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L.U.M.S.A. ANNO ACCADEMICO 2014-2015 CORSO DI TEOLOGIA-SACRA SCRITTURA Prof. Pezzoli don Gianluca DISPENSE AD USO ESCLUSIVO DEGLI STUDENTI I PARTE

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L.U.M.S.A.

ANNO ACCADEMICO 2014-2015

CORSO DI TEOLOGIA-SACRA SCRITTURAProf. Pezzoli don Gianluca

DISPENSE AD USO ESCLUSIVO DEGLI STUDENTI

I PARTE

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CAPITOLO PRIMO

ORIGINE E CONTENUTI

Bibbia

Come ogni libro, la Bibbia ha un titolo: Bibbia, appunto. Glielo abbiamo dato noi cristiani. In greco biblìa vuol dire "libri", anzi "libretti", perché la Bibbia è un insieme di composizioni letterarie, di solito brevi, scritte in diverse lingue: ebraico, aramaico o greco. Il più lungo di questi libri (il libro di Isaia) ha sessantasei capitoli, ma è contenuto in un centinaio di pagine di una comune Bibbia. Uniti formano un insieme di libretti. Basta un palchetto di scaffale per contenerli tutti. Nella Bibbia cattolica se ne contano 73: 46 libri per l'Antico Testamento e 27 per il Nuovo Testamento. Sono la "biblioteca" dei cristiani. La prima parte, quella che noi chiamiamo Antico Testamento, lo è anche per gli Ebrei.

Dal greco biblìa si è passati in latino a bìblia: un termine femminile singolare, con cui si vuole denominare l'intera collezione. Da bìblia è derivato l'italiano Bibbia. Con questa parola indichiamo il libro della nostra fede, perché in esso sappiamo essere contenuta la parola di Dio.

Antico e Nuovo Testamento

Aprendo la Bibbia, ci rendiamo conto che essa è suddivisa in due parti, di ampiezza differente. La prima, più estesa, è detta Antico Testamento; la seconda Nuovo Testamento. Anche queste sono denominazioni cristiane.

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Il termine "testamento" non va preso nel senso più comune di volontà ultime di una persona. Dietro, infatti, c'è la parola ebraica berît, che significa promessa di un qualche dono da parte di Dio e, al tempo stesso, impegno di osservare la sua legge da parte dell'uomo. Dio e l'uomo s'impegnano reciprocamente e affermano di appartenersi l'un l'altro, diventano amici e intimi. Fanno alleanza. Ecco perché noi parliamo di antica e nuova "alleanza" come di antico e nuovo "testamento". I due termini in pratica si equivalgono. L'antica alleanza riguarda quel rapporto religioso che Dio stabilì con un popolo, Israele; la nuova invece è lo stesso rapporto esteso, in Gesù, a tutti i popoli, di cui la Chiesa è segno. Si può quindi anche dire che l'unica alleanza è stata resa nuova in Gesù.

I cristiani vedono una profonda unità tra le due alleanze, in quanto la prima è annuncio, promessa e preparazione della seconda. Per questo conservano e venerano nella Bibbia sia i testi sacri del popolo ebraico sia i propri, come l'unico libro che contiene l'unica parola di Dio e l'unica salvezza in essa annunziata e attuata.

A usare per prima la denominazione di "antica" e "nuova" alleanza è la Bibbia stessa. Lo fa a riguardo di Noè e della nuova umanità che esce dal diluvio (cf. Gen 6,18; 9,8-17), e poi di Abramo e del popolo che da lui prende vita (cf. Gen 15,18; 17,1-9). L'alleanza tra Dio e Israele venne sancita al Sinai da Mosè con il rito del sangue, dopo aver letto "il libro [delle condizioni o leggi] dell'alleanza" (cf. Es 24,3-8). Ma Israele più volte disattese queste condizioni, venendo meno all'alleanza. Ed ecco che il profeta Geremia prevede un tempo in cui Dio sancirà un'alleanza "nuova" con Israele, un'alleanza di perdono, di responsabilità e di interiorità (cf. Ger 31,31-34).

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A questa alleanza nuova fa esplicito riferimento Gesù nell'ultima cena, quando offre da bere ai suoi discepoli dicendo: «questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi» (Lc 22,20). Come Mosè aveva sancito l'alleanza tra Dio e Israele al Sinai versando il sangue delle vittime, così ora Gesù nel suo sangue, che sta per essere versato sulla croce, dà compimento all'alleanza annunziata da Geremia, quella che unisce Dio e la comunità dei discepoli che vengono a formare il definitivo popolo di Dio, l'«Israele di Dio», come dirà Paolo (Gal 6,16). Concetti analoghi troviamo nella Lettera agli Ebrei (cf. Eb 8,6-13).

I cristiani si guardano bene dal pensare che l'antica alleanza sia abolita. Essa mantiene tutt'oggi per Israele il suo valore e fa parte dell'unica storia della salvezza, attraverso la quale Dio, mediante Mosè e in Gesù, ha chiamato e chiama Israele e i cristiani a legarsi a lui, a farsi segno e strumento di salvezza per tutti gli uomini.

Tanâk

Per un ebreo non esiste la parola "Bibbia" né, com'è ovvio, l'Antico Testamento, ma semplicemente la Tanâk. Questa parola è una sigla, composta dalla prima lettera di tre parole: Toràh, Neviìm, Ketuvìm, con l'aggiunta di una doppia "a".

La Toràh è ciò che noi chiamiamo Pentateuco e comprende i libri di Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio. La parola racchiude una grande ricchezza di significato per un ebreo. Toràh può essere tradotto da più termini: "legge", ma anche "ammaestramento", "indicazione", "istruzione", ecc. Nella Toràh l'ebreo trova tutto ciò che è chiamato a essere: la sua identità

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religiosa (popolo di JHWH), storica (popolo con una terra propria), sociale (comunità di fratelli). La Toràh è pertanto la carta d'identità e la carta costituzionale dell'ebreo religioso. Rimanervi fedeli è per lui ragione di vita o di morte. La Toràh tradotta nella vita è la sua "giustizia" o santità di vita: è titolo di riconoscimento, è il premio nel regno che JHWH nel suo giorno darà a Israele. Per un ebreo la Toràh è la rivelazione definitiva di Dio. Non c'è per lui parola più alta e quindi autoritativa della Toràh. Da ciò si comprende quanto sia difficile per un ebreo accettare un'ulteriore e definitiva parola di Dio come quella che, per noi cristiani, viene all'umanità attraverso Gesù.

A fianco della Toràh, ma con un valore minore, gli Ebrei pongono i Neviìm. Noi traduciamo questa parola con "profeti", gli uomini dello Spirito e i portatori di una parola. La parola per un ebreo può essere una promessa che è portata a compimento, quindi un evento. In questo senso sono profeti coloro che hanno attuato le promesse di Dio: Giosuè, i giudici, Samuele e gli altri profeti dell'epoca della monarchia, le cui imprese troviamo rispettivamente in Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re. La Tanàk li chiama "profeti anteriori".

"Profeti posteriori" sono invece quei libri che siamo soliti designare semplicemente come "libri profetici", i testi cioè che raccolgono la predicazione di quegli uomini che rivolgevano la parola di Dio al popolo, in vista della conversione dai peccati commessi contro la Toràh o della salvezza prossima ad attuarsi nella storia.

I restanti libri della Tanàk vengono chiamati dagli Ebrei Ketuvìm, cioè "scritti" e comprendono testi di diversa natura: poetici, sapienziali, storici, apocalittici, ecc.

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Dalle tre collezioni sono esclusi sette libri: Tobia, Giuditta, 1 e 2 Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc. La tradizione ebraica, risalente al primo secolo d.C., non ritiene di poterli annoverare nella Tanàk. L'elenco riconosciuto dalla Chiesa cattolica si rifà invece ad una tradizione che li includeva, attestata nella versione greca dell'Antico Testamento detta dei Settanta (LXX), che fu approntata in ambiente ebraico ellenistico, ad Alessandria d'Egitto, a partire dal terzo secolo a.C. Da questo testo greco provengono anche alcune parti di Ester e Daniele, anch'esse non presenti nella Tanàk.

I LIBRI DELL’ANTICO TESTAMENTO

Il Pentateuco

I primi libri dell’Antico Testamento d'Israele descrivono, in poche parole, l'origine dell'universo (Gen 1-11) e poi le origini del popolo d'Israele (Gen 12 - Dt 34). Possiamo suddividere questa seconda parte in due: dapprima si parla degli antenati d'Israele, i cosiddetti patriarchi (Abramo, Isacco, Giacobbe e Giuseppe: Gen 12-50); poi dell'opera di Mosè (Esodo-Deuteronomio).

Importanti per il nostro scopo sono i racconti sugli antenati d'Israele, che forniscono una specie di «carta d'identità» dell'Israelita. Il principio è genealogico, vale a dire che i membri del popolo d'Israele si definiscono innanzitutto grazie ai legami di san-gue. Sono discendenti di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, e di uno dei dodici figli dello stesso Giacobbe. Sono quindi membri di una delle dodici tribù d'Israele.

Inoltre, un membro del popolo d'Israele è un discendente del popolo dell'Esodo. I suoi antenati erano schiavi in Egitto, sono stati

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liberati da Dio e lo stesso Dio li ha condotti attraverso il deserto fino alla terra promessa. Gli Israeliti hanno quindi in comune gli antenati e la storia. Hanno infine una legislazione comune: la legge di Mosè, con il suo diritto civile e il suo diritto sacro. Gli antenati del popolo hanno accettato la legge proclamata da Dio e trasmessa da Mosè in una cerimonia di alleanza: la prima generazione, che esce dall'Egitto, conclude un'alleanza con Dio presso il monte Sinai (Es 24,3-8); la seconda, nata nel deserto, ne conclude un'altra nelle pianure di Moab, prima di entrare nella terra promessa (cfr. Dt 28,69).

Il Pentateuco contiene elementi narrativi e giuridici. Proviamo adesso a capire meglio il loro scopo. Iniziamo con le parti narrative.

Dopo le vicende riguardanti l'origine dell'universo (Gen 1-11) e i patriarchi (Gen 12-50), abbiamo un lungo racconto, sull'origine del popolo d'Israele, nato sotto la guida di Mosè. Esso si articola in quattro sezioni principali: la storia dell'esodo o dell'uscita dall'Egitto (Es 1-15); i racconti sulla permanenza nel deserto (Es 15-18; Nm 11-34); la lunga sosta d'Israele nei pressi del monte Sinai (Es 19-Nm 10); e, infine, i quattro discorsi di Mosè pronunciati di fronte a Gerico l'ultimo giorno della sua vita, che formano il quinto libro del Pentateuco il Deuteronomio.

Qual è il significato di queste narrazioni? Non mi soffermo sul valore storico del racconto. Sarebbe troppo complicato. Dico soltanto che non si tratta di «storia» nel senso moderno della parola. I racconti del Pentateuco non hanno il fine di informare sul passato d'Israele. Hanno come primo scopo di formare la coscienza di un popolo, anzi, di creare una coscienza comune e un sentimento di appartenenza a un'unica nazione. Insisto sulla parola «creare»

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perché appare sempre più chiaramente che tutto concorreva alla scomparsa del popolo d'Israele dalla mappa dell'universo.

Quante antiche genti non sono scampate alle conquiste assire, babilonesi, persiane, greche e romane? Israele è sopravvissuto a tutte le vicissitudini della sua storia tormentata. Il Pentateuco contiene uno dei segreti di tale sopravvivenza.

I racconti del Pentateuco cercano quindi di creare un popolo unito. È, ad esempio, il primo scopo delle cosiddette storie dei patriarchi. Tutti i membri del popolo d'Israele discendono dagli stessi antenati: Abramo e Sara, Isacco e Rebecca, Giacobbe e le sue due mogli, Lia e Rachele.

Abramo

Possiamo dire, senza rischio di sbagliare molto, che i racconti su Abramo e Sara sono attraversati da promesse divine: promessa di un figlio, promessa della terra, benedizione e protezione divina. In due testi particolarmente interessanti esse hanno come quadro un'alleanza solenne che Dio conclude con il patriarca (Gen 15 e 17).

L'alleanza con Abramo si distingue dalle altre perché non è condizionata. Si tratta di una promessa solenne, sotto forma di giuramento, per la quale Dio non chiede niente in cambio. Perché?

Occorre rileggere i testi nel periodo in cui si è formato il Pentateuco, vale a dire dopo l'esilio. I grandi profeti, in particolare Geremia ed Ezechiele, spiegarono l'esilio come conseguenza della rottura dell'alleanza del Sinai. Dio aveva promesso al suo popolo assistenza e protezione, benedizione e prosperità, a patto però che Israele fosse fedele all'alleanza e osservasse la sua legge. Israele non è stato fedele al suo Dio e perciò è stato colpito dalla

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maledizione. La domanda che si pone immediatamente è la seguente: vi è ancora un futuro per Israele? Una soluzione è stata quella di cercare un fondamento più solido e più antico dell'alleanza del Sinai. Israele l'ha trovato nei patriarchi, in particolare in Abramo: l'alleanza con Abramo, al contrario di quella del Sinai, è incon-dizionata e, perciò, irrevocabile, perché dipende solo dalla fedeltà di Dio alle sue promesse, non dalla fedeltà del popolo.

Iniziare la storia d'Israele con Abramo non voleva solo dire trovare un antenato. Significava anche cercare un vero« inizio». In genere, la storia di un popolo comincia con la fondazione di una città, di una dinastia, o con la conquista di un impero da parte di un prode. In Israele inizia con la storia di un pastore nomade o seminomade proprietario di numerosi greggi che viveva sotto una tenda. Perché?

Una prima risposta è data dalla storia d'Israele. Le grandi città d'Israele, Samaria e Gerusalemme, sono state conquistate e distrutte. Il regno di Davide è finito con l'esilio babilonese e non è mai stato davvero restaurato. Le altre istituzioni d'Israele, ad esempio il culto del tempio, hanno conosciuto una lunga eclissi. Una sola istituzione è sopravvissuta senza troppi danni a tutte queste vicissitudini la miglia estesa, il «clan». Israele, perciò, può identificarsi senza esitazioni con Abramo e Sara, e appropriarsi della storia di questa prima famiglia.L'identificazione con l'antenato Abramo è stata facilitata dai responsabili della composizione del suo ciclo di storie (Gen 12-25). Essi hanno sfruttato alcuni elementi e ne hanno rielaborati altri. Elenco solo i principali, senza entrare nei particolari perché la lista è lunga. Abramo, ad esempio, viene da Ur dei Caldei (Gen 11,31; 15,7; Ne 9,7; cfr. Gs 24,2-3). Attraversa tutta la terra promessa, da

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Sichem e Betel fino al Negeb (Gen 12,6.8.9), poi scende in Egitto (Gen 12,10-20). Dall'Egitto torna a Betel (13,34) prima di insediarsi alle Querce di Mamre, vicino a Ebron (13,18). In seguito lo ritroveremo di nuovo nel Negeb (20,118), poi a Beer-Sheva (21,32-33; 22,19). Sara, tuttavia, muore a Ebron (23,2) ove sarà sepolta, così come Abramo (25,9).Due punti meritano di essere segnalati.1. Abramo percorre in anticipo tutte le strade lungo le quali il popolo si sposterà in seguito: come gli esuli, viene dalla Mesopota-mia; come il popolo, passa anche un certo tempo in Egitto. Può quindi essere l'antenato di coloro che parteciperanno all'esodo sotto Mosè e di coloro che torneranno dall'esilio.2. Abramo percorre ogni regione e visita tutti i luoghi importanti della terra promessa: il Nord, in particolare Sichem e Betel; il Sud, in particolare Mamre (Ebron); l'estremo Sud, il Negeb e Beer-Sheva. Si potrebbe aggiungere che passa anche a Salem — il nome criptico di Gerusalemme — secondo il misterioso racconto di Gen 14,18-20. Molto abilmente il racconto mostra che nessuna regione può rivendicare di avere il monopolio di Abramo. Parimenti non c'è alcuna regione che può pretendere di non avere qualche legame con lui. Ciò vale innanzitutto per il Nord che, come vedremo, è molto più legato a Giacobbe. Rimane vero che Abramo ha vincoli particolari con la regione di Ebron e con le Querce di Mamre, dove si trova la sua tomba e, forse, dove si custodiva il suo ricordo. Il ciclo di Abramo ha però sfruttato al massimo la figura del pastore nomade per fargli attraversare tutte le strade della terra promessa e quelle che i suoi discendenti dovranno percorrere un giorno. Abramo è pertanto l'antenato di tutti, senza eccezione.

Abramo è anche padre e fondatore d'Israele sotto molte

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prospettive. Gen 15 è forse il testo più ricco da questo punto di vista, anche se non è il solo. Mi limito di nuovo a qualche aspetto più importante. Abramo è il primo personaggio biblico che «crede» alle promesse di Dio (Gen 15,6). È anche il primo «profeta» (Gen 20,7) che riceve una rivelazione secondo un vocabolario prettamente profetico (Gen 15,1). Vive l'esodo prima dell'esodo, come abbiamo visto (Gen 12,10-20), ma anche perché Gen 15,7 usa la formula dell'esodo per descrivere la sua venuta da Ur dei Caldei: «Sono il Signore che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei» (cfr. Es 20,2: «Sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d'Egitto, da una casa di schiavitù»). Abramo è il primo personaggio a costruire altari e a invocare il nome del Signore nella terra promessa (Gen 12,7-8), è il primo a sacrificare tutti gli animali usati nel culto d'Israele per la preparazione dell'alleanza (Gen 15,9-10) e Dio conclude con lui un'alleanza prima di quella del Sinai (Gen 15,18).

Anche nel suo comportamento Abramo è un esempio — un paradigma — per i suoi discendenti. È il primo a praticare la circoncisione, segno dell'alleanza con Dio (Gen 17); osserva la legge prima della sua proclamazione sotto Mosè (26,5); paga la decima al santuario di Salem — Gerusalemme — (14,20); è un modello di ubbidienza agli ordini di Dio (12.1-4; 22,1-19; cfr. in particolare 22,15-18), di ospitalità (18,1-15) e di intercessione per i «giusti» (18,22-33). Abramo funziona certamente come «figura di identificazione» per tutti i suoi discendenti.

