarie

al dovere. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 107-109)

È doveroso tutto ciò che la ragione consiglia di compiere, «come onorare i genitori, i fratelli, la

patria e andar d'accordo con gli amici». È contrario al dovere tutto quello che la ragione sconsiglia;

è indifferente, infine, ciò che la ragione né consiglia né vieta, «come sollevare una pagliuzza, tenere

una penna» ecc. In questa etica del dovere vanno inoltre distinti, secondo la differente natura degli

uomini, il dovere "retto", cioè la perfezione propria dei sapienti, e il dovere intermedio, proprio

degli uomini comuni che agiscono seguendo semplicemente la propria indole buona.

Il dovere di conciliarsi alla natura giustifica il suicidio, che è il rifiuto della vita qualora vi sia

l'impossibilità di adempiere al proprio dovere

La preminenza della nozione del dovere, porta gli stoici a una delle argomentazioni più celebri della

loro filosofia: la giustificazione del suicidio, abbracciato da numerosi celebri maestri della scuola.

Gli stoici ritengono che, quando le condizioni esteriori dell'esistenza impediscono all'uomo il

compimento del proprio dovere, egli ha l'imperativo di lasciare la vita, anche se si trova in un

momento di assoluta felicità. Anche il suicidio è dunque dettato dalla ragione, è un'uscita razionale

dalla vita, è il dovere di non negare la propria natura piegandosi al vizio o accettando condizioni

contrarie. È un'azione propria del sapiente e può essere giustificata per la patria, per gli amici o per

menomazioni mentali o malattie incurabili: in questi casi l'istinto alla sopravvivenza passa in

secondo piano e il suicidio è coerente ai comandi della ragione. In merito, è particolarmente

significativo il racconto del suicidio di Zenone che Diogene Laerzio propone nelle Vite dei filosofi:

[Zenone] uscendo dalla sua scuola cadde e si ruppe un dito, allora battendo la mano per terra

disse, rivolgendosi a Niobe [cioè citando una battuta della Niobe di Euripide]: «Arrivo, perché mi

chiami?». Dopodiché si impiccò e morì.

La virtù è il solo bene per l'uomo sapiente che conosce l'ordine razionale del cosmo e non può

cadere nel vizio

Dovere e bene, tuttavia, sono cose diverse. Il bene compare a seguito della ripetizione sistematica e

reiterata dell'azione doverosa, fino a generare nell'uomo una vera e propria attitudine stabile e

costante: la virtù. Solo la virtù è veramente il bene: essa è propria unicamente del sapiente, che

conosce l'ordine cosmico e vive conformemente a esso. La virtù è una sola e si identifica con la

sapienza perché non è praticabile senza la conoscenza dell'ordine dell'universo propria dell'uomo

saggio. Il compimento del dovere, tuttavia può avere molti nomi, a seconda degli aspetti della virtù

che, di volta in volta, si vogliono sottolineare: ad esempio, la giustizia è la virtù legata alla

distribuzione dei beni, la saggezza quella legata ai compiti dell'uomo, la fortezza agli impedimenti

ecc. Il vizio è il contrario della virtù e tra virtù e vizio non è possibile alcuna via intermedia. Chi

vive secondo ragione, cioè il saggio, fa tutto in modo virtuoso, mentre chi vive in modo irrazionale,

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cade nel vizio. Poiché la virtù dipende dall'uso o meno della ragione, è accessibile a tutti gli uomini,

a prescindere dal sesso, dall'origine e dalla condizione sociale.

Gli indifferenti non sono né beni né mali, ma possono essere positivi o negativi se conservano o

ostacolano la vita

La virtù è l'unico bene per l'uomo, in quanto lo conduce alla realizzazione della propria natura; il

vizio, parallelamente, rappresentata l'unico male. Esistono poi altre cose che non sono né beni, né

mali e sono i cosiddetti indifferenti (adiáphora):

Indifferenti sono tutte le cose che non portano né vantaggio né danno: per esempio vita, salute,

piacere, bellezza, forza, ricchezza, buona reputazione, nobiltà di nascita e i loro contrari, morte,

infermità, pena, bruttezza, debolezza, povertà, ignominia, oscura nascita e simili. (Diogene Laerzio,

Vite dei filosofi, VII, 100-101)

A livello puramente biologico, tra gli indifferenti, in base alla legge dell'autoconservazione, alcuni

sono da ritenersi positivi in quanto conservano e incrementano la vita, altri sono negativi poiché la

ostacolano. I primi, come la salute, la ricchezza, la bellezza, meritano pertanto di essere scelti; i

secondi, come la malattia, l'infermità, l'indigenza, no. Secondo gli stoici, oltre alle virtù e ai vizi,

esistono, dunque, altre cose che, benché siano moralmente indifferenti, sono degne di essere scelte o

respinte dal punto di vista fisico: per designarle adoperano il termine valore, che si riferisce a tutto

ciò che offre un «contributo a una vita conforme a ragione». Con lo stoicismo, quindi, fa il suo

ingresso nella storia della filosofia il concetto di valore che avrà enorme importanza nello sviluppo

della riflessione etica.

Le passioni sono contrarie alla ragione, vengono considerate false opinioni a cui il saggio

contrappone l'imperturbabilità

Il principio fondamentale dell'etica stoica è vivere secondo ragione: le emozioni (páthos), perciò,

sono solo un ostacolo. Infatti, se l'istinto è la guida degli animali e la ragione quella dell'uomo, le

emozioni risultano superflue e vengono interpretate dagli stoici come forme di ignoranza: non sono

cioè espressione di una parte dell'anima, come per esempio voleva Platone, ma sono false opinioni.

È vero, infatti, che tutti gli uomini (anche i sapienti) sono sottoposti a forti impulsi (appetitus

vehementior), ma questi impulsi si trasformano in passioni umane solo mediante l'assenso della

ragione: in altre parole, fa parte della natura umana essere attratti da ciò che ci dà piacere, per

esempio dalla bellezza; ma il saggio non lascia che questo impulso diventi una passione perché lo

contrasta con la forza della ragione che dimostra che la bellezza non è il vero bene.

Gli stoici sradicano dall'anima tutti gli affetti dal cui impulso l'uomo è turbato. [...] Sono malattie,

non ingenite per natura, ma prese per un'opinione sbagliata; e perciò credono che si possano

estirpare dalle radici, se si cancella la falsa opinione dei beni e dei mali. (Lattanzio, Divinae

Institutiones)

Le passioni sono quindi considerate alla stregua di vere e proprie malattie dell'anima, fonte di ogni

male e infelicità. Fondamentalmente se ne possono distinguere quattro:

• il piacere (voluptas) e il dolore (aegritudo), relativi rispettivamente ai beni e ai mali presenti;

• il desiderio (libido) e la paura (metus), relativi rispettivamente ai beni e ai mali futuri.

Il saggio non prova nessuna di queste passioni. In particolare non prova dolore per le cose presenti

perché, conoscendo la perfezione dell'universo, sa che non esistono mali di cui debba dispiacersi.

Colui che per moderazione e fermezza è quieto d'animo e in armonia con se stesso, sicché né si

strugga per afflizioni, né sia fiaccato dalla paura, né assetato di bramosia arda di desiderio, né si

consumi a tripudiare con futile vivezza, quegli è il sapiente che cerchiamo, quegli è il felice.

(Cicerone, Tuscolanae Disputationes)

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L'ideale stoico è, dunque, quello dell'imperturbabilità del saggio, dovuta all'indifferenza a ogni

emozione (in greco apatía). Si emoziona, infatti, solo colui che non comprende il perché delle cose.

L'uomo, infatti, ha paura, si affligge o si esalta perché non sa spiegare le ragioni di ciò che accade.

Ma quando invece ha compreso che le cose si collegano le une alle altre nella catena stabilita dal

destino, non si lascia perturbare dalle emozioni. È importante osservare che il rifiuto delle passioni

comprende anche quelle che solitamente sono considerate positivamente, come la misericordia o la

compassione: «La misericordia fa parte dei difetti e vizi dell'anima: misericordioso è l'uomo stolto e

leggero» (Lattanzio). Si tratta di una prospettiva lontana dalla sensibilità contemporanea ma anche

dal realismo aristotelico. Piuttosto sembra riproporsi l'aristocraticismo etico proprio di Platone:

l'ideale del saggio si presenta, infatti, come difficilmente accessibile per le persone comuni,

riservato a personaggi straordinari, a filosofi come Socrate.

Gli uomini sono per natura spinti a formare la società, in virtù di un ordine universale che

presiede al destino delle comunità ed è responsabile dell'esistenza del diritto naturale

L'uomo, secondo il pensiero stoico, è portato per natura ad amare e conservare se stesso. Ma l'istinto

primario dell'oikéiosis non è diretto unicamente alla propria salvaguardia: gli stoici ritengono infatti

che ogni singolo individuo lo estenda immediatamente ai figli e alla cerchia dei familiari e infine,

per gradi, a tutti gli uomini, cui si sente accomunato dal fatto di condividere la medesima natura

razionale. Questo comporta che vi sia tra gli uomini un reciproco interessamento, «per cui - dice

Cicerone nel De finibus - è necessario che un uomo, per il fatto stesso che è uomo, non sembri

estraneo a un altro uomo». Pertanto gli uomini sono portati per natura a unirsi tra loro in una

"società naturale" e sono spinti «dalla natura a giovare a quanti più possono soprattutto con

l'insegnare e col dar regole di prudenza». Nella sostanza, l'ordine universale del cosmo regge sia il

destino dei singoli, che quello delle comunità. Le leggi umane sono così espressione della legge

eterna, scaturita dal lógos stesso, che permea tutte le cose e, in virtù della propria intrinseca

razionalità, stabilisce il bene e il male. La giustizia è dunque il prodotto dell'azione di questa legge

divina, che gli stoici definiscono legge naturale, che è razionale, universale ed eterna e risulta

superiore alle leggi dei singoli popoli. Scrive Cicerone:

La legge non fu inventata dal genio umano né fu una decisione arbitraria dei popoli, ma è un

qualche cosa di eterno, che regge il mondo intero con saggi comandi e divieti. Così [gli stoici]

sostenevano che quella legge prima e ultima fosse la mente divina che secondo ragione dà obblighi

o impone divieti a tutte le cose.

In tal modo gli stoici fondano la teoria del diritto naturale (giusnaturalismo), che da allora

costituisce una delle ipotesi fondamentali circa l'origine del diritto. Dall'idea che vi sia un'unica

legge naturale che governa le comunità umane discende la rivendicazione dell'unicità della specie

umana. Tutti gli uomini sono dunque uguali e la schiavitù giuridica è irrilevante. L'unica vera

schiavitù è quella dell'ignoranza, cioè dell'incapacità da parte dell'uomo di servirsi della propria

ragione. L'idea di un'uguaglianza di tutti gli uomini comporta necessariamente il superamento di

pregiudizi nazionalisti: l'uomo appartiene all'umanità prima che a un singolo popolo o a una

nazione; è cittadino del mondo e ogni paese è la sua patria (cosmopolitismo). A differenza di

Epicuro, quindi gli stoici non sostengono la necessità di abbandonare la politica: anzi riconoscono

la necessità che il saggio sia disponibile a farsi carico anche dei suoi doveri civili. «Crisippo nel

primo libro Dei modi di vita - ricorda Diogene Laerzio - sostiene che il sapiente parteciperà alla vita

politica, se nulla glielo impedisce». Sarebbe sbagliato tuttavia sopravvalutare la portata di questo

impegno: il saggio dovrà essere un buon padre e un buon marito, dovrà partecipare alla vita della

comunità ma certo non cercherà di tradurre in un nuovo ordinamento le sue concezioni politiche. In

altri termini, il suo egualitarismo si tradurrà in un atteggiamento di benevolenza nei confronti degli

schiavi, certamente non in un impegno per la loro liberazione.

FILOSOFI a CONFRONTO

Il problema etico nell'epicureismo e nello stoicismo

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EPICUREISMO STOICISMO

Fine

dell'esistenza

umana

Ricerca della felicità, che consiste

nel piacere, raggiungibile con

l'atarassía e l'aponía, attraverso un

razionale calcolo dei piaceri.

Ricerca della felicità che consiste nel

vivere secondo natura, cioè in conformità

con la ragione, che regola ogni cosa.

Agire umano

È orientato alla ricerca del piacere,

che è il criterio di scelta dell'agire,

e alla fuga dal dolore. Con un

calcolo razionale si devono

ricercare i piaceri naturali e

necessari.

È orientato a seguire la propria natura di

autoconservazione in armonia con

l'ordine naturale.

Comporta l'assolvimento del proprio

dovere secondo ragione.

Bene

È in funzione del piacere, che è

appagamento dei sensi regolato

dalla ragione; è assenza di

dolore nel corpo e nello spirito.

È la virtù che si identifica con la sapienza

e si raggiunge con l'attitudine sistematica

all'azione doverosa.

Male

È ciò che provoca dolore, è il

timore da curare con la filosofia

(quadrifarmaco): il saggio

quindi non conosce il male.

È il vizio ed è contrario alla virtù. Anche

il male rientra nella perfezione

dell'ordine universale, è perciò necessario

al bene dell'uomo.

Passioni

Sono la "malattia" della vita umana

da curare con la filosofia. Il

quadrifarmaco può sconfiggere

le quattro grandi paure che

affliggono l'animo umano.

Sono come una malattia dell'anima,

fonte di ogni male. Sono contrarie alla

ragione e ostacolo al vivere secondo

natura. Alle passioni, considerate false

opinioni, il saggio contrappone l'apatia.

Saggezza

È la più alta delle virtù e consiste

nel calcolo razionale dei propri

bisogni, per soddisfare i piaceri che

conducono alla felicità.

È la virtù, cioè l'imperturbabilità che si

raggiunge seguendo la ragione, perciò è

accessibile a tutti gli uomini.

Felicità

È nel piacere stabile, nel

mantenimento dell'animo in una

condizione di calma e

imperturbabilità, cioè nell'atarassía

e nell'aponía.

È nel vivere in armonia con se stessi,

senza passioni, conoscendo la perfezione

dell'ordine universale e sapendo che non

esistono mali da temere.

Politica

È "un inutile affanno" che

compromette la felicità ed è causa

di turbamento.

Per natura gli uomini sono portati a

vivere in società. Le leggi umane sono

espressione della legge eterna scaturita

dal lógos. Il saggio deve occuparsi dei

suoi doveri civili.

5 Il medio stoicismo e il neostoicismo a Roma

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Tra il II e il I secolo a.C. Panezio di Rodi restituisce vitalità allo stoicismo mitigando la

rigidità dell'etica e lo diffonde a Roma

Dopo Crisippo, tra il II e il I secolo a.C. lo stoicismo perde la spinta innovativa e si limita a

conservare e trasmettere le tesi dei maestri. È Panezio di Rodi, vissuto ad Atene intorno al 160 a.C.,

a ridare vitalità alla dottrina stoica, che con lui entra nella fase del "medio stoicismo". Allievo di

Diogene di Seleucia e Antipatro di Tarso, nel corso della vita si reca più volte a Roma, dove entra in

contatto con il circolo degli Scipioni. È autore di uno scritto Sul Dovere e uno Sulla Provvidenza.

Alla morte di Antipatro, nel 129 a.C., diventa scolarca, carica che mantiene fino alla morte. La sua

riflessione si configura secondo gli storici come una sorta di umanesimo stoico. Il cuore del suo

pensiero risiede, infatti, nella correzione apportata al precetto morale del "vivere secondo natura",

che trasforma in "vivere secondo le disposizioni dateci dalla natura". A parere di Panezio, infatti, il

compito etico deve essere personalizzato e consiste nel fatto che ciascuno deve realizzarsi

pienamente, nella maniera che sente più adeguata a sé, in base alle differenti disposizioni che la

natura gli ha dato. Con Panezio, il concetto di "dovere" entra nella filosofia romana fortemente

umanizzato e, grazie a Cicerone, che da lui lo desume, viene trasmesso alla tradizione successiva.

La filosofia stoica arriva a Roma attraverso le interpretazioni eclettiche tipiche della cultura

del tempo: qui prende forma il cosiddetto "nuovo stoicismo"

A proposito della filosofia romana e del suo carattere eclettico, abbiamo già fatto riferimento

all'importante contributo di Marco Tullio Cicerone (vedi p. 32) che, pur non elaborando una

filosofia originale, nel I secolo a.C. contribuisce enormemente alla diffusione delle dottrine della

filosofia greca, attraverso la capacità espositiva e la chiarezza della sua prosa. Lo stoicismo che

giunge a Roma rispecchia l'impostazione eclettica tipica dell'epoca. Le sottigliezze teoriche e le

differenze tendono a essere poste in secondo piano a vantaggio dell'interesse per le conclusioni

pratiche della filosofia. Inoltre, la riflessione si approfondisce in senso religioso. Gli stoici

dell'epoca, infatti, sono sempre più interessati alla dimensione dell'interiorità spirituale. È dal

rapporto dell'uomo con se stesso, infatti, che scaturiscono la saggezza e la forza. Il saggio è,

dunque, autosufficiente e trae dal proprio animo la verità. Anche il rapporto dell'uomo con Dio

avviene nel ripiegamento interiore e, in tal senso, l'uomo non necessita del contatto col mondo. Il

nuovo stoicismo conta numerose personalità: quelle dotate di maggiore originalità filosofica furono

Seneca, Marco Aurelio ed Epitteto.

Lucio Anneo Seneca, filosofo, letterato e politico, rivolge la sua attenzione agli aspetti pratici

della filosofia il cui compito è educare alla tranquillità interiore

Seneca nacque a Cordoba nel 4 a.C. Fu drammaturgo, poeta e uomo politico nella Roma di Nerone,

di cui fu maestro e consigliere e per ordine del quale morì nel 65 d.C. Seneca è profondamente

sensibile alle istanze eclettiche e ribadisce con forza la sua indipendenza intellettuale rispetto ai

dogmi della Stoà. Tuttavia non è semplicemente un eclettico. Il suo interesse è rivolto agli aspetti

pratici della filosofia: il saggio ha il compito di agire ed educare il genere umano. Perciò è

interessato ai problemi religiosi e morali della filosofia. Anche la fisica e la logica assumono valore

per lui unicamente in senso religioso-morale, in quanto possono contribuire a liberare l'uomo da

timori e insicurezze derivanti dall'ignoranza dei fenomeni fisici. La teoria dell'anima di Seneca

riprende quella platonica, distinguendo tra un'anima razionale e un'anima irrazionale; quest'ultima si

compone di una parte irascibile, da cui hanno origine le passioni, e una parte umile, da cui nasce la

ricerca del piacere. Secondo Seneca, il corpo è la prigione dell'anima, è la causa delle imperfezioni

dell'uomo e delle sue passioni, per questo l'uomo nasce veramente soltanto il giorno della propria

morte, intendendo che «un giorno finalmente ti saranno svelati i misteri della natura» (Epistulae,

102). Il saggio quindi deve elevarsi e cogliere il lógos universale, distinguendosi, in quanto dotato

di ragione, dalle altre creature. Seneca respinge il rigorismo morale stoico che contrappone senza

appello il saggio allo stolto. Considera con indulgenza gli errori umani, convinto che l'uomo sia di

fatto un essere imperfetto, in perenne oscillazione tra il bene e il male. Tra gli stoici è stato quello

che ha maggiormente combattuto la schiavitù e le distinzioni sociali. A suo giudizio, unico

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indicatore del valore di un uomo è la virtù, che è egualmente a disposizione di tutti. Si è nobili o

schiavi per il capriccio del destino. L'unica nobiltà dotata di senso, per Seneca, è quella che

ciascuno si costruisce nell'interiorità:

Se qualcosa vi è nella filosofia è questo. Che essa non guarda a stemmi: tutti gli uomini, se si

riportano alla prima origine, discendono dagli dei. [...] Non è un atrio pieno di ritratti affumicati

che ci dà la nobiltà [...]. La nobiltà è data dall'animo, il quale, in qualsiasi condizione si trovi, ha

sempre la possibilità di sollevarsi sopra la fortuna stessa. (Seneca, Epistulae ad Lucilium, Libro V,

3)

A riguardo del divino, Seneca afferma risolutamente la coincidenza di Dio con il mondo: «E che

altro è, infatti, la natura se non Dio e la divina ragione che penetra di sé l'universo nella sua totalità

e nelle sue singole parti? » (De beneficiis). Dio ascolta, vede e ama gli uomini e si rivela attraverso

l'interiorità: «la divinità ti sta vicino, è con te, è dentro di te». Nel pensiero di Seneca, dunque, le

riflessioni religiose su Dio hanno largo spazio. Ciò ha favorito la formazione di una leggenda circa

il rapporto tra il filosofo e san Paolo: in realtà questo rapporto non vi fu.

Epitteto, schiavo liberato, filosofo e organizzatore di una scuola, incarna in modo esemplare lo

spirito e i contenuti della filosofia stoica romana

Epitteto nacque a Ierapoli, in Frigia, fra il 50 e il 60 d.C. Fu schiavo di Epafrodito, un funzionario

romano di Nerone. Verso il 70 d. C. iniziò a seguire le lezioni di Musonio Rufo, filosofo neostoico.

Dopo essere stato liberato, visse a Roma fino al 92-93, quando un editto di Domiziano cacciò da

Roma tutti i filosofi. Si recò allora in Epiro, a Nicopoli, dove fondò una scuola che divenne molto

famosa. Volendo attenersi al modello di Socrate, non scrisse nulla; conosciamo la sua filosofia

grazie a un suo allievo, lo storico Flavio Arriano, che ha messo per iscritto le sue lezioni. Come

Seneca, Epitteto è dominato da uno spiccato interesse per l'interiorità e dall'afflato religioso. Dio è

l'essere supremo, padre di tutti, presente nell'anima di ciascuno come consolatore e guida infallibile

del destino umano. Tuttavia, di nuovo come in Seneca, in Epitteto la riflessione religiosa si discosta

da quella cristiana in quanto la virtù è accessibile per mezzo della sola ragione, mentre secondo il

cristianesimo l'uomo nulla può senza la rivelazione e la grazia.

Epitteto ritiene che le cose si ripartiscano in due categorie:

• ciò che possiamo controllare, cioè gli atti spirituali: l'opinione, il sentimento, il desiderio,

l'avversione. In questa categoria si trovano il bene e il male e su queste cose l'uomo può esercitare la

ragione, modificandosi in modo da rendersi libero;

• ciò che non possiamo controllare: tutto ciò che non è una nostra attività, cioè il corpo, gli averi, la

reputazione, le alte cariche. L'uomo, dunque, può essere libero a patto di non essere schiavo delle

cose esterne. Tutto ciò che non è un atto del suo spirito non deve avere il potere di dominarlo.

Fervente ammiratore di Epitteto, ultima figura di rilievo dello stoicismo è lo stesso imperatore

di Roma, Marco Aurelio

Marco Aurelio nacque nel 121 d.C.; divenne imperatore all'età di quarant'anni e morì nel 180 d.C.

Ci ha lasciato uno scritto in lingua greca, composto di aforismi differenti, i Colloqui con se stesso o

Ricordi. Di ascendenze eclettiche, tra i pensatori del nuovo stoicismo, è quello che identifica

maggiormente filosofia e riflessione morale. Uno dei temi più ricorrenti del suo pensiero è quello

relativo alla caducità delle cose: «Oh! come rapidamente, in un attimo, svaniscono tutte le cose, i

corpi nello spazio e la memoria di essi nel tempo!». La vita ha tuttavia un senso che l'uomo coglie

attraverso la filosofia ma a condizione di un ripiegamento dell'anima su se stessa: infatti, è

attraverso l'interiorità che l'uomo giunge alla visione panteista dell'Uno-tutto, da cui ogni cosa

deriva e che tutto permea. È proprio l'idea dell'ordine divino del mondo a fornire la realtà di

significato. Il significato della vita, dunque, non proviene dall'esterno ma da noi stessi: «Scava nella

tua interiorità, dentro te stesso sta la fonte del bene». L'anima, infatti, è un principio divino dentro di

noi che ci consente di cogliere la vanità delle cose terrene e la grandezza dell'ordine provvidenziale

del tutto: Si deve in primo luogo considerare che io sono una parte del tutto regolato dalla Natura;

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secondariamente che io sono, in certo modo, stretto da legami di parentela con le altre parti della

specie. Memore di ciò, in quanto sono parte non avrò ragioni di tollerare malvolentieri alcuna delle

cose che mi vengono dal Tutto, perché nulla è di danno alla parte se conviene al Tutto. [...] In

quanto poi sono stretto da legami di parentela con le altre parti della stessa specie, non farò nulla

che non giovi alla società; terrò anzi sempre presenti i miei simili e dedicherò tutti i miei sforzi al

bene comune, astenendomi da ogni azione contraria. (Marco Aurelio, Ricordi) Marco Aurelio,

dunque, ripropone i principi fondamentali dell'etica stoica: l'uomo deve accettare l'ordine divino e

razionale che governa il cosmo. Vivere in questo ordine, cioè «vivere con gli dei» è il suo dovere

morale, il senso della vita. E ciò comprende anche «vivere con gli uomini» in un rapporto di

solidarietà perché gli uomini sono legati dalla loro comune origine e devono amarsi gli uni gli altri:

«È dell'anima razionale amare il prossimo, il che è verità e umiltà». Ognuno deve svolgere il

compito cui la provvidenza l'ha chiamato, Marco Aurelio nientemeno che il ruolo dell'imperatore,

quasi a realizzare l'utopia platonica della filosofia al potere. Ma Marco Aurelio provvede da solo a

smorzare entusiasmi troppo facili: «Non sperare nella repubblica di Platone! Accontentati di fare un

passo avanti anche piccolo».