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PREGHIERA La preghiera è un fenomeno primario della vita religiosa; ne è il cuore, il gesto centrale, a tal punto che essa distingue l'uomo religioso dal non religioso. È, come la religione, un fatto universale,ì che si ritrova nella pietà popolare di tutti i popoli e di tutte le culture. Essa presuppone la fede in un Dio personale e presente. Dio sta nella coscienza dell'orante non come un'idea filosofica o teologica, ma come una realtà, una persona presente. La relazione con Dio è vissuta come distanza e anche come contatto. Il credente non ha alcun dubbio sulla possibilità di comunicare con Dio, sebbene non lo veda; egli sa pure di essere obbligato, nel senso più stretto, alla p. Per questo la p. si trova in tutte le religioni teistiche, come l'atto fondamentale della vita religiosa, anche là dove la fede in un Dio personale (o in dèi personali) si configura soltanto vagamente, o è intorbidita da false rappresentazioni. È questo un segno che l'uomo non degenerato non può vivere senza preghiera . (cf. J. rudin, Psicoterapia e religione, Torino 1968). Nelle religioni non cristiane la preghiera si rivolge alle divinità naturali e funzionali per placarle e renderle propizie; in una forma più pura, si rivolge all'unico Dio, creatore del cielo e della terra. Anche fuori del cristianesimo è dato trovare preghiere che esprimono a Dio sublimi sentimenti di amore. Secondo F. Heiler nelle religioni primitive la preghiera è l'espressione immediata di esperienze profonde, che hanno origine nel sentimento di bisogno, di pena, di gratitudine. E il libero effondersi del cuore di un devoto, che nel dialogo con un Altro, più o meno Assoluto, sfoga il proprio affanno, confessa i suoi peccati, confida i propri desideri, da prova della sua dedizione o della sua gratitudine. Il desiderio di vita e di felicità terrena è il tema principale delle p. dei primitivi. Questa bramosia di vivere è strettamente congiunta con il sentimento di dipendenza, in cui emerge un forte realismo della divinità. Dalle accurate ricerche compiute dalla psicologia religiosa sul fenomeno della preghiera , risulta che l'attività di pregare; non è un atto di una sola facoltà o funzione umana, ma di tutta la persona, che si dirige verso un Assoluto come una realtà presente e potente. Questa attività richiede, in una certa misura, di entrare in se stesso e di distaccarsi dalle cose ordinarie e quotidiane, e, nello stesso tempo, provoca un movimento e un'apertura verso l'Altro, che tende a un'esplicitazione dialogica (confronta: A. canesi : Ricerche preliminari sulla psicologia della preghiera). Questa forma di preghiera che tende al dialogo, è particolarmente tipica della preghiera cristiana, la quale però, in quanto mistero soprannaturale, non ha, in senso stretto, alcuna analogia con le altre espressioni umane, per cui poco se ne può comprendere attraverso i concetti emergenti dalla comune esperienza psicologica. (Dizionario enciclopedico di spiritualità a cura di A. Ancilli – Citta Nuova 1990 - Volume 3 pag 1992 ).

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PREGHIERA

La preghiera è un fenomeno primario della vita religiosa; ne è il cuore, il gesto centrale, a tal punto che essa distingue l'uomo religioso dal non religioso. È, come la religione, un fatto universale,ì che si ritrova nella pietà popolare di tutti i popoli e di tutte le culture. Essa presuppone la fede in un Dio personale e presente. Dio sta nella coscienza dell'orante non come un'idea filosofica o teologica, ma come una realtà, una persona presente. La relazione con Dio è vissuta come distanza e anche come contatto. Il credente non ha alcun dubbio sulla possibilità di comunicare con Dio, sebbene non lo veda; egli sa pure di essere obbligato, nel senso più stretto, alla p. Per questo la p. si trova in tutte le religioni teistiche, come l'atto fondamentale della vita religiosa, anche là dove la fede in un Dio personale (o in dèi personali) si configura soltanto vagamente, o è intorbidita da false rappresentazioni. È questo un segno che l'uomo non degenerato non può vivere senza preghiera . (cf. J. rudin, Psicoterapia e religione, Torino 1968).

Nelle religioni non cristiane la preghiera si rivolge alle divinità naturali e funzionali per placarle e renderle propizie; in una forma più pura, si rivolge all'unico Dio, creatore del cielo e della terra. Anche fuori del cristianesimo è dato trovare preghiere che esprimono a Dio sublimi sentimenti di amore.

Secondo F. Heiler nelle religioni primitive la preghiera è l'espressione immediata di esperienze profonde, che hanno origine nel sentimento di bisogno, di pena, di gratitudine. E il libero effondersi del cuore di un devoto, che nel dialogo con un Altro, più o meno Assoluto, sfoga il proprio affanno, confessa i suoi peccati, confida i propri desideri, da prova della sua dedizione o della sua gratitudine. Il desiderio di vita e di felicità terrena è il tema principale delle p. dei primitivi. Questa bramosia di vivere è strettamente congiunta con il sentimento di dipendenza, in cui emerge un forte realismo della divinità.

Dalle accurate ricerche compiute dalla psicologia religiosa sul fenomeno della preghiera , risulta che l'attività di pregare; non è un atto di una sola facoltà o funzione umana, ma di tutta la persona, che si dirige verso un Assoluto come una realtà presente e potente. Questa attività richiede, in una certa misura, di entrare in se stesso e di distaccarsi dalle cose ordinarie e quotidiane, e, nello stesso tempo, provoca un movimento e un'apertura verso l'Altro, che tende a un'esplicitazione dialogica (confronta: A. canesi : Ricerche preliminari sulla psicologia della preghiera).

Questa forma di preghiera che tende al dialogo, è particolarmente tipica della preghiera cristiana, la quale però, in quanto mistero soprannaturale, non ha, in senso stretto, alcuna analogia con le altre espressioni umane, per cui poco se ne può comprendere attraverso i concetti emergenti dalla comune esperienza psicologica. (Dizionario enciclopedico di spiritualità a cura di A. Ancilli – Citta Nuova 1990 - Volume 3 pag 1992 ).

Se si vuol parlare di preghiera è necessario sapere di che preghiera si vuol trattare. “Se per preghiera s’intende soprattutto la tensione espressa in parole e in gesti dell’uomo verso

una divinità nascosta nei cieli, pronta ad intervenire, se debitamente sollecitata, per risolvere qui e là i problemi che via via si pongono agli uomini desiderosi di risolverli, questo tipo di preghiera ha spazi sempre più limitati, anzi è pesantemente contestata da uomini che rifiutano il ruolo di “tappabuchi” spesso, anche se involontariamente, attribuito ad un tale tipo di divinità. Non che siano risolti tutti i drammi esistenziali. L’uomo si trova ancora in situazioni che non riesce a comprendere e a superare: questo capita quando si imbatte nella morte di chi gli è più caro o nella sofferenza degli innocenti o in fenomeni naturali contro i quali nulla può. Sono però avvenimenti che non ricoprono l’abituale della sua esistenza. In altre civiltà, soprattutto agricole, la condizione normale era quella di trovarsi di fronte a fatti insuperabili. Allora ci si rivolgeva al cielo perché finisse la siccità o la pioggia o la mortalità tra il bestiame e tra gli uomini. Oggi si è consci che molto, se non tutto, è attribuibile alla cattiva volontà degli uomini. Si sa come è possibile evitare la siccità con buoni sistemi di irrigazione, l’inondazione con buoni sistemi di regolamentazione idrica, la mortalità degli animali con adeguate attenzioni veterinarie e quella degli uomini con organizzazioni sanitarie. La scomparsa della civiltà agricola e la sua sostituzione con una civiltà dell’energia tecnologica ha prodotto trasformazioni profonde nell’uomo. Quest’uomo per i motivi addotti e per altri ancora, non è più disposto a questo tipo di preghiera.

Ma non è di questa preghiera che qui si vuol trattare. Qui ci si vuol riferire ad una preghiera tipicamente cristiana”. ( Giacomo Grosso: Dizionario dei temi della fede- Sei- pag. 346)

PREGHIERA CRISTIANA

DIO EDUCA ALLA PREGHIERA

La pratica religiosa oggi La cultura secolarizzata e il ritmo incalzante della vita moderna hanno provocato una diminuzione

della pratica religiosa. Meno della metà della gente nel nostro paese dichiara oggi di pregare frequentemente; gli altri dicono di farlo raramente o addirittura mai. Per altro verso c’è da parte di molti una riscoperta della preghiera, che si manifesta nell’entusiasmo collettivo di grandi folle, nel fervore di piccoli gruppi, nella ricerca del silenzio e della solitudine, nelle vocazioni alla vita contemplativa. A quali sorgenti si alimenta questa esperienza sempre viva? Quali riferimenti abbiamo per educarci alla preghiera?

Dialogo vivo con Dio

I gesti, con cui l’uomo rivolge consapevolmente l’attenzione alla divinità e invoca il suo aiuto per avere vita e felicità, occupano da sempre un posto centrale nelle religioni. Alla luce della rivelazione sappiamo che l’uomo cerca Dio perché Dio cerca l’uomo e lo attrae a sé.

Nell’Antico Testamento Dio si fa interlocutore personale del suo popolo mediante una storia di eventi e parole; crea un legame speciale di alleanza. La preghiera è ascolto della sua parola e risposta ad essa; è dialogo in cui, al di là della dipendenza creaturale, viene vissuto consapevolmente il rapporto di alleanza. Abramo vive l’intimità con Dio come ascolto attento, obbedienza, abbandono fiducioso nelle prove e intercessione audace per i peccatori. Mosè, confidente e cooperatore di Dio, presenta le sue difficoltà, ma obbedisce; intercede con perseveranza per il popolo. I profeti hanno un’esperienza diretta di Dio, che li sostiene in mezzo alle tribolazioni. Cercano appassionatamente il suo volto; lavorano e lottano per la sua causa. Chiamano Israele a una preghiera che non sia solo un insieme di cerimonie esteriori, ma conversione del cuore e osservanza dei comandamenti.

Per alimentare la preghiera del suo popolo, Dio ispira i salmi, mirabili formule adatte per la comunità e per i singoli. Vi si fa memoria delle meraviglie che egli ha compiuto in passato; si richiamano le sue promesse, di cui si attende il compimento. Dentro questa storia dell’alleanza viene inserita la situazione di chi prega. Vi trovano espressione tutti i sentimenti umani: gioia e desolazione, gratitudine e desiderio, contemplazione e impegno, fiducia e protesta, compassione e ira. Ma l’anima di tutto è sempre la lode di Dio; perfino la sofferenza e l’ingiustizia diventano nella speranza motivo di benedizione. Appare dunque appropriato il titolo “I salmi” o “Le lodi”, che è dato all’intera raccolta. L’assenza di riferimenti episodici facilita l’attualizzazione. I salmi sono stati impiegati per secoli nella liturgia delle sinagoghe ogni sabato e nella liturgia del tempio in occasione delle feste. Il Signore Gesù se ne è servito per lodare e invocare il Padre, conferendo ad essi un nuovo significato alla luce della nuova alleanza. Da lui e non solo dal popolo d’Israele li riceve la Chiesa.

Dialogo filiale

Gesù introduce nella storia la preghiera filiale: la vive in prima persona e la comunica ai credenti. Prega molto durante la vita pubblica: loda e ringrazia il Padre, accoglie con prontezza la sua volontà. Prega all’avvicinarsi dell’”ora” decisiva della morte e risurrezione. Elevando al Padre quella che giustamente viene detta “Preghiera sacerdotale”, richiama tutto il disegno di Dio che si sviluppa nella storia della salvezza, dà voce all’anèlito universale verso la comunione trinitaria, perché tutto giunga a compimento. Prega durante la passione: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà” (Eb 5,7).Prega con una confidenza del tutto singolare, chiamando Dio: “Abbà” (Mc 14,36). Incarna nella sua esperienza umana l’atteggiamento del Figlio unigenito, eternamente rivolto al Padre. Gesù fa partecipare i credenti alla sua comunione filiale e li educa a viverla consapevolmente nella preghiera. Insegna il “Padre nostro”; esorta a chiedere soprattutto il dono dello Spirito Santo; indica le caratteristiche che deve avere la preghiera dei figli: sincerità, umiltà, fiducia, anzi audacia, perseveranza. I discepoli devono pregare nel suo nome, in sintonia con lui e insieme a lui, perché si compia il disegno del Padre. La preghiera cristiana è la preghiera stessa di Gesù comunicata ai suoi.

Esperienza ecclesiale

Lo Spirito del Signore sostiene e guida la preghiera dei figli di Dio, perché si rivolgano al Padre con lo stesso atteggiamento di Gesù. Fa della Chiesa un’esperienza assidua di preghiera, fin dall’inizio del suo cammino storico. Da persona a persona, da una generazione all’altra, sotto la guida dei pastori, il linguaggio e l’atteggiamento della preghiera si comunicano come per osmosi, dando luogo a tradizioni liturgiche, teologiche e spirituali. I grandi maestri e modelli sono soprattutto i santi. Gli ambienti dove ci si educa a pregare sono in concreto le parrocchie, specialmente attraverso l’assemblea festiva, i santuari, in occasione soprattutto di pellegrinaggi, le comunità religiose, le aggregazioni particolari di fedeli e, con una efficacia tutta propria, le famiglie cristiane, dove i figli imparano dai genitori a sentire la presenza di Dio, a intrattenersi con lui al mattino e alla sera, a benedirlo per la mensa e per tutti i suoi doni.

La religiosità popolare

La formazione alla preghiera passa anche attraverso la religiosità popolare: idee, atteggiamenti, simboli e comportamenti riguardanti la realtà religiosa, condivisi e tramandati in un gruppo sociale. Le sue espressioni privilegiate sono i riti di passaggio da una fase all’altra della vita, il culto dei defunti, le feste e

le ricorrenze, l’inclinazione a credere nei miracoli e nelle apparizioni, la venerazione di immagini e reliquie, le processioni, i pellegrinaggi ai santuari. Le singole persone vi trovano protezione contro la precarietà e l’ansia, che insidiano l’esistenza. La pietà popolare ha senz’altro dei limiti. Tuttavia “non può essere né ignorata, né trattata con indifferenza o disprezzo, perché è ricca di valori, e già di per sé esprime l’atteggiamento religioso di fronte a Dio. Ma essa ha bisogno di essere di continuo evangelizzata, affinché la fede, che esprime, divenga un atto sempre più maturo e autentico”. L’evangelizzazione non distrugge, ma assume ciò che trova di buono, lo purifica e lo perfeziona. Così, ad esempio, la pastorale dei santuari a volte integra felicemente quella delle parrocchie, offrendo occasioni privilegiate di conversione e di formazione. Il cristiano, lasciandosi guidare dalla divina rivelazione, entra in dialogo con Dio, insieme con Maria, i santi e tutta la Chiesa. Impegnando tutta la sua persona, si rivolge al Padre mediante il Figlio nello Spirito: lo adora, lo ascolta, lo benedice, lo loda, lo ringrazia, lo invoca per sé e per gli altri. Modello e sintesi di ogni preghiera è il “Padre nostro”, che Gesù ci ha insegnato.

La preghiera cristiana, animata dallo Spirito Santo e inserita nella tradizione vivente della Chiesa, è partecipazione al colloquio filiale di Gesù con il Padre. ( La verità vi farà liberi - numeri 955-964)

COLLOQUIO CON DIO

Comunione consapevole In ogni religione la preghiera è il gesto centrale. Gesù stesso pregava a lungo, interrompendo la sua attività. Da che cosa nasce questa necessità vitale? Perché non basta dedicarsi con onestà e generosità agli impegni familiari e professionali e alle opere buone? La vita non è solo efficienza e lavoro; è anche contemplazione, amicizia, gioco, festa. Nella preghiera l’uomo vive consapevolmente la dipendenza da Dio e l’amore per lui; ringrazia e loda per i doni ricevuti; chiede e si dispone ad accogliere quelli sperati. Più precisamente il cristiano attua consapevolmente la comunione filiale con Dio in Cristo, esprimendo l’atteggiamento fondamentale di fede, speranza e carità con modulazioni diverse secondo le situazioni, gioiose o tristi, individuali o comunitarie.

Da persona a persona

La preghiera è il rapporto con Dio divenuto pienamente consapevole; per questo non manca mai in ogni autentica vita religiosa. Alcune tradizioni la intendono come colloquio con Dio, altre come rientro solitario in se stessi. Per i cristiani, nella storia della salvezza Dio si rivela non come potenza anonima, ma come soggetto personale, che parla, ascolta, è sempre vicino. Pregare, allora, significa dialogare con lui da persona a persona, dargli del tu, mettersi davanti a lui faccia a faccia, cuore a cuore.

Si prega il Padre

nostro primo interlocutore è la prima persona della Santissima Trinità. Il cristiano, sia nella lode sia nella supplica, in definitiva si rivolge sempre a Dio Padre, principio senza principio della altre persone divine e di ogni dono partecipato alle creature. La sua preghiera, come tutta la sua vita, è sempre un andare al Padre insieme a Cristo nello Spirito. Sostanziata di adorazione e di amore filiale, animata dallo Spirito e associata al sacrificio pasquale di Gesù, essa giunge gradita al cuore del Padre e lo fa trasalire di tenerezza.

Si prega con Cristo e si prega Cristo

Se il Padre è la meta, Gesù Cristo è “la via” (Gv 14,6). Egli associa alla propria preghiera quella della Chiesa e di tutta l’umanità. Ogni esperienza di orazione, dal balbettìo infantile alla contemplazione mistica, si compie nel suo nome. Gesù intercede per noi come mediatore; ma come persona divina è anche destinatario della nostra preghiera; “prega per noi, prega in noi ed è pregato da noi”. Già nel Nuovo Testamento si trovano preghiere rivolte a Gesù e la formula Marana tha (Signore vieni) appartiene al primitivo strato aramaico della tradizione neotestamentaria, come Abbà. Tutte le tradizioni liturgiche successive contengono preghiere rivolte a Cristo. Merita anche di essere ricordata, per il grande rilievo che ha nella spiritualità orientale, l’invocazione del nome di Gesù, tramandata dai monaci del Sinai, di Siria, dell’Athos. La formula viene ripetuta con frequenza facendo riferimento al battito del cuore o al ritmo della respirazione: “Gesù Cristo, Figlio di Dio, Signore, abbi pietà di me peccatore”. La nostra povertà di peccatori è avvicinata ai titoli della sua grandezza. A lui ci accostiamo come mendicanti fiduciosi nella sua misericordia.