Isacco

Il personaggio di Isacco è molto più blando e scialbo rispetto a suo padre Abramo. Per il nostro scopo una sola domanda importa

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davvero: perché introdurre il personaggio di Isacco nella triade dei patriarchi, fra Abramo e Giacobbe? La ragione, a mio parere, è semplice. Abramo nasce a Ur dei Caldei, fuori della terra promessa. Giacobbe vivrà vent'anni a Carran, lontano dalla sua patria e morirà in Egitto. Né l'uno né l'altro hanno vissuto tutta la loro vita nella terra promessa. Solo Isacco nasce, cresce, vive e muore nella terra di Canaan. Isacco è l'unico patriarca che dà ai suoi discendenti pie-no diritto al possesso della terra perché non l'ha mai lasciata.

Giacobbe

Dei tre patriarchi Giacobbe è il più colorito, ma forse anche il più ambivalente. Al contrario di Abramo, che è «serio» ed esemplare, Giacobbe è molto meno edificante. È soprattutto scaltro. Grazie alla sua intelligenza si procura quello che altri ottengono in virtù dei loro privilegi o per mezzo della forza. Appartiene alla famiglia di eroi del popolo quali Guglielmo Tell in Svizzera e Robin Hood in Gran Bretagna. Vi sono differenze evidenti fra questi eroi popolari. Giacobbe, nonostante ciò, appartiene a questa famiglia di eroi popolari, molto popolari, sebbene la sua moralità non sia sempre ineccepibile.

Il secondo elemento che vale la pena menzionare è, come per Abramo, il carattere paradigmatico della sua esistenza. Questo aspetto è molto meno sviluppato che nel ciclo di Abramo, tuttavia. Su un punto particolare, però, Giacobbe è simile a suo nonno Abramo: passa vent'anni a Carran, quindi in Mesopotamia e finisce la sua vita in Egitto, ma sarà sepolto nella terra di Canaan.

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Giuseppe

La storia di Giuseppe (Gen 37-50) si distingue in diversi modi dal resto dei racconti patriarcali. Cito solo i tre elementi più manifesti. Primo, le promesse di Dio agli antenati d'Israele non sono più menzionate, tranne in due aggiunte successive: in un'apparizione di Dio a Giacobbe (Gen 46,1-5; si tratta dell'unica apparizione di Dio nella storia di Giuseppe) e negli ultimi versetti del racconto (Gen 50,24-25). Secondo, lo stesso Dio interviene solo di rado nelle vicende di Giuseppe (cfr. Gen 39,2-5.21) e non parla mai direttamente al protagonista del racconto; è il racconto della Genesi in cui Dio si fa più discreto. Terzo, nella storia di Giuseppe vivere all'estero non comporta alcun problema serio: non vi sono difficoltà a proposito del cibo, del culto o dei matrimoni; in Gen 41,45 Giuseppe sposa la figlia di un sacerdote egizio; le raccomandazioni di Abramo al suo servitore per il matrimonio di Isacco (Gen 24,1-4) o di Rebecca (Gen 27,46) e di Isacco per il matrimonio di Giacobbe (Gen 28,1-2) sono, sembra, seppellite nell'oblio. La storia di Giuseppe si distingue anche dal resto del Pentateuco dal punto di vista letterario. L'arte narrativa è più raffinata, lo studio della psicologia più profondo e la composizione del racconto più elaborata. Non siamo più esattamente nel mondo dei racconti popolari, siamo in un ambito più vicino alle grandi scuole letterarie del tempo. Perché, allora, troviamo la storia di Giuseppe alla fine del libro della Genesi?

Secondo gli specialisti vi sono due ragioni principali. La prima ragione è che la storia di Giuseppe spiega in modo soddisfacente perché Israele si trova in Egitto all'inizio del racconto dell'Esodo (Es 1,1-7). I conflitti tra i fratelli, l'arrivo di Giuseppe in Egitto, la sua

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carriera alla corte del faraone, la carestia, l'incontro dei fratelli con Giuseppe e la venuta di tutta la famiglia in Egitto, accolta da Giuseppe: tutto ciò fornisce un eccellente prologo al racconto dell'esodo. La seconda ragione è di tutt'altro ordine. Occorre rimet-tere la storia di Giuseppe nel suo contesto storico. Il destino di Giuseppe, infatti, descrive la vita di un ebreo della «diaspora», fuori della terra promessa. Egli diventa molto potente, fino a occupare il posto più importante alla corte del faraone d'Egitto. In parole più moderne, è l'emigrato che è «arrivato». Oggi si direbbe che è «lo zio d'America» o «il cugino d'America»: fortunato, ricco, autorevole e capace di aiutare i poveri membri della famiglia rimasti in patria. Nel libro della Genesi quest'ultima va a raggiungerlo in «America», vale a dire in Egitto, per sfuggire alla carestia e alla miseria.

La storia di Giuseppe, in questo ambito, dimostra un fatto essenziale: è possibile vivere bene come ebreo in un paese straniero, nella «diaspora». Anzi, si vive meglio che in patria. La sopravvivenza dei membri della famiglia di Giacobbe dipende, infatti, dal «successo» di Giuseppe, «emigrato» per forza in un paese prospero.

L'esodo

Il racconto dell'uscita dall'Egitto è certamente «il racconto» per eccellenza del popolo d'Israele in quanto tale. Contrariamente alle storie dei patriarchi che privilegiano il principio genealogico e i lega-mi di sangue, il racconto dell'esodo evidenzia un altro principio identitario: quello della scelta libera e del «patto sociale». Inoltre - e occorre insistere su questo elemento - le vicende patriarcali sono focalizzate su individui, famiglie o, al massimo, un clan come quello

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di Giacobbe; al contrario, il racconto dell'esodo si concentra sul popolo in quanto tale. Si tratta di un'esperienza collettiva, della «storia» comune vissuta dalla prima generazione del popolo. Il «mito di fondazione» ha inoltre un suo punto di riferimento cultuale nella festa della Pasqua, la celebrazione descritta da Es 12, che per-mette a ogni generazione di rivivere e di riattualizzare l'esperienza dell'esodo.

La domanda da porre, nel contesto della nostra breve indagine, è la seguente: perché l'esodo è diventato il «mito di fondazione» d'Israele?

Un breve paragone con altri miti istitutivi dimostra che il racconto dell'esodo ha qualche cosa di singolare. Infatti, la storia di un popolo inizia, molto spesso, con la fondazione della sua prima dinastia importante, o di una città, come ad esempio per Roma nel 753 a.C. Nei tempi moderni la storia di una nazione inizia quando essa acquista la sua indipendenza.

Ogni tanto, però, la storia di una nazione può iniziare con un gesto simbolico che ha un effetto inaspettato. Tutti conoscono la leggenda di Guglielmo Tell in Svizzera. Più vicino a noi, il famoso Boston Tea Party, il 16 dicembre 1773, fu organizzato per protestare contro la politica commerciale sul tè imposta dalla Gran Bretagna: la distruzione di 45 tonnellate di tè segna, agli occhi di molti storici, l'inizio della guerra di indipendenza degli Stati Uniti d'America. La presa della Bastiglia di Parigi, il 14 luglio 1789, ha un significato analogo per la rivoluzione francese. In Colombia, il 20 luglio 1810, un fioraio di Bogotá rifiutò di offrire gratuitamente fiori per l'arrivo del rappresentante del re di Spagna: il fatto è considerato come il catalizzatore del movimento indipendentista nel paese. La marcia del sale (12 marzo 1930) del Mahatma Gandhi ha

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avuto un profondo effetto sugli abitanti dell'India e ha condotto, in fin dei conti, all'indipendenza del paese nel 1947; Gandhi voleva soltanto violare, pacificamente, il monopolio sul sale imposto dai Britannici all'India, che considerava ingiusto.

Sebbene vi siano differenze evidenti fra le epoche e i contesti storici degli eventi appena citati, il racconto dell'esodo ha un significato analogo. Non sappiamo, certo, quale sia il valore storico del racconto biblico. Possiamo soltanto misurare il suo enorme peso simbolico. Il racconto dell'esodo ha un valore unico nella storia d'Israele. È più importante della conquista della terra, delle vittorie di Saul e Davide sui Filistei, della presa di Gerusalemme da parte di Davide e della costruzione del tempio di Salomone. Il Signore è «Dio d'Israele fin dalla terra d'Egitto» (Os 12,10; 13,4).

Per quale motivo? Senza azzardarci troppo, possiamo cercare la ragione del successo dell'esodo in un tratto ricorrente della storia d'Israele, sovente sottomesso a potenze straniere: Egitto, Assiria, Babilonia, Grecia, Roma. La liberazione dal giogo straniero è stata un desiderio forte in molti periodi della storia d'Israele. La vicenda del suo popolo inizia con un racconto di liberazione volto in gran parte a scongiurare le tentazioni di fatalismo. Israele è nato libero, ci dice il racconto dell'esodo, e, se non lo è stato sempre, è a causa delle circostanze, non perché è il suo destino. Israele non è un popolo di schiavi.

Altri elementi del racconto di Es 1 - 15 sono di grande rilevanza per la memoria collettiva d'Israele. Intendo parlare delle modalità della liberazione dall'Egitto. L'affrancamento dalla schiavitù non è stato il risultato di un'azione violenta. Mosè non ha armato il popolo per organizzare una rivoluzione contro il faraone. Non ha fatto neanche ricorso ad azioni terroristiche o alla guerriglia. Non ha

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nemmeno usato l'arma dello sciopero, già conosciuta a quell'epoca in Egitto. L'unico strumento usato da Mosè per liberare il popolo è l'arma della persuasione. Mosè e Aronne sono andati dal faraone e gli hanno parlato.

Israele rimane quarant'anni nel deserto. Secondo Nm 13 -14 il così lungo soggiorno è il castigo di Dio perché Israele si rifiutò di conquistare la terra. La prima domanda che dobbiamo porre, però, è perché la parte più lunga del Pentateuco ha come quadro il deserto (Es 15 - Dt 34). In qualche modo esso è il vero «luogo» del Pentateuco. Non si tratta di un posto ideale e occorre diffidare delle sue idealizzazioni.

La risposta è nuovamente da cercare nella situazione di molti membri del popolo d'Israele che si ritrovano nel deserto», in marcia verso la terra promessa. Sono liberi, certo, ma non ancora arrivati nella loro patria. È la condizione dei membri d'Israele che vivono nella «diaspora», ma anche di quelli che risiedono nella terra promessa, però sotto un governo straniero. Vivono in uno stato di transizione, del «non ancora». I racconti della permanenza nel deserto non sono da leggere come ricordi del tempo passato. Sono modi di interpretare o di rileggere il presente alla luce del passato. Molti di questi racconti descrivono «miracoli», specialmente la scoperta di acqua e di cibo in una regione ostile. Altri, abbastanza numerosi, parlano delle «mormorazioni» d'Israele nel deserto, vale a dire delle ribellioni del popolo contro il suo Dio e contro i suoi capi, Mosè e Aronne. Vale la pena soffermarsi un attimo su questi due aspetti.

I racconti di miracoli hanno come origine, molto probabilmente, tradizioni locali tramandate da carovanieri o da viandanti. Ne troviamo di simili già nel libro della Genesi a proposito

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di Agar, madre di Ismaele, l'antenato degli Ismaeliti, celebri carovanieri del deserto (Gen 16,1-14; 21,8-21). Pozzi, oasi, rocce, toponimi sono spesso all'origine di tali storie e leggende. È più che probabile che molte narrazioni fossero, nella loro versione originale. semplici racconti di miracoli compiuti da Dio per assistere il suo popolo nelle difficili condizioni di vita nel deserto. Il messaggio era chiaro: Israele può vivere anche in situazioni molto precarie, il suo Dio è sempre capace di salvarlo.

I racconti di mormorazioni danno un colorito negativo alla permanenza nel deserto. Occorre dire però che si tratta di uno sviluppo successivo. La permanenza nel deserto è vista come un tempo idilliaco ad esempio in Osea e Geremia (Os 2,16-17; 12,10; Ger 2,2-3). La visione positiva si trasforma in negativa solo in Ez 20.11-16 e Ne 9,16-17. Perché? Siamo in epoca successiva, dopo l'esilio, e Israele proietta all'indietro, nel suo passato, alcuni problemi del presente. Vi sono conflitti, in particolare, fra un’élite che ritorna dall'esilio con la «legge di Mosè» e una parte della popolazione che rifiuta di vivere secondo queste norme. I libri di Esdra e Neemia descrivono a lungo questo conflitto. Anche il libro di Ezechiele rispecchia il punto di vista degli esiliati. È significativo che entrambi i testi citati (Ne 9,16-17 e Ez 20,11-16) contengano lo stesso rimprovero: nel deserto Israele ha rifiutato di ubbidire alle leggi del Signore.

Vi è un secondo motivo di ribellione spesso menzionato nei racconti del deserto e da Ne 9,17: il desiderio permanente di tornare in Egitto o, più semplicemente, la nostalgia dell'Egitto. Possiamo leggere in questi testi la volontà di molti membri del popolo di rimanere in Mesopotamia (o in Egitto) perché la vita in Israele è troppo dura.

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Una lunga sezione del Pentateuco è dedicata alle leggi d'I-sraele. Non dimentichiamo che nella tradizione ebraica il Pen-tateuco si chiama Torà, vale a dire «insegnamento», «istruzione», «legge».

Vi è una prima caratteristica della legislazione d'Israele che colpisce immediatamente: al contrario delle raccolte di leggi del mondo antico, il Pentateuco unisce e mescola diritto civile e diritto sacro. Perché? Penso che tocchiamo con il dito una delle caratteristiche del Pentateuco. Per Israele non vi è differenza essenziale fra diritto sacro e diritto civile. Lo possiamo capire in due modi diversi. Potremmo dire che tutta la vita, in Israele, è «servizio di Dio», vale a dire «liturgia». Il popolo dell'esodo, liberato dalla schiavitù egizia dal suo Dio, ha ormai come unico vero sovrano il suo Dio, per l'appunto. Per questa ragione diversi aspetti della vita pubblica sono tutti segnati dalla presenza di Dio e del sacro. Per lo stesso motivo vi è spesso equivalenza, nella legislazione d'Israele, fra colpa o delitto, da una parte, e peccato dall'altra. In tal modo un'infrazione è sempre, in qualche modo, offesa alla divinità.

D'altronde, se adottiamo il punto di vista del popolo, ogni suo componente è coinvolto nel culto, e non solo le famiglie sacerdotali specializzate nel servizio divino. L'intera vita del popolo è «liturgia», tutti sono al servizio di Dio; quindi, ciascuno è, in qualche modo, «sacerdote» destinato al culto di Dio. Un testo, collocato in un punto strategico, vale a dire proprio all'inizio della teofania del Sinai, in Es 19,6, esprime con parole chiare questa verità: «Voi sarete per me un regno sacerdotale, una nazione santa». L'espressione ha dato luogo a diverse interpretazioni. Un fatto, però, è certo: Dio si rivolge, per il tramite di Mosè, a tutto il popolo e gli promette una dignità nuova a patto che rispetti l'alleanza (Es

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19,5). L'immagine utilizzata dal testo è abbastanza semplice. I sovrani del tempo regnavano su un territorio e sui suoi abitanti. D'altronde, avevano un palazzo, o diversi palazzi, un «demanio», e una servitù propria. Secondo Es 19,3-6 Dio regna come sovrano sul mondo intero e su tutti i suoi abitanti, vale a dire su ogni nazione della terra (Es 19,5b). Si è riservato, però, una nazione per il suo servizio personale, e questa è Israele.

Potremmo dirlo anche in un altro modo. Ogni dio, nell'antichità, ha un suo tempio e un suo personale specializzato al suo servizio, sebbene si possa dire che sia il dio di ogni abitante della zona. Il Dio d'Israele, che è nello stesso tempo Dio di tutto l'universo, si riserva una nazione al suo servizio cultuale e. perciò, fa di Israele un regno di sacerdoti. Per questo motivo, Israele unisce il diritto sacro al diritto civile: il culto, in Israele, è affare di tutti e non soltanto della classe sacerdotale.

Tutte le leggi d'Israele sono proclamate sia sul monte Sinai sia nel deserto. Sono proclamate dallo stesso Dio e trasmesse dallo stesso Mosè. La legislazione d'Israele è quindi quella di un «governo nel deserto», per non dire di un «governo in esilio». La permanenza nel deserto è il «tempo normativo» per Israele e il deserto è il «luogo normativo». La cosa sorprende assai. Nel Vicino Oriente antico le leggi sono proclamate nel paese e dal sovrano del paese. In Israele sono proclamate fuori dal paese, e non da un re, ma da un profeta. Non esistono, infatti, «leggi di Davide» o «leggi di Sa-lomone»: esiste solo la legge di Mosè.

La prima spiegazione di questo fatto singolare è legata al discredito della monarchia in Israele. Essa è stata soppressa con le invasioni assire e babilonesi e non è mai stata davvero restaurata. Nel mondo antico, e anche nel mondo biblico, era difficile attribuire

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una legge a un'istituzione scomparsa. D'altronde, se si voleva continuare a vivere secondo le proprie leggi, era necessario trovare un modo per legittimarle. La soluzione era semplice: le leggi non sono scomparse con la monarchia perché erano più antiche di essa, così come Israele era più antico della monarchia di Saul e di Davide. Le leggi non sono neppure legate al territorio della terra promessa e quindi sono ancora valide quando il popolo vive fuori dalla sua terra o senza godere di una vera autonomia. Le legge, in Israele, è più personale che territoriale.

Tutto ciò comprova che Israele tiene molto alla sua legge (torà). Il cristiano di oggi può stupirsi della cosa; è, quindi, molto importante ricollocare l'idea nel suo contesto storico. Possedere le proprie leggi significa essere una vera nazione. Israele, per questo motivo, ha integrato tutte le sue leggi nel Pentateuco per provare due fatti essenziali: che possiede delle leggi e che esse sono antiche. Israele è pertanto una nazione antica al pari di altre nazioni vicine. È, inoltre, fiero della sua legge quanto altre nazioni si gloriano delle loro conquiste, della loro cultura o dei loro monumenti.

Perché scegliere proprio Mosè come fondatore e legislatore d'Israele? E chi è Mosè? Abbiamo già visto per quali motivi la legislazione d'Israele è anteriore alla monarchia e persino all'ingresso nella terra promessa. Il mediatore della legge — della torà — doveva essere anch'egli persona più antica della monarchia e dell'entrata nella terra promessa. Con ogni probabilità la tradizione d'Israele conosceva un personaggio di nome Mosè. Non sappiamo niente di Mosè dal punto di vista storico. Per dirlo in una sola immagine, il Mosè biblico è un gigante che nasconde per sempre il Mosè della storia. Possiamo solo dire che non è del tutto

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inventato. Sarebbe anche poco probabile: vale anche nel mondo biblico lo stesso principio enunciato dal filosofo presocratico Anassagora: «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma».

Per tornare a Mosè, penso che tre o quattro elementi possano resistere alla critica storica. 1) Mosè porta un nome egiziano, probabilmente abbreviato, che significa «figlio di», «generato da». Ritroviamo la stessa radice nei nomi propri Ramsete («figlio del dio Ra»), Tutmosis («figlio del dio Tot»), Ahmosis («figlio del dio Ah»). Israele, se avesse inventato un suo fondatore, gli avrebbe sicuramente assegnato un nome semitico; di certo non egiziano. 2) Mosè sposa una donna straniera, mentre la legge — da lui stesso proclamata — proibisce i matrimoni con straniere (Dt 7,3-4). Anche questo elemento, molto problematico, può difficilmente essere stato inventato. 3) Mosè è in relazione con i Madianiti. I Madianiti, in altri testi, sono annoverati fra i più accaniti nemici d'Israele. Il tratto, pertanto, è con ogni probabilità un dato che proviene da un'antica tradizione e non architettato da scrittori più recenti. 4) Mosè muore fuori dalla terra promessa (Dt 34,5). Diversi testi provano a spiegare perché Mosè non vi possa entrare. Nessuno, però, riesce a spiegare il fatto in modo totalmente soddisfacente (Nm 20.1-13; Dt 1,37-38; 3,2328; 4,21-22). Sarebbe stato più semplice permettere a Mosè di mettere piede nella terra promessa. Gli abitanti della terra che si oppongono al ritorno degli esuli avevano inoltre un buon argomento per dire: rimanete nel deserto così come vi è rimasto Mosè! Mosè è una figura che appartiene al deserto, non alla terra promessa. Quando tutte le tradizioni sono state riunite in un solo racconto è sorta la domanda sulla morte di Mosè, che educa il popolo nel deserto, ma non l'accompagna quando vi fa il suo ingresso. Questo dato, secondo me, non può essere stato creato.

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Vi è un secondo elemento di rilievo nella figura di Mosè che vale la pena sottolineare. Mosè non è un re. Non fonda alcuna dinastia, non ha un esercito o una guardia, non porta alcun simbolo della monarchia, scettro o corona, non ha palazzo né trono. Mosè è un profeta, inizia il suo percorso quando Dio lo chiama in una tipica scena di vocazione profetica (Es 3,1-4,18). D'altra parte, le ultime parole dette su Mosè, dopo la sua morte, lo designano come tale: «Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, che il Signore conosceva a faccia a faccia» (Dt 34,10). Mosè non è solo un profeta qualsiasi, è il più grande di tutti i profeti d'Israele. È. l'epitaffio inciso sulla sua tomba. La scelta non è indifferente. In poche parole la salvezza, in Israele, non viene dai re o dai capi militari. Viene dai profeti e, soprattutto, dal più grande di loro, Mosè. Per questo motivo la storia d'Israele è una «storia profetica», una storia scritta principalmente dai profeti e che contiene un messaggio profetico, che ritroveremo nei cosiddetti «libri profetici». Esso è semplice: Israele non deve aspettare la sua salvezza da capi e sovrani potenti, da una cultura eccezionale o da un esercito invincibile. La sua salvezza è nell’osservanza della legge di Mosè.

La storia delle origini: il «nostro» Dio è il creatore dell'universo (Gen 1-11)

Mi sono permesso di rinviare alla fine il paragrafo sui primi capitoli della Genesi. Provo subito a giustificare la mia scelta: questi capitoli sono fra i più recenti del Pentateuco. Ciascuno sa che un autore scrive le parole di introduzione o il prologo della sua opera dopo aver finito tutto il suo lavoro. Nello stesso modo i capitoli di apertura della Genesi sono i primi che leggiamo, anche se sono

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stati composti in un'epoca successiva. Anche la problematica di questi capitoli è abbastanza recente: un popolo si interroga sulle proprie origini e sul proprio destino, prima di interrogarsi sull'universo che lo circonda. Ad esempio, le domande sull'origine dell'universo e dell'umanità sono sorte in Egitto e in Mesopotamia quando sono nati i primi grandi imperi. Certo, la domanda sulle origini esiste ovunque, però sotto diverse forme. Vi sono racconti sulla nascita di una creatura in particolare o sull'invenzione di un oggetto particolare. Esistono anche racconti sull'origine dell'essere umano o della coppia. I racconti che descrivono la creazione o l'origine dell'universo con tutto ciò che esso contiene sono tuttavia successivi.

I racconti biblici sull’origine dell'universo descrivono, fon-damentalmente, tre fasi. Quella iniziale descrive le prime tappe del mondo e dell'umanità (Gen 1-5). La seconda racconta la prima grande crisi dell'universo: il diluvio (Gen 6-9). La terza è dedicata alla storia dell'umanità subito dopo il diluvio e fino all'apparizione di Abramo, antenato d'Israele (Gen 9-11). Il mondo attuale, pertanto, non è più quello che Dio ha creato all'inizio. È quello che ha attraversato il diluvio ed è ricominciato con Noè e la sua famiglia.

Perché raccontare l'origine del mondo in Israele? Un motivo è quello che chiamo l'emulazione culturale. Di che cosa si tratta? In parole semplici Israele è una piccola nazione attorniata da grandi civiltà, soprattutto in Egitto e in Mesopotamia. Quando entra in contatto con esse, è certamente consapevole della loro superiorità. Avrebbe potuto reagire adottando una cultura più sofisticata. In Israele, invece, la reazione è stata diversa. In molti casi si sono copiate, riprese, integrate e adattate le grandi idee delle culture straniere per appropriarsene. Nel caso dei grandi racconti della

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creazione provenienti dalla Mesopotamia, Israele si è detto: «Il creatore del mondo è il nostro Dio! Abbiamo anche noi un racconto di creazione!». È certamente il cambiamento più importante introdotto dagli scrittori d'Israele. Il Dio creatore non è una divinità mesopotamica, ad esempio Marduk, dio di Babilonia, bensì il Dio d'Israele, che poi diventerà il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe

In conclusione, gli eventi narrati in Gen 1-11 hanno come scopo principale quello di emulare racconti analoghi, soprattutto i grandi miti mesopotamici. Inoltre, dimostrano che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dell'esodo, è anche il creatore dell'universo.

I libri storici

La seconda grande unità va comunemente sotto il nome di "libri storici", perché contiene la storia che va dalla conquista della terra promessa fin quasi alle soglie del Nuovo Testamento. In pratica copre un arco di tempo di circa dodici secoli.

I libri di Giosuè, Giudici e 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re sono detti "storia deuteronomista", perché ispirati alla teologia del Deuteronomio e quindi al mondo dei profeti; 1 e 2 Cronache, Esdra e Neemia sono invece chiamati "opera del cronista" e sono legati alla lettura della storia tipica degli ambienti sacerdotali.

Il libro di Giosuè parla dell'ingresso d'Israele nella terra di Canaan, delle lotte per il suo possesso, che il popolo sostiene sotto la guida di Giosuè (cf. Gs 13-21), e infine della grande assemblea delle tribù a Sichem, dove Giosuè propone la fede in JHWH come unico Dio nazionale (cf. Gs 22-24).

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Il libro dei Giudici racconta difficoltà e scontri con cui devono misurarsi le diverse tribù insediandosi nel paese di Canaan; vi vengono in particolare esaltate le imprese di quanti all'occasione le liberano dalle oppressioni e dagli assalti delle popolazioni cananee e di popoli venuti dal mare, tra cui i Filistei.

I due libri di Samuele segnano il passaggio dalla condizione di unità delle dodici tribù fondata esclusivamente sulla fede in JHWH, a un'unità più istituzionalizzata mediante la monarchia. Samuele, che è insieme giudice, profeta e sacerdote, unge re Saul, che non riesce però ad imporre la propria autorità sul paese, schiacciato dalla potenza militare dei Filistei (cf. 1 Sam 8-15). In seguito consacra Davide, il cui regno si afferma nell'intero paese e trova continuità nel figlio Salomone (cf. 1 Sam 16 - 1 Re 2). Israele, popolo di JHWH, accoglie il re come luogotenente di Dio: unto da un profeta di JHWH, egli regna nel nome di JHWH. A Davide Dio assicura la sua protezione nel presente e in futuro (cf. 2 Sam 7); la certezza di un regno eterno attraverso i discendenti verrà considerata in seguito come un'alleanza di JHWH con Davide (cf. Sal 89,28-38).

I due libri dei Re contengono le vicende della monarchia in Israele tra la fine del X e gli inizi del VI sec. a.C. La partenza è gloriosa: Salomone costruisce in Gerusalemme, capitale del regno unito, il tempio a JHWH (cf. 1 Re 3-11). La sua condotta religiosa ed economica è però disastrosa. Alla sua morte (932 a.C.) il regno si divide (cf. 1 Re 12). Dieci tribù passano a Geroboamo e costituiscono il "regno d'Israele", che avrà in seguito come capitale Samaria. Conterà più dinastie, sarà spesso in guerra con il regno fratello e cadrà sotto l'occupazione assira (721 a.C.), al termine di una storia durata due secoli (cf. 2 Re 17). Due tribù restano al figlio di Salomone, Roboamo; formano il "regno di Giuda", con capitale

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Gerusalemme, governato sempre da discendenti di Davide. Finirà poco più di un secolo dopo il regno d'Israele, con l'occupazione babilonese (597 e 587 a.C.) (cf. 2 Re 24-25). Le deportazioni che accompagnano queste disfatte portano il popolo d'Israele fuori della propria terra. In seguito ciò verrà letto come la logica conseguenza dell'infedeltà a JHWH. A più riprese il popolo eletto aveva preferito gli dèi dei popoli cananei al suo Dio, rendendo vano l'impegno assunto al Sinai: con la sua condotta aveva annullato l'alleanza di JHWH.

I due libri delle Cronache ripropongono in prospettiva diversa la storia già narrata dai libri dei Re, a cui premettono un proemio genealogico che va da Adamo alle dodici tribù d'Israele (cf. 1 Cr 1-10). Al centro dell'attenzione di questi libri è il tempio di Gerusalemme: dalle sue origini, attraverso la preparazione che ne fa Davide, alla sua costruzione da parte di Salomone (cf. 1 Cr 11 - 2 Cr 9), alle vicende dell'epoca dei regni divisi (cf. 2 Cr 10-36), cui fa seguito la ricostruzione dopo l'esilio (cf. Esd 7-10; Ne 8-13). All'attività di due grandi personaggi del ritorno dall'esilio babilonese sono dedicati i libri di Esdra e Neemia, da leggere in continuità con quelli delle Cronache.

Da questi quattro libri emerge l'importanza che l'Israele del dopo esilio attribuisce alla presenza di JHWH in mezzo al suo popolo, di cui il tempio è segno e in qualche modo dimora, nonché al culto che in esso si svolge ogni giorno e con particolare solennità nelle grandi feste.

Il libro di Rut, benché posto tra il libro dei Giudici e quelli di Samuele, non fa parte della "storia deuteronomista" e si presenta piuttosto come una narrazione edificante, una commovente vicenda familiare, che ha come protagoniste due donne, la betlemita Noemi

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e sua nuora Rut, una straniera di Moab: la fiducia di Rut in Dio e il sostegno che offre alla suocera le meritano di diventare la bisnonna del re Davide.

Racconti edificanti, e quindi non propriamente storici, sono poi i tre libretti di Tobia, Giuditta ed Ester, che, trattando con grande libertà i dati della storia e della geografia, illustrano la vita di Israele nel tempo dell'esilio e della diaspora. In essi si insegna la fiducia nella presenza provvidenziale e liberante di JHWH per il suo popolo nel bisogno.

Infine, i due libri dei Maccabei contengono l'eco della lotta di quanti tra gli Ebrei vogliono difendere la propria identità di popolo di JHWH al tempo dei tentativi di forzata ellenizzazione da parte dei Seleucidi, i re siriani di Antiochia (II sec. a.C.). È un momento di libertà che dura alcuni decenni, finché anche la Palestina diviene dominio romano (63 a.C.). Si è alla vigilia della nascita di Gesù, che nasce dunque suddito di Roma, probabilmente tra gli anni 7 e 5 prima della nostra era.

I libri poetici e sapienziali

Nelle nostre Bibbie un terzo blocco di libri va sotto il titolo di "libri sapienziali" e comprende Giobbe, Salmi, Proverbi, Qoèlet, Cantico dei Cantici, Sapienza e Siracide. In realtà due di essi, Salmi e Cantico, sono di genere e contenuto diversi rispetto agli altri cinque propriamente sapienziali. Per "sapienza" qui si intende sia l'elementare buon senso attento alle situazioni della vita e proteso alla sua buona riuscita, sia la ricerca del senso profondo della

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realtà, della ragione ultima che permette di cogliere e vivere le finalità più nobili dell'esistenza.

Il libro dei Proverbi è il più antico tra i testi della letteratura sapienziale. Contiene massime destinate alla formazione culturale e pratica degli scribi del re. Nello stesso tempo esprime la dottrina tradizionale sulla retribuzione: ogni azione ha la giusta sanzione, il bene fatto è remunerato con il premio e il male con il castigo.

Proprio questa dottrina viene messa in crisi nel libro di Giobbe. Giobbe è un giusto prima premiato e poi duramente provato. Nel dialogo con tre suoi amici, che rappresentano le ragioni della sapienza tradizionale, Giobbe sostiene che la sofferenza del giusto costituisce una profonda ingiustizia; i suoi amici al contrario lo considerano un peccatore giustamente punito. A Giobbe non resta che appellarsi a Dio, al quale chiede conto del suo comportamento razionalmente ingiustificabile. Dio interviene non per dare spiegazioni, ma per invitare Giobbe all'umiltà di fronte a un problema che supera la capacità di comprensione dell'uomo.

Sulla linea di Giobbe si pone anche il libro di Qoèlet, che evidenzia le molteplici contraddizioni dell'esistenza. La sua critica della sapienza tradizionale, giudicata troppo schematica e ottimista, è più radicale di quella di Giobbe. Pur senza risolvere i numerosi interrogativi che pone, il Qoèlet rimane un credente: da una parte invita ogni uomo a gioire degli aspetti positivi della vita che Dio dona, dall'altra ricorda a tutti che ogni azione sarà giudicata da Dio.

Il libro del Siracide prende nome dal suo autore, un ebreo di Gerusalemme chiamato Gesù figlio di Sirach, un maestro di sapienza. Il libro è una sintesi dell'insegnamento rivolto a un vasto pubblico, piuttosto agiato e colto. La sua sapienza risente molto della tradizione religiosa di Israele, ma è aperta agli stimoli della

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modernità. La sua preoccupazione maggiore riguarda le virtù fondamentali, la fede per esempio, ma anche l'elemosina. È un rappresentante qualificato dell'epoca giudaico-ellenistica, prima che le due correnti culturali entrassero in conflitto al tempo dei Seleucidi.

Ultimo di questa serie è il libro della Sapienza, scritto in greco da un autore che probabilmente viveva nella comunità giudaica di Alessandria d'Egitto nel I sec. a.C. La sua è la proposta di fede tradizionale fatta all'ebreo della diaspora e offerta al pagano ben disposto. È un testo importante per la dottrina sulla retribuzione del giusto dopo la morte (cf. Sap 1-5), per l'esaltazione dell'autentica sapienza che deriva da Dio (cf. Sap 6-9) e per la riflessione sull'opera della sapienza divina nella storia d'Israele (cf. Sap 10-19).

La Bibbia ha riservato il titolo di Cantico dei Cantici, cioè cantico per eccellenza, a una raccolta di testi poetici dedicati all'amore umano. Quest'ultimo è visto come un valore della creazione (cf. Gen 2,18-24) e pertanto esaltato. Del poema sono protagonisti due innamorati, che si cercano e si smarriscono, per poi ritrovarsi a cantare le gioie dell'amore monogamico. Nella tradizione giudaica e cristiana il Cantico è stato spesso commentato in senso allegorico, a significare le alterne vicende del rapporto religioso tra Dio e Israele o tra Cristo e la Chiesa, ma anche tra Cristo e il singolo cristiano.

Il libro dei Salmi è una raccolta dei cantici e delle preghiere che Israele ha elevato al suo Dio lungo tutta la sua storia. La tradizione vide in Davide l'iniziatore del genere innico in Israele. Ecco perché l'intera raccolta, pur avendo autori diversi, gli è attribuita. Luogo di nascita dei salmi è il culto, praticato prima nei diversi santuari sparsi nel paese e poi nel tempio di Gerusalemme.

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La raccolta esprime l'intera gamma dei sentimenti di un popolo verso il suo Dio. Vi si trovano: gli inni di lode a JHWH per le sue opere grandiose, la creazione e la salvezza (cf. Sal 8; 19; 29; 113-118; 136); i canti di ringraziamento sia del singolo sia della comunità per il pericolo scampato (cf. Sal 18; 30; 34...); le suppliche individuali (cf. Sal 3; 5; 6; 7; 22...) e collettive (cf. Sal 74; 80...) in caso di necessità; le confessioni dei peccati e le richieste di perdono (cf. Sal 32; 51...); le istruzioni di tipo sapienziale (cf. Sal l; 112; 127...); i canti del pellegrinaggio al tempio (cf. Sal 15; 24; 84; 95; 120-134); le celebrazioni della regalità di JHWH (cf. Sal 24; 47; 93; 96; 97; 98; 99...); le preghiere per il re (cf. Sal 2; 20; 21; 44; 72; 110...), rilette dopo l'esilio come appelli al regno del Messia futuro. Non mancano salmi che ripropongono la storia passata come riflessione sulla condotta divina e motivo a ulteriormente sperare (cf. Sal 78; 105; 106...).

Rispetto al testo originale ebraico, la numerazione dei Salmi nella traduzione greca chiamata dei LXX e nell'antica traduzione latina detta Vulgata è differente, in quanto queste ultime riuniscono in un solo salmo i Sal 9 e 10 e i Sal 114 e 115, mentre dividono in due parti il Sal 116 e il Sal 147. Da ciò deriva che la numerazione del testo greco e latino, che è quella adottata nella liturgia della Chiesa, è per larga parte del salterio diminuita di una unità in confronto all'ebraico.

I libri profetici

L'ultima grande unità dell'Antico Testamento è quella dei "libri profetici". Il profeta è l'uomo di Dio: animato dal suo Spirito, ha una parola da rivolgere al re o a Israele da parte di JHWH. Egli esprime il

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giudizio di Dio sul loro agire. Se Israele e il re sono stati infedeli agli impegni dell'alleanza, la parola del profeta rivela il loro peccato e preannunzia il castigo; se invece il popolo ha già scontato la pena, gli annunzia la prossima liberazione.

Nelle nostre Bibbie i libri dei profeti sono ordinati sulla base della loro importanza, per così dire, ed estensione. Perciò abbiamo prima i cosiddetti quattro grandi profeti: Isaia, Geremia (cui fanno seguito il libro delle Lamentazioni, attribuito dalla tradizione a questo profeta, e poi il libro che porta il nome del suo discepolo Baruc), Ezechiele e Daniele (che, però, più che profetico, è un libro apocalittico); poi i dodici cosiddetti "profeti minori": Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia.

Dal punto di vista storico, invece, distinguiamo tra profeti dell'epoca monarchica: Amos e Osea per il regno del nord (VIII sec. a.C.), Michea, Isaia (Is 1-39), Geremia, Sofonia, Naum e Abacuc per il regno del sud (VIII-VII sec. a.C.); profeti dell'esilio: Ezechiele e "Secondo Isaia" (Is 40-55) (VI sec. a.C.); profeti del dopo-esilio: Aggeo, Zaccaria (Zc 1-8), "Terzo Isaia" (Is 56-66), Malachia, Abdia, Gioele, Giona, "Secondo Zaccaria" (Zc 9-14) (V-III sec. a.C.). Il libro di Daniele è da porsi verso la fine della prima metà del II sec. a.C.

Amos denuncia le ingiustizie sociali del regno d'Israele in epoca di prosperità economica e di culto sfarzoso. È il profeta della giustizia lesa (cf. Am 5,7-13; 6,1-17). Perciò preannunzia un giorno di JHWH (cf. Am 5,18-20), giorno non di salvezza, ma di punizione per la nazione, colpevole, come le nazioni pagane, di crimini contro l'umanità e la fraternità (cf. Am 2,6-15).

Osea, nello stesso regno del nord, denuncia l'infedeltà d'Israele verso il suo "sposo" JHWH, al quale, come una sposa, si era

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legato con l'alleanza, ma che ha tradito dandosi agli "amanti", le varie divinità cananee. Osea è anche il profeta che proclama l'amore misericordioso di Dio, che perdona e reintegra nella sua intimità il popolo infedele.

Isaia è il primo grande profeta del regno di Giuda. La sua predicazione si svolge dal 740 al 700 a.C. Egli è presente in tutti gli aspetti della vita del popolo: quelli politici, come consigliere del re, e quelli religiosi, come denunziatore, al pari di Amos, delle ingiustizie sociali e di un culto senza anima e in stridente contrasto con la vita morale. A tutti propone la fede incrollabile in JHWH, più potente di tutti i nemici e delle potenze ritenute invincibili, come l'Assiria (cf. Is 7,9b; 28,16; 30,15). È il profeta del messianismo regale, attraverso il quale Dio si fa vicino al suo popolo nei momenti difficili (cf. Is 7-12). Il suo stile è tra i più elevati della poesia ebraica. La sua profezia è contenuta nei cap. 1-39 del libro che porta il suo nome, formato da piccole raccolte, cui i discepoli collegarono diverse aggiunte (in particolare le due "apocalissi" dei cap. 24-27 e 34-35).

Contemporaneo di Isaia è Michea, anch'egli denunziatore deciso e forte delle ingiustizie sociali. Preannunzia la distruzione di Samaria e predice la stessa sorte a Gerusalemme, se la sua popolazione non si convertirà. L'invito è accolto dal re Ezechia, che tenta una riforma religiosa.

Un secolo dopo, in Giudea, sono profeti Geremia e Sofonia. Nessuno come Geremia ha unito le vicende personali alle sorti della sua profezia. Carattere mite e, all'inizio della sua missione, giovane inesperto, deve affrontare il momento più difficile e decisivo della storia della nazione giudaica, quello che conduce all'esilio in Babilonia (587 a.C.). Egli tenta di tutto: scuote il torpore del popolo

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con una predicazione che chiede una radicale conversione; appoggia la riforma nazionalista e religiosa del re Giosia (622 a.C.); cerca di convincere tutti alla sottomissione al dominio di Babilonia dopo la morte del re (609 a.C.). Viene accusato di pessimismo religioso e di disfattismo politico. Da qui la forte crisi religiosa e profetica, descritta nelle "confessioni", intrise di un lirismo raro negli scritti biblici (cf. Ger 15,10-21; 20,7-18); e da qui anche la persecuzione da parte dei notabili del popolo. La sua vita, più volte in pericolo, si conclude in Egitto, dove è condotto contro la sua volontà. Il suo messaggio di speranza è imperniato sulla "alleanza nuova" scritta nel cuore d'Israele (cf. Ger 31,31-34).

Sofonia ripropone temi già noti. In particolare richiama il "giorno di JHWH", di cui aveva parlato Amos, e ne fa un giorno di giudizio e di condanna per tutti i responsabili del peccato d'Israele (cf. Sof 1,2-8; 3,1-8), ma di speranza per gli umili e gli oppressi (cf. Sof 2,1-3; 3,9-20).

Di Naum vanno ricordati soprattutto gli oracoli contro Ninive, l'orgogliosa capitale dell'Assiria, sconvolta e occupata dall'avanzante potenza babilonese (612 a.C.). Il profeta vede in questo evento il giusto giudizio di Dio su uno dei più feroci oppressori d'Israele.

Anche Abacuc vede in Babilonia lo strumento della giustizia di Dio, ma, questa volta, sulle ingiustizie di Giuda e degli oppressori dei poveri (cf. Ab 2,5-20); si salverà soltanto chi è giusto e chi nella fede cerca rifugio in Dio (cf. Ab 2,1-4).

L'esilio babilonese dura dal 587 al 538 a.C. Ai suoi inizi risalgono le Lamentazioni; i cap. 40-55 di Isaia ("Secondo Isaia") sono invece della fine di questo periodo. Tra il 593 e il 571 a.C. si pone l'opera di Ezechiele.

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Le Lamentazioni, impropriamente attribuite a Geremia, sono opera di un autore ignoto, che descrive in termini accorati il lutto della città e degli abitanti di Gerusalemme subito dopo la sua distruzione (cf. Lam 1-4); ma da questi lamenti scaturisce un senso di fiducia incrollabile in Dio e di pentimento profondo dei peccati (cf. Lam 5).

Ezechiele è sacerdote e insieme profeta. Deportato in Babilonia con la prima ondata di esiliati, inizia nel 593 a.C. a predicare la penitenza, ma al tempo stesso preannunzia l'ulteriore castigo che sta per abbattersi su Gerusalemme (cf. Ez 1-24). La seconda parte del libro raccoglie la predicazione del profeta dopo la distruzione della città e la seconda deportazione (587 a.C.). Oltre a proporre oracoli contro le nazioni pagane (cf. Ez 25-32) - un genere comune a tutti i profeti (si possono vedere Is 13-23; Ger 46-51) -, Ezechiele alimenta la speranza del popolo esiliato (cf. Ez 33-38) e delinea il piano di ricostruzione della futura nazione (cf. Ez 40-48).

Con l'espressione "Secondo Isaia" (o "Deutero-Isaia") si è soliti indicare un profeta anonimo della fine dell'esilio, la cui predicazione è contenuta nei cap. 40-55 del libro di Isaia. Nelle prime vittorie di Ciro re di Persia (550 a.C.) egli intravede la possibilità della liberazione dei suoi compatrioti esiliati. La sua profezia è pertanto un invito alla "consolazione" e alla speranza: JHWH sta per compiere i prodigi di un "nuovo esodo", più portentoso del primo, e farà di Gerusalemme una città più gloriosa della precedente. Il Secondo Isaia è il profeta del monoteismo più rigoroso, della sapienza e della provvidenza insondabili di Dio, dell'universalismo religioso intorno a Gerusalemme. Un posto importante hanno nel libro i quattro carmi del "Servo di JHWH" (cf. Is 42,1-9; 49,1-7; 50,4-11; 52,13-53,12) - figura della comunità d'Israele o più probabilmente personaggio

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individuale storico -, che i cristiani vedono pienamente realizzati in Gesù di Nazaret: Messia, Figlio dell'uomo e Servo obbediente di Dio.

Nel dopo esilio operano Aggeo, Zaccaria, il Terzo Isaia, Malachia, Abdia, Gioele, il Secondo Zaccaria.

Aggeo è il profeta che incoraggia e sostiene Zorobabele e Giosuè, i responsabili dei giudei rimpatriati, nell'opera di ricostruzione del tempio di Gerusalemme, che viene inaugurato nel 515 a.C., poco più di venti anni dopo il ritorno.

Il profeta Zaccaria (l'autore dei cap. 1-8 del libro che porta il suo nome) è contemporaneo di Aggeo e si batte per gli stessi scopi: la ricostruzione del tempio, la restaurazione delle due istituzioni basilari della nazione, cioè il sacerdozio con Giosuè e la regalità davidica con Zorobabele; questa però non trova accoglienza.

"Terzo Isaia" è denominato il profeta a cui si attribuiscono i cap. 56-66 del libro di Isaia. Alcuni brani di questi capitoli sono però da considerarsi opera del Secondo Isaia (cf. Is 60-62). Di questo profeta, del resto, il Terzo Isaia continua la predicazione nella nuova situazione del dopo-esilio, insistendo sulla gloria di Gerusalemme (cf. Is 65-66).

Malachia significa "mio messaggero" e non è il nome ma la qualifica attribuita all'ignoto autore di questo libretto. Come i profeti preesilici, anch'egli denuncia la mediocrità e la pigrizia dei sacerdoti del tempio ricostruito (cf. Ml 1,6-2,9), e annuncia la venuta del "giorno di JHWH" come giorno di giudizio e di condanna per i peccatori e di salvezza per i giusti (cf. Ml 2,17-3,5; 3,13-21).

È difficile collocare nel tempo il profeta Abdia, forse tra la fine dell'esilio e gli inizi del dopo-esilio. Il suo libretto è di soli 21 versetti e contiene un oracolo contro il popolo di Edom, che aveva approfittato della rovina di Gerusalemme per invadere la Giudea

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meridionale. Il suo spirito di vendetta contrasta con l'universalismo che caratterizza, ad esempio, il Secondo Isaia, ma il suo tenace nazionalismo va compreso all'interno di tutto il profetismo biblico.

Il libro di Gioele è anch'esso di difficile datazione: gli studiosi si orientano in maggioranza per il tempo del dopo-esilio, tra il V e il IV sec. a.C. Il testo si compone di due parti. Nella prima, al disastro provocato da un'invasione di cavallette nel territorio di Giuda, il profeta reagisce invitando a una liturgia di lutto e di supplica (cf. Gl 1-2). Nella seconda parte, con stile apocalittico, il profeta annunzia il grande giudizio di Dio, con il quale si aprono i tempi escatologici, i tempi della restaurazione paradisiaca (cf. Gl 3-4).

Più che una raccolta di predicazioni profetiche, il libro di Giona è un racconto didattico che ha come tema le disavventure di un profeta disobbediente. Scritto per gli Ebrei del V sec. a.C., il racconto esalta l'amore universale di Dio per tutti i popoli, che egli vuole salvi al pari d'Israele (cf. Gn 4,10-11). Con il Secondo Isaia è uno dei vertici dell'Antico Testamento per quanto riguarda il tema dell'universalismo.

Con "Secondo Zaccaria" si indica la raccolta di testi dei cap. 9-14 del libro di Zaccaria; alcuni distinguono un "Terzo Zaccaria" per i cap. 12-14. Le due raccolte sono di difficile collocazione e interpretazione. Ricchi di reminiscenze, questi testi sono importanti soprattutto per alcuni spunti sull'attesa messianica: rinascita della casa di Davide (cf. Zc 12); attesa di un re-messia umile e pacifico (cf. Zc 9,9-10), misterioso annunzio di un uomo "trafitto" (cf. Zc 12,10), teocrazia militare (cf. Zc 10,3-11,3), ma anche cultuale (cf. Zc 14).

Il libro di Daniele non contiene la predicazione di un profeta, ma una serie di racconti edificanti e soprattutto di testi

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caratterizzati dallo stile apocalittico, con sogni svelati, visioni e previsioni di un futuro prossimo. Il suo scopo è offrire una visione della storia che dia coraggio e speranza ai giudei al tempo della persecuzione di Antioco IV Epifane (164 a.C.). Il racconto, nella prima parte (cf. Dn 1-6), è imperniato sulla figura di Daniele e dei suoi compagni, che suppone siano vissuti al tempo dell'esilio, più volte messi alla prova ma sempre liberati e vincitori. Nella seconda parte (cf. Dn 7-12) lo stesso Daniele ha visioni e sogni, con i quali descrive attraverso simboli il persecutore, la sua azione nefasta, ma anche la sua fine. Questa assicura l'avvento del regno dei santi, simboleggiati da un "figlio di uomo" il cui potere non tramonterà mai (cf. Dn 7,13-14). Il cap. 13 racconta la storia di Susanna calunniata ma vittoriosa, cui fanno seguito gli apologhi contro l'idolatria del cap. 14.

Per ultimo poniamo il libro di Baruc, che si ritiene composto all'inizio del I sec. a.C., ma è attribuito al segretario-servitore di Geremia. La raccolta presenta un materiale vario: una confessione dei peccati (cf. Bar 1,15-3,8), una meditazione sulla sapienza (cf. Bar 3,9-4,4), un invito alla speranza rivolto a Gerusalemme (cf. Bar 4,5-5,9), una critica all'idolatria attribuita a Geremia (cf. Bar 6).

I LIBRI DEL NUOVO TESTAMENTO

Possiamo raggruppare i 27 libri del Nuovo Testamento in base al contenuto e al genere letterario. Abbiamo così i "Vangeli" e gli Atti degli Apostoli, libri da inquadrare nel genere storico, ma con

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evidenti intenzionalità teologiche; le "lettere paoline" e le altre lettere dette "cattoliche", in certo modo collegabili con il genere letterario della corrispondenza; infine un libro del tutto diverso, l'Apocalisse, che alcuni vogliono accostare al genere profetico, ma da considerare più semplicemente un prodotto della letteratura apocalittica analogo al libro di Daniele.

Le affinità teologiche e i rapporti di origine permettono, però, anche un'altra articolazione: i "Vangeli sinottici" e il libro degli Atti, la "letteratura paolina", le "altre lettere neotestamentarie", la "letteratura giovannea".

I Vangeli sinottici e gli Atti

"Vangelo" viene dal greco e significa "buona (lieta) notizia", annuncio carico di speranza, e può essere impiegato in vari contesti, profani e religiosi. Nel Nuovo Testamento viene riferito a Dio e riguarda l'annuncio dell'imminenza del suo regno nel mondo (cf. Mc 1,14); più spesso, però, è riferito a Gesù come portatore dell'annuncio del Regno, ma soprattutto perché il lieto annuncio si attua attraverso la sua azione e la sua stessa persona, in quanto Messia e Figlio di Dio.

I predicatori cristiani che annunziarono Gesù morto e risorto, giudice dei vivi e dei morti, intendevano proporre la gioiosa notizia, il vangelo della salvezza per tutti gli uomini nel suo nome (cf. At 2,32-36; 4,10-12). I quattro libretti sono stati attribuiti dalla più antica tradizione ecclesiale a Matteo, Marco, Luca e Giovanni. Essi propongono lo stesso lieto annunzio incentrato su Gesù, per questo i loro scritti furono detti "Vangeli". Più che biografie o storie del maestro, sono una presentazione di quel che Gesù era stato nella

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sua vita: Maestro potente in opere e parole, Messia umile, Servo sofferente, Figlio dell'uomo destinato alla morte, ma Giudice glorioso dei vivi e dei morti; inoltre di quel che a riguardo di Gesù era professato nella fede delle prime generazioni cristiane: il Signore, il Figlio di Dio, il Verbo di Dio preesistente e incarnato.

Dei quattro Vangeli tre sono detti "sinottici": Matteo, Marco e Luca; essi infatti impiegano uno schema sostanzialmente identico, al punto che li si può leggere su colonne parallele "con un solo colpo d'occhio". Lo schema riguarda l'attività di Gesù e prevede: predicazione di Giovanni il Battista; battesimo di Gesù e sua tentazione nel deserto; ministero di Gesù in Galilea; viaggio dalla Galilea verso la Giudea; ministero breve a Gerusalemme, durante il quale è messo a morte, risorge, appare ai suoi, è assunto in cielo. Solo Matteo e Luca hanno premesso a questo schema un'introduzione riguardante il cosiddetto "vangelo dell'infanzia" di Gesù. Pur impiegando uno schema comune, ogni evangelista ha caratteristiche e contenuti propri: tradizioni diverse a cui ha attinto, destinatari mirati cui indirizza il suo scritto, quindi prospettive teologiche ed ecclesiali specifiche.

Marco, considerato in genere il racconto evangelico più antico (anteriore al 70 d.C.), si rivolge a cristiani di origine pagana. Il testo è attraversato da una domanda: Chi è Gesù? Ad essa risponde fin dall'inizio con un'affermazione perentoria: Gesù è il Cristo (Messia) atteso dagli Ebrei e il Figlio di Dio (cf. Mc 1,1). Questa tesi iniziale viene provata nel corso della narrazione, mettendo il lettore a contatto diretto con i gesti compiuti da Gesù, in particolare le molte guarigioni e l'accoglienza dei peccatori, attraverso cui svela progressivamente il mistero della sua persona: Servo sofferente e Figlio di Dio. Marco, più degli altri, è il vangelo del primo annunzio e

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insieme dell'itinerario del credente per arrivare alla fede piena in Gesù e alla condivisione della sua vita. Marco è il Vangelo della "sequela", del cammino del discepolo dietro e con il Maestro.

Il Vangelo di Matteo è opera di un autore palestinese che scrive per cristiani di origine ebraica intorno all'anno 80 d.C. Egli dà molto spazio alle parole di Gesù, raccogliendole in cinque grandi discorsi: della montagna (cf. Mt 5-7), apostolico (cf. Mt 10), in parabole (cf. Mt 13), comunitario (cf. Mt 18), escatologico (cf. Mt 24-25). Con essi Matteo propone l'insegnamento di Gesù per la vita della comunità cristiana. Il suo è per eccellenza il Vangelo della Chiesa. Più degli altri, insiste sul compimento nella persona di Gesù delle profezie dell'Antico Testamento: non si deve aspettare più il Messia, perché è già venuto ed è Gesù di Nazaret; in lui le promesse fatte a Davide e ad Abramo si compiono (cf. Mt 1,1); la legge e la parola dei profeti in lui trovano pienezza e compimento (cf. Mt 5,17-18), perché con lui si inaugura il regno di Dio.

Il Vangelo di Luca si deve a un cristiano di provenienza pagana, un colto ellenista che si rivolge ad ambienti cristiani di cultura greca. Egli chiama Gesù "il Signore": il titolo che la Chiesa attribuì al Cristo risorto e glorificato, lo stesso che l'Antico Testamento dava a Dio. Senza attenuare le esigenze di Gesù maestro e della sua chiamata, Luca testimonia soprattutto, con delicata finezza, la misericordia di Dio che si fa uomo per comunicare agli uomini la sua grazia, a cominciare dal perdono (cf. Lc 15). Peculiare è la sua sottolineatura della destinazione universale della salvezza in Cristo. In questa direzione vanno le parole di Simeone (cf. Lc 2,22), la genealogia di Gesù fatta risalire fino ad Adamo (cf. Lc 3,38), l'interesse di Gesù per i non Ebrei, come il samaritano assunto a simbolo dell'amore cristiano (cf. Lc

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10,37), l'annunzio che «il perdono dei peccati e la conversione saranno predicati a tutte le genti» (Lc 24,47).

A partire da quest'ultima indicazione si sviluppa l'altra opera di Luca, gli Atti degli Apostoli. È la testimonianza di come l'annuncio della salvezza cristiana, partito da Gerusalemme con il dono dello Spirito ai Dodici e agli altri discepoli, raggiunge progressivamente la Samaria, la Siria (Antiochia), l'Asia Minore, la Grecia e infine Roma, centro dell'impero. Attraverso Pietro e Paolo, il mondo giudaico e quello pagano sentono annunziare Cristo e il suo regno: chi lo accoglie, a qualsiasi razza appartenga, diventa membro del popolo di Dio, la Chiesa, in una reale continuità tra la promessa affidata ad Israele e il suo adempimento nello stesso Israele e nei popoli pagani. Il Vangelo e gli Atti furono scritti da Luca probabilmente intorno all'anno 80 d.C.

Le lettere paoline

Le lettere paoline nascono e si sviluppano in genere per il bisogno di completare la predicazione orale che Paolo aveva tenuto nelle varie comunità cristiane e come mezzo per risolvere interrogativi e illuminare situazioni nuove determinatesi in esse. Lo stile è immediato. Nella nostra Bibbia si presentano con quest'ordine: Romani; 1 e 2 Corinzi; Galati; Efesini; Filippesi; Colossesi; 1 e 2 Tessalonicesi; 1 e 2 Timoteo; Tito; Filemone. Dal punto di vista storico l'ordine è diverso.

Nel corso del secondo viaggio missionario, intorno al 50 d.C., Paolo fonda la Chiesa di Tessalonica. La sua permanenza nella città è brevissima, a causa dell'ostilità dei giudei, così che la formazione dei cristiani rimane incompleta. La 1 Tessalonicesi, scritta da

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Corinto qualche tempo dopo, richiama l'esperienza della evangelizzazione e vuole chiarire alcuni punti dottrinali - in particolare quelli connessi alla condizione dei morti al momento della "parusìa", cioè dell'avvento del Cristo glorioso - o di comportamento.

La 2 Tessalonicesi è più difficile a datarsi e c'è chi giunge a dubitare che possa essere attribuita a Paolo. La lettera si propone di tranquillizzare i cristiani sulla venuta gloriosa del Signore, considerata da loro come imminente (cf. 2 Ts 2), e a spingerli a vivere nell'operosità. Contro la pigrizia di alcuni, Paolo arriva a dire: «Chi non vuol lavorare neppure mangi» (2 Ts 3,10).

Le due lettere ai Corinzi sono scritte da Efeso negli anni 55-56 d.C. A Corinto Paolo è stato un anno e mezzo e vi ha fondato una comunità numerosa e vivace, composta in prevalenza di ex-pagani. Informato dei problemi che agitano la comunità, Paolo risponde con una prima lettera condannando le fazioni sorte tra i cristiani, legate ai vari predicatori (cf. 1 Cor 1,10-4,21); corregge vizi, tra cui un caso di incesto (cf. 1 Cor 5), e disordini, in specie nei comportamenti assembleari (cf. 1 Cor 7-14); chiarisce dubbi circa la risurrezione dei corpi (cf. 1 Cor 15).

Dopo l'invio della prima lettera, scoppia a Corinto una crisi riguardo alla stessa autorità di Paolo. Nella seconda lettera a noi pervenuta, che sembra risultare dalla fusione di più testi inviati in tempi diversi, troviamo perciò una difesa della sua missione di apostolo attaccato da propagandisti giudeo-cristiani (cf. 2 Cor 10-13), la preparazione della sua prossima visita (cf. 2 Cor 1-7), indicazioni circa l'organizzazione di una colletta a favore delle comunità cristiane povere della Palestina come segno della comunione tra Chiese sorelle (cf. 2 Cor 8-9).

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La lettera ai Filippesi è inviata con molta probabilità da Efeso, sempre negli anni 55-56 d.C., in occasione di una prigionia di Paolo in quella città. I cristiani di Filippi avevano inviato all'apostolo aiuti materiali e questi li ringrazia e approfitta per informarli della sua situazione e del suo stato d'animo: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21). Li esorta pure all'unità nell'umiltà, con l'inno all'umiliazione-glorificazione di Cristo (cf. Fil 2,5-11), e li mette in guardia contro agitatori giudeo-cristiani (cf. Fil 3,1-4,2).

In questo stesso periodo Paolo scrive la lettera ai Galati, che si può collocare intorno al 57 d.C., inviata da Efeso o dalla Macedonia. L'attacco dei giudeo-cristiani ha sconvolto le comunità di Galazia e Paolo interviene alla sua maniera, con passione e veemenza. Con passione difende la sua autorità di apostolo raccontando la sua vocazione e missione (cf. Gal 1-2); con veemenza dimostra la sua tesi di fondo, che è anche il "suo" vangelo: si è salvi solo in forza dell'adesione incondizionata, cioè della fede in Cristo, e non per la pratica delle opere della legge giudaica (cf. Gal 3-4). Il cristiano è chiamato alla vera libertà, con la quale la fede è resa attiva e operante nella carità (cf. Gal 5-6).

La più estesa tra le lettere paoline è quella ai Romani, che è anche la più importante per comprendere il pensiero di Paolo sulla giustificazione del peccatore ad opera di Dio, mediante la redenzione di Cristo e il dono dello Spirito. È questo anche lo scritto che approfondisce rapporti e differenze tra ebraismo e cristianesimo; nello stesso tempo chiarisce come ogni differenza religiosa, razziale, sessuale, ecc. sia superata nella fede in Cristo. La comunità di Roma non è stata fondata da Paolo, tuttavia egli pensa di recarvisi per completare la sua missione di apostolo dei pagani. Per questo si fa precedere da questa esposizione sistematica della

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sua dottrina sulla giustificazione e sulla vita in Cristo e nello Spirito, che ha già avuto occasione di esporre in modo più sintetico e polemico nella lettera ai Galati. La lettera ai Romani sembra inviata da Corinto, dove Paolo è per la colletta, verso il 58 d.C. Di lì si porterà a Gerusalemme, per poi passare appunto a Roma.

Dalla prigionia romana (61-63 d.C.) Paolo invia un biglietto a Filemone, ricco proprietario che si è fatto cristiano, al quale rimanda un suo antico schiavo, Onèsimo, che egli ha convertito in prigionia. L'apostolo invita il padrone a trattarlo «come un fratello carissimo» e «come se stesso» (Fm 16-17). Seppure senza condannare direttamente l'istituto della schiavitù, Paolo ne cambia l'anima: lo schiavo non è più una cosa, è un fratello.

Le lettere che seguono, più che opera di Paolo, negli studi più recenti vengono considerate testimonianza della fecondità della tradizione paolina: ispirate alla dottrina e alla prassi ecclesiale dell'apostolo, ne prolungano l'insegnamento nelle situazioni nuove, legate all'evolversi della istituzione ecclesiale, al sorgere di deviazioni dottrinali e pratiche, alle esigenze di consolidare il patrimonio di fede ricevuto.

A Colossi la comunità è scossa da una dottrina d'origine ebraica e pagana. Contro teorie che esaltano il ruolo di misteriose potenze celesti, la lettera ai Colossesi propone una riflessione approfondita sulla persona e sul ruolo di Cristo, "capo" della Chiesa e dell'intero creato.

La lettera agli Efesini riprende e amplifica il contenuto della lettera ai Colossesi, utilizzando temi presenti nelle lettere di cui siamo certi che sono state scritte da Paolo. Ne vien fuori una nuova sintesi del pensiero paolino, centrata su Cristo e sulla Chiesa e

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interessata a mostrare l'impegno dei cristiani all'interno della comunità ecclesiale, della famiglia e della società.

1 e 2 Timoteo e Tito vengono chiamate "lettere pastorali", in quanto hanno di mira il governo della comunità ecclesiale. Queste lettere riflettono una situazione ecclesiale più sviluppata, che le caratterizza pertanto con ancor più evidenza come opera della tradizione paolina. Esse si preoccupano di dare direttive sulla organizzazione delle comunità locali e sulla lotta contro i falsi maestri che sconvolgono la loro fede. Da ciò l'impegno a "custodire" il deposito della fede, la sana dottrina, e a formare degni ministri. L'invio di queste lettere a Tito e a Timoteo, discepoli diretti e preziosi di Paolo, intende dare prestigio all'insegnamento che propongono. In 2 Tm 4,6-8 è tracciato, in modo personalizzato e commovente, il "testamento spirituale" dell'apostolo.

Le altre lettere

Le altre lettere neotestamentarie differiscono da quelle paoline almeno per tre motivi: sono indirizzate a più comunità contemporaneamente, non presuppongono problematiche particolari, ma generali; sono discorsi scritti o trattati piuttosto che lettere.

Le lettere di Giacomo, Giuda e Pietro, insieme alle tre lettere di Giovanni, sono dette tradizionalmente "lettere cattoliche", cioè non dirette ad una singola comunità, ma a tutti i cristiani, come accade per la maggioranza di questi scritti.

La lettera agli Ebrei è una predica dotta, messa per iscritto e inviata a cristiani di origine ebraica, che si lasciavano prendere dalla nostalgia per il culto fastoso del tempio di Gerusalemme ed

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erano tentati di disertare le assemblee cristiane per ritornare all'ebraismo. Ad essi l'autore dello scritto, un letterato colto d'Alessandria e buon conoscitore della Bibbia greca, rivolge un caldo invito alla perseveranza nella fede e nella vita cristiana. L'esortazione alla fedeltà (cf. Eb 10,19-13,24) è la conseguenza di un discorso teologico con il quale l'autore mette in evidenza la superiore dignità del Cristo nei confronti degli angeli (cf. Eb 1-2), la superiore efficacia del sacerdozio di Gesù nei confronti della mediazione di Mosè e del sacerdozio levitico anticotestamentario (cf. Eb 3-7), la superiorità del culto, del santuario e della mediazione d'alleanza del Cristo sacerdote (cf. Eb 8,1-10,18).

Anche la lettera di Giacomo, "fratello di Gesù", cioè suo parente stretto e capo della comunità di Gerusalemme fino al 62 d.C., anno della sua morte, è una sintesi dei suoi discorsi su diversi aspetti della vita cristiana, specie di comportamento: ascolto e attuazione della Parola (cf. Gc 1,16-26), attenzione fattiva ai poveri (cf. Gc 2,1-13), fede attuata dalle opere (cf. Gc 2,14-26), attenzione ai peccati di lingua (cf. Gc 3,1-12) e alle discordie interne (cf. Gc 4,1-12), avvertimenti ai ricchi (cf. Gc 4,13-5,6), pazienza nell'attesa della venuta del Signore (cf. Gc 5,7-11), esortazioni finali (cf. Gc 5,12-20). Mancano indicazioni nella lettera per definire la datazione, che può ben essere anteriore all'anno 62, ma anche posteriore ad esso.

La lettera di Giuda, fratello di Giacomo, può non essere dell'apostolo. Affronta infatti una situazione posteriore all'epoca apostolica, tipica degli anni intorno all'80 d. C. Lo scritto mette in guardia da predicatori ambulanti, che si introducono nelle Chiese per corrompervi la fede e i costumi. Questa volta non si tratta di

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giudeo-cristiani, ma di cristiani di tendenze gnostiche, che tentano di tramutare il cristianesimo in un mito.

Sulle due lettere di Pietro si discute se la prima sia dell'apostolo; l'altra certamente non lo è - se non altro perché il cap. 2 è una rielaborazione della lettera di Giuda - ed è da ritenersi invece l'ultimo scritto neotestamentario (tra il 100 e il 125 d.C.). Ambedue le lettere hanno di mira sia fatti esterni alla comunità, cioè la persecuzione che colpisce i cristiani, sia fatti interni, come il turbamento portato dai soliti predicatori itineranti. Ai destinatari della prima lettera l'apostolo manda a dire che la persecuzione fa parte dell'autentica vita cristiana (cf. 1 Pt 3,13-18; 4,12-19; 5,6-11); alle comunità sconvolte dalle eresie (cf. 2 Pt 2,1-3.10-22) l'autore della seconda lettera rivolge l'invito a essere fedeli alla tradizione apostolica (cf. 2 Pt 2,16-18) e alla parola profetica (2 Pt 2,19-21), per essere pronti nel giorno del Signore che non tarda a venire (cf. 2 Pt 3,9-10.14-18).

La letteratura giovannea

La caratteristica più appariscente del quarto Vangelo è la diversità dai Vangeli sinottici. La tradizione delle parole e dei fatti di Gesù è consacrata in esso in modo originale. Suppone un teste oculare, tanto alcuni ricordi sono freschi e precisi. Lo schema della "vita pubblica" di Gesù è diverso da quello dei sinottici: questi prevedono un solo viaggio del maestro a Gerusalemme; Giovanni ne ricorda diversi. Il testo attuale suppone una rielaborazione, opera dei discepoli di Giovanni su ricordi, canovacci di discorsi, edizioni precedenti.

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Il Cristo, da un capo all'altro del Vangelo, è il Risorto, il Signore e Dio, la cui grandezza è evidenziata dai gesti e dai discorsi; al lettore, fin dalle prime battute, è rivolto l'invito a decidersi per lui, ad affidarglisi, a credergli. Tutto il Vangelo è un cammino di gente che alla fine crede in lui o che si rifiuta di farlo. Inconfondibile è lo stile e il linguaggio di Giovanni: si presenta il Gesù terreno che parla alla sua gente con quello stesso linguaggio con cui la Chiesa della tradizione giovannea lo presenta ai suoi fedeli e alla gente da convertire.

Questo ne è lo schema: un "prologo" sulla preesistenza di Cristo come Verbo di Dio e sulla sua incarnazione, con cui diviene rivelazione piena del Padre (cf. Gv 1,1-18); il ministero di Gesù, contenuto nel cosiddetto "libro dei segni" (cf. Gv 1,19-12,50); l'"ora" o passione di Gesù e la Pasqua dell'agnello di Dio (cf. Gv 13-20); l'epilogo con le ultime apparizioni ai dodici (cf. Gv 21).

Le tre lettere di Giovanni sono la traduzione della fede in Cristo nella vita della comunità. 1 Giovanni è un discorso scritto, una fervida esortazione alla vita cristiana: camminare nella luce attraverso la rottura con il peccato, la pratica dell'amore cristiano e la rottura con il mondo e gli anticristi (cf. 1 Gv 1,5-2,29); vivere da figli di Dio attraverso le stesse condizioni (cf. 1 Gv 3,1-4,6); lasciarsi inondare dall'amore di Dio e vivere nella sua fede (cf. 1 Gv 4,7-5,13).

2 e 3 Giovanni sono brevi biglietti, indirizzati il primo a una Chiesa locale e il secondo a un responsabile di un'altra comunità, per metterli in guardia contro l'insorgere di eresie e il separatismo di alcuni responsabili locali.

All'ambito della letteratura giovannea viene ricondotto anche il libro dell'Apocalisse. Seppure scritto in circoli vicini all'apostolo e

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penetrato del suo insegnamento, il testo per lingua, stile e prospettive teologiche deve attribuirsi ad un diverso autore, che si presenta a noi con il nome di Giovanni. L'Apocalisse è un libro scritto durante una persecuzione dei cristiani (probabilmente sotto l'imperatore Domiziano, cioè verso il 95 d.C.) e serve a dar loro coraggio con la prospettiva della vittoria finale del bene sul male, di Cristo e dei suoi sui nemici della fede.

Come tale è un libro storico, ma anche paradigmatico: vale per tutte le situazioni analoghe della Chiesa e dei credenti di tutte le epoche. Per ottenere questo, l'autore si serve di un genere letterario particolare, il genere apocalittico, con l'impiego di molti simboli e visioni tratti dall'Antico Testamento, in specie da Ezechiele e Daniele. Se non se ne tiene conto adeguatamente, la lettura diventa difficile e incomprensibile e si è indotti a interpretazioni astruse e inutili, come pure ad attese preoccupate del futuro. Debitamente decifrati, i simboli parlano invece con estrema chiarezza.

Questo libro, come altri testi analoghi del Nuovo Testamento, non intende dare nessuna informazione previa sulla fine del mondo e sulle sue modalità. Il discorso di fondo che esso sviluppa riguarda piuttosto lo scontro tra le Chiesa e l'impero romano, che pretende di imporre il culto dell'imperatore. La situazione terrena e storica viene trasportata nel mondo celeste e invisibile, e si traduce nella lotta tra l'Agnello immolato, ma in piedi, cioè Cristo morto in croce ma risuscitato e glorificato in cielo, e la Bestia, cioè Satana e il mondo pagano al suo servizio. Tra l'uno e l'altra sono posti i credenti, materialmente perdenti in quanto sono messi a morte, ma vincitori perché testimoni, martiri dell'Agnello, che li conduce nella "Gerusalemme celeste", nel suo regno.

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CAPITOLO SECONDO

LA BIBBIA È PAROLA DI DIO

Durante la liturgia della Parola le varie letture vengono introdotte indicando la fonte da cui sono tratte. Si dice, ad esempio: «Dal libro del profeta Isaia», «Dalla lettera di San Paolo apostolo ai Romani», «Dal Vangelo secondo Marco». Al termine di ogni brano il lettore invita l'assemblea a riconoscere con una solenne e convinta professione di fede che la Parola appena proclamata non è semplicemente parola di Isaia, di Paolo, di Marco, ma «Parola di Dio!», «Parola del Signore!».

1. L'ISPIRAZIONE È OPERA DELLO SPIRITO SANTO

Non si dà parola senza soffio; non c'è parola di Dio senza il suo "soffio". Questo soffio misterioso e potente ha un nome, è lo Spirito di Dio. È mediante il suo Spirito che Dio esprime, al mattino della creazione, la sua parola carica di vita: «Dalla parola del Signore furono fatti i cieli, dal soffio della sua bocca ogni loro schiera» (Sal 33,6). È attraverso il suo Spirito, dinamico e imprevedibile, che Dio attua e guida la storia d'Israele. È ancora lo stesso Spirito di Dio la luce interpretativa che, attraverso i profeti, ci rivela e ci racconta il significato di questa storia di salvezza.

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Nel Nuovo Testamento la più alta presenza della Parola si realizza grazie al più intenso intervento dello Spirito: è per opera dello Spirito Santo che la parola di Dio si fa carne in Gesù ed è per opera dello stesso Spirito che la storia di Gesù si fa Parola predicata, celebrata, testimoniata dalla Chiesa e poi - come era già avvenuto per l'antico popolo - consegnata a una memoria scritta, il Nuovo Testamento: lo Spirito di Dio, che era già all'origine di quella storia e della sua interpretazione, mirava appunto a questo e non poteva mancare in un momento così decisivo. Allora non fa meraviglia che nel Nuovo Testamento si attribuiscano direttamente allo Spirito Santo brani delle antiche Scritture (cf. Mc 12,36; At 1,16; 4,25; Eb 3,7) e si affermi che nei profeti dell'antica alleanza parlava addirittura lo Spirito di Cristo (1 Pt 1,10-12).

Appare del tutto conseguente alle promesse dell'azione dello Spirito di Dio nella storia della salvezza, "fatta" e "interpretata", il riconoscimento esplicito del Nuovo Testamento all'opera dello Spirito nella composizione delle Sacre Scritture: «Tutta la Scrittura è ispirata da Dio» (2 Tm 3,16); «Nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio» (2 Pt 1,20-21).

Il Concilio Vaticano II riassume e chiarisce questa fede: «Per la composizione dei Libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte» (Dei Verbum, 11).

In che senso Dio e l'uomo hanno collaborato nella composizione delle Scritture? Ci troviamo di fronte al mistero di Dio che agisce nell'uomo, ed è più facile in questo campo precisare

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negativamente che positivamente; è più facile dire ciò che non è, che quello che è.

Due estremi sono da evitare. Anzitutto c'è chi arriva a pensare, per eccesso, così: Dio ha dettato le Scritture e l'uomo ha trascritto fedelmente. In questo caso l'uomo sarebbe semplicemente "usato" come uno strumento materiale. La concezione cristiana dell'ispirazione, invece, va nel senso della collaborazione, non della strumentalizzazione. Dio non si sostituisce, ma rispetta la personalità dell'uomo ispirato, che quindi è un vero autore: ha pensato valutato, giudicato, scelto, espresso. Ha fatto tutto ciò che un autore compie quando scrive un testo.

Dall'altra parte si pone chi afferma così: l'uomo ha pensato e scritto e Dio (o la comunità in suo nome) si è limitato ad approvare e a far proprio ciò che l'uomo ha scritto. In questo caso l'uomo sarebbe un vero autore, ma non lo sarebbe più Dio. Si deve invece paragonare la Bibbia al mistero della persona di Cristo: vero uomo e vero Dio, piena umanità e piena divinità. Così anche le Scritture: allo stesso tempo pienamente di Dio e dell'uomo.

Proprio perché ispirate dallo Spirito Santo, le sacre Scritture «comunicano immutabilmente la parola di Dio stesso e fanno risuonare nelle parole dei profeti e degli apostoli la voce dello Spirito Santo» (Dei Verbum, 21). Una volta messa per iscritto, la Parola ispirata non diventa fredda e inerte, ma rimane ripiena dello Spirito Santo, ed è perciò incessantemente viva e vivificante. Attraverso essa, lo Spirito muove i credenti alla fede, assiste e dirige la Chiesa intera nella comprensione sempre più profonda della rivelazione, presiede all'interpretazione della Scrittura medesima, la quale va interpretata «con l'aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» (Dei Verbum, 12).

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In questo modo l'ispirazione biblica si pone al centro di una permanente azione dello Spirito, nella quale la Chiesa è tuttora immersa. Lo Spirito di Dio, che è all'origine della storia della salvezza di cui la Bibbia ci dà la definitiva "ispirata" testimonianza, dirige pure la Chiesa intera sulla via sempre nuova della verità della salvezza da conoscere, da proclamare e da vivere.

2. ISPIRAZIONE E VERITÀ BIBLICA

Fin dai primi tempi del cristianesimo, la critica pagana si è adoperata per mettere in mostra presunti errori e contraddizioni nel testo sacro, ma la risposta della cristianità è stata costantemente ferma e unanime nell'attestare la verità della Scrittura.

Il Concilio Vaticano II ha sancito un principio teologico che deve presiedere ad ogni ricerca della verità biblica e alla sua presentazione: «Poiché tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, si deve ritenere, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle Sacre Lettere» (Dei Verbum, 11).

San Paolo lo aveva chiaramente proclamato: «Tutto ciò che è stato scritto prima di noi, è stato scritto per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza» (Rm 15,4).

Per comprendere bene lo specifico angolo visuale della parola rivelata, cioè "la nostra salvezza", si deve fare essenzialmente attenzione a quattro dimensioni della verità biblica: essa è insieme una verità storica, escatologica, esistenziale, trascendente.

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Verità storica

La parola di Dio non scende dall'alto in tutta la sua purezza, ma si abbassa, si incarna in una storia umana, in una cultura particolare: è la «condiscendenza» della divina sapienza (Dei Verbum,13). In forza di questo carattere storico, è evidente che la Bibbia abbraccia contenuti che sono anche oggetto della filosofia, della storiografia, delle altre scienze. Questi dati, però, hanno solo il carattere di rivestimento di un messaggio, il quale permane integro, perché rivelato da Dio per la salvezza dell'uomo. Non ci si può aspettare dalla Bibbia un distillato di certezze, una verità disincarnata e atemporale.

Verità escatologica

Incarnata nel tempo, la parola di Dio imprime alla storia un dinamismo che la fa lievitare verso la pienezza del Regno. La Bibbia si colloca in un segmento di questa ampia linea che va dal "prima" di Cristo, al "già-ora" nella Chiesa, fino al "giorno senza tramonto" della comunione eterna. Non si può perciò interpretare la Scrittura isolando un singolo momento di un movimento che invece è proteso verso il futuro: «La Chiesa, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio» (Dei Verbum, 8). Nessuna meraviglia, pertanto, se in alcuni passi della Bibbia si trovano concezioni insoddisfacenti di Dio (il Dio-guerriero!) o della vita (tutto finisce con la morte!) o della morale (la legge del taglione!): questi testi registrano il bisogno di crescere verso quella verità, che ci è stata data nel Nuovo Testamento, ma come caparra della

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rivelazione totale e definitiva, quando «vedremo a faccia a faccia» (1 Cor 13,12).

Verità esistenziale

La verità della Bibbia non è una cosa da porsi tra gli oggetti sui quali l'uomo apre un'inchiesta. È una verità viva, che chiede di essere accolta nella vita. I veri credenti sono coloro in cui dimora la verità (cf. 2 Gv 2), a differenza di coloro in cui la parola di Gesù non penetra (cf. Gv 8,37). Bisogna pertanto accostare la Bibbia non solo a livello storico-critico, ma anche a livello esistenziale, interrogandola sul senso della vita, sul perché del male, cioè sui grandi interrogativi che appassionano l'umanità.

Verità trascendente

Immersa nella storia, la verità rivelata orienta oltre, apre in alto. La Bibbia rientra in quella economia della rivelazione per cui «piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà» (Dei Verbum, 2). Oltre la verità esistenziale, la Scrittura nasconde, cioè ci comunica chi è Dio, qual è il suo pensiero sull'uomo, il suo progetto salvifico. Tutta la Bibbia, diceva Sant'Agostino, non fa che «narrare l'amore di Dio» (Catechismo ai semplici, 1, 8, 4), e San Tommaso sentiva pulsare nella Scrittura «il cuore stesso di Cristo» (Sul Salmo 21, 11). Questa è la verità viva e palpitante della Bibbia: la rivelazione del mistero di Dio.

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CAPITOLO TERZO

ALCUNI GRANDI TEMI BIBLICI

L’unicità di Dio

Se si considera l’assetto canonico della Bibbia l’unicità di Dio è una certezza iniziale; di contro, per la ricerca storica, essa è un punto di arrivo. Stando all’impostazione critica tutti i popoli semiti nordoccidentali ebbero dèi nazionali: Israele ebbe JHWH. In seguito, queste quattro lettere ineffabili furono collegate con il verbo «essere ». Ciò ebbe luogo nella rivelazione avuta da Mosè nella scena del roveto ardente, in cui Dio si presentò dicendo «Io sono colui che sono» (Es 3,14). Espressione enigmatica che può tradursi anche con il verbo al futuro: «Sarò quel che sarò». Il senso originario si riferisce a una presenza e a una promessa di vicinanza e non a una realtà metafisica. Il nome noto come Tetragramma viene letto Adonai (da cui l’italiano, Signore).

Nella fase più antica la religione ebraica sarebbe stata monolatrica: il fatto che il proprio Dio sia uno, non esclude l’esistenza di divinità straniere. L’affermazione piena della fede in un Dio unico si ha solo nel Deuteronomio. L’ultimo libro del Pentateuco è collegato alla riforma attuata dal re Giosia. Essa

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centralizzò il culto nel solo tempio di Gerusalemme: a un solo Dio in cielo corrispose in tal modo un unico luogo sacro sulla terra. Da quel momento in poi le divinità straniere divennero idoli da confutare (2 Re 22,1-23,27). In questa luce fu riscritta anche la storia della conquista della terra di Canaan presentata come un violento sradicamento da essa dei popoli idolatrici (cfr. Dt 7,1-7).

Tuttavia in questa visione il monoteismo non comportò l’esistenza di un Dio unico uguale per tutti. Egli resta il Signore d’Israele che ha legami del tutto speciali con il proprio popolo.

La più elevata formulazione della fede nel Dio unico si trova in un passo conosciuto come Shema‘ Israel: «Ascolta Israele: il Signore (JHWH) è il nostro Dio (’Elohim), il Signore (JHWH) è uno» (cfr. Dt 6,4-9). In questo verso il termine più generale e comune di ’Elohim è contraddistinto dall’aggettivo «nostro», mentre il nome proprio JHWH è dichiarato uno in senso assoluto. Il Signore d’Israele è perciò il Dio di tutti, anche se non tutti lo riconoscono ancora come tale.

Un’accusa contemporanea giudica la pretesa di verità propria delle fedi monoteiste foriera di un esclusivismo violento. Pluralismo e monoteismo appaiono termini incompatibili. È fuori di dubbio che l’affermazione dell’esistenza di un Dio unico abbia tratti esclusivistici. Questo rilievo va però precisato. Innanzitutto va tenuta presente la natura personale e relazionale di JHWH. Per dirla con Pascal non si tratta del Dio dei filosofi, ma del Dio di Abramo, del Dio di Isacco e del Dio di Giacobbe (Es 3,15). In secondo luogo il Dio unico è anche il creatore di tutti. L’esistenza degli altri popoli è perciò voluta dal Signore. Proprio la fede monoteista ha indotto le Scritture d’Israele ad avere uno sguardo universale.

La centralità dello Shema‘ è ribadita dai Vangeli. Narra Marco che uno scriba (un esperto della Scrittura) si avvicinò a Gesù

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chiedendogli quale fosse il primo fra tutti i comandamenti; il Maestro gli rispose citandogli l’inizio dell’«Ascolta Israele» che proclama l’unicità del Signore e l’amore pieno da rivolgere a Dio. Dopo aver affermato ciò Gesù prosegue legando strettamente questo versetto all’altro che prescrive di amare il prossimo come se stessi (Lv 19,18). Lo scriba sottoscrive con calore tali parole (Mc 12,28-33). Questo dialogo esplicita la convinzione biblica che la fede nel Dio unico costituisca il fondamento di positivi rapporti interumani.

In alcuni scritti biblici piuttosto tardi si assiste a una personificazione della Sapienza intesa come una realtà presente da sempre presso Dio e suo ausilio nell’opera della creazione (Prv 8,22-30). Identificata con la Torà (Legge), si afferma che la Sapienza venne a dimorare presso il popolo d’Israele (Sir 24,1-21). Questi temi sono stati sviluppati nel Nuovo Testamento specialmente nella riflessione sul Logos (Verbo, Parola) propria della tradizione giovannea: «In principio era il Logos e il Logos era presso Dio e Dio era il Logos: tutto è stato fatto per mezzo di lui» (Gv 1,1) e il «Logos si fece carne e abitò in mezzo a noi» (Gv 1,14). Queste affermazioni provengono dall’inno introduttivo al IV Vangelo incentrato sui massimi misteri della fede cristiana: la vita di Dio, la creazione del mondo, la rivelazione e l’incarnazione. Protagonista di questa grande narrazione teologica è appunto il Logos (identificato nella successiva teologia cristiana con la seconda persona della Trinità). Egli crea il mondo, si rivela e si incarna in esso. Nel Nuovo Testamento non mancano altri passi che parlano del Figlio generato prima di ogni creatura (Col 1,15-20) e che celebrano chi, pur essendo di natura divina, svuotò se stesso facendosi obbediente fino alla morte di croce, venendo per questo esaltato al di sopra di

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ogni altro essere vivente (Fil 2,6-11). Accolte nelle loro intenzioni originarie queste affermazioni non negano, né attenuano, il monoteismo biblico; si può piuttosto asserire che ne aumentino l’aspetto relazionale dando a esso una versione più interna e drammatica.

Creazione

Le parole con cui si apre la Bibbia hanno un'aura arcaica e solenne: «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informee vuota e le tenebre ricoprivano la faccia dell'abisso e il vento (ruach) di Dio si librava sulle acque» (Gen 1,1). La parola ebraica ruach spesso tradotta con spirito, ha come suo significato base quello di vento e di respiro. Cielo, terra, tenebre, abisso, vento e acque evocano quanto vi è di più comune nei miti dedicati alla nascita del cosmo presenti in molte culture. Né vi sono dubbi sul fatto che i redattori del primo capitolo della Genesi conoscessero le grandi narrazioni delle origini diffuse nel Vicino Oriente. Tuttavia dal fatto che essi impiegassero frammenti provenienti da miti preesistenti non bisogna concludere che queste pagine costituisca-no semplici imitazioni; la Bibbia descrive infatti l'operare creativo di Dio in termini largamente diversi da quelli utilizzati nelle mitologie da cui pur trae ispirazione.

La formula bereshit «in principio» riservata all'atto creativo di Dio suona, a un orecchio occidentale, connessa all'ardua questione se la creazione sia stata compiuta nel tempo, fuori dal tempo o con il tempo. Simili interpretazioni sono state influenzate dal-

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l'espressione greca en arché (Gen 1,1; Gv 1,1), impiegata per tradurre l'ebraico bereshit e assunta in senso assoluto. Nella tradi-zione giudaica invece, il termine bereshit viene, di norma, inteso in modo temporale e direttamente riferito alle parole che lo seguono. La frase iniziale della Bibbia è dunque interpretata nel modo seguente: «Al principio della creazione dei cieli e della terra, quando la terra era informe e vuota e le tenebre si estendevano sulla faccia dell'abisso e il vento di Dio si librava sulle acque, Dio disse: "Sia luce" e luce fu» (Gen 1,1-2). Tutta la prima parte della frase è quindi considerata solo una specie di grande premessa temporale alle parole «Dio disse», le quali esprimono l'irrompere dell'azione creatrice. Quanto distingue la Bibbia da molti altri miti delle origini è l'efficacia operativa attribuita alla parola di Dio.

Nella Bibbia il verbo bara’ «creare» compare una cinquantina di volte. Le sue caratteristiche più significative sono tre: esso ha sempre e solo come soggetto Dio, in tal modo il creare è distinto da ogni agire e fare dell'uomo; in secondo luogo, non viene mai nominato un elemento preesistente a partire dal quale Dio crea; infine bara’ si applica a vari oggetti: al cielo e alla terra (Gen 1,1; 2,4), all'uomo (Gen 1,27; Dt 4,32); al popolo d'Israele (Is 43,1.15; Sal 102,19), a cose meravigliose e nuove (Es 34,10; Ger 31,22). Questo verbo, pur non contenendo il concetto teologico di «crea-zione dal nulla», esprime un'azione di Dio straordinaria, sovrana, pienamente libera, senza limiti ed estesa, a volte, anche al presente e al futuro. In conclusione, si può sostenere che bara’ indica un agire di Dio relativo anche ad ambiti diversi da quello della creazione del mondo (uomo, popolo d'Israele, atti di salvezza). Il Dio creatore è colui che continua ad operare nel corso del tempo.

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Chiamata, vocazione

Il Dio biblico chiama e lo fa per primo. Il punto di partenza non è la voce diretta dall'uomo verso il cielo, è la parola che il Signore rivolge a qualche sua creatura. Questa iniziativa implica la presenza di una risposta: l'uomo può entrare in colloquio con il Signore. In tal modo la vocazione si collega a due temi fondamentali per l'intera Scrittura: l'elezione e il dialogo.

Quando Dio chiama interpella qualcuno a cui affida un compito. Per questa via si stabilisce una particolarità. Secondo la Bibbia il Signore stesso si presenta con i nomi delle persone a cui si è rivolto. Si parla infatti del Dio di Abramo, del Dio di Isacco e del Dio di Giacobbe (Es 3,15). Questa ripetizione attesta che ogni chiamato percepisce il Signore di tutti sotto una prospettiva personale. Su questo tronco si innesta la componente dialogica tipica del linguaggio biblico in cui il soggetto umano può rivolgersi a Dio come a un Tu.

Il prototipo delle chiamate è quella diretta ad Abramo. Con il capitolo dodici della Genesi inizia una storia diversa da quella delle origini. Dapprima il patriarca obbedisce tacendo, poi a poco a poco inizia un dialogo che sarebbe diventato particolarmente intenso davanti a Sodoma, la città peccatrice che Dio voleva distruggere e Abramo salvare (Gen 18,16-33). In seguito quando Dio, per metterlo alla prova, gli chiese di sacrificargli Isacco, il figlio che gli aveva donato, la parola del patriarca si limitò alla risposta che sarebbe diventata l'emblema dell'obbedienza a una chiamata del Signore: «Eccomi» (Gen 22,1); espressione che sarebbe tornata sulle labbra di Mosè (Es 3,3-4), di Isaia (Is 6,8) e di Maria (Lc 1,38). L'obbedienza

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è momento costitutivo della risposta umana; essa però non sfocia in cieca sottomissione.

Nella scena di chiamata del giovane Geremia, il Signore gli manifesta la propria volontà in un modo che sembra determinarlo «prima di formarti nel grembo materno ti conoscevo» Ger 1,5). Anche Paolo presenterà la propria chiamata evocando quella del profeta Geremia (Gal 1,5). In questi casi il soggetto umano non è negato, l'accento però batte su quanto in seguito il cristianesimo, specie protestante, avrebbe presentato come il primato della grazia.

In relazione a Gesù non si parla di una vera e propria chiamata. Il battesimo al Giordano nel quale lo Spirito e la voce dal cielo scendono su Gesù formano una specie di scena inaugurale della sua missione (Mt 3,13-17). La svolta decisiva si trova però nel fatto che Gesù stesso diventa il soggetto che chiama. Non a caso Matteo fa iniziare la sua vita pubblica con due atti tra loro strettamente congiunti: l'annuncio della vicinanza del regno (Mt 4,17) e la chiamata dei primi quattro discepoli (4,18-19).

Come nel caso di Israele (Is 41,8-9) o della comunità dei credenti in Cristo (Ef 1,18; Eb 3,1), la chiamata può avere una dimensione collettiva. In queste circostanze, accanto alla differenziazione nei confronti degli «altri», vi è una forte sottolineatura della compattezza interna. La vocazione assume l'aspetto di elezione. Nell'Antico Testamento Dio compie una scelta gratuita nei confronti del suo popolo che non dipende da alcuna superiorità naturale, politica o culturale. Tutto si regge sulla libera volontà del Signore (Dt 7,7). L'eletto è però vincolato a vivere secondo le norme prospettategli da Dio (Am 3,2).

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Alleanza

La presenza dell'alleanza è caposaldo indiscusso dell'intera Scrittura. Il Dio della Bibbia è colui che stipula un patto con il suo popolo. Questo punto di convergenza è però anche il massimo luogo di disgiunzione tra ebraismo e cristianesimo. Antico e Nuovo Testamento si differenziano proprio attorno al modo di intendere il significato e la portata dell'alleanza.

Il termine ebraico berit («alleanza») non ha plurale. In ambito teologico questa particolarità lessicale sembra suggerire che si è di fronte a una successione di rinnovate stipulazioni della stessa alleanza, non alla presenza di patti autonomi. Inoltre la traduzione di berit non è univoca. A seconda dei contesti la si può rendere con «alleanza» e «patto» - che accentuano maggiormente la bilaterialità - oppure con «giuramento» e «impegno» che rimarcano il ruolo decisivo di uno solo dei contraenti.

Il primo patto è quello stabilito dopo il diluvio. Il segno d'alleanza è l'arcobaleno. Grazie a esso Dio si impegna a non sommergere più il mondo (Gen 9,12-16). In questo caso si è di fronte a un giuramento unilaterale. Di alleanza si parla anche in relazione ad Abramo (Gen 15,1-25; 17,1-26). Anche qui prevale l'impegno divino; tuttavia emerge pure la presenza di un'obbligazione. Il segno dell'alleanza tra Dio e il patriarca non è un arco nel cielo, è un taglio nella carne: la circoncisione (Gen 17,14).

L'alleanza sinaitica presenta precise affinità con i trattati di vassallaggio hittiti del XIV-XIII sec. a.C. e con quelli assiri del VII-VI sec. a.C. In questi documenti un sovrano stringe un trattato con un re a lui sottomesso. La formulazione standard dei testi è la seguente: l'indicazione dell'autore del trattato (il gran re),

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un'introduzione storica in cui si elencano gli atti benefici da lui compiuti, le condizioni imposte al vassallo che culminano nell'obbligo della lealtà, una lista di testimoni divini, la presenza di benedizioni e maledizioni; infine il trattato veniva proclamato, si consumava un pasto rituale e si deponeva il testo ai piedi di un idolo.

«Io sono il Signore tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla condizione di schiavitù, non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,2). Questo versetto con cui iniziano i Dieci Comandamenti contiene non poche analogie con i trattati appena riferiti (autopresentazione, benefici, fedeltà). Inserito in un contesto più ampio le somiglianze si moltiplicano, sono elencati: l'identificazione di Dio e i suoi atti di salvezza (Es 19,4-6), le condizioni (Es 20,3-23,33); la recitazione del trattato (Es 24,7); il pasto rituale (Es 24,9--11), la deposizione del trattato entro l'arca dell'alleanza - in cui vennero messe le tavole (Es 25,16; 40,21). Se si estende ancora il raggio del riferimento troviamo altre somiglianze: sono introdotti i testimoni chiamando in causa il «cielo e la terra» (Dt 4,26; 30,19) e viene dato ampio spazio alla presenza di benedizioni e maledizioni (Dt 27,11-28,68). La conclusione fondamentale da trarre dalla analogia con trattati politici è che, grazie alla categoria di alleanza, il Signore è presentato come colui che opera nella storia. Il patto dopo il diluvio è riconducibile a un Dio garante dell'ordine cosmico, quello avvenuto dopo l'uscita dall'Egitto è invece da collocarsi in un orizzonte storico.

L'alleanza del Sinai è presentata condizionata (Es 19,5), il successivo patto stabilito dal Signore con Davide (2 Sam 7; Sal 89,1-38) accentua invece di nuovo i tratti della gratuità: il suo cuore sta nella promessa di rendere stabile per sempre la discendenza

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davidica. L'obbedienza alle clausole dell'alleanza fu avvertita dai profeti come condizione necessaria perché il popolo d'Israele potesse continuare a vivere sulla propria terra. Tuttavia l'obbligo non comportò che la trasgressione implicasse una rottura del patto. L'enfasi posta sull'impegno di Dio consente di sostenere che la violazione umana dell'alleanza rappresenta una frattura non definitiva. Il recupero pieno della benevolenza divina si attua però attraverso un itinerario doloroso fatto di punizione e pentimento. La speranza profetica giunse però anche a prospettare uno scenario in cui l'infedeltà alle clausole del patto fosse definitivamente esclusa. La promessa era di far sì che in futuro il popolo d'Israele non potesse più trasgredire i comandamenti di Dio. Il culmine di questa prospettiva si ha nella profezia di una «nuova alleanza» contenuta nel libro di Geremia: «Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò nel loro cuore» (Ger 31,33).

Il contesto originario di questa profezia non lascia dubbi sul fatto che i protagonisti della nuova alleanza siano gli stessi del patto sinaitico. Tuttavia questi versetti, nel corso della storia, sono stati chiamati più volte in causa per presentare la fede cristiana come il nuovo patto che ha sostituito l'antico. Il Nuovo Testamento dà all'espressione «nuova alleanza» un forte connotato cristologico. Il primo contesto in cui emerge questa prospettiva è la narrazione della cena del Signore. La versione più antica ci è trasmessa da Paolo. In essa il richiamo al passo di Geremia si incrocia con il verso, proveniente dall'Esodo (24,8), che descrive il sacrificio cruento posto a suggello dell'alleanza del Sinai: «il Signore Gesù, nella notte in cui fu consegnato [...], dopo aver cenato prese [...] il calice dicendo: "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me"» (1 Cor 11,25).

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Quello stabilito da Gesù Cristo è un patto incondizionato che richiede come segno la celebrazione di una cena posta sotto l'insegna della memoria e dell'attesa (1 Cor 11,26).

La seconda interpretazione la si trova nella lettera agli Ebrei. In essa il passo di Geremia è introdotto per indicare che la nuova alleanza stabilita da Gesù Cristo dichiara antiquata la vecchia giudicata ormai prossima ad esaurirsi (Eb 8,6-13). Il confronto con l'altra alleanza qui è molto più diretto e tendenzialmente sostitutivo: non si tratta solo di far memoria della morte di Gesù e di attenderne la seconda venuta, ma di dichiarare impallidita l'alleanza precedente. È facile comprendere che si è di fronte a un tema dotato di ricadute dirette sui rapporti tra cristiani ed ebrei, argomento attualmente soggetto a forti ripensamenti teologici, specie da quando si è ritornati a essere convinti del fatto che altre pagine neotestamentarie dichiarano non revocata l'alleanza tra Dio e il popolo d'Israele (Rm 9,4; 11,29).

La Legge

Considerata da un punto vista storico la formazione di un corpus legislativo biblico è tema complesso. Le leggi elencate dalla Scrittura sono il risultato di una lunga storia di tradizioni religiose, morali e giuridiche; inoltre esse contengono numerosi elementi comuni ad altre civiltà del Vicino Oriente antico. All'inizio la parola Torà (ammaestramento, legge) indicò soprattutto gli insegnamenti giuridici tradizionali comunicati da sacerdoti e leviti presso i luoghi di culto. Tuttora soggetto a discussioni è invece il ruolo legislativo affidato in Israele ai re.

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Viste in chiave redazionale e teologica, le leggi bibliche hanno come loro fonte Dio che le ha rivelate per mezzo di Mosè. I comandamenti, i precetti e le disposizioni contenuti nella Legge sono quindi di origine divina. Ciò resta vero sia per comandi di contenuto etico, sia per quelli di natura penale, civile, cultuale, rituale e così via. A differenza di quanto avviene in altre culture, il Signore d'Israele non è considerato un semplice custode dell'ordine etico generale: Egli è colui che dà una legislazione peculiare al suo popolo. Si comprende quindi la crescente propensione a intendere i precetti come clausole d'alleanza (Es 24,6-8).

In seguito questa procedura fu ritenuta valida per esprimere il senso complessivo dell'intera Legge. Un tardo racconto esegetico giudaico paragona Dio a un re che, dopo aver conquistato un territorio, chiese ai suoi abitanti se volevano che egli regnasse su di loro; ottenuta una risposta affermativa, impose loro i propri decreti. Per l'ebraismo mettere in pratica un precetto significa dunque accettare la regalità di Dio. Nessuna autorità umana può perciò disporre liberamente della Legge. Lo stesso re deve farsi una copia della Torà e leggerla quotidianamente (Dt 17,18-20).

La Legge fa conoscere la volontà di Dio. Quest'affermazione tanto semplice apre questioni assai ardue in ordine sia all'antropologia sia al concetto teologico di elezione. Se Dio è unico e creatore di tutti, la sua volontà è conosciuta solo da Israele o giunge per qualche via anche alle genti? Essendo l'alleanza con Israele dotata di tratti specifici, quali precetti le sono propri e quali sono comuni a tutti? Sapere la volontà del Signore equivale a essere nelle condizioni di osservarla? O al contrario quella conoscenza rende solo più evidente la trasgressione? Questi interrogativi fanno comprendere perché nel Nuovo Testamento il

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centro del discorso sulla Legge e sulla grazia si trovi nella predicazione di Paolo più che in quella di Gesù. Secondo Matteo, Gesù nel discorso della montagna avrebbe dichiarato che nulla della Legge sarebbe caduto (Mt 5,17-18). Egli infatti rivolge il proprio insegnamento solo alle «pecore perdute della casa d'Israele» (Mt 10,6; 15,24). Ai suoi discepoli Gesù addita la via di una osservanza e di una misericordia fattesi entrambi più radicali: da un lato si è responsabili non solo delle azioni, ma persino delle intenzioni recondite del proprio cuore (Mt 5,27); dall'altro gli affaticati e gli oppressi possono in lui trovare riposo (Mt 12,28-30). Paolo invece ha davanti a sé un mondo fatto di ebrei e di gentili. Attraverso la fede in Gesù Cristo per entrambi è diventato possibile l'accesso all'eredità della promessa. Per tutti e due è giunto il tempo della misericordia. La prospettiva di Paolo è paradossale: per strade diverse sia gli ebrei, sia i gentili potevano conoscere la volontà di Dio. I primi mediante la Legge, i secondi in virtù della coscienza. Nessuno però l'ha rispettata, tutti quindi hanno peccato, perciò Dio, tramite Gesù Cristo, può, ora, estendere su tutti la propria misericordia (Rm 1,18-3,26; 11,32). Si è resi giusti a causa della grazia di Dio, vale a dire in virtù del suo gratuito impegno unilaterale. Per questo, in Paolo, la promessa e l'alleanza di Dio con Abramo prevalgono sulla Legge di Mosè, e la fede sulle opere (Gal 3,6-9). Ciò non significa però né che i comandi della Legge non siano buoni, né che si sia svincolati dal metterli in pratica tenendo fermo il primato dell'amore: «qualsiasi [...] comandamento si riassume in queste parole: "Amerai il prossimo come te stesso" (Lv 19,18)» (Rm 13,9-10).

Il peccato

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Un'affermazione biblica dotata di enormi ripercussioni è di aver indicato l'esistenza di un nesso tra peccato, dolore e morte, asserendo che il primo fattore è la causa profonda degli altri due. Inoltre nella Scrittura il peccato è diventato chiave di lettura per decifrare anche gli avvenimenti storici. In tal modo le vicende d'Israele e quelle degli altri popoli sono. state più volte interpretate in base al binomio colpa-punizione. A questa prima coppia potevano seguire il pentimento, il perdono, la riconciliazione, il riscatto. Tuttavia il punto d'inizio rimane la trasgressione.

In ebraico non c'è alcuna parola che significhi precisamente peccato in senso teologico. Per indicare tale dimensione si impiegano varie parole, ciascuna delle quali ha un uso pure profano. In generale, per quanto riguarda il sorgere del peccato individuale, la risposta biblica può essere sintetizzata dicendo che esso deriva dalla mancanza di conoscenza di Dio. Con questa espressione si allude a una realtà assai concreta: ignorare Dio equivale al rifiuto di eseguirne la volontà. In definitiva il peccato si presenta come un atto di disobbedienza, di infedeltà o trasgressione paragonabile alla violazione delle clausole di un patto.

L'origine storica del peccato coincide con la questione del cosiddetto «peccato originale», la quale a sua volta sfocia nell'interrogativo sul modo in cui esso possa essere entrato in un universo creato e governato da Dio che, «in principio», giudicò tutto «molto buono» (Gen 1,31). Il racconto contenuto nel terzo capitolo della Genesi attribuisce il peccato alla libera scelta compiuta da una creatura umana in una condizione non ancora soggetta ai desideri cattivi del proprio cuore. Per questa ragione la scena raffigura i primi esseri umani tentati da agenti a loro esterni. Questo primo

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peccato compromette le relazioni tra il Signore e gli esseri umani, i quali sono sì in grado di pentirsi, ottenere il perdono e stringere un'alleanza con Dio, ma non possono più ritornare all'originaria condizione paradisiaca.

L'universalità del peccato è riproposta anche da altre parti della Bibbia. Il re Salomone confessa che non esiste uomo che non cada in qualche colpa (1 Re 8,46). Nei libri sapienziali si afferma che ogni essere umano è fragile e impuro davanti a Dio (Gb 4,1718; Pr 20,9; Qo 7,20). La teologia del peccato raggiunge il proprio culmine nei profeti. Essi interpretano la caduta d'Israele come conseguenza inevitabile delle trasgressioni compiute dal popolo. La prospettiva biblica più ripetuta (non però l'unica) è che ogni disastro o afflizione nella vita personale o collettiva è, in fin dei conti, attribuibile al peccato dell'uomo e che dunque le sventure si presentano come il giusto risultato di azioni negative. Il fatto stesso che dolore e sofferenze siano punizioni attesta la loro non casualità e, di conseguenza, anche la possibilità che siano considerati un'espiazione e una via per riconciliarsi con Dio. Nel sistema cultuale legato ai sacrifici la sofferenza e la morte vicaria degli animali sono ritenuti modi per scontare le colpe (Lv 4,15,13); analogamente nella storia del popolo d'Israele la deportazione e l'esilio sono giudicati momenti di un cammino che conduce al riscatto e alla redenzione. La lettura della storia d'Israele elaborata dai profeti costituisce l'orizzonte originario da cui, attraverso un gran numero di passaggi, sono derivate molte successive interpretazioni «provvidenziali» delle vicende di individui e popoli.

La concezione neotestamentaria del peccato tende a rimarcare soprattutto tre aspetti: il peccato come violazione di un comandamento, il peccato come stato o condizione, il peccato come

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potenza distruttiva (le due ultime alternative sono presenti soprattutto in Paolo e negli scritti giovannei). Lo scopo principale del Nuovo Testamento è però di presentare Gesù Cristo come vincitore del peccato. Non per nulla i sinottici parlano della colpa innanzitutto per prospettare l'esistenza del perdono e per additare la via del pentimento (Mt 9,10-13; 11,19; Lc 15,1-2).

La malizia del peccato è più esplicita negli scritti giovannei. Il peccato è iniquità e ingiustizia, chi pecca viene dal diavolo (1 Gv 3,8) ed è schiavo del peccato (Gv 8,34). Il peccatore ama le tenebre più della luce. In questi scritti il termine «peccato» non significa tanto una singola trasgressione, quanto uno stato o una condizione prodotta dalla disobbedienza. Il risultato del peccato è la morte (1 Gv 5,16-17). Anche Giovanni presenta Gesù come il vincitore del peccato: senza peccato egli stesso è l'agnello che toglie il peccato dal mondo (Gv 1,29).

La più completa teologia del peccato del Nuovo Testamento la si trova negli scritti di Paolo. Il problema del modo in cui il peccato è diventato parte ineliminabile della condizione umana è affrontato soprattutto nella lettera ai Romani. La sede del peccato in quanto potere è la «carne» (termine che esprime non la componente corporea, bensì la concupiscenza), il peccato è una specie di pseudo-legge che si oppone a quella che proviene da Dio; essa rende schiavo l'uomo facendolo incapace di compiere ciò che è giusto anche quando lo desidera (Rm 7,1-25). Pure in Paolo l'universalità del peccato è asserita al fine di ribadire quella ancor più estesa della salvezza operata da Gesù Cristo (Rm 5,17-21). Poiché la morte è effetto della colpa, il peccato può essere vinto solo da una morte a cui segua una resurrezione, cioè da Gesù

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Cristo. Morendo con Cristo al peccato e risorgendo con lui, il credente giunge a vivere una vita nuova (1 Cor 15,3.17; Gal 1,4).

Tutto il Nuovo Testamento proclama la vittoria di Gesù Cristo sul peccato attuatasi per mezzo della morte e della resurrezione.

Il Messia

Non vi è dubbio che la fede messianica sia stato un apporto biblico che ha fermentato in seno alla storia. Tuttavia ricostruirne la genesi è tutt'altro che agevole. La parola «Messia» è un calco dall'aramaico, a sua volta traduzione dell'ebraico mashiach, participio passato del verbo mashach, «ungere». Le trentotto ricorrenze di questo termine nella Bibbia ebraica dimostrano però una grande varietà di applicazioni, riferendosi a una unzione che può riguardare il sacerdote, il re e, in senso metaforico, il profeta e persino Ciro, il re persiano che, pur non essendo consapevole di alcuna investitura divina, compie un'azione storica di riscatto del popolo (Is 45,1).

All'epoca dell'esilio babilonese (VI sec. a.C.), la tradizione d'Israele era ben lungi dall'aver definito una concezione personale del Messia. Persino i successivi profeti postesilici Aggeo e Zaccaria, che avevano in mente, in connessione alla restaurazione del regno davidico, un determinato individuo - Zorobabele - non lo pensarono né come autore né come agente della nuova era. Anche nel periodo postesilico si può parlare al più dell'esistenza di una preistoria biblica del messianismo. Gradualmente nasce però la visione secondo cui il Messia sarà un uomo che Dio investirà di un compito di liberazione dotato di un concreto riscontro storico. Gli antefatti di questa concezione si trovano nel cosiddetto «messianismo regale

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dinastico». Al culmine del potere davidico apparve la dottrina stando alla quale Dio ha scelto Davide e la sua discendenza per regnare per sempre su Israele (2 Sam 7), dandogli il dominio sui popoli stranieri (2 Sam 22,44-5). All'inizio, questa prospettiva non sottolinea affatto l'esistenza di un singolo discendente davidico rivestito di un potere eccezionale. La promessa e il compito ad essa collegato riguardano l'ininterrotta successione dinastica ed è proprio questa continuità a diventare tangibile conferma del beneplacito divino.

Con la scomparsa dell'unità del regno davidico, la speranza assunse sempre più i contorni dell'attesa che la casa di Davide, in un prossimo futuro, regnasse di nuovo sulla totalità delle dodici tribù (Am 9,11-12). Nelle profezie l'accento si sposta dall'ormai perduta integrità all'attesa di un suo prossimo ripristino. La complessità di una situazione in cui si spera in quanto è già stato, esclude che tutto ciò possa presentarsi come un semplice ritorno allo status quo ante. Non meraviglia, dunque, che l'accento passi dalla perpetuità della dinastia alla qualità del regno futuro; la caratteristica del re messianico sarà la giustizia e proprio a tal fine egli riceverà una particolare investitura (Is 9,5-7). Affermazioni che rappresentano un passo decisivo per l'elaborazione di una visione di un re Messia caratterizzato da tratti più circostanziati e personali. In altre pagine bibliche, in luogo dell'esaltazione della giustizia e del potere della futura figura regale, si parla di un «unto del Signore» contraddistinto da un profondo tratto di umiltà (Zc 9,9-10). Tanto nella carismatica rettitudine del re quanto nella sua messianica mansuetudine si evidenzia però la convinzione che l'atto salvifico sia opera del Signore.

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Le prime esplicite affermazioni nell'esistenza di un Messia personale sono extrabibliche e risalgono al periodo del Secondo Tempio. L'espressione «il Messia» connotata dalla presenza dell'articolo qualificativo è sicuramente presente solo in testi come i Salmi di Salomone, scritti apocrifi del I secolo a.C. Negli ultimi secoli a.C. all'orientamento incentrato su una salvezza che si dispiega sulla scena della storia si affiancano speranze escatologiche orientate in senso metastorico. In quell'epoca in Israele si manifestarono attese di tipo apocalittico il cui punto di riferimento più significativo è costituito dalla figura del Figlio dell'uomo presente nel libro di Daniele (Dn 7,1-14). Le visioni di questo libro, scritto nel corso del «periodo della tribolazione» abbattutasi su Israele a metà del II sec. a.C., preannunciavano un'imminente e definitiva liberazione. Tuttavia, colui che appare in forma di uomo non è affatto il Messia in senso personale, si tratta invece del «popolo dei santi dell'Altissimo» (Dn 7,18). Ben presto in alcuni scritti apocrifi tale espressione fu però effettivamente identificata con la persona del Messia. L'attesa escatologica concentrò allora la propria attenzione soprattutto sulla restaurazione d'Israele nella pienezza delle dodici tribù e sull'attesa del nuovo Tempio escatologico che diventasse casa di preghiera per tutti i popoli (Is 56,7).

Attraverso l'intreccio di molte componenti e correnti si formò gradualmente l'eterogeneo insieme di riferimenti messianico-escatologici presenti in Israele all'epoca di Gesù. Essi avevano a che fare con temi come il ritorno del profeta Elia quale precursore del Messia, la venuta del figlio di Davide, il Messia umile e sofferente, la distruzione delle potenze ostili, la gloria di Gerusalemme, la riunione degli ebrei dispersi, la rappacificazione tra i popoli, la

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risurrezione e il giudizio finale. In definitiva, a partire dal II secolo a.C., l'aspettativa messianica era risorta impetuosa in Israele; essa non fu però unitaria ma si concretizzò nelle forme più diverse, avendo in comune solo l'attesa della salvezza d'Israele compiuta da Dio.

Nel modo di considerare Gesù nel contesto del messianismo del suo tempo si sono a lungo fronteggiati due pregiudizi simmetrici: da un lato si affermava che gli ebrei avrebbero avuto una concezione puramente politica del Messia, mentre, dall'altro, la predicazione di Gesù avrebbe annunciato una liberazione tutta interiore. Né l'una né l'altra posizione corrispondono al vero. Parlare di pura interiorità è anacronistico, così come lo è appellarsi a una dimensione puramente politica; infatti anche i movimenti che miravano a un riscatto dal potere romano lo giudicavano in termini messianici appunto perché ipotizzavano la presenza di un intervento o, almeno, di un'investitura divina. L'indagine esegetica è ancora lontana dall'aver elaborato una visione unitaria sui modi in cui la categoria messianica possa essere applicata a Gesù. Del resto queste difficoltà si trovano già testimoniate all'interno degli stessi Vangeli; risulta evidente, ad esempio, quanto sia stato laborioso per Matteo e Luca conciliare la provenienza di Gesù dalla periferica Galilea con la discendenza davidica (Mt 1-2; Lc 2). Ancor più significativo è il processo che ha portato in poco tempo a trasformare in nome personale, Cristo, l'aggettivo christos «unto».

Secondo i sinottici Gesù non disse mai apertamente: «Io sono il Messia (Cristo)»; inoltre solo in due occasioni Gesù accettò che qualcun altro gli attribuisse questa qualifica: nella cosiddetta «professione di fede» di Pietro: «Tu sei il Cristo» (Mc 8,27-33) e nell'affermazione del sommo sacerdote, durante il processo,

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confermata da Gesù ma subito integrata con un riferimento alla figura escatologica del Figlio dell'uomo (Mc 14,61-64). In conclusione per i sinottici l'assunzione della categoria messianica non rappresentò l'unico modo per interpretare la vita e l'opera di Gesù.

La fine dei tempi

Che quanto vive nel tempo sia destinato a finire è esperienza universale, che il tempo stesso giunga a un termine e si congedi dall'esistere è invece affermazione posta al di là di ogni verifica. La convinzione che il tempo si estingua poteva sorgere soltanto in una cultura sicura che esso avesse avuto un inizio. Solo in base al convincimento che questo cielo e questa terra sono frutto di un'opera creativa si può affermare che in futuro Dio creerà cieli nuovi e terra nuova (Is 65,17).

Per la visione apocalittica che proclama la fine del tempo non esiste un unico mondo creato, ve ne sono due. Il «mondo avvenire» può essere pensato già presente nei cieli presso Dio; tuttavia esso, a un determinato punto della storia, dovrà irrompere e sostituire lo stato di cose ora esistente. Il lettore delle apocalissi è colpito soprattutto dalle immaginifiche descrizioni del passaggio dall'uno all'altro eone (totalità spazio-temporale). Perché il «mondo avvenire» giunga occorre che questo mondo si logori come una veste (Is 51,6). Questo transito rende manifesto l'aspetto più appariscente, ma non più profondo, della visione apocalittica: la futura catastrofe. In realtà per l'apocalittico il negativo è già all'opera nel mondo attuale. Le occasioni nelle quali sorgono gli scritti apocalittici sono spesso legate a un momento di grande

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tribolazione e di persecuzione dei pii. Le potenze persecutrici divengono perciò manifestazione storiche di un male che ha radici ultramondane. Più in generale la visione apocalittica muta drasticamente il modo di guardare alla morte.

All'interno del mondo biblico, fino all'epoca dell'esilio babilonese (VI sec. a.C.), il morire non suscitava alcun problema: era un evento naturale posto al termine dell'esistenza. Tuttavia, forse già a partire dal IV sec. a.C. e certamente in quelli successivi, in alcune correnti giudaiche la morte è giudicata un nemico, una realtà che c'è ma che non avrebbe mai dovuto esserci. Per questo va sconfitta ed annientata: il Signore Dio eliminerà la morte per sempre (Is 25,8; 1 Cor 15,26).

L'opera di Dio, uscita buona dalle mani del sommo Artefice, si è corrotta. La dimensione del male però non è percepita come un puro esito delle azioni riprovevoli compiute dagli uomini; la sua causa si annida in strati di esistenza più profondi. Le creature umane con il loro agire non fanno che prolungare nel tempo la dinamica legata a colpe originarie. Angeli e demoni, esseri celesti precipitati negli abissi, divengono protagonisti delle lotte, delle vittorie e delle sconfitte che stanno a monte e a valle del nostro mondo. Il linguaggio mitico e visionario dell'apocalittica serve a porre in rilievo sia la radicalità del male che avvolge la condizione umana, sia il grande sconvolgimento necessario perché esso infine sia annientato. Non è più sufficiente confidare come in precedenza in liberazioni da nemici che dispiegano il loro potere sulla terra e nella storia; la salvezza ora comporta l'annullamento stesso della forza devastatrice della morte. La potenza che tutti fa perire deve a sua volta essere uccisa.

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La risposta a una colpa sta nel giudizio. L'uccisione della morte e di coloro che sono dalla sua parte diviene un'esecuzione capitale. In tal modo l'espressione «giorno del giudizio» assume un valore escatologico. Non si tratta più, come nella profezia, di emettere sentenze su popoli e re; ora si è di fronte a un giorno finale in cui sarà formulato un giudizio inappellabile che separerà in modo definitivo il bene dal male. La sconfitta del potere della morte è provata dall'avvento della resurrezione. Nella Bibbia ebraica l'unico passo che afferma in modo esplicito questa prospettiva si trova nel tardo libro di Daniele (Dn 12,2; cfr. Gv 5,28-29). Più copiose sono invece le attestazioni presenti nell'ambito della letteratura apocrifa. Il suo corpus principale si trova infatti fuori dalla Bibbia, in libri come 1 e 2 Enoch, 4 Esdra, 2 e 3 Baruc, i Giubilei. In seno all'ebraismo questo genere andò declinando a partire dal I sec. d.C., mentre rimase vivo nel cristianesimo fino all'epoca medievale. Attualmente si è orientati a sostenere che già le più antiche apocalissi giudaiche subirono l'influsso di varie fonti: Scritture ebraiche, miti antichi, dualismo iranico e materiali ellenistici.

Le idee apocalittiche svolsero un ruolo cruciale nella nascita della fede cristiana. Senza di esse non si comprenderebbero molte pagine neotestamentarie dedicate alla resurrezione dei morti e alla venuta del Figlio dell'uomo. In tale ambito rientrano le cosiddette «piccole apocalissi sinottiche» (Mt 24,1-44; Mc 13; Lc 21,5-33) e alcuni brani dell'epistolario paolino (1 Cor 15,20-28; 1 Ts 4,13-5,6). Nel Nuovo Testamento l'orizzonte apocalittico subisce però una ridefinizione fondamentale. Ciò avviene perché la «pienezza del tempo» (Gal 4,4) ha già avuto luogo. Con l'invio del Figlio, la sua morte e la sua resurrezione, Dio ha già operato la svolta definitiva nel corso del tempo. La consumazione del tempo è ora attestata in

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un modo di vivere sospeso tra l'annuncio evangelico e l'attesa della sua completa realizzazione escatologica: «Questo vi dico, il tempo si è fatto breve» (1 Cor 7,29-31). Più che di fine del tempo bisogna parlare dunque di un tempo della fine. Per chi vive questo tipo di speranza è la redenzione stessa, compiutasi con la morte e resurrezione di Gesù Cristo, a spingere dall'interno il tempo fino a farlo giungere al suo ultimo compimento.

Non è facile discernere se gli autori del Nuovo Testamento prospettino la pienezza cristologica del tempo con immagini apocalittiche o se queste ultime debbano invece essere considerate parte effettiva della fede cristiana delle origini. Il caso più significativo di questa ambiguità è costituito dall'Apocalisse di Giovanni. L'ultimo scritto del Nuovo Testamento è intessuto di visioni, rivelazioni, catastrofi, ultimi giudizi, consumazione del tempo e si conclude con l'avvento della nuova terra e del nuovo cielo. Tuttavia la centralità assunta in esso dall'agnello sgozzato, ritto e vincitore, figura di Gesù Cristo morto e risorto, segna una diversità di fondo con le apocalissi giudaiche e fa sì che tutto il testo vibri di una fede e di un'attesa profondamente cristologiche. Per convincersene basta guardare alle sue prime e alla sue ultime parole, incentrate sulla figura del Messia venuto e venturo: «Rivelazione (apokalypsis) di Gesù Cristo...» (Ap 1,1); «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20).