Si prega nello Spirito e si prega lo Spirito

Lo Spirito Santo ci fa dire: “Abbà, Padre!” (Rm 8,15) e “intercede per i credenti secondo i disegni

di Dio” (Rm 8,27). “Unisce tutta la Chiesa all’unica preghiera di Cristo e la rivolge al Padre”. È anche il dono fondamentale che dobbiamo chiedere. Essendo poi persona divina, è interlocutore della nostra preghiera: non solo prega in noi e per noi, ma è pregato da noi. La liturgia contiene splendide invocazioni rivolte allo Spirito, come la sequenza di Pentecoste “Vieni, Santo Spirito” e l’inno “Vieni, Spirito creatore”.

Si prega insieme ai santi e si pregano i santi

In dipendenza da Cristo unico mediatore, anche i santi sono cooperatori e destinatari della nostra preghiera. Ci insegnano a pregare con l’esempio e gli scritti; lodano e supplicano Dio insieme con noi. Al di là della nostra consapevolezza esplicita, preghiamo sempre inseriti nella comunione universale in Cristo e mai come individui isolati. Siamo dunque accompagnati dai santi. Ma possiamo anche dialogare con loro, lodarli e supplicarli, perché sono persone. Non costituiscono uno schermo nei confronti di Dio e di Cristo. Lodandoli, celebriamo un frutto del mistero pasquale e un riflesso della bontà divina. Ricorrendo alla loro intercessione, riconosciamo umilmente che siamo indegni di presentarci davanti a Dio e abbiamo bisogno della solidarietà dei fratelli. Tra i santi ha una posizione singolare la Vergine Maria. È il modello della preghiera cristiana, intesa come ascolto, contemplazione, lode, intercessione. Accompagna, quasi in un perenne cenacolo, la preghiera della Chiesa. A lei salgono sempre la lode commossa e la supplica fiduciosa. Insieme al “Padre nostro” la preghiera più familiare è l’”Ave Maria”, costituita appunto da un saluto gioioso di lode per le meraviglie che Dio ha compiuto in lei e per mezzo di lei, dandoci Gesù, e da una supplica, perché nella sua santità interceda per noi peccatori, per le nostre attuali necessità e per il momento decisivo della morte.

Si prega anche con il corpo

La preghiera cristiana è un dialogo a più voci, che ha l’ultimo riferimento in Dio Padre. A questo dialogo il credente non partecipa solo con la mente, ma con tutta la persona: intelligenza, volontà, affettività, corporeità. La preghiera nasce dal cuore, ma coinvolge anche il corpo. Gesù stesso prega a voce alta e con i gesti. L’adesione interiore a Dio si esprime e si sviluppa nel linguaggio del corpo, valorizzando numerosi simboli vocali, gestuali, ambientali. Le parole spontanee, le formule, i testi sacri hanno evidentemente un grande rilievo. Entrano nella stessa orazione mentale. Perfino nella contemplazione una parola ripetuta serve a tenere desto l’amore. La musica e il canto fanno vibrare intensamente le segrete profondità del cuore. Per questo in connessione con la liturgia si è formato un patrimonio immenso e meraviglioso di creazioni musicali. I gesti sono simboli di atteggiamenti spirituali. Variano da una cultura all’altra, anzi da un’assemblea all’altra. I più comuni sono: le posizioni del corpo in piedi, seduto, in ginocchio, prostrato a terra; il movimento delle mani, il cammino processionale, la danza. Devono essere fatti con dignità, espressività e devozione. Infine svolgono una funzione simbolica i luoghi, gli edifici sacri, l’arredamento, le immagini.

Immagini sacre

“Del Dio invisibile non fare nessuna immagine; ma quando tu vedi l’incorporeo divenuto uomo, fa l’immagine della forma umana; quando l’invisibile diventa visibile nella carne, dipingi la somiglianza dell’invisibile”. Dio è mistero invisibile. Direttamente in se stesso non è rappresentabile, ma si è reso visibile nel suo Figlio fatto uomo. Il Cristo a sua volta riflette la sua perfezione su Maria, gli angeli e i santi, su ogni uomo e sull’intero mondo creato. Così dall’unica perfetta immagine derivano altre immagini

viventi. Infine un’ulteriore derivazione sono da considerare le opere d’arte dipinte o scolpite, come una figura riflessa nello specchio. Le immagini artistiche rimandano dunque alle persone, a Cristo e quindi al mistero di Dio. La loro contemplazione non solo facilita la conoscenza, ma ravviva una comunione vitale, realizza un incontro, irradia una presenza. La loro mediazione non è solo didattica, ma anche cultuale. Si rivela particolarmente valida in una civiltà delle immagini, qual è la nostra. Ci dona un aiuto prezioso per pregare e ci invita a scoprire il volto di Dio negli uomini, nostri compagni di viaggio.

La preghiera è colloquio di fede e di amore anzitutto con le Persone divine e poi con la Vergine Maria, gli angeli e i santi. In definitiva però è sempre rivolta al Padre, per lodarlo e supplicarlo. Coinvolge tutta la persona del credente, anche il suo corpo. ( La verità vi faraà liberi numeri 965-974)

DIMENSIONI DELLA PREGHIERA

Adorazione

Sono estremamente vari i sentimenti delle persone che pregano e le forme espressive. Ci sono però alcuni atteggiamenti comuni che caratterizzano costantemente la preghiera autentica. L’uomo davanti a Dio avverte innanzitutto la propria povertà di creatura e la propria indegnità di peccatore; trabocca di meraviglia per la sua infinita grandezza e santità. Alla base della preghiera c’è l’adorazione. L’etimologia della parola fa riferimento al gesto di portare la mano alla bocca, per tacere e ascoltare, e al gesto di prostrarsi fino a toccare la terra con la bocca. Adorazione significa dunque umiltà profonda, silenzio pieno di stupore, ascolto attento e obbediente. Verifichiamo se per caso non parliamo troppo nella preghiera. Forse portiamo anche là il nostro protagonismo. Forse dobbiamo tacere e ascoltare di più.

Benedizione

In continuità con l’adorazione si trova la benedizione, modalità tipicamente biblica della preghiera. Benediciamo Dio perché egli per primo ci ha benedetti e ci benedice. La creazione e la storia della salvezza sono una grande benedizione dal principio alla fine, una continua azione benevola di Dio per dare la vita. Bisogna allora benedire il Signore, cioè lodarlo e ringraziarlo; benedirlo in ogni circostanza, anche

dolorosa; benedirlo coinvolgendo anche gli altri. Il Nuovo Testamento conserva cantici e altre formule di benedizione e presenta Gesù stesso nell’atto di benedire il Padre. La benedizione è dunque un movimento ascendente di lode e di ringraziamento per i beni che abbiamo ricevuto; successivamente dà avvio anche a una dinamica discendente, trasformandosi in una supplica perché Dio conceda altri beni a noi e a tutti gli uomini. Tenendo presente questa duplice dinamica della benedizione, possiamo formulare una definizione della preghiera di sapore classico: elevazione della mente a Dio per lodarlo e chiedergli cose convenienti alla salvezza. Possiamo anche vedervi sintetizzate alcune fondamentali dimensioni della preghiera: lode e ringraziamento, domanda e intercessione.

Lode

La lode nasce dalla contemplazione e dalla meraviglia davanti alle opere di Dio e a Dio stesso. Esprime amore disinteressato e gioia. È il culmine a cui tende la preghiera. Non per niente la liturgia conclude ogni salmo con la dossologia: “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo, come era nel principio, e ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen”.

Ringraziamento

Il ringraziamento ha il suo grande motivo nel disegno universale di salvezza che Dio sta attuando per mezzo di Gesù Cristo. Diventa però più vivo e intenso quando facciamo esperienza personale dei benefici divini; diventa più profondo quando in ogni cosa sappiamo vedere un dono di Dio e una possibilità di bene.

Domanda

La preghiera di domanda esprime l’atteggiamento di fede nella concretezza dei nostri bisogni. Non modifica la volontà di Dio, perché egli da sempre la conosce e ne tiene conto. Ci prepara piuttosto a ricevere i doni da lui predisposti. “Egli vuole che nella preghiera si eserciti il nostro desiderio, in modo che diventiamo capaci di ricevere ciò che egli è pronto a darci”. Dobbiamo dunque desiderare seriamente, chiedere con insistenza e pazienza, pronti a cooperare con lui e a fare la sua volontà.“Tutto quello che chiederete con fede nella preghiera, lo otterrete” (Mt 21,22). Con queste parole il Signore non si è impegnato a esaudire tutti i nostri desideri, ma a compiere tutte le sue promesse. Dobbiamo chiedere innanzitutto il regno di Dio, la presenza dello Spirito Santo in noi. Possiamo anche chiedere con semplicità e fiducia qualunque cosa buona, secondo le nostre necessità; ma senza pretese, subordinando il desiderio alla volontà di Dio, lasciandoci condurre per le vie misteriose della Provvidenza. Dio spesso non esaudisce la nostra richiesta concreta; ma ci viene incontro in un modo più alto, come fece con Gesù che fu liberato dalla morte in maniera diversa da come umanamente desiderava. Così veniamo trasformati interiormente; ci conformiamo alla divina volontà di salvezza; riceviamo energie e motivazioni più pure. Questa è la prima efficacia della preghiera. In questo senso è sempre efficace e “rende possibile ciò che è impossibile, facile ciò che è difficile”.

Intercessione

Quando la supplica è fatta a favore degli altri, si chiama intercessione. Dio vuole che ci amiamo e preghiamo gli uni per gli altri. Vuole perfino che preghiamo per i nemici e domandiamo perdono per i loro peccati. A volte ispira ai santi una generosità inaudita, che li porta quasi a dimenticare la propria salvezza. Mosè supplica: “Se tu perdonassi il loro peccato... E se no, cancellami dal tuo libro!” (Es 32,32). San Paolo confida: “Vorrei essere io stesso anàtema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli” (Rm 9,3). Santa Caterina da Siena esclama: “Io non mi partirò dalla tua presenza, finché non vedrò che tu gli faccia misericordia... E che sarebbe per me, se vedessi di avere la vita eterna, e il tuo popolo la morte?”. Recentemente il beato don Orione si colloca sulla stessa linea: “Ponimi, o Signore, sulla bocca dell’inferno perché io, per la misericordia tua, la chiuda”. La carità ci mette in sintonia con la compassione di Dio per tutti gli uomini e con l’intercessione universale di Cristo. “La nostra preghiera è pubblica e comunitaria, e quando preghiamo, preghiamo non per una sola persona, ma per tutto il popolo, perché tutti siamo una cosa sola. Il Dio della pace e maestro della concordia, che ci ha insegnato l’unità, volle che ognuno pregasse per tutti, come in uno egli portò tutti”. A motivo del suo potere sul cuore di Dio, la preghiera di intercessione ha una grande incidenza nella vita della Chiesa e nella storia dell’umanità. Tante persone umili e nascoste, come gli eremiti, le monache di clausura, i malati, sostengono e orientano con la loro preghiera l’azione pastorale dei sacerdoti, dei missionari, dei vescovi e del papa, perché gli apostoli piantano e irrigano, ma Dio fa crescere; influiscono sulle vicende dei popoli e sul corso dei grandi avvenimenti più dei personaggi pubblici che fanno rumore. La preghiera è adorazione, ascolto, lode, ringraziamento, domanda per sé e per gli altri. (La verità vi farà liberi numeri 975-983)

LA FATICA DI PREGARE

Combattimento con Dio

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Chi si giustifica in un modo, chi in un altro: “Non ho tempo”; “Ho cose urgenti da fare”; “Non mi sento bene”. Non sarebbe forse meglio riconoscere lealmente che pregare è faticoso e noi non ne abbiamo voglia? La Bibbia a volte presenta la preghiera come un combattimento con Dio, un impegno difficile. Tradizionalmente i maestri di spiritualità la vedono simboleggiata nel misterioso episodio della lotta di Giacobbe con l’angelo, che si rivela essere addirittura la forma di un’apparizione divina. Giacobbe resiste tenacemente per tutta la notte: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!” (Gen 32,27). Al sorgere del sole ottiene la benedizione e lo lascia andare. Dio si lascia conquistare, ma vuole una fede salda, un desiderio appassionato.Gesù, raccontando le parabole dell’amico importuno e della vedova molesta, raccomanda un’umiltà perseverante, che non si lascia abbattere dalla delusione e dallo scoraggiamento. L’apostolo Paolo vuole che i cristiani siano “perseveranti nella preghiera” (Rm 12,12) e li esorta: “Pregate incessantemente... vigilando... con ogni perseveranza” (Ef 6,18). Purtroppo siamo superficiali e, come osserva il santo Curato d’Ars, “quante volte veniamo in chiesa senza sapere che cosa dobbiamo fare o domandare, mentre ogniqualvolta ci rechiamo da qualcuno sappiamo bene perché ci andiamo!”.

Lotta con se stessi

La preghiera è anche una lotta con noi stessi. Noi spontaneamente siamo più portati all’azione che alla preghiera. L’azione, anche quella apostolica, comporta sempre una certa affermazione di sé. La preghiera invece è ricettività e attesa paziente. Esige perciò abnegazione. A volte il nostro cuore è insensibile ai pensieri spirituali; non riesce a pensare a Dio con amore e consolazione. Questa aridità può derivare da depressione psichica oppure da accidia, tiepidezza, affetti disordinati. Dobbiamo contrastarla rimanendo fedeli agli impegni stabiliti e facendo la volontà di Dio, anche quando non ci sentiamo gratificati. Andiamo facilmente soggetti a distrazioni della mente, per motivi di temperamento, stanchezza, scarso interesse e dissipazione. Dobbiamo evitare quelle volontarie, che offendono Dio, concentrando l’attenzione su di lui e sul senso generale della preghiera, non certo su ogni singola parola, perché sarebbe impossibile. Dobbiamo prevenire, per quanto possiamo, quelle involontarie, perché anch’esse sono dannose. È importante prepararsi con il raccoglimento, scegliere un tempo adatto e un luogo tranquillo, assumere una posizione del corpo dignitosa, calma e conforme al contenuto della preghiera, applicarsi senza fretta, unificare la preghiera con lo studio, il lavoro, gli affetti e gli interessi vitali.

La preghiera è faticosa come un combattimento, perché Dio è nascosto e noi siamo presuntuosi, pigri, superficiali. (La verità vi farà liberi numeri 974-986)

PREGHIERA CONTINUA

Preghiera e opere

Gesù si ritirava spesso a pregare, sospendendo ogni altra occupazione. Terminati quei momenti privilegiati di intimità con il Padre, rimaneva costantemente rivolto a lui nell’amore, faceva in ogni cosa la sua volontà. I tempi dedicati alla preghiera pura, liberi da ogni altra attività, hanno valore in se stessi come attuazione esplicita e consapevole del rapporto di amore con Dio. Consentono inoltre di trasformare in preghiera anche gli altri tempi dedicati alle varie occupazioni. “Pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie” (1Ts 5,17-18). La preghiera è continua, se è continuo l’amore, se in ogni cosa facciamo la volontà di Dio: “Prega sempre colui che unisce la preghiera alle opere che deve fare e le opere alla preghiera... In questo senso si può considerare tutta la vita dell’uomo santo come una grande preghiera; ciò che siamo abituati a chiamare preghiera ne forma solo una parte”.

Alla presenza di Dio

L’unione con Dio non comprende solo gli esercizi di preghiera in senso proprio, ma anche il lavoro, lo studio, i rapporti familiari e sociali, il divertimento e la sofferenza, la vita e la morte. Occorre però evitare la dispersione e orientare tutto al Signore. Abbiamo bisogno di tempi più o meno prolungati di preghiera sincera e intensa, per attingere l’energia necessaria. Abbiamo bisogno di ravvivare spesso durante il giorno l’attenzione al Signore, sia pure per un istante. “È possibile anche al mercato e durante una passeggiata solitaria fare una frequente e fervorosa preghiera. È possibile anche nel vostro negozio, sia mentre comprate sia mentre vendete, e anche mentre cucinate”. Per rispondere a questa esigenza, gli antichi Padri hanno inventato la pratica delle giaculatorie, formule brevi e semplici, da ripetere

frequentemente. Sono assai utili, purché corrispondano al vissuto concreto, rimangano fresche e ferventi, non scadano nell’automatismo dell’abitudine. Orientati a Dio dagli esercizi di preghiera e dai frequenti richiami dell’attenzione, possiamo vivere alla sua presenza con sempre maggiore continuità. Dio è in ogni persona, in ogni cosa, in ogni evento lieto o triste, ordinario o straordinario. Tutto è voluto o almeno permesso da lui. Tutto viene offerto a noi come un dono e una possibilità di bene. Se sappiamo riconoscere la sua presenza e accogliere la sua volontà, se facciamo ogni cosa nel modo migliore, con prontezza e pace interiore, la nostra vita diventa un dialogo permanente, una preghiera continua. “Per me la preghiera è uno slancio del cuore, un semplice sguardo gettato verso il cielo, un grido di gratitudine e di amore nella prova come nella gioia” . “Cantate con la voce, cantate con il cuore, cantate con la bocca, cantate con la vostra condotta santa .Cantate al Signore un canto nuovo...Siate voi stessi quella lode che si deve dire; e sarete la sua lode, se vivrete bene” . (La verità vi farà liberi numeri 987-990)

MOLTEPLICI ESPERIENZE

Le forme della preghiera vocale

La preghiera vocale è quella in cui l’adesione del cuore viene espressa simbolicamente all’esterno mediante parole, gesti e riti. Si distingue in preghiera liturgica, comunitaria e privata.

La preghiera liturgica è compiuta, seguendo formule e riti ufficiali, da un ministro o da un’assemblea che rappresenta legittimamente e manifesta la Chiesa universale. Comprende la Messa, la celebrazione dei sacramenti, la liturgia delle ore, le benedizioni. È la preghiera di più alto valore, perché attualizza e comunica l’azione salvifica di Dio nel mondo mediante Cristo nello Spirito. La preghiera comunitaria non ufficiale si attua in forme e pratiche molto varie: adorazione eucaristica, via crucis, rosario, celebrazioni della Parola, processioni... Le prime tre pratiche possono essere compiute anche individualmente in privato. Un’attenzione particolare merita il rosario. Unisce la recitazione del “Padre nostro”, delle “Ave Maria” e del “Gloria” alla meditazione degli eventi salvifici. “Se il rosario non è preghiera contemplativa, è un corpo senz’anima, un cadavere”. Mentre rivolgiamo a Maria la lode con il saluto “Ave Maria” e l’invocazione con la formula “Santa Maria”, insieme con lei siamo rivolti a Gesù, motivo della lode e fondamento dell’invocazione, riviviamo con lei i misteri salvifici del suo Figlio e li meditiamo nel nostro cuore. Nello stesso tempo possiamo insieme con lei chiedere l’intervento del Signore per una necessità particolare. Così questa preghiera vive di una triplice attenzione: a Maria, a Cristo, alle attuali necessità degli uomini. La preghiera privata non ha bisogno di formule prestabilite come quella liturgica e comunitaria. Può esprimersi con spontaneità, con il vantaggio di una maggiore aderenza alla situazione personale. Se impiega formule fisse, deve calarle nel vissuto concreto. Questa attualizzazione è facile, perché i testi sono sempre di intonazione generale.

Preghiera mentale

A differenza della preghiera vocale nelle sue varie forme, la preghiera mentale non si esprime all’esterno con un linguaggio articolato. Si compie nel mondo interiore dell’intelligenza, della volontà e del sentimento: “Non è altro che un intimo rapporto di amicizia, un frequente intrattenimento da solo a solo con Colui da cui sappiamo di essere amati”. Possiamo distinguere in essa la meditazione, l’orazione di raccoglimento, la contemplazione mistica.

Meditazione

La meditazione consiste nel riflettere su qualche verità della fede, er crederla con più convinzione, amarla come un valore attraente e concreto, praticarla con l’aiuto

dello Spirito Santo. Si tratta di una “conoscenza amorosa”. Implica riflessione, amore e proposito pratico. Il suo valore sta “non nel molto pensare, ma nel molto amare”.I metodi possono essere quanto mai diversi. Si può meditare recitando adagio il “Padre nostro”, ripetendo lentamente una frase biblica, guardando con devozione un’immagine sacra. Di solito ci si aiuta con la lettura di un passo biblico, di un testo liturgico o di un libro di spiritualità. Eccone una esemplificazione per una durata di almeno mezz’ora: mettersi alla presenza di Dio, coinvolgendo anche il corpo in posizione adatta; invocare lo Spirito Santo maestro interiore della preghiera; leggere un testo breve; considerare il contenuto, il suo valore, le sue motivazioni; rivedere alla sua luce la propria vita, le carenze, gli ostacoli e le possibilità; dialogare con il Signore,

esprimendo affetti e propositi; condensare l’impegno preso o il senso centrale dell’esercizio svolto in una giaculatoria o comunque in una formula breve, da ricordare e vivere durante il giorno.

I metodi orientali di meditazione possono offrire un’utile preparazione alla meditazione cristiana. L’ambiente silenzioso, la posizione rilassata del corpo, gli esercizi di respirazione e di consapevolezza producono concentrazione e pacificazione, perciò favoriscono il raccoglimento alla presenza di Dio. Le due esperienze spirituali sono però estremamente diverse e per certi aspetti opposte tra loro. La meditazione orientale vuol essere una conquista solitaria, tende a uscire da ogni molteplicità fenomenica, a fare il vuoto di ogni pensiero, a raggiungere l’identificazione conoscitiva dell’io con il Tutto assoluto. La meditazione cristiana vuol essere un dialogo con Dio sostenuto dalla sua grazia, valorizza le mediazioni create, mira alla comunione di amore con il Signore e alla cooperazione per la crescita del suo regno nella storia.

Orazione di raccoglimento

Con l’andar del tempo l’esercizio della meditazione si semplifica, il cuore prevale sulla riflessione. Si arriva gradualmente all’orazione di raccoglimento. Ci si libera da immagini e pensieri particolari, da ricordi, preoccupazioni e progetti. Si rivolge una semplice attenzione amorosa a Dio, a Gesù Cristo, a qualche sua perfezione, a qualche evento salvifico. Si rimane in atteggiamento di amore silenzioso davanti al Signore presente nel nostro intimo. Ci si lascia trasformare dal suo Spirito, che può causare consolazione o desolazione, ma senz’altro purifica e fortifica nella carità. Quando il fervore di questa esperienza si attenua, è bene ritornare alla meditazione discorsiva o alla preghiera vocale.

Contemplazione mistica

Non l’impegno personale, ma l’azione dello Spirito Santo introduce nella contemplazione mistica, un’esperienza di Dio senza concetti, senza immagini e senza parole. L’uomo non può né raggiungerla né farla durare a volontà; può solo prepararsi a riceverla. Questo dono ineffabile comporta nelle cosiddette “notti mistiche” la dolorosa impressione di essere abbandonati da Dio. Altrimenti implica l’intuizione diretta e indubitabile della presenza delle persone divine e dell’unione di amore con esse, con una gioia “superiore a tutti i beni e le soddisfazioni del mondo presi insieme” . L’esperienza mistica può essere accompagnata da vari fenomeni paranormali. Si tratta di fenomeni conoscitivi: rivelazioni, visioni, locuzioni, profezie, chiaroveggenza, scienza infusa; oppure di fenomeni psicosomatici: estasi, levitazioni, bilocazioni, stigmate, luminosità, profumo, inedia. Questi fatti, sebbene attirino l’attenzione e destino meraviglia, hanno un valore secondario, non paragonabile alla sublimità della vita divina e della contemplazione infusa. È difficile classificare la grande varietà delle esperienze di preghiera. Possiamo distinguere la preghiera vocale e la preghiera mentale. Nell’ambito della prima individuiamo la preghiera liturgica, quella comunitaria non ufficiale e quella privata; nell’ambito della seconda la meditazione, l’orazione di raccoglimento, la contemplazione mistica. (La verità vi farà liberi numeri 991-1000)

IL “PADRE NOSTRO”

“Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: "Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli"” (Lc 11,1 ). E' in risposta a questa domanda che il Signore affida ai suoi discepoli e alla sua Chiesa la preghiera cristiana fondamentale. San Luca ne dà un testo breve (di cinque richieste), [CfLc 11,2-4 ] san Matteo una versione più ampia (di sette richieste) [Cf Mt 6,9-13 ]. La tradizione liturgica della Chiesa ha sempre usato il testo di san Matteo:

Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo Nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua Volontà

come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal Male.

Ben presto l'uso liturgico ha concluso la Preghiera del Signore con una dossologia. Nella Didaché:

“Perché tuo è il potere e la gloria nei secoli” [Didaché, 8, 2]. Le Costituzioni apostoliche, aggiungono all'inizio della dossologia: “il regno”; [Costituzioni Apostoliche, 7, 24, 1] ed è questa la formula usata ai nostri giorni nella preghiera ecumenica. La tradizione bizantina aggiunge dopo “la gloria”: “Padre, Figlio e Spirito Santo”. Il Messale romano sviluppa l'ultima domanda [Cf Embolismo ] nella prospettiva esplicita della “attesa della beata speranza” ( Tt 2,13) e della Venuta del Signore nostro Gesù Cristo; segue l'acclamazione dell'assemblea, che riprende la dossologia delle Costituzioni apostoliche. ( CCC n. 2759- 2760)

“LA SINTESI DI TUTTO IL VANGELO”

“L'Orazione domenicale è veramente la sintesi di tutto il Vangelo” [Tertulliano, De oratione, 1]. “Dopo che il Signore ci ebbe trasmesso questa formula di preghiera, aggiunse: "Chiedete e vi sarà dato" ( Lc 11,9 ). Ognuno può, dunque, innalzare al cielo preghiere diverse secondo i suoi propri bisogni, però incominciando sempre con la Preghiera del Signore, la quale resta la preghiera fondamentale” [Tertulliano, De oratione, 10].

Al centro delle Scritture

Dopo aver mostrato come i Salmi siano il principale alimento della preghiera cristiana e confluiscano nelle richieste del Padre nostro, sant'Agostino conclude:

Se passi in rassegna tutte le parole delle preghiere contenute nella Sacra Scrittura, per quanto io penso, non ne troverai una che non sia contenuta e compendiata in questa preghiera insegnataci dal Signore [Sant'Agostino, Epistulae, 130, 12, 22: PL 33, 502]. Tutte le Scritture (la Legge, i Profeti e i Salmi) sono compiute in Cristo [Cf Lc 24,44 ]. Il Vangelo è questa “Lieta notizia”. Il suo primo annunzio è riassunto da san Matteo nel Discorso della montagna [Cf Mt 5-7 ]. Ebbene, la preghiera del Padre nostro è al centro di questo annuncio. E' in questo contesto che si illumina ogni domanda della preghiera che ci ha lasciato il Signore: La preghiera del Pater Noster è perfettissima. . . Nella Preghiera del Signore non solo vengono domandate tutte le cose che possiamo rettamente desiderare, ma anche nell'ordine in cui devono essere desiderate: cosicché questa preghiera non solo insegna a chiedere, ma plasma anche tutti i nostri affetti [San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae II-II, 83, 9]. Il Discorso della montagna è dottrina di vita, l'Orazione domenicale è preghiera, ma nell'uno e nell'altra lo Spirito del Signore dà una nuova forma ai nostri desideri, a questi moti interiori che animano la nostra vita. Gesù ci insegna la vita nuova con le sue parole e ci educa a chiederla mediante la preghiera. Dalla rettitudine della nostra preghiera dipenderà quella della nostra vita in lui.

“La Preghiera del Signore”

L'espressione tradizionale “Orazione domenicale” [cioè “preghiera del Signore”] significa che la preghiera al Padre nostro ci è insegnata e donata dal Signore Gesù. Questa preghiera che ci viene da Gesù è veramente unica: è “del Signore”. Da una parte, infatti, con le parole di questa preghiera, il Figlio Unigenito ci dà le parole che il Padre ha dato a lui: [Cf Gv 17,7 ] è il Maestro della nostra preghiera. Dall'altra, Verbo incarnato, egli conosce nel suo cuore di uomo i bisogni dei suoi fratelli e delle sue sorelle di umanità, e ce li manifesta: è il Modello della nostra preghiera. Ma Gesù non ci lascia una formula da ripetere meccanicamente [Cf M - MT.6.7 Mt 6,7; 1Re 18,26-29 ]. Come per qualsiasi preghiera vocale, è attraverso la Parola di Dio che lo Spirito Santo insegna ai figli di Dio a pregare il loro Padre. Gesù non ci dà soltanto le parole della nostra preghiera filiale: ci dà al tempo stesso lo Spirito, per mezzo del quale quelle parole diventano in noi “spirito e vita” (Gv 6,63 ). Di più: la prova e la possibilità della nostra preghiera filiale è che il Padre “ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!” (Gal 4,6 ). Poiché la nostra preghiera interpreta i nostri desideri presso Dio, è ancora “colui che scruta i cuori”, il Padre, che “sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i desideri di Dio” (Rm 8,27 ). La preghiera al Padre nostro si inserisce nella missione misteriosa del Figlio e dello Spirito.

La preghiera della Chiesa

Questo dono inscindibile, delle parole del Signore e dello Spirito Santo che le vivifica nel cuore dei credenti, è stato ricevuto e vissuto dalla Chiesa fin dalle origini. Le prime comunità pregano la Preghiera del Signore “tre volte al giorno”, [Cf Didaché 8, 3] in luogo delle “Diciotto benedizioni” in uso nella pietà ebraica. Secondo la Tradizione apostolica, la Preghiera del Signore è essenzialmente radicata nella preghiera liturgica:

Il Signore ci insegna a pregare insieme per tutti i nostri fratelli. Infatti egli non dice Padre “mio” che sei nei cieli, ma Padre “nostro”, affinché la nostra preghiera salga, da un cuore solo, per tutto il Corpo della Chiesa [San Giovanni Crisostomo, Homilia in Matthaeum, 19, 4: PG 57, 278D].

In tutte le tradizioni liturgiche la Preghiera del Signore è parte integrante delle Ore maggiori dell'Ufficio divino. Ma il suo carattere ecclesiale appare in tutta evidenza particolarmente nei tre sacramenti dell'iniziazione cristiana.

Nel Battesimo e nella Confermazione la consegna [“traditio”] della Preghiera del Signore significa la nuova nascita alla vita divina. Poiché la preghiera cristiana è parlare a Dio con la Parola stessa di Dio, coloro che sono stati “rigenerati. . . dalla Parola di Dio viva ed eterna” (1Pt 1,23 ) imparano ad invocare il loro Padre con la sola Parola che egli sempre esaudisce. Ed ormai lo possono, perché il sigillo dell'Unzione dello Spirito Santo è impresso, indelebile, sul loro cuore, sulle loro orecchie, sulle loro labbra, su tutto il loro essere filiale. Per questo la maggior parte dei commenti patristici del Padre nostro sono destinati ai catecumeni e ai neofiti. Quando la Chiesa prega la Preghiera del Signore, è sempre il Popolo dei “ri-nati” che prega e ottiene misericordia [Cf 1Pt 2,1-10 ]. Nella Liturgia eucaristica la Preghiera del Signore appare come la preghiera di tutta la Chiesa. E' lì che si rivela il suo pieno senso e la sua efficacia. Posta tra l'Anafora (Preghiera eucaristica) e la Liturgia della Comunione, essa da un lato ricapitola tutte le domande e le intercessioni espresse lungo lo sviluppo dell'Epiclesi, e, dall'altro, bussa alla porta del Banchetto del Regno, di cui la Comunione sacramentale è un anticipo. Nell'Eucaristia, la Preghiera del Signore manifesta anche il carattere escatologico delle proprie domande. Essa è la preghiera tipica degli “ultimi tempi”, i tempi della salvezza, che sono cominciati con l'effusione dello Spirito Santo e che si compiranno con il Ritorno del Signore. Le domande al Padre nostro,

a differenza delle preghiere dell'Antica Alleanza, si fondano sul mistero della salvezza già realizzato, una volta per tutte, in Cristo crocifisso e risorto. Da questa fede incrollabile sgorga la speranza che anima ognuna delle sette domande. Esse esprimono i gemiti del tempo presente, di questo tempo della pazienza e dell'attesa, in cui “ciò che noi saremo non è stato ancora rivelato” (1Gv 3,2 ) [Col 3,4 ] ). L'Eucaristia e il Pater sono protesi verso la venuta del Signore, “finché egli venga!” (1Cor 11,26) (CCC 2761- 2772)

“PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI”

“Osare avvicinarci in piena confidenza” Nella Liturgia romana l'assemblea eucaristica è invitata a pregare il Padre nostro con filiale

audacia; le Liturgie orientali utilizzano e sviluppano espressioni analoghe: “Osare con tutta sicurezza”, “Rendici degni di”. Davanti al roveto ardente fu detto a Mosè: “Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi” ( Es 3,5 ). Solo Gesù poteva superare la soglia della Santità divina: è lui che avendo “compiuto la purificazione dei peccati” (Eb 1,3 ), ci introduce davanti al Volto del Padre: “Eccoci, io e i figli che Dio mi ha dato” (Eb 2,13 ):

La consapevolezza che abbiamo della nostra condizione di schiavi ci farebbe sprofondare sotto terra, il nostro essere di terra si scioglierebbe in polvere se l'autorità dello stesso nostro Padre e lo Spirito del Figlio suo non ci spingessero a proferire questo grido: “Abbà, Padre!” ( Rm 8,15 )... Quando la debolezza di un mortale oserebbe chiamare Dio suo Padre, se non soltanto allorché l'intimo dell'uomo è animato dalla potenza dall'alto? [San Pietro Crisologo, Sermones, 71: PL 52, 401CD] Questa potenza dello Spirito che ci introduce alla Preghiera del Signore è indicata nelle Liturgie d'Oriente e di Occidente con una felice espressione tipicamente cristiana: “parresìa”, vale a dire semplicità schietta, fiducia filiale, gioiosa sicurezza, umile audacia, certezza di essere amati [Cf Ef 3,12; Eb 3,6; Eb 4,16; Eb 10,19; 1Gv 2,28; 2778 1Gv 3,21; 1Gv 5,14 ].

“Padre!”

Prima di fare nostro questo slancio iniziale della Preghiera del Signore, non è superfluo purificare umilmente il nostro cuore da certe false immagini di “questo mondo”. L' umiltà ci fa riconoscere che “nessuno conosce il Padre, se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”, cioè “ai piccoli” (Mt 11,25-27 ). La purificazione del cuore concerne le immagini paterne e materne, quali si sono configurate nella nostra storia personale e culturale, e che influiscono sulla nostra relazione con Dio. Dio, nostro Padre, trascende le categorie del mondo creato. Trasporre su di lui, o contro di lui, le nostre idee in questo campo, equivarrebbe a fabbricare idoli da adorare o da abbattere. Pregare il Padre è entrare nel suo mistero, quale egli è, e quale il Figlio ce lo ha rivelato:

L'espressione Dio-Padre non era mai stata rivelata a nessuno. Quando lo stesso Mosè chiese a Dio chi fosse, si sentì rispondere un altro nome. A noi questo nome è stato rivelato nel Figlio: questo nome, infatti, implica il nuovo nome di Padre [Tertulliano, De oratione, 3]. Possiamo invocare Dio come “Padre” perché ci è rivelato dal Figlio suo fatto uomo e perché il suo Spirito ce lo fa conoscere. Ciò che l'uomo non può concepire, né le potenze angeliche intravvedere, cioè la relazione personale del Figlio nei confronti del Padre, [Cf Gv 1,1 ] ecco che lo Spirito del Figlio lo comunica a noi, a noi che crediamo che Gesù è il Cristo e che siamo nati da Dio [Cf 1Gv 5,1 ]. Quando preghiamo il Padre, siamo in comunione con lui e con il Figlio suo Gesù Cristo [Cf 1Gv 1,3 ]. E' allora che lo conosciamo e lo riconosciamo in uno stupore sempre nuovo. La prima parola della Preghiera del Signore è una benedizione di adorazione, prima di essere un'implorazione. Questa è infatti la Gloria di Dio: che noi lo riconosciamo come “Padre”, Dio vero. Gli rendiamo grazie per averci rivelato il suo Nome, di averci fatto il dono di credere in esso e di essere inabitati dalla sua Presenza. Possiamo adorare il Padre perché egli ci ha fatti rinascere alla sua vita adottandoci come suoi figli nel suo Figlio unigenito: per mezzo del Battesimo, ci incorpora al Corpo del suo Cristo, e, per mezzo dell'Unzione del suo Spirito che scende dal Capo nelle membra, fa di noi dei “cristi” (unti):

In realtà, Dio che ci ha predestinati all'adozione di figli, ci ha resi conformi al Corpo glorioso di Cristo. Ormai divenuti partecipi di Cristo, siete naturalmente chiamati “cristi” [San Cirillo di Gerusalemme, Catecheses mistagogicae, 3, 1: PG 33, 1088A].

L'uomo nuovo, che è rinato e restituito, mediante la grazia, al suo Dio, dice innanzitutto: “Padre”, perché è diventato figlio [San Cipriano di Cartagine, De oratione dominica, 9: PL 4, 525A]. In tal modo, attraverso la Preghiera del Signore, noi siamo rivelati a noi stessi, mentre ci viene rivelato il Padre [Cf Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22].

O uomo, tu non osavi levare il tuo volto verso il cielo, rivolgevi i tuoi occhi verso terra, e, ad un tratto, hai ricevuto la grazia di Cristo: ti sono stati rimessi tutti i tuoi peccati. Da servo malvagio sei diventato un figlio buono. . . Leva, dunque, gli occhi tuoi al Padre. . . che ti ha redento per mezzo del Figlio e di': Padre nostro!. .. Ma non rivendicare per te un rapporto particolare. Del solo Cristo è Padre in modo speciale, per noi tutti è Padre in comune, perché ha generato lui solo, noi, invece, ci ha creati. Di' anche tu per grazia: Padre nostro, per meritare di essere suo figlio [Sant'Ambrogio, De sacramentis, 5, 19: PL 16, 450C].

Questo dono gratuito dell'adozione esige da parte nostra una conversione continua e una vita nuova. Pregare il Padre nostro deve sviluppare in noi due disposizioni fondamentali: il desiderio e la volontà di somigliargli. Creati a sua immagine, per grazia ci è restituita la somiglianza e noi dobbiamo corrispondervi.

Bisogna che, quando chiamiamo Dio “Padre nostro”, ci ricordiamo del dovere di comportarci come figli di Dio [San Cipriano di Cartagine, De oratione dominica, 11: PL 4, 526B].

Non potete chiamare vostro Padre il Dio di ogni bontà, se conservate un cuore crudele e disumano; in tal caso, infatti, non avete più in voi l'impronta della bontà del Padre celeste [San Giovanni Crisostomo, Homilia in illud “Angusta est porta” et de oratione Domini: PG 51, 44B].

E' necessario contemplare incessantemente la bellezza del Padre e impregnarne l'anima [San Gregorio di Nissa, Homiliae in orationem dominicam, 2: PG 44, 1148B]. Un cuore umile e confidente che ci faccia “diventare come bambini” (Mt 18,3 ): infatti è ai “piccoli” che il Padre si rivela (Mt 11,25 ). E' uno sguardo su Dio solo, un grande fuoco d'amore. L'anima allora sprofonda e s'innalza nella carità e tratta con Dio come con il proprio Padre, in una tenerezza specialissima di pietà [San Giovanni Cassiano, Collationes, 9, 18: PL 49, 788C].

Padre nostro: questo nome suscita in noi, contemporaneamente, l'amore, il fervore nella preghiera, . . . ed anche la speranza di ottenere ciò che stiamo per chiedere. . . Che cosa infatti può Dio negare alla preghiera dei suoi figli, dal momento che ha loro concesso, prima di tutto, di essere suoi figli? [Sant'Agostino, De sermone Domini in monte, 2, 4, 16: PL 34, 1276]

Padre “nostro”

Padre “nostro” è riferito a Dio. L'aggettivo, per quel che ci riguarda, non esprime un possesso, ma una relazione con Dio totalmente nuova. Quando diciamo Padre “nostro” riconosciamo anzitutto che tutte le sue Promesse d'amore annunziate dai Profeti sono compiute nella nuova ed eterna Alleanza nel suo Cristo: noi siamo diventati il “suo” Popolo ed egli è ormai il “nostro” Dio. Questa nuova relazione è un'appartenenza reciproca donata gratuitamente: è con l'amore e la fedeltà [Cf Os 2,21-22; Os 6,1-6 ] che dobbiamo rispondere alla “grazia” e alla “verità” che ci sono date in Gesù Cristo (Gv 1,17). Poiché la Preghiera del Signore è quella del suo Popolo negli “ultimi tempi”, questo “nostro” esprime anche la nostra speranza nell'ultima promessa di Dio: nella nuova Gerusalemme egli dirà del vincitore: “Io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio” (Ap 21,7).

Pregando il Padre “nostro” ci rivolgiamo personalmente al Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Non dividiamo la divinità, poiché il Padre ne è “la sorgente e l'origine”, ma confessiamo in tal modo che il Figlio è eternamente generato da lui e che da lui procede lo Spirito Santo. Non confondiamo neppure le Persone, perché confessiamo che la nostra comunione è con il Padre e il Figlio suo, Gesù Cristo, nel loro unico Santo Spirito. La Santissima Trinità è consustanziale e indivisibile. Quando preghiamo il Padre, Lo adoriamo e Lo glorifichiamo con il Figlio e lo Spirito Santo.

Grammaticalmente, “nostro” qualifica una realtà comune a più persone. Non c'è che un solo Dio ed è riconosciuto Padre da coloro che, mediante la fede nel suo Figlio unigenito, da lui sono rinati mediante l'acqua e lo Spirito [Cf 1Gv 5,1; Gv 3,5 ]. La Chiesa è questa nuova comunione di Dio e degli uomini: unita al Figlio unico diventato “il primogenito di molti fratelli” (Rm 8,29 ), essa è in comunione con un solo e medesimo Padre, in un solo e medesimo Spirito Santo [Cf Ef 4,4-6 ]. Pregando il “Padre nostro”, ogni battezzato prega in questa comunione: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuor solo e un'anima sola” (At 4,32 ). Per questo, nonostante le divisioni dei cristiani, la preghiera al Padre “nostro” rimane il bene comune e un appello urgente per tutti i battezzati. In comunione con Cristo mediante la fede e il Battesimo, essi devono partecipare alla preghiera di Gesù per l'unità dei suoi discepoli [Cf Conc. Ecum. Vat. II, Unitatis redintegratio, 8; 22]. Infine, se preghiamo in verità il “Padre nostro”, usciamo dall'individualismo, perché ne siamo liberati dall'Amore che accogliamo. Il “nostro” dell'inizio della Preghiera del Signore, come il “noi” delle ultime quattro domande, non esclude nessuno. Perché sia detto in verità, [Cf Mt 5,23-24; 2792 Mt 6,14-16 ] le nostre divisioni e i nostri antagonismi devono essere superati. I battezzati non possono pregare il Padre “nostro” senza portare davanti a lui tutti coloro per i quali egli ha dato il Figlio suo diletto. L'amore di Dio è senza frontiere, anche la nostra preghiera deve esserlo [Cf Conc. Ecum. Vat. II, Nostra aetate, 5]. Pregare il Padre “nostro” ci apre alle dimensioni del suo amore, manifestato in Cristo: pregare con e per tutti gli uomini che ancora non Lo conoscono, affinché siano riuniti in unità [Cf Gv 11,52 ]. Questa sollecitudine divina per tutti gli uomini e per l'intera creazione ha animato tutti i grandi oranti: deve dilatare la nostra preghiera agli spazi immensi dell'amore, quando osiamo dire: Padre “nostro”.

“Che sei nei cieli”

Questa espressione biblica non significa un luogo [“lo spazio”], bensì un modo di essere; non la lontananza di Dio ma la sua maestà. Il nostro Padre non è “altrove”: egli è “al di là di tutto” ciò che possiamo concepire della sua Santità. Proprio perché è tre volte Santo, egli è vicinissimo al cuore umile e contrito:

Ben a ragione queste parole “Padre nostro che sei nei cieli” si intendono riferite al cuore dei giusti, dove Dio abita come nel suo tempio. Pertanto colui che prega desidererà che in lui prenda dimora colui che invoca [Sant'Agostino, De Sermone Domini in monte, 2, 5, 17: PL 34, 1277].

I “cieli” potrebbero essere anche coloro che portano l'immagine del cielo tra i quali Dio abita e si muove [San Cirillo di Gerusalemme, Catecheses mistagogicae, 5, 11: PG 33. 1117B]. Il simbolo dei cieli ci rimanda al mistero dell'Alleanza che viviamo quando preghiamo il Padre nostro. Egli è nei cieli: questa è la sua Dimora; la Casa del Padre è dunque la nostra “patria”. Il peccato ci ha esiliati dalla terra dell'Alleanza [Cf Gen 3 ] ed è verso il Padre, verso il cielo, che ci fa tornare la conversione del cuore [Cf Ger 3,19-4,1 a; Lc 15,18; 2795 Lc 15,21 ]. Ora, è in Cristo che il cielo e la terra sono riconciliati, [Cf Is 45,8; Sal 85,12 ] perché il Figlio “è disceso dal cielo”, da solo, e al cielo fa tornare noi insieme con lui, per mezzo della sua croce, della sua Risurrezione e della sua Ascensione [Cf Gv 12,32; Gv 14,2-3; Gv 16,28; 2795 Gv 20,17; Ef 4,9-10; Eb 1,3; Eb 2,13 ].

Quando la Chiesa prega “Padre nostro che sei nei cieli”, professa che siamo il Popolo di Dio, già “fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù” (Ef 2,6 ), nascosti “con Cristo in Dio” (Col 3,3 ), mentre, al tempo stesso, “sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste” (2Cor 5,2 ) [Cf Fil 3,20; Eb 13,14 ].

I cristiani sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Passano la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo [Lettera a Diogneto, 5, 8-9]. (CCC 2777- 2796)

LE SETTE DOMANDE

Dopo averci messo alla presenza di Dio nostro Padre per adorarlo, amarlo, benedirlo, lo Spirito filiale fa salire dai nostri cuori sette domande, sette benedizioni. Le prime tre, più teologali, ci attirano verso la gloria del Padre, le ultime quattro, come altrettante vie verso di lui, offrono alla sua grazia la nostra miseria. “L'abisso chiama l'abisso” ( Sal 42,8 ). Il primo gruppo di domande ci porta verso di lui, a lui: il tuo Nome, il tuo Regno, la tua volontà. E' proprio dell'amore pensare innanzi tutto a colui che si ama. In ognuna di queste tre petizioni noi non “ci” nominiamo, ma siamo presi dal “desiderio ardente”, dall'“angoscia” stessa del Figlio diletto per la gloria del Padre suo: [Cf Lc 22,14; Lc 12,50 ] “Sia santificato. . . Venga. . . Sia fatta. . . ”: queste tre suppliche sono già esaudite nel Sacrificio di Cristo Salvatore, ma sono ora rivolte, nella speranza, verso il compimento finale, in quanto Dio non è ancora tutto in tutti [Cf 1Cor 15,28 ]. Il secondo gruppo di domande si snoda con il movimento di certe Epiclesi eucaristiche: è offerta delle nostre attese e attira lo sguardo del Padre delle misericordie. Sale da noi e ci riguarda, adesso, in questo mondo: “dacci . . . rimetti a noi . . . non ci indurre. . . liberaci ”. La quarta e la quinta domanda riguardano la nostra vita in quanto tale, sia per sostenerla con il nutrimento, sia per guarirla dal peccato; le ultime due riguardano il nostro combattimento per la vittoria della Vita, lo stesso combattimento della preghiera. Attraverso le prime tre domande veniamo rafforzati nella fede, colmati di speranza e infiammati di carità. Creature e ancora peccatori, dobbiamo supplicare per noi, questo “noi” a misura del mondo e della storia, che offriamo all'amore senza misura del nostro Dio. Infatti è per mezzo del Nome del suo Cristo e mediante il Regno del suo Santo Spirito che il Padre nostro realizza il suo Disegno di salvezza per noi e per il mondo intero.

Sia santificato il tuo Nome

Il termine “santificare” qui va inteso non già nel suo senso causativo (Dio solo santifica, rende santo), ma piuttosto nel suo senso estimativo: riconoscere come santo, trattare in una maniera santa. Per questo, nell'adorazione, tale invocazione talvolta è sentita come una lode e un'azione di grazie [Cf Sal 111,9; Lc 1,49 ]. Ma questa petizione ci è insegnata da Gesù come un ottativo: una domanda, un desiderio e un'attesa in cui sono impegnati Dio e l'uomo. Fin dalla prima domanda al Padre nostro, siamo immersi nell'intimo mistero della sua Divinità e nel dramma della salvezza della nostra umanità. Chiedergli che il suo Nome sia santificato ci coinvolge nel Disegno che [egli] “nella sua benevolenza aveva. . . prestabilito”, “per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità” [Cf Ef 1,9; Ef 1,4 ]. Nei momenti decisivi della sua Economia, Dio rivela il suo Nome, ma lo rivela compiendo la sua opera. Questa però si realizza per noi e in noi solo se il suo Nome da noi e in noi è santificato. La Santità di Dio è il centro inaccessibile del suo mistero eterno. Ciò che di esso è manifestato nella creazione e nella storia, dalla Scrittura viene chiamato la Gloria, l'irradiazione della sua maestà [Cf Sal 8; Is 6,3 ]. Creando l'uomo “a sua immagine e somiglianza” (Gen 1,26 ), Dio lo corona “di gloria” (Sal 8,6 ), ma l'uomo, peccando, viene privato “della Gloria di Dio” (Rm 3,23). Da allora, Dio manifesta la propria Santità rivelando e donando il proprio Nome per restaurare l'uomo “a immagine del suo Creatore” (Col 3,10 ). Nella promessa fatta ad Abramo e nel giuramento che l'accompagna, [Cf Eb 6,13 ] Dio si impegna personalmente ma senza svelare il proprio Nome. Incomincia a rivelarlo a Mosè [Cf Es 3,14 ] e lo manifesta agli occhi di tutto il popolo salvandolo dagli Egiziani: si è coperto di Gloria [Cf Es 15,1 ]. Dopo l'Alleanza del Sinai, questo popolo è il “suo” e deve essere una “nazione santa”, [O consacrata; nella lingua ebraica la parola è la medesima: cf Es 19,5-6 ] perché il Nome di Dio abita in mezzo ad essa. Ma, nonostante la Legge santa che il Dio Santo gli dà e torna a dargli: (Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo”: Lv 19,2 ) e benché il Signore, “per riguardo al suo Nome”, usi pazienza, il popolo si allontana dal Santo d'Israele e profana il suo Nome in mezzo alle nazioni [Cf Ez 20; Ez 36 ]. Per questo i giusti dell'Antica Alleanza, i poveri tornati dall'esilio e i profeti sono stati infiammati dalla passione per il Nome. Infine, è in Gesù che il Nome del Dio Santo ci viene rivelato e donato, nella carne, come Salvatore: [Cf Mt 1,21; Lc 1,31 ] rivelato da ciò che egli E', dalla sua Parola e dal suo Sacrificio [Cf Gv 8,28; Gv 17,8; Gv 17,17-19 ]. E' il cuore della sua preghiera sacerdotale: “Padre santo. . . per loro io consacro me stesso; perché siano anch'essi consacrati nella verità” (Gv 17,19 ). E' perché egli stesso “santifica” il suo Nome [Cf Ez 20,39; Ez 36,20-21 ] che Gesù ci fa conoscere il Nome del Padre [Cf Gv 17,6 ]. Compiuta la sua Pasqua, il Padre gli dà “il Nome che è al di sopra di ogni altro nome”: Gesù “è il Signore a gloria di Dio Padre” (Fil 2,9-11 ). Nell'acqua del Battesimo siamo stati “lavati. . . santificati. . . giustificati nel Nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio” (1Cor 6,11 ). Lungo tutta la nostra vita il Padre nostro ci chiama “alla santificazione” (1Ts 4,7 ), e, poiché è per lui che noi siamo “in Cristo Gesù, il quale. . . è diventato per noi santificazione” (1Cor 1,30 ), ne va della sua Gloria e della nostra vita che il suo Nome sia santificato in noi e da noi. Sta qui l'urgenza della nostra prima domanda.

Chi potrebbe santificare Dio, giacché è lui che santifica? Ma traendo ispirazione da queste parole: “Sarete santi. . . poiché io, il Signore, sono santo” (Lv 20,26 ), noi chiediamo che, santificati dal Battesimo, possiamo perseverare in ciò che abbiamo incominciato ad essere. E lo chiediamo ogni giorno, perché ogni

giorno ci lasciamo sedurre dal male, e perciò dobbiamo purificarci dai nostri peccati con una purificazione incessantemente ricominciata. . . Ricorriamo, dunque, alla preghiera perché la santità dimori in noi [San Cipriano di Cartagine, De oratione dominica, 12: PL 4, 526A-527A]. Dipende inseparabilmente dalla nostra vita e dalla nostra preghiera che il suo Nome sia santificato tra le nazioni:

Chiediamo a Dio di santificare il suo Nome, perché è mediante la santità che egli salva e santifica tutta la creazione. . . Si tratta del Nome che dà la salvezza al mondo perduto, ma domandiamo che il Nome di Dio sia santificato in noi dalla nostra vita. Infatti, se viviamo con rettitudine, il Nome divino è benedetto; ma se viviamo nella disonestà, il Nome divino è bestemmiato, secondo quanto dice l'Apostolo: “Il Nome di Dio è bestemmiato per causa vostra tra i pagani” (Rm 2,24 ) [Cf Ez 36,20-22 ]. Noi, dunque, preghiamo per meritare di essere santi come è santo il Nome del nostro Dio [San Pietro Crisologo, Sermones 71: PL 52, 402A].

Quando diciamo “Sia santificato il tuo Nome”, chiediamo che venga santificato in noi, che siamo in lui, ma anche negli altri che non si sono ancora lasciati raggiungere dalla grazia di Dio; ciò per conformarci al precetto che ci obbliga a pregare per tutti, perfino per i nostri nemici. Ecco perché non diciamo espressamente: Il tuo Nome sia santificato “in noi”; non lo diciamo perché chiediamo che sia santificato in tutti gli uomini [Tertulliano De oratione, 3]. Questa domanda, che le compendia tutte, è esaudita attraverso la preghiera di Cristo, come le sei domande successive. La preghiera al Padre nostro è preghiera nostra se è pregata “nel Nome” di Gesù [Cf Gv 14,13; Gv 15,16; Gv 16,23-24; Gv 14,26 ]. Gesù nella sua preghiera sacerdotale chiede: “Padre santo, custodisci nel tuo Nome coloro che mi hai dato” (Gv 17,11 ).

Venga il tuo Regno

Nel Nuovo Testamento la parola “Basileia” può essere tradotta con regalità (nome astratto), regno (nome concreto) oppure signoria (nome d'azione). Il Regno di Dio è prima di noi; si è avvicinato nel Verbo incarnato, viene annunciato in tutto il Vangelo, è venuto nella Morte e Risurrezione di Cristo. Il Regno di Dio viene fin dalla santa Cena e nell'Eucaristia, esso è in mezzo a noi. Il Regno verrà nella gloria allorché Cristo lo consegnerà al Padre suo:

E' anche possibile che il Regno di Dio significhi Cristo in persona, lui che invochiamo con i nostri desideri tutti i giorni, lui di cui bramiamo affrettare la venuta con la nostra attesa. Come egli è la nostra Risurrezione, perché in lui risuscitiamo, così può essere il Regno di Dio, perché in lui regneremo [San Cipriano di Cartagine, De oratione dominica, 13: PL 4, 527C-528A]. Questa richiesta è il “Marana tha”, il grido dello Spirito e della Sposa: “Vieni, Signore Gesù”. Anche se questa preghiera non ci avesse imposto il dovere di chiedere l'avvento del Regno, noi avremmo, con incontenibile spontaneità, lanciato questo grido, bruciati dalla fretta di andare ad abbracciare ciò che forma l'oggetto delle nostre speranze. Le anime dei martiri, sotto l'altare, invocano il Signore gridando a gran voce: “Fino a quando, Sovrano, non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?” (Ap

6,10 ). A loro, in realtà, dev'essere fatta giustizia, alla fine dei tempi. Signore, affretta, dunque, la venuta del tuo Regno! [Tertulliano, De oratione, 5] Nella Preghiera del Signore si tratta principalmente della venuta finale del Regno di Dio con il ritorno di Cristo [Cf Tt 2,13 ]. Questo desiderio non distoglie però la Chiesa dalla sua missione in questo mondo, anzi, la impegna maggiormente. Infatti, dopo la Pentecoste, la venuta del Regno è l'opera dello Spirito del Signore, inviato “a perfezionare la sua opera nel mondo e compiere ogni santificazione” [Messale Romano, Preghiera eucaristica IV]. “Il Regno di Dio. . . è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Rm 14,17 ). Gli ultimi tempi, nei quali siamo, sono quelli dell'effusione dello Spirito Santo. Pertanto è ingaggiato un combattimento decisivo tra “la carne” e lo Spirito: [Cf Gal 5,16-25 ] Solo un cuore puro può dire senza trepidazione alcuna: “Venga il tuo Regno”. Bisogna essere stati alla scuola di Paolo per dire: “Non regni più dunque il peccato nel nostro corpo mortale” (Rm 6,12 ). Colui che nelle azioni, nei pensieri, nelle parole si conserva puro, può dire a Dio: “Venga il tuo Regno!” [San Cirillo di Gerusalemme, Catecheses mistagogicae, 5, 13: PG 33, 1120A]. Con un discernimento secondo lo Spirito, i cristiani devono distinguere tra la crescita del Regno di Dio e il progresso della cultura e della società in cui sono inseriti. Tale distinzione non è una separazione. La vocazione dell'uomo alla vita eterna non annulla ma rende più imperioso il dovere di utilizzare le energie e i mezzi ricevuti dal Creatore per servire in questo mondo la giustizia e la pace [Con. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22; 32; 39; 45; Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 31]. Questa domanda è assunta ed esaudita nella preghiera di Gesù, [Cf Gv 17,17-20 ] presente ed efficace nell'Eucaristia; produce il suo frutto nella vita nuova secondo le Beatitudini [Cf Mt 5,13-16; 2821 Mt 6,24; Mt 7,12-13 ].

Sia fatta la tua Volontà come in cielo così in terra

La Volontà del Padre nostro è “che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4 ). Egli “usa pazienza non volendo che alcuno perisca”. Il suo comandamento, che compendia tutti gli altri e ci manifesta la sua Volontà, è che ci amiamo gli uni gli altri, come egli ci ha amato [Cf Gv 13,34; 1Gv3; 1Gv 4; LC.10.25 Lc 10,25-37 ]. “Egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua Volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva. . . prestabilito. . . il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose. . . In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tutto opera efficacemente conforme alla sua Volontà” ( EF.1.9 Ef 1,9-11 ). Noi chiediamo con insistenza che si realizzi pienamente questo Disegno di benevolenza sulla terra, come già è realizzato in cielo. E' in Cristo e mediante la sua volontà umana che la Volontà del Padre è stata compiuta perfettamente e una volta per tutte. Gesù, entrando in questo mondo, ha detto: “Ecco, Io vengo, . . . per fare, o Dio, la tua Volontà” ( Eb 10,7 ; Sal 40,7 ). Solo Gesù può affermare: “Io faccio sempre le cose che Gli sono gradite” ( GV.8.29 Gv 8,29 ). Nella preghiera della sua agonia, egli acconsente totalmente alla Volontà del Padre: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (LC.22.42Lc 22,42 ) [Cf Gv 4,34; Gv 5,30; GV.6.38 Gv 6,38 ]. Ecco perché Gesù “ha dato se stesso per i nostri peccati... secondo la Volontà di Dio” ( GAL.1.4 Gal 1,4).

“E' appunto per quella Volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta del Corpo di Gesù Cristo” (Eb 10,10). Gesù “pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì” (EB.5.8 Eb 5,8); a maggior ragione, noi, creature e peccatori, diventati in lui figli di adozione. Noi chiediamo al Padre nostro di unire la nostra volontà a quella del Figlio suo per compiere la sua Volontà, il suo Disegno di salvezza per la vita del mondo. Noi siamo radicalmente incapaci di ciò, ma, uniti a Gesù e con la potenza del suo Santo Spirito, possiamo consegnare a lui la nostra volontà e decidere di scegliere ciò che sempre ha scelto il Figlio suo: fare ciò che piace al Padre: [Cf Gv 8,29 ]

Aderendo a Cristo, possiamo diventare un solo Spirito con lui e così compiere la sua Volontà; in tal modo essa sarà fatta perfettamente in terra come in cielo [Origene, De oratione, 26].

Considerate come Gesù Cristo ci insegni ad essere umili, mostrandoci che la nostra virtù non dipende soltanto dai nostri sforzi, ma anche dalla grazia di Dio. Egli comanda ad ogni fedele che prega, di farlo con respiro universale, cioè per tutta la terra. Egli, infatti, non dice “sia fatta la tua Volontà” in me o in voi, “ma in terra, su tutta la terra”; e ciò perché dalla terra sia eliminato l'errore e sulla terra regni la verità, sia distrutto il vizio, rifiorisca la virtù, e la terra non sia diversa dal cielo [San Giovanni Crisostomo, Homilia in Matthaeum, 19, 5: PG 57, 280B]. E' mediante la preghiera che possiamo “discernere la Volontà di Dio” ( Rm 12,2 ) [Cf EF.5.17 Ef 5,17 ] ed ottenere la costanza nel compierla [Cf EB.10.36 Eb 10,36 ]. Gesù ci insegna che si entra nel Regno dei cieli non a forza di parole, ma facendo “la Volontà del Padre” suo “che è nei cieli” ( MT.7.21 Mt 7,21 ). Se uno fa la Volontà di Dio, egli lo ascolta [Cf GV.9.31 Gv 9,31; 1GV.5.14 1Gv 5,14 ]. Tale è la potenza della preghiera della Chiesa nel Nome del suo Signore, soprattutto nell'Eucaristia; essa è comunione d'intercessione con la Santissima Madre di Dio [Cf Lc 1,38; Lc 1,49 ] e con tutti i santi che sono stati “graditi” al Signore per non aver voluto che la sua Volontà:

Possiamo anche, senza offendere la verità, dare alle parole: “Sia fatta la tua Volontà come in cielo così in terra” questo significato: sia fatta nella Chiesa come nel Signore nostro Gesù Cristo; sia fatta nella Sposa, che a lui è stata fidanzata, come nello Sposo che ha compiuto la Volontà del Padre [Sant'Agostino, De Sermone Domini in monte, 2, 6, 24: PL 34, 1279](CCC 2822-2827).

Dacci oggi il nostro pane quotidiano

“ Dacci ”: è bella la fiducia dei figli che attendono tutto dal loro Padre. Egli “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” ( MT.5.45 Mt 5,45 ) e dà a tutti i viventi “il cibo in tempo opportuno” (Sal 104,27 ). Gesù ci insegna questa domanda, che in realtà glorifica il Padre nostro perché è il riconoscimento di quanto egli sia Buono al di là di ogni bontà. “Dacci” è anche l'espressione dell'Alleanza: noi siamo suoi ed egli è nostro, è per noi. Questo “noi” però lo riconosce anche come il Padre di tutti gli uomini, e noi lo preghiamo per tutti, solidali con le loro necessità e le loro sofferenze. “ Il nostro pane ”. Il Padre, che ci dona la vita, non può non darci il nutrimento necessario per la vita, tutti i beni “convenienti”, materiali e spirituali. Nel Discorso della montagna Gesù insiste su questa

confidenza filiale che coopera con la Provvidenza del Padre nostro [Cf Mt 6,25-34 ]. Egli non ci spinge alla passività, [Cf 2Ts 3,6-13 ] ma vuole liberarci da ogni affanno e da ogni preoccupazione. Tale è l'abbandono filiale dei figli di Dio:

A chi cerca il Regno di Dio e la sua giustizia, egli promette di dare tutto in aggiunta. In realtà, tutto appartiene a Dio e nulla manca all'uomo che possiede Dio, se egli stesso non manca a Dio [San Cipriano di Cartagine, De oratione dominica, 21: PL 4, 534A]. Il fatto però che ci siano coloro che hanno fame per mancanza di pane, svela un'altra profondità di questa domanda. Il dramma della fame nel mondo chiama i cristiani che pregano in verità ad una responsabilità fattiva nei confronti dei loro fratelli, sia nei loro comportamenti personali sia nella loro solidarietà con la famiglia umana. Questa petizione della Preghiera del Signore non può essere isolata dalle parabole del povero Lazzaro [Cf Lc 16,19-31 ] e del giudizio finale [Cf Mt 25,31-46 ].

Come il lievito nella pasta, così la novità del Regno deve “fermentare” la terra per mezzo dello Spirito di Cristo [Cf Conc. Ecum. Vat. II, Apostolicam actuositatem, 5]. Deve rendersi evidente attraverso l'instaurarsi della giustizia nelle relazioni personali e sociali, economiche e internazionali; né va mai dimenticato che non ci sono strutture giuste senza uomini che vogliono essere giusti. Si tratta del “nostro” pane, “uno” per “molti”. La povertà delle Beatitudini è la virtù della condivisione: sollecita a mettere in comune e a condividere i beni materiali e spirituali, non per costrizione, ma per amore, perché l'abbondanza degli uni supplisca alla indigenza degli altri [Cf 2Cor 8,1-15]. “Prega e lavora” [Cf San Benedetto, La Regola, 20; 48]. “Dobbiamo pregare come se tutto dipendesse da Dio, e agire come se tutto dipendesse da noi” [Attribuito a Sant'Ignazio di Loyola, citato in E. Bianco, Dizionario di pensieri citabili,Torino 1990, 26]. Dopo aver eseguito il nostro lavoro, il cibo resta un dono del Padre nostro; è giusto chiederglielo e di questo rendergli grazie. Questo è il senso della benedizione della mensa in una famiglia cristiana.

Questa domanda e la responsabilità che comporta, valgono anche per un'altra fame di cui gli uomini soffrono: “L'uomo non vive soltanto di pane, ma. . . di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,3), [Cf Mt 4,4 ] cioè della sua Parola e del suo Soffio. I cristiani devono mobilitare tutto il loro impegno per “annunziare il Vangelo ai poveri”. C'è una fame sulla terra, “non fame di pane, né sete di acqua, ma di ascoltare la Parola di Dio” (Am 8,11 ). Perciò il senso specificamente cristiano di questa quarta domanda riguarda il Pane di Vita: la Parola di Dio da accogliere nella fede, il Corpo di Cristo ricevuto nell'Eucaristia [Cf Gv 6,26-58 ]. “ Oggi ”. E' anch'essa un'espressione di fiducia. Ce la insegna il Signore; [Cf Mt 6,34; Es 16,19 ] non poteva inventarla la nostra presunzione. Poiché si tratta soprattutto della sua Parola e del Corpo del Figlio suo, questo “oggi” non è soltanto quello del nostro tempo mortale: è l'Oggi di Dio:

Se ricevi il Pane ogni giorno, per te ogni giorno è oggi. Se oggi Cristo è tuo, egli risorge per te ogni giorno. In che modo? “Tu sei mio Figlio, oggi Io ti ho generato” (Sal 2,7 ). L'oggi è quando Cristo risorge [Sant'Ambrogio, De sacramentis, 5, 26: PL 16, 453A]. “ Quotidiano ” (di questo giorno e di ogni giorno). Questa parola, “épiousios”, non è usata in nessun altro passo del Nuovo Testamento. Intesa nel suo significato temporale, è una ripresa pedagogica di “oggi”, [Cf Es 16,19-21 ] per confermarci in una confidenza “senza riserve”. Intesa in senso qualitativo, significa il necessario per la vita e, in senso lato, ogni bene sufficiente per il sostentamento [Cf 1Tm 6,8 ]. Presa alla lettera [piousios: “sovra-sostanziale”] la parola indica direttamente il Pane di Vita, il Corpo di Cristo, “farmaco d'immortalità” [Sant'Ignazio di Antiochia, Epistula ad Ephesios, 20, 2: PG 5, 661] senza il quale non abbiamo in noi la Vita [Cf Gv 6,53-56 ]. Infine, legato al precedente, è evidente il senso celeste: “questo Giorno” è quello del Signore, quello del Banchetto del Regno, anticipato nell'Eucaristia, che è già pregustazione del Regno che viene. Per questo è bene che la Liturgia eucaristica sia celebrata “ogni giorno”.

L'Eucaristia è il nostro pane quotidiano. . . La virtù propria di questo nutrimento è quella di produrre l'unità, affinché, resi Corpo di Cristo, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo. . . ma anche le letture che ascoltate ogni giorno in chiesa sono pane quotidiano, e l'ascoltare e recitare inni è pane quotidiano. Questi sono i sostegni necessari al nostro pellegrinaggio terreno [Sant'Agostino, Sermones, 57, 7, 7: PL 38, 389].

Il Padre del cielo ci esorta a chiedere come bambini del cielo il Pane del cielo [Cf Gv 6,51 ]. Cristo “egli stesso è il pane che, seminato nella Vergine, lievitato nella carne, impastato nella Passione, cotto nel forno del sepolcro, conservato nella chiesa, portato sugli altari, somministra ogni giorno ai fedeli un alimento celeste” [San Pietro Crisologo, Sermones, 71: PL 52, 402D].

Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori

Questa domanda è sorprendente. Se consistesse soltanto nel primo membro della frase - “Rimetti a noi i nostri debiti” - potrebbe essere implicitamente inclusa nelle prime tre domande della Preghiera del Signore, dal momento che il sacrificio di Cristo è “per la remissione dei peccati”. Ma, secondo l'altro membro della frase, la nostra domanda verrà esaudita solo a condizione che noi, prima, abbiamo risposto ad un'esigenza. La nostra richiesta è rivolta verso il futuro, la nostra risposta deve averla preceduta; una parola le collega: “come”.

Rimetti a noi i nostri debiti...

Abbiamo iniziato a pregare il Padre nostro con una confidenza audace. Implorando che il suo Nome sia santificato, gli abbiamo chiesto di essere sempre più santificati. Ma, sebbene rivestiti della veste battesimale, noi non cessiamo di peccare, di allontanarci da Dio. Ora, con questa nuova domanda, torniamo a lui, come il figlio prodigo, [Cf Lc 15,11-32 ] e ci riconosciamo peccatori, davanti a lui, come il pubblicano [Cf Lc 18,13 ]. La nostra richiesta inizia con una “confessione”, con la quale confessiamo ad un tempo la nostra miseria e la sua misericordia. La nostra speranza è sicura, perché, nel Figlio suo, “abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati” (Col 1,14; Ef 1,7 ). Il segno efficace ed indubbio del suo perdono lo troviamo nei sacramenti della sua Chiesa [Cf Mt 26,28; Gv 20,23 ]. Ora, ed è cosa tremenda, questo flusso di misericordia non può giungere al nostro cuore finché noi non abbiamo perdonato a chi ci ha offeso. L'Amore, come il Corpo di Cristo, è indivisibile: non possiamo amare Dio che non vediamo, se non amiamo il fratello, la sorella che vediamo [Cf 1Gv 4,20 ]. Nel rifiuto di perdonare ai nostri fratelli e alle nostre sorelle, il nostro cuore si chiude e la sua durezza lo rende impermeabile all'amore misericordioso del Padre; nella confessione del nostro peccato, il nostro cuore è aperto alla sua grazia. Questa domanda è tanto importante che è la sola su cui il Signore torna sviluppandola nel Discorso della montagna [Cf Mt 6,14-15; Mt 5,23-24; 2841 Mc 11,25 ]. All'uomo è impossibile soddisfare questa cruciale esigenza del mistero dell'Alleanza. Ma “tutto è possibile a Dio”.

... come noi li rimettiamo ai nostri debitori

Questo “come” non è unico nell'insegnamento di Gesù: “Siate perfetti "come" è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48 ); “Siate misericordiosi "come" è misericordioso il Padre vostro”( Lc 6,36 ); “Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; "come" io vi ho amati, così amatevi anche voi” (Gv 13,34 ). E' impossibile osservare il comandamento del Signore, se si tratta di imitare il modello divino dall'esterno. Si tratta invece di una partecipazione vitale, che scaturisce “dalla profondità del cuore”, alla Santità, alla Misericordia, all'Amore del nostro Dio. Soltanto lo Spirito, che è la nostra Vita, [Cf Gal 5,25 ] può fare “nostri” i medesimi sentimenti che furono in Cristo Gesù [Cf Fil 2,1; Fil 2,5 ]. Allora diventa possibile l'unità del perdono, perdonarci “a vicenda "come" Dio ha perdonato” a noi “in Cristo” (Ef 4,32 ). Così prendono vita le parole del Signore sul perdono, questo Amore che ama fino alla fine [Cf Gv 13,1 ]. La parabola del servo spietato, che corona l'insegnamento del Signore sulla comunione ecclesiale, [Cf Mt 18,23-35 ] termina con queste parole: “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello”. E' lì, infatti, “nella profondità del cuore ” che tutto si lega e si scioglie. Non è in nostro potere non sentire più e dimenticare l'offesa; ma il cuore che si offre allo Spirito Santo tramuta la ferita in compassione e purifica la memoria trasformando l'offesa in intercessione. La preghiera cristiana arriva fino al perdono dei nemici [Cf Mt 5,43-44 ]. Essa trasfigura il discepolo configurandolo al suo Maestro. Il perdono è un culmine della preghiera cristiana; il dono della preghiera non può essere ricevuto che in un cuore in sintonia con la compassione divina. Il perdono sta anche a testimoniare che, nel nostro mondo, l'amore è più forte del peccato. I martiri di ieri e di oggi rinnovano questa testimonianza di Gesù. Il perdono è la condizione fondamentale della Riconciliazione [Cf 2Cor 5,18-21 ] dei figli di Dio con il loro Padre e degli uomini tra loro [Cf Giovanni Paolo II, Lett. enc. Dives in misericordia, 14]. Non c'è né limite né misura a questo perdono essenzialmente divino [Cf Mt 18,21-22; Lc 17,3-4 ]. Se si tratta di offese (di “peccati” secondo Lc 11,4 o di “debiti” secondo Mt 6,12 ), in realtà noi siamo sempre debitori: “Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole” (Rm 13,8 ). La comunione della Santissima Trinità è la sorgente e il criterio della verità di ogni relazione [Cf 1Gv 3,19-24 ]. Essa è vissuta nella preghiera, specialmente nell'Eucaristia: [Mt 5,23-24 ] Dio non accetta il sacrificio di coloro che fomentano la divisione; dice loro di lasciare sull'altare l'offerta e di andare, prima, a riconciliarsi con i loro fratelli. Dio vuole che ce lo riconciliamo con preghiere che salgono da cuori pacificati. Ciò che più fortemente obbliga Dio è la nostra pace, la nostra concordia, l'unità di tutto il popolo dei credenti, nel Padre nel Figlio e nello Spirito Santo [Cf San Cipriano di Cartagine, De oratione dominica, 23: PL 4, 535C-536A].

Non ci indurre in tentazione

Questa domanda va alla radice della precedente, perché i nostri peccati sono frutto del consenso alla tentazione. Noi chiediamo al Padre nostro di non “indurci” in essa. Tradurre con una sola parola il termine greco è difficile: significa “non permettere di entrare in”, [Cf Mt 26,41] “non lasciarci soccombere alla tentazione”. “Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male” (GC.1.13 Gc 1,13 ); al contrario, vuole liberarcene. Noi gli chiediamo di non lasciarci prendere la strada che conduce al peccato. Siamo impegnati nella lotta “tra la carne e lo Spirito”. Questa richiesta implora lo Spirito di discernimento e di fortezza.

Lo Spirito Santo ci porta a discernere tra la prova, necessaria alla crescita dell'uomo interiore [Cf Lc 8,13-15; At 14,22; 2Tm 3,12 ] in vista di una “virtù provata” ( RM.5.3 Rm 5,3-5 ) e la tentazione, che conduce al peccato e alla morte [Cf GC.1.14 Gc 1,14-15 ]. Dobbiamo anche distinguere tra “essere tentati” e “consentire” alla tentazione. Infine, il discernimento smaschera la menzogna della tentazione: apparentemente il suo oggetto è “buono. gradito agli occhi e desiderabile” ( Gen 3,6 ), mentre, in realtà, il suo frutto è la morte.

Dio non vuole costringere al bene: vuole esseri liberi. . . La tentazione ha una sua utilità. Tutti, all'infuori di Dio, ignorano ciò che l'anima nostra ha ricevuto da Dio; lo ignoriamo perfino noi. Ma la tentazione lo svela, per insegnarci a conoscere noi stessi e, in tal modo, a scoprire ai nostri occhi la nostra miseria e per obbligarci a rendere grazie per i beni che la tentazione ci ha messo in grado di riconoscere [Origene, De oratione, 29].

“Non entrare nella tentazione” implica una decisione del cuore: “Là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore. . . Nessuno può servire a due padroni” (Mt 6,21; MT.6.24 Mt 6,24 ). “Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (GAL.5.25 Gal 5,25 ). In questo “consenso” allo Spirito Santo il Padre ci dà la forza. “Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la via d'uscita e la forza per sopportarla” ( 1COR.10.13 1Cor 10,13 ). Il combattimento e la vittoria sono possibili solo nella preghiera. E' per mezzo della sua preghiera che Gesù è vittorioso sul Tentatore, fin dall'inizio [Cf Mt 4,1-11 ] e nell'ultimo combattimento della sua agonia [Cf MT.26.36 Mt 26,36-44 ]. Ed è al suo combattimento e alla sua agonia che Cristo ci unisce in questa domanda al Padre nostro. La vigilanza del cuore, in unione alla sua, è richiamata insistentemente [ Cf MC.13.9 Mc 13,9; MC.13.23 Mc 13,23; Mc 13,33-37; 2849 Mc 14,38; Lc 12,35-40 ]. La vigilanza è “custodia del cuore” e Gesù chiede al Padre di custodirci nel suo Nome [Cf Gv 17,11 ]. Lo Spirito Santo opera per suscitare in noi, senza posa, questa vigilanza [Cf 1Cor 16,13; Col 4,2; 1Ts 5,6; 1Pt 5,8 ]. Questa richiesta acquista tutto il suo significato drammatico in rapporto alla tentazione finale del nostro combattimento quaggiù; implora la perseveranza finale. “Ecco, Io vengo come un ladro. Beato chi è vigilante” ( Ap 16,15 ).

Ma liberaci dal male

L'ultima domanda al Padre nostro si trova anche nella preghiera di Gesù: “Non chiedo che Tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal Maligno” (GV.17.15 Gv 17,15 ). Riguarda ognuno di noi personalmente; però siamo sempre “noi” a pregare, in comunione con tutta la Chiesa e per la liberazione dell'intera famiglia umana. La Preghiera del Signore ci apre continuamente alle dimensioni dell'Economia della salvezza. La nostra interdipendenza nel dramma del peccato e della morte diventa solidarietà nel Corpo di Cristo, nella “comunione dei santi” [Cf Giovanni Paolo II, Esort. ap. Reconciliatio et paenitentia, 16]. In questa richiesta, il Male non è un'astrazione; indica invece una persona: Satana, il Maligno, l'angelo che si oppone a Dio. Il “diavolo” [dia-bolos”, colui che “si getta di traverso”] è colui che “vuole ostacolare” il Disegno di Dio e la sua “opera di salvezza” compiuta in Cristo. “Omicida fin dal principio”, “menzognero e padre di menzogna” (Gv 8,44 ), “Satana, che seduce tutta la terra” (Ap 12,9 ), è a causa sua che il peccato e la morte sono entrati nel mondo, ed è in virtù della sua sconfitta definitiva che tutta la creazione sarà liberata “dalla corruzione del peccato e della morte” [Messale Romano, Preghiera eucaristica IV]. “Sappiamo che chiunque è nato da Dio non pecca: chi è nato da Dio preserva se stesso e il Maligno non lo tocca. Noi sappiamo che siamo nati da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del Maligno” (1Gv 5,18-19 ): Il Signore, che ha cancellato il vostro peccato e ha perdonato le vostre colpe, è in grado di proteggervi e di custodirvi contro le insidie del diavolo che è il vostro avversario, perché il nemico, che suole generare la colpa, non vi sorprenda. Ma chi si affida a Dio, non teme il diavolo. “Se infatti Dio è dalla nostra parte, chi sarà contro di noi?” (Rm 8,31) [Sant'Ambrogio, De sacramentis, 5, 30: PL 16, 454AB]. La vittoria sul “principe del mondo” (Gv 14,30) è conseguita, una volta per tutte, nell'Ora in cui Gesù si consegna liberamente alla morte per darci la sua Vita. Avviene allora il giudizio di questo mondo e il principe di questo mondo è “gettato fuori” (Gv 12,31 ) [Cf Ap 12,10 ]. Si avventa “contro la Donna”, [Cf Ap 12,13-16 ] ma non la può ghermire: la nuova Eva, “piena di grazia” dello Spirito Santo, è preservata dal peccato e dalla corruzione della morte (Concezione immacolata e Assunzione della Santissima Madre di Dio, Maria, sempre vergine). Allora si infuria “contro la Donna” e se ne va “a far guerra contro il resto della sua discendenza” (Ap 12,17 ). E' per questo che lo Spirito e la Chiesa pregano: “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22,17; Ap 22,20 ): la sua venuta, infatti, ci libererà dal Maligno.

Chiedendo di essere liberati dal Maligno, noi preghiamo nel contempo per essere liberati da tutti i mali, presenti, passati e futuri, di cui egli è l'artefice o l'istigatore. In quest'ultima domanda la Chiesa porta davanti al Padre tutta la miseria del mondo. Insieme con la liberazione dai mali che schiacciano l'umanità, la Chiesa implora il dono prezioso della pace e la grazia dell'attesa perseverante del ritorno di Cristo. Pregando così, anticipa nell'umiltà della fede la ricapitolazione di tutti e di tutto in colui che ha “potere sopra la Morte e sopra gli Inferi” (Ap 1,18 ), “colui che è, che era e che viene, l'Onnipotente!” ( Ap 1,8 ): [Cf Ap 1,4 ]

Liberaci, o Signore, da tutti i mali, concedi la pace ai nostri giorni e con l'aiuto della tua misericordia vivremo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento, nell'attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo [Messale Romano, Embolismo]. (CCC 2803- 2854)

LA DOSSOLOGIA FINALE

La dossologia finale “perché tuo è il regno, la gloria e il potere” riprende, per inclusione, le prime tre domande al Padre nostro: la glorificazione del suo Nome, la venuta del suo Regno e il potere della sua Volontà salvifica. Ma questa ripresa ha la forma dell'adorazione e dell'azione di grazie, come nella liturgia celeste [Cf Ap 1,6; AP.4.11 Ap 4,11; Ap 5,13 ]. Il principe di questo mondo si era attribuito in modo menzognero questi tre titoli di regalità, di potere e di gloria; [Cf LC.4.5 Lc 4,5-6 ] Cristo, il Signore, li restituisce al Padre suo e Padre nostro, finché gli consegnerà il Regno, quando il Mistero della salvezza sarà definitivamente compiuto e Dio sarà tutto in tutti [ Cf 1COR.15.24 1Cor 15,24-28]. “Al termine della preghiera, tu dici: Amen, sottolineando con l'Amen, che significa "Così sia", [Cf LC.1.38 Lc 1,38 ] ciò che è nella preghiera da Dio insegnata” [San Cirillo di Gerusalemme, Catecheses mistagogicae, 5, 18: PG 33, 1124A]. (CCC n. 2855-2856)

LA SANTA MESSA

“L’Eucaristia è il cuore e il culmine della vita cristiana, poiché in essa Cristo associa la sua Chiesa e tutti i suoi membri al proprio sacrificio di lode e di rendimento di grazie, offerto al Padre una volta per tutte sulla croce; mediante questo sacrificio egli effonde le grazie della salvezza sul suo Corpo, che è la Chiesa. L’Eucaristia è il memoriale della Pasqua di Cristo, cioè dell’opera della salvezza compiuta per mezzo della vita, della morte e della risurrezione di Cristo, opera che viene resa presente nell’azione liturgica. E’ Cristo stesso sommo ed eterno sacerdote della nuova alleanza, che agendo attraverso il ministero dei sacerdoti, offre il sacrifico eucaristico. Ed è ancora lo stesso Cristo realmente presente sotto le specie del pane e del vino l’offerta del sacrificio eucaristico” (CCC 1407-1410 )

La Santa Messa è

Gesù Cristo presente veramente, realmente, personalmente, come egli stesso ha dichiarato: “questo è il mio corpo… questo è il mio sangue” memoriale della morte e risurrezione di Gesù, che rende presente la Pasqua di Cristo, evento centrale della salvezza.

sacramento del sacrificio, che ha riparato i danni del peccato, ristabilito l’ordine voluto da Dio e la comunione con Lui, salvato l’uomo, dato senso alla sua vita, iniziato la nuova alleanza, e che salva chi vi partecipa con coerenza.

alleanza nuova ( “calice del mio sangue per la nuova alleanza” ), stipulata sulla croce da Cristo con la Chiesa; un’alleanza siglata col sangue, di sangue, solenne, irrevocabile, che destina l’uomo ad essere libero, figlio di Dio, trasformato, capace di adesione totale al Signore e ai fratelli.

segno di comunione: con la Parola di Dio, che va accolta e assimilata; con la Persona di Cristo, che ci assimila a sé ; (“Non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me”, (S.Paolo)) ; con i fratelli, che hanno bisogni, diritti, pene, gioie.

forza di trasformazione, che dona la vita eterna, rende dimora di Dio, eleva alla comunione con Lui, santifica.

banchetto di famiglia con Dio e con i fratelli, cui si deve partecipare vestiti a festa, non con gli abiti dell’egoismo, dell’orgoglio, del peccato; col cuore aperto a tutti, libero da ogni rancore o odio; con le mani piene, disposti ad adeguarsi durante e dopo la Messa alla volontà di Dio.

ringraziamento. E’ il più grande “grazie” di tutta la storia umana, perché è il grazie del Figlio di Dio per l’uomo, un grazie che è costata a Gesù tutta la vita, spesa per Dio e per noi; è il grazie nostro detto con Cristo, per Cristo e in Cristo

fonte, origine e apice di tutta la vita cristiana. E’ il suo centro propulsore, la sua sorgente e la vetta, l’inizio e la conclusione, il mezzo, e la meta. E’ il tutto della vita cristiana.

La Messa è culto reso a Dio

La Messa appare come un grande culto ufficiale reso a Dio dalla chiesa. Rendere culto significa rendere onore a Dio, di cui si riconoscono le supreme perfezioni. Il culto reso a Dio è di adorazione (in greco "latria "), mentre ai santi si rende solo un culto di venerazione. Fine della liturgia è glorificare il Padre, da cui tutto ha inizio e in cui deve avere il suo termine. Il culto perfetto è quello di Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, che compie totalmente la volontà di Dio, fino a donare la vita. Gesù è l'unico sacerdote a pieno titolo, è la fonte della liturgia e ha designato la Chiesa a rendere presenti gli atti di culto al Padre che Egli ha offerto nella sua vita terrena. La liturgia è azione di tutta la Chiesa e ogni fedele è di essa membro attivo e beneficiario; oltre ad essere adorazione, lode e ringraziamento, è sorgente di santità. La Messa è la suprema azione liturgica della Chiesa e il cristiano trova in essa quanto gli occorre per vivere secondo Cristo. Essa esige prima di tutto una conoscenza e una partecipazione attiva.

Dimensione trinitaria

Chi segue attentamente la Santa Messa si accorge che essa ha una dimensione trinitaria. E' offerta a Dio, da parte della comunità, del pane e del vino che, per virtù dello Spirito Santo,

si trasforma nel Corpo e Sangue di Cristo. Durante il sacro rito sono frequentissimi i richiami trinitari. La Messa inizia col segno della croce: “ nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo " . Un saluto iniziale suona cosi: "La grazia di Gesù Cristo, l'amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con tutti voi". Il "Confesso a Dio onnipotente" è rivolto alla Trinità. Il "Gloria a Dio" rivolto al Padre e a Gesù, ricorda alla fine lo Spirito Santo. Le orazioni, rivolte al Padre, terminano con " per il nostro Signore Gesù Cristo, che è Dio e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo ". Il credo è una solenne professione di Fede alla Trinità. In vari dei molti prefazi, rivolti al Padre, in cui è ricordato il Figlio, è indicato lo Spirito Santo. La Trinità è presente nelle "epiclesi" delle nuove preghiere eucaristiche. La dossologia ( = parola di gloria) con cui terminano le preghiere eucaristiche sono ricordate le Tre Persone Divine: " Per Cristo, con Cristo e in Cristo, nell'unità dello Spirito Santo, a te Padre, ogni onore e gloria" . La Trinità è presente nella preparazione personale del sacerdote alla comunione: " Signore Gesù Cristo, figlio del Dio vivo, che per volontà del Padre e con l'opera dello Spirito Santo, morendo hai dato la vita al mondo" . La benedizione finale è data nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

Cuore della Chiesa

“ La celebrazione della Messa, in quanto azione di Cristo e del popolo di Dio gerarchicamente ordinato, costituisce il centro di tutta la vita cristiana per la Chiesa universale, per quella locale e per i

singoli fedeli". Se il Battesimo è la porta d'ingresso nella comunità cristiana, l'eucaristia ne è il centro e l'attuazione suprema. Ma la fede nell'Eucaristia non è facile, come non è facile accogliere il mistero della croce di cui è la ripresentazione sacramentale. Per questo la Chiesa l'ha circondata di tanti mirabili segni di adorazione, di amore e di bellezza: monito sempre attuale per prevenire le tentazioni della superficialità, dell'abitudine e dell'incredulità. “L’Eucaristia è il cuore e il culmine della vita della Chiesa, poiché in essa Cristo associa la sua Chiesa e tutti i suoi membri al proprio sacrificio di lode e di rendimento di grazie offerto al Padre una volta per tutte sulla croce; mediante questo sacrificio egli effonde le grazie della salvezza sul suo Corpo, che è la Chiesa. L’Eucaristia è il memoriale della Pasqua di Cristo, cioè dell’opera della salvezza compiuta per mezzo della vita, della morte, della risurrezione di Cristo, opera che viene resa presente nell’azione liturgica. E’ Cristo stesso, sommo ed eterno sacerdote della nuova alleanza, che agendo attraverso il ministero dei sacerdoti, offre il sacrificio eucaristico. Ed è ancora lo stesso Cristo, realmente presente sotto le specie del pane e del vino, l’offerta del sacrificio eucaristico” ( CCC 1407-1410 ).

Fonte e apice

“I fedeli, incorporati nella Chiesa col Battesimo, partecipando al sacrificio eucaristico, fonte e apice di tutta la vita cristiana, offrono a Dio la Vittima divina e se stessi con Essa” ( Lumen Gentium 11 ) . Affermando che il sacrificio eucaristico è il culmine e l’origine di tutta la vita cristiana, il Concilio ha detto una cosa straordinaria, che esige seria riflessione. Ha detto che la Messa è il centro, il cuore della religione, il tutto di essa, il centro propulsore della sua vitalità, la vetta e la sorgente del culto e di tutta la forza che muove la chiesa, l’inizio e la conclusione, il primo principio e l’ultimo fine, la meta, l’obiettivo, lo scopo, il mezzo. Il sacrificio eucaristico è l’atto supremo di amore di Dio per l’uomo e l’atto supremo di amore che l’uomo può esprimere verso Dio. L’Eucaristia dona la vera vita, la vita eterna, senza la quale l’uomo fallisce l’esistenza. Gesù stesso lo ha dichiarato: “ Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui…chi mangia questo pane vivrà in eterno” ( Gv 6, 56-58 ). Della Messa non si può fare a meno. Il cristiano autentico vive di Eucaristia. Essa è tutta la fede cristiana e il tutto della fede.

Convito

La Messa è un banchetto di famiglia con Dio e con i fratelli. Siamo invitati dal Signore alla sua mensa e dobbiamo andare da lui: vestiti a festa. Non si può andare vestiti di egoismo, di orgoglio, di sensualità. E' necessario cambiare abito, prima di andare a Messa, togliere il peccato. San Paolo dice: "chiunque in modo indegno mangia il pane e beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore" (1 Cor 11, 27). con le mani piene, con la disposizione di adeguarsi durante e dopo la Messa alla volontà di Dio. col cuore aperto a tutti. Non ha senso andare alla mensa comune col cuore indurito dal rancore o dall'odio verso qualcuno. "Se presenti la tua offerta sull'altare e ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all'altare e va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono" (Mt 5,23-24).

Conversione

La Messa è chiamata, impegno e strumento di conversione. Chi nella Messa non entra in crisi e non si converte non ha capito la Messa. La Messa è un'alleanza, cioè un'amicizia, che esige una sintonia con Dio, quindi una conversione. "Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue" (Lc 26,20).

Ringraziamento

La Messa è il più grande grazie della storia umana, perché è il grazie del Figlio di Dio per l'uomo, che è costato una vita tutta spesa per Dio e per l'uomo. Il nostro ringraziamento attraverso l'Eucaristia è un grazie detto con Cristo, per Cristo e in Cristo e comporta l'impegno di affrontare la vita con la mente di Cristo e col suo cuore.

Struttura della Messa

La Santa Messa è costituita da due parti, la "Liturgia della Parola" e la "Liturgia eucaristica", così strettamente congiunte tra loro da formare un unico atto di culto. Nella Messa viene imbandita tanto la mensa della Parola di Dio, quanto la mensa del Corpo di Cristo e i fedeli ne ricevono istruzione e ristoro. Ci sono inoltre alcuni riti che iniziano e altri che concludono la celebrazione. La Messa inizia con i "riti di introduzione", che precedono la Liturgia della Parola e sono l'introito, il saluto, l'atto penitenziale, il Gloria e l'orazione, detta colletta. Scopo di questi riti è che i fedeli, riuniti insieme, formino una comunità e si dispongano ad ascoltare con fede la parola di Dio e a celebrare degnamente l'Eucaristia,

La "Liturgia della Parola" consiste nella proclamazione delle letture scelte dalla Sacra Scrittura, che ne costituiscono la parte principale, dall'omelia, dalla professione di fede e dalla preghiera dei fedeli. Nella liturgia della Parola Dio parla al suo popolo , gli manifesta il mistero della redenzione e della salvezza e offre un nutrimento spirituale. Il popolo fa propria questa Parola divina con il silenzio e i canti e vi aderisce con la professione di fede. Così nutrito, prega per le necessità di tutta la Chiesa e per la salvezza del mondo intero.

La "Liturgia Eucaristica" è disposta come l'ultima Cena del Signore, quando Gesù istituì il sacrificio e convito pasquale per mezzo del quale è reso continuamente presente nella Chiesa il sacrificio della croce. Cristo infatti prese il pane e il calice, rese grazie, spezzò il pane e lo diede ai discepoli dicendo: "Prendete, mangiate, ….bevete; questo è il mio corpo;….. questo è il mio sangue. Fate questo in memoria di me". La liturgia eucaristica inizia con la preparazione dei doni: vengono portati all'altare pane e vino con acqua, cioè gli stessi elementi che Cristo prese tra le sue mani. Poi si rendono grazie a Dio per tutta l'opera della salvezza e le offerte diventano il Corpo e il Sangue di Cristo. Segue la frazione del pane e la comunione e i fedeli, benché molti, si cibano del Corpo dell'unico Signore dall'unico pane e ricevono il suo Sangue dall'unico calice, allo stesso modo con il quale gli Apostoli li hanno ricevuti dalla mani di Cristo stesso.

I "Riti di conclusione" comprendono brevi avvisi, se necessari, il saluto e la benedizione del sacerdote, il congedo del popolo, il bacio dell'altare da parte del sacerdote, l'inchino profondo da parte di tutti i ministri. (Cfr . La verità vi farà liberi pagine – Cei- Pagine 326-333)

LA PREGHIERA DEL CUORE

Per cuore s’intende l’intimo dell’uomo, la sua parte recondita, ove risiede la pienezza del suo essere, ove l’uomo incontra Dio e Dio può incontrare l’uomo. “Cuore designa nella tradizione orientale il centro dell’essere umano, la radice delle facoltà attive dell’intelletto e della volontà, il punto da cui proviene e verso il quale converge tutta la sua vita spirituale. E’ la sorgente oscura e profonda da cui scaturisce tutta la vita psichica e spirituale dell’uomo attraverso la quale l’uomo si avvicina e comunica con la Sorgente stessa della vita “ . ( E. Bhr-Sigel)

Preghiera del cuore è orientare nell’orazione il più profondo del nostro essere a Dio, mettersi con semplicità davanti a Lui in un profondo silenzio interiore, lasciando da parte parole, pensieri, immaginazione, aprendo a Lui l’intimo più profondo del nostro essere e sforzandoci solo di amare.

Spesso questa preghiera è stata chiamata con altri nomi, come preghiera di semplicità, di silenzio, del semplice sguardo, interiore, di amore, contemplativa. E’ antica come la Bibbia, è stata praticata da quasi tutti i santi, i padri del deserto ne erano grandi esperti, alcuni santi ne sono stati grandi divulgatori, come Santa Teresa d’Avila, San Giovanni della Croce, Santa Elisabetta della Trinità, il Padre de Foucauld. Il monachesimo orientale ha sempre praticato la preghiera del cuore. Nell’Ortodossia è chiamata “preghiera di Gesù” , quando diventa continua e passa dalla mente al cuore.

Sta nell’amore

Preghiera del cuore è permettere allo Spirito Santo, presente in noi, di amare il Padre in noi, con noi, attraverso noi. Lo Spirito è sempre intento ad amare, la fonte zampilla sempre e zampilla per noi quando noi condiscendiamo. quando entriamo dentro le ricchezze dell’amore divino. La preghiera del cuore è partecipazione a questa azione incessante dello Spirito in noi, è lasciarlo amare, è amare con lui, in lui e attraverso lui, mettendo da parte tutti gli ostacoli che impediscono la sua preghiera e favorendo con tutti i mezzi la nostra disposizione al collegamento intimo d’amore. Avviene allora quello che Padre de Foucauld diceva : “ Lui guarda me amandomi, io guardo lui amandolo”.

Questa preghiera è come un esercizio di maturazione nell’amore, un cammino che sviluppa la nostra capacità di amare , che non è mai finito e non finisce mai, ma ha sempre nuove intuizioni Essa sta tutta nell’amore. Ed è importante perché la via più diretta per raggiungere Dio non è l’intelligenza ma l’amore, che è la facoltà interiore più ricca dell’uomo e a Dio si deve dare il meglio di tutte le cose e quindi anche il meglio di noi stessi.

Preparazione

Prima dell’orazione va scelto un luogo adatto ad essa e durante la preghiera si deve avere un atteggiamento del corpo che favorisca la concentrazione profonda . Come ogni preghiera della Chiesa, anche la preghiera del cuore deve iniziare con un atto penitenziale, con la purificazione, deve essere preceduta dal pentimento dei peccati.

Prima di iniziare l’orazione è anche necessario precisare quale problema ci interessa di più e quale impegno pratico si vuole assumere. E’ fondamentale creare uno stato di silenzio interiore profondo e completo delle parole, degli occhi, della fantasia, delle emozioni, della mente, della volontà, del cuore . San Tommaso dice : “ Dio si onora nel silenzio” , perché tutto ciò che si dice e si pensa di lui è inadeguato a lui. Naturalmente il silenzio non è la preghiera, ma solo la preparazione ad essa. Un mezzo pratico ed efficace per reggere al silenzio è ripetere una parola breve. Può servire solo “Gesù” o “Padre” o” Spirito Santo” o la frase che gli Orientali ripetono molte volte : “Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di noi” o un’altra del vangelo.

Amare

Quando c’è il clima di silenzio va fatta un’umile e fervorosa implorazione dello Spirito Santo

perché insegni ad amare, a cambiare la preghiera in amore, quindi l’orante deve scendere con la mente nella profondità di se stesso, dove avviene l’incontro con Dio Padre, Figlio, Spirito Santo. Dice Paolo : “Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? “ (1 Cor 3, 16 ) . Tutto l’essere va concentrato sulla presenza di Dio, alla quale si deve rispondere accogliendo l’amore di Dio e amando. Questo amore in concreto sta nei fatti, che iniziano con le decisioni. La preghiera del cuore si concentrerà su un sì generoso, sull’allineamento alla volontà di Dio, che si esprime nella preghiera di Gesù: “Padre non la mia ma la tua volontà sia fatta”.

Lasciarsi amare

Più la preghiera diventa amore, più si aprono gli orizzonti dell’amore di Dio per noi e più diventa urgente lasciarsi invadere da questo amore. Tutti dovrebbero essere capaci di lasciarsi amare; in realtà però è un passaggio di maturazione nella preghiera del cuore . Si deve implorare lo Spirito Santo perché ci aiuti a capire l’amore di Dio e ad accoglierlo. Lasciarsi amare è essere totalmente presenti a Dio e totalmente disponibili a lui, è metterlo al centro , scegliere in tutto e per tutto la sua volontà. Diceva P. De Foucauld : “ Fa di me ciò che ti piace; sono pronto a tutto, accetto tutto, purché la tua volontà si compia in me. Non desidero niente altro, mio Dio. Ed è per me un’esigenza di amore di darmi, di rimettermi nelle tue mani senza misura con una confidenza infinita” . ( Cfr Andrea Gasperino- Maestro insegnaci a pregare- Elledici - pagine 181-257)

LA PREGHIERA NELLA SPIRITUALITA SALESIANA

«TU SEI LA MIA LUCE...»

Con i giovani ci sono momenti straordinari di celebrazioni solenni, ben curate dal punto di vista contenutistico, simbolico e coreografico. Ma riguardo a noi, le Costituzioni, dopo averci proposto tutti i momenti comunitari, ci dicono: «Potremo formare comunità che pregano solo se diventiamo personalmente uomini di preghiera. Ciascuno di noi ha bisogno di esprimere nell’intimo il suo modo personale di essere figlio di Dio, manifestargli la sua gratitudine, confidargli i desideri e le preoccupazioni apostoliche» [4] .

Una cosa, infatti, è recitare delle preghiere o partecipare a celebrazioni collettive, atti certamente utili e pregevoli, un’altra è diventare persone oranti. Abbiamo ascoltato questo dai giovani stessi e dai commentatori, in riferimento alle manifestazioni di massa del Confronto e del Giubileo: tutto ciò, che senza dubbio ha costituito una valida esperienza, durerà e farà strada nella vita? Viene chiamata in causa l’educazione religiosa, l’accompagnamento, l’interiorizzazione a seguito dell’evento straordinario, la comunicazione del cuore con il Padre, da figli.

È chiaro infatti che, se la nostra evangelizzazione propone soltanto spiegazioni, ma non riesce a creare un rapporto di comunione con il Padre, è vuota, quasi ridotta ad una ideologia. Il grande lavoro di Gesù è stato quello di far conoscere, in senso biblico, il Padre e insegnare ai discepoli a rivolgersi a Lui ascoltando le voci dello Spirito, gli insegnamenti e le parole che Egli suggerisce al cuore.

Per questo, il Vangelo è ricco di insegnamenti sulla preghiera. L’evangelista Luca, nel capitolo undicesimo del suo vangelo, ne raccoglie alcuni: la parola unificante “Padre”, la perseveranza e l’efficacia della preghiera. Ed è il Vangelo a spiegarci la comunicazione con il Padre, la presenza dello Spirito che prega con Cristo in noi e per noi.

Non è mia intenzione adesso parlarvi della preghiera salesiana comunitaria. C’è sufficiente letteratura e sforzo di animazione e si nota nelle comunità anche un proposito di miglioramento. E non c’è dubbio che essa esprime bene la vita del singolo e delle comunità ed è anche una scuola, oltre che garanzia di ricchezza, continuità, perseveranza, ed esperienza ecclesiale. Il salesiano prega con la comunità e nella comunità.

Ora voglio soffermarmi particolarmente sul cammino personale che, con l’aiuto delle comunità, porta ciascuno di noi ad essere uomo di preghiera, desideroso e capace di orientare i giovani verso di essa, portando anche a livelli di regolarità e fervore quelli che si dimostrano capaci.

Rivisitare il proprio cuore

La preghiera del salesiano, comunicazione e dialogo filiale con il Signore, è certamente coerente con la sua vita ed adeguata alla sua esistenza concreta. Ci sono però dei “luoghi comuni”, non verificati, riguardo ad essa; così come ci sono dei condizionamenti reali da superare per arrivare ad essere uomini di preghiera secondo il modo salesiano. Tra i luoghi comuni c’è quello che vuole che al centro della vita del salesiano ci sia l’azione, non sempre intesa come azione consapevolmente salvifica, ma a volte semplicemente come agire umano, con tutto quello che esso comporta: movimento, competenza, molteplicità di ambiti, rapporti e interventi, eccetera.

La preghiera, in tal caso, viene “relegata in alcuni angoli della giornata”, limitata ai momenti comuni. Il consiglio di Gesù Buon Pastore è invece quello di pregare “sine intermissione”: una comunicazione con il Padre, che nello Spirito viene a noi e da noi esce per molteplici vie: attraverso il pensiero, il sentimento, l’orientamento dell’azione, il rapporto con il prossimo, la partecipazione alle celebrazioni ed alla vita della comunità cristiana. Tutto ciò compiuto con lo sguardo rivolto verso di Lui e con il desiderio di compiere «le bon plaisir de Dieu», secondo l’espressione di San Francesco di Sales.

Un altro luogo comune è l’interpretazione del detto di Don Bosco: «La vita attiva, cui tende specialmente la nostra società fa sì che i suoi membri non possano aver comodità di fare molte pratiche in comune». È vero. Bisogna però risalire al suo tempo per capire la portata di questo asserto, paragonare questo detto con quanto prescrivevano altri Istituti: alle pratiche mattutine e vespertine giornaliere si univano i tridui, le novene, i tempi liturgici molto più regolati quanto a pratiche di pietà. Le parole di Don Bosco sono da leggere e interpretare in questo contesto. Bisogna poi non confondere tempi comuni con tempi personali, anche sottratti ad un’azione non ben ordinata. Tra i nostri condizionamenti tipici bisogna invece annoverare una certa connaturale esposizione alla molteplicità di impegni che per alcuni, con “agenda aperta” ad imprevisti, può diventare agitazione. L’agitazione non provoca soltanto l’eliminazione

della partecipazione ai momenti comunitari, ma anche la soppressione dei momenti di studio, di lettura, di cosciente preparazione ad un ministero o a un compito educativo, che diventa sempre più complesso anche dal punto di vista dell’interpretazione evangelica della vita, nonché della metodologia nell’orientamento dei giovani.

Si deve riconoscere che sia la lettura pastorale del contesto cui ho accennato prima, sia la nostra personale riflessione ci portano oggi a determinate conclusioni sulle condizioni da creare per la preghiera. È possibile parlare di preghiera solo assumendo l’esperienza di Gesù, Figlio del Padre, riespressa nella propria vita sotto la guida dello Spirito. Parlare di preghiera è mettere allo scoperto quanto c'è di più sacro e unitario nella nostra vita.

«La preghiera è la sintesi del nostro rapporto con Dio. Possiamo dire che noi siamo quello che preghiamo e come lo preghiamo. Il livello della nostra fede è il livello della nostra preghiera; la forza della nostra speranza è la forza della nostra preghiera: l’ardore della nostra carità è l’ardore della nostra preghiera». Pregare e vivere si fondono in un’unica e identica realtà nella coscienza di colui che prega. Finché la vita stessa non diventi preghiera, nemmeno la preghiera sarà viva e autentica.

D’altro canto, la Sacra Scrittura e la tradizione ecclesiale sono piene della preghiera dei poveri che si rivolgono a Dio, nello spirito di Gesù, come bambini. La via deve essere semplice, la comunicazione filiale, nello Spirito.

Si possono indicare alcuni atteggiamenti che favoriscono la preghiera personale.

Sinceri verso Dio e verso noi stessi

A volte, quando parliamo di Dio, con riferimento a noi stessi e più ancora ai nostri interlocutori religiosi, ci mettiamo una maschera, indossiamo il costume, che si addice al ruolo, e scegliamo parole esatte e ben proclamate.

Queste maschere non corrispondono a ciò che noi siamo. Rappresentano delle barriere alla condivisione profonda con Dio e al dialogo con Lui, senza difese.

Dio vuole comunicare con noi, sulla lunghezza d’onda della sincerità. E questo non è affatto immediato: richiede in genere grazia e tempo. Per questo il Giubileo ci ha chiamati a convertirci, a ripartire da Dio e a riordinare il nostro cammino. È stato, prima di tutto, un invito alla conversione del cuore, anche se le celebrazioni, diffuse per televisione, possono talora aver dato un’idea diversa.

Esistono molte modalità e toni di preghiera, in rapporto al prevalere del sentimento o della meditazione, delle formule o della spontaneità. Ciascuno finisce per avere il suo modo di pregare come ha il proprio modo di camminare e di esprimersi. Ma c’è sempre, nella preghiera, un desiderio di comunicazione che vuole essere filiale, diretto, profondamente sentito. Qualunque sia il tipo di preghiera a cui si è arrivati, l’essenza è condividere sinceramente se stessi. Così si esprimeva Gesù: «Ti ringrazio, o Padre» ; «Custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato»; «Che siano una cosa sola come noi siamo uno»

Capaci di ascolto

Per noi educatori la capacità di parlare su Dio e con Lui dipende, anzitutto, dalla capacità di ascoltarlo. Egli, che ha parlato nella creazione iniziale, ci ha detto molto nella Storia della Salvezza con avvenimenti e parole e ci ha raccontato tutto in Gesù. Ora ci parla attraverso le mediazioni della Chiesa e degli avvenimenti, fa risuonare dentro di noi la voce del suo Spirito e rivela cose nuove per i tempi nuovi.

Il credente è soprattutto uno che ascolta la Parola, come Maria. «Ascoltare significa non solo essere consapevole intellettualmente della presenza dell’altro; ma accettare di far spazio in se stessi a tale presenza fino a esserne dimora e goderne» .

Non sempre è facile distinguere la voce di Dio da quella degli uomini. Per questo dobbiamo, come nell’episodio di Samuele , tendere l’orecchio a Colui che parla per educare noi stessi ed i nostri destinatari all’ascolto della Verità: «Parla, perché il tuo servo ti ascolta». Dovremmo avere la mente e l’udito attenti, condurre i destinatari verso la Verità, invitare ad ascoltare Colui che ha “parole di vita eterna”. È uno degli approdi dell’educazione. La legge, i precetti, la Parola del Signore sono presentati come fonte che genera una sapienza completa e profonda, misteriosamente, sulla misura dei semplici, superiore a quella che produce l’acutezza del pensiero umano.

Da parte dell’uomo, questa disponibilità all’obbedienza e all’ascolto della Parola costituisce la condizione indispensabile per scoprire il progetto che Dio affida ad ogni persona, nel tempo e nel luogo dove è stata chiamata a vivere. Sarà anche la condizione fondamentale per rinnovare l’impegno continuo di conversione a Dio: «Come infatti la pioggia e la neve scendono dal Cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» .

Il luogo privilegiato per l’ascolto è quindi la meditazione della Parola: «sedutasi ai piedi di Gesù, [Maria a Betania] ascoltava la sua parola» . Tutto quindi comincia con l’attenzione interessata alla Parola che si svilupperà poi in meditazione, preghiera e contemplazione . L’ascolto di Dio , con le sue dimensioni di silenzio, decentramento da sé e ricentramento sull’Altro, diviene accoglienza o, meglio, disvelamento in sé di una presenza intima a noi più ancora di quanto lo sia il nostro stesso “io”: «Tardi ti ho amato, Bellezza sempre antica e sempre nuova, tardi ti ho amato! Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle tue creature. Tu eri con me, e io non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, che non esisterebbero se non fossero in te. Mi hai chiamato, hai gridato e hai vinto la mia sordità. Hai balenato, e il tuo splendore ha dissipato la mia cecità. Hai diffuso la tua fragranza, io l’ho respirata, e ora anelo a te. Mi hai toccato e arsi del desiderio della tua pace» .

Non soltanto il Concilio Vaticano II ha aperto un tempo felice di ritorno alla Parola, ma no i stiamo assistendo al nuovo gusto che di essa sentono i giovani. Si dà come un nuovo incontro tra i giovani e la Parola, stimolato anche dalle Esortazioni di Giovanni Paolo II riguardo alla Lectio.

Gustare il silenzio

Il silenzio è la dimensione speculare della Parola. Silenzio e Parola si completano e si rafforzano a vicenda. Senza il silenzio difficilmente si arriva sia alla conoscenza di sé, sia al discernimento del progetto di Dio nella propria vita. Il silenzio dà profondità ed unifica.

La sobrietà salesiana nel parlare non è distanza o controllato dominio di sé; è sempre attenzione all’altro, comprensione e desideri di dare e di ricevere. Si passa così ad una dimensione interiore, allo stare bene con se stessi, alla visione serena delle persone e delle situazioni, alla pace interiore, al gusto della presenza dell’altro.

Si genera pure un atteggiamento di dominio di sé e di resistenza per far tacere i sentimenti disordinati verso gli altri, le immagini arbitrarie su se stessi, le ribellioni, i giudizi non valutati, le mormorazioni e le leggerezze, che nascono dal cuore. Un composto silenzio è il custode dell’interiorità e rende possibile l’ascolto e l’accoglienza di colui che parla. Il Dio che vogliamo ritrovare è dentro di noi, non fuori..

L’io interiore ha bisogno di tempi e di spazi per confrontare e valutare. Riguardo ai primi, non dovremmo aver paura di riservare, nell’orario, periodi di tempo da dedicare alla meditazione personale, allo studio, alla preghiera e – perché no? – alla contemplazione: quell’atteggiamento totale quasi soggiogato dalla verità o dalla bellezza.

Il Vangelo ci consiglia di «entrare nella propria camera e, chiusa la porta, pregare il Padre nel segreto» . Si tratta di scegliere un luogo dove l’attenzione e lo spirito trovino meno ostacoli per andare a Dio. La Chiesa o la cappella sono senz’altro luoghi più adatti alla «preghiera silenziosa», ma non gli unici. «Il nostro Salvatore sceglieva per pregare luoghi solitari e quelli che non occupassero troppo i sensi, ma che elevassero l’anima a Dio, come i monti (che si elevano da terra e sono ordinariamente brulli, senza alcun motivo di ricreazione sensibile)» .

Le passeggiate, ad esempio, possono acquistare un significato nuovo: si tratta di scoprire la presenza del Signore che – secondo l’espressione poetica di San Giovanni della Croce – passava per «questi boschi con snellezza, e mentre li guardava, solo con il suo sguardo adorni li lasciò di ogni bellezza» . La persona quindi non guarda se il luogo per la preghiera abbia tale o tal altra comodità, perché ciò vuol dire essere ancora attaccati ai sensi, ma si preoccupa soprattutto del raccoglimento interiore; dimenticando ogni cosa, sceglie a tale scopo il luogo più libero da oggetti e gusti sensibili e distoglie l’attenzione da tutto questo, per potere meglio godere del suo Dio nella solitudine delle creature .

Scoprire le proprie resistenze

Lo Spirito opera in noi e ci santifica nella misura anche della nostra disponibilità. In questo si inserisce il superamento delle nostre resistenze ad un’apertura docile e filiale al Padre e all’amore alle persone, radicato nel cuore. L’interiorità va educata, l’amore va purificato e le nostre relazioni rese più rispettose. Si tratta di smascherare quelle dinamiche che convivono dentro di noi e che ci impediscono di donarci con cuore libero .

Bisogna avere il coraggio di individuare e chiamare per nome le proprie fragilità, le negatività che segnano la nostra vita, conoscere le proprie resistenze per condividerle con il Padre. Bisogna accettare il paziente lavoro necessario perché la volontà di Dio orienti il nostro pensiero e la nostra coscienza. Non c’è uomo di preghiera che non abbia sentito il bisogno ed i vantaggi dell’ascesi interiore ed esteriore.

Chi è sperimentato nella vita spirituale sa che questo cammino esige pazienza e perseveranza, che non lo si percorre da soli, perché lo Spirito ci precede e ci accompagna. Conoscerà poi, a mano a mano che procede, anche i frutti della progressiva pacificazione, dell’allargamento della libertà, della mitezza e della carità, che sono i frutti di un cammino di preghiera .

Accedere con fiducia al Padre

È questo il suggerimento di San Paolo ; ed è l’indicazione di Gesù . Il Signore accetta il culto rituale, ma come cammino e condizione per la fiducia spontanea e trasparente . Ci sono occasioni in cui possiamo pregare senza parole, ma non possiamo mai pregare senza il desiderio profondo di trovarci con il Signore, di stare con Lui. «Il tuo volto io cerco, o Signore» è già una forma di preghiera. È frequente oggi desiderare quei momenti di godimento e di emozione che si verificano di rado o sotto la spinta di stimoli forti. Sono una grazia, su cui non si fonda il nostro rapporto con Dio, ma con la quale il Signore ci

sostiene. Siamo in tempi in cui domina l’emozione religiosa, la voglia di sperimentare “altro”, quello che è oltre il sensibile. Ciò vale anche per i giovani, per i quali autenticità e sentimento sono legati, anche nell’esperienza religiosa.

L’amicizia con il Signore richiede che il nostro desiderio di incontrarci con Lui sia dentro la preghiera e questa dentro la vita, come orientamento e passione: «O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco» . Non si tratta, dunque, di un desiderio di compiere obblighi di preghiera, ma di un anelito intenso alla presenza del Signore, alla sua amicizia.

A volte temiamo di avvicinarci troppo a Dio o che Egli ci manifesti troppo chiaramente la sua volontà. Migliaia di domande ci investono: che cosa mi chiederà Dio? dove mi condurrà? La posta in gioco è alta: ne va della mia vita. Potrebbe cambiare l’orientamento di tutto quello che ho fatto, potrei essere chiamato a rimettere in discussione i miei valori. È capitato ai patriarchi, ai profeti, agli apostoli, ai santi che, in fatto di preghiera, sono esempi esimi. Possiamo dire che capita anche a noi, attraverso avvenimenti imprevisti, che cambiano il corso, il ritmo o il tono nella nostra esistenza.

Con gli altri, ciascuno di noi entra in dialogo alla pari. Con Dio, invece, tutto è diverso. Lui mi dice: «Io sono il Signore, tuo Dio» . Ha detto Einstein: «quando mi avvicino a questo Dio, mi devo togliere le scarpe e camminare in punta di piedi, perché sono su un terreno sacro». Eppure non siamo nella regione della lontananza e del timore, ma in quella filiale, dello Spirito, che è misterioso ed inesauribile: di lì nascono sempre delle novità da parte del Padre e da parte nostra, a mano a mano che la vita procede.

Fare un cammino di preghiera

Nella preghiera c’è anche un cammino di formazione e di crescita permanente. Nessuno, da adulto o da anziano, prega come quando era bambino, anche se può mantenere alcuni tratti personali, resi maturi dalla vita. La preghiera non soltanto ci arricchisce, ma ci plasma per quello che essa è, e per i fatti della nostra vita che assumiamo alla sua luce. Alcuni di noi forse hanno condiviso l’esperienza di monaci che hanno portato avanti una vita di pura preghiera. Ma anche con confratelli nostri, arrivati alla maturità dell’età e della sofferenza, il dialogo sulla preghiera è interessante e fecondo.

Nell’assumere l’impegno di pregare, mi affido totalmente a Dio e mi consegno nelle sue mani. È Dio che accolgo; è a Lui che mi dono; con Lui intendo camminare e da Lui ricevere me stesso, sempre rinnovato dai doni del suo amore.

La contemplazione offre il momento più alto della preghiera. Essa però, come afferma Vita Consecrata, non è privilegio di uno stato, ma dimensione essenziale in coloro che sentono la propria vita “trasfigurata” in Cristo . È la visione di fede, goduta nella sua dimensione unificante, che irradia luce e bellezza

La preghiera così intesa risulta l’atto adulto mediante il quale la mia relazione personale si apre nei riguardi di Dio, cosciente della mia irriducibile sete di Lui, come pure della sua amorosa ricerca di me.

La preghiera suppone anche la salvaguardia di un tempo sufficiente, capace di radicare in me ed esprimere il significato più alto dell’atto del pregare. Se desidero giungere a una preghiera viva e vivificante, che sia esperienza di amore con il «partner» unico, non posso non riservare alcuni spazi della mia vita, consacrandoli allo stare a tu per tu col Signore.

Perseverare in quest’atto di fede pura e spoglia, in un tempo che non conosce fretta né calcolo di vantaggi personali, dedicato a stare semplicemente alla presenza di Dio Padre (Lui mi guarda, mi ama e mi lavora, durante questi momenti che toccano il mio profondo nella solitudine), quand’anche io abbia la sensazione di rimanere senza parole e di perdere il mio tempo: ecco l’esigenza e la garanzia di un’adorazione in spirito e verità. È interessante vedere il cammino di preghiera dei nostri Servi di Dio, in cui troviamo sempre tre caratteristiche: la partecipazione alle pratiche comunitarie, i tempi personali di cui erano avidi, l’unione nella vita.

Pur essendo vero che la preghiera può recare pace interiore alla mia vita, serenità di spirito, efficacia nell’azione, la finalità principale non sarà soltanto ricercare tali vantaggi, se nella preghiera voglio incontrare il Padre di Gesù e il Padre nostro, ma l’esperienza dell’amore gratuito.

Nel dare al Signore il mio tempo umano, senza nulla chiedergli in cambio (effetti straordinari, progresso spirituale rapido e apprezzabile, ecc.), mi espongo al sole stesso della divina gratuità. È questa la grazia per eccellenza dell’impegnarsi a pregare: essere educati alla gratuità, in una società come la nostra in cui tutto è oggetto di compravendita. Sapere con indubitabile sapienza di essere amati da Lui e di poterLo amare e desiderare costituisce la grande ricchezza della nostra vita, che fa apparire secondarie tutte le altre con le loro pretese.

È questa la beatitudine di una vita di preghiera! Colui che sa perdere il suo tempo con il Signore, impara a donare ai fratelli la propria vita con generosità gratuita, dimentico di sé. La preghiera, al pari dell’amore, non ha bisogno di giustificazione.

Poiché è lo Spirito che prega in noi e da Lui impariamo a rivolgerci al Padre, è più importante mettersi in sintonia ed unione con Lui che conoscere definizioni descrittive esatte sulla preghiera. Queste tuttavia aiutano ad una maggiore consapevolezza e cammino di purificazione. Ne prendiamo alcuni elementi costanti, attingendo all’esperienza di Gesù, della Chiesa e di coloro che più da vicino l’hanno contemplato e seguito.

Dare la parola a Dio

«Nella tua volontà è la mia gioia» . Occorre permettere che Dio ci dica quello che egli sa che ci conviene.

Egli pronuncia la Parola. Gesù si è manifestato come la Parola, il Verbo eterno del Padre. Il Verbo è novità. Lo è ancora. Così sono nati i carismi: movimenti di profezia che si sviluppano soltanto nell’ascolto di Dio, in un mondo rutinario. Perciò per noi consacrati “ascoltare” è grazia di sussistenza e novità. Di fatto, siamo soliti cercare parole nella nostra preghiera con il rischio di non percepire quello che Dio vuole dirci, la sua Verità. È lo stesso Gesù che raccomanda: «Pregando poi non sprecate parole».

Il tempo che dedichiamo, in un equilibrato silenzio o in un ritiro, a ricomporre la nostra vita non è tempo perso; diverrà anzi il ricupero di uno spazio aperto alla visita di Dio. Coltivare e usare un metodo per creare un’area di silenzio, sarà espressione di quell’impegno senza il quale nessuno può far maturare i frutti più squisiti della riflessione di fede, della preghiera e della contemplazione.

Quando sapremo mantenere il silenzio interiore in mezzo all’inevitabile viavai della vita moderna e nel cuore stesso della necessità di parlare e comunicare, allora l’impegno che abbiamo preso con la preghiera avrà prodotto in noi uno dei suoi frutti più eccellenti: saremo persone maturate, concentrate, non dissipate, padroni della nostra dimensione di interiorità. Non si tratta di un silenzio solo ascetico, ma di un’attenzione e dell’attesa di una parola di amore. Il salesiano esprime tutto questo senza posa: in lui primeggiano la temperanza, la ragione unita alla religione, la bontà ottimista, ma non ingenua, dello sguardo, la speranza nella forza redentrice di Cristo.

Cogliere lo sguardo di Dio nella profondità del proprio essere

Lo “sguardo” ha una ricca presenza nella Bibbia e nel Vangelo. Significa la volontà benevola, l’attenzione paterna, la predilezione, la vocazione. Allo sguardo del Signore segue sovente il dialogo, che è già invocazione e programma di vita.

La preghiera non resta esterna a colui che prega. Non esiste distanza alcuna tra la preghiera, il rapporto con Dio e colui che l’effettua. Pur essendo un dono, si impasta e si fonde a tal punto col modo di essere di ciascuno che pregare viene a essere l’espressione più pura dell’individualità. Quello che io sono davanti al Creatore, questo è la mia preghiera.

Dove nessun altro sguardo può arrivare, là penetra lo sguardo luminoso di Dio. Egli mi vede e mi insegna a vedermi come sono. Pregare è quindi sentire ed accogliere lo sguardo paterno di Dio, senza ostacolarlo nel vano sforzo di volersi fare da sé.

La mia vita è al tempo stesso un dono e un compito: un dono che si sviluppa solo nel dialogo con il donatore. Affermare in un destino concreto, in una storia umana reale, la propria partecipazione all’amore di Dio per gli uomini: ecco cos’è la preghiera

Credo si possa riassumere in questo modo l’aspetto forse più valido della personale esperienza di preghiera: essa è l’esercizio costante, che porta ad abbracciare con gioia filiale la volontà del Padre negli avvenimenti di ogni giorno. La pratica della preghiera mi mette nella condizione di leggere la mia storia personale – per quanto insignificante, assurda o contraddittoria possa sembrarmi – come una rivelazione dell’amore di Dio, dentro le coordinate della mia esistenza e del mondo. Nulla di quanto accade nella mia vita e nel mio mondo è estraneo all’amore di Dio.

Dio è amore: lasciandomi amare da Lui, divento un misterioso strumento del suo amore nel mondo. Aprendomi alla sua iniziativa, scopro un Dio solidale e impegnato con la marcia dell’umanità, in particolare col dolore di tutti quelli che soffrono.

Terzo millennio: tempo di mistici! Sarà proprio la profondità degli uomini e delle donne mossi dallo Spirito a salvare il senso della nostra vita ed a sfidare la limitatezza della visione dell’uomo.

L’esperienza di alcuni amici di Dio

La preghiera è “espressiva” della vita nel senso migliore del termine. Perciò quello che ci dicono coloro che l’hanno vissuta intensamente nell’amore e nel dolore ha grande utilità per noi. Ascoltiamo qualche testimonianza significativa. «(Nella preghiera) il colloquio si fa parlando veramente come un amico parla all’altro amico, o un servo al suo Signore: ora chiedendo qualche favore, ora accusandosi per qualche manchevolezza, ora comunicando le proprie cose e chiedendo consigli su di esse» (Ignazio di Loyola). «Qui non c’è nulla da temere, ma tutto da desiderare, (...) l’orazione mentale non è altro per me, se non un rapporto di amicizia, un trovarsi frequentemente da soli a soli con chi sappiamo che ci ama» (Teresa d’Avila). «La preghiera nient’altro è che l’unione con Dio (...). In questa unione intima, Dio e l’anima sono come due pezzi di cera fusi insieme, che nessuno può separare (...) Noi eravamo diventati indegni di pregare. Dio però nella sua bontà, ci ha permesso di parlare con Lui (...). Figlioli miei, il vostro cuore è piccolo, ma la preghiera lo dilata e lo rende capace di amare Dio» (Curato d'Ars). Sant'Agostino scrive a Proba: «Manteniamo sempre vivo il desiderio della vita beata, che viene dal Signore Dio, e non cessiamo mai di pregare. Ma, a questo fine, è necessario che stabiliamo certi tempi fissi per richiamare alla nostra mente il dovere della preghiera. Facendo così eviteremo che il desiderio, tendente a intiepidirsi, si raffreddi del tutto o si estingua per mancanza di un frequente stimolo.

Non è certo male o inutile pregare a lungo, quando si è liberi, cioè quando non si è impediti dal dovere di occupazioni buone o necessarie. Pregare a lungo non è, come qualcuno crede, pregare con molte parole. Altro è un lungo discorso, altro uno stato d’animo prolungato. Lungi dunque dalla preghiera ogni verbosità, ma non si tralasci la supplica insistente, se perdura il fervore e l’attenzione. Il servirsi di molte parole nella preghiera equivale a trattare una cosa necessaria con parole superflue.

Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore di cuore. Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le parole, più con le lacrime che con i discorsi».

Secondo queste esperienze, la preghiera è relazione di amicizia che può esprimersi con il pensiero, l’agire, i sentimenti e lo sguardo, il silenzio, la partecipazione alla liturgia, l’invocazione veloce, la conversazione calma secondo l’esempio di Gesù: «Ti benedico, Padre» . È una relazione di amicizia e di amore. Ed è ciò che ci introduce bene nella preghiera del salesiano.

LA PREGHIERA DEL SALESIANO

La preghiera del salesiano ha uno speciale riferimento a Gesù, Buon Pastore, e a Don Bosco, che ne è stato viva immagine tra i giovani.

Per comprendere la sua modalità e il cammino di crescita, è illuminante anzitutto meditare nel Vangelo la preghiera di Gesù, Buon Pastore, che culmina nel dono della vita.

Questa lettura, che è appassionante, anche per motivo di spazio l’affido a voi. Mi soffermo particolarmente sulla esperienza tipica salesiana.

I semi: Mamma Margherita

Le prime battute del cammino di preghiera del salesiano le troviamo nelle Memorie dell’Oratorio . La narrazione evidenzia una costante che accompagna Don Bosco in tutta la sua esistenza: il ruolo determinante della dimensione religiosa nell’ambiente in cui è cresciuto e nella sua mentalità. Essa portava a mettere tutto in relazione con Dio, attraverso molteplici vie: dalla contemplazione della natura alla recita di preghiere ormai diventate patrimonio del popolo cristiano.

È soprattutto alla figura della madre e alla sua azione educatrice che Don Bosco attribuisce il merito di aver radicato in lui il senso di Dio e una visione di fede sulla realtà e sulla storia. Margherita lo

formò all’esercizio della presenza di Dio, lo avviò a pregare con la mente e con le parole, gli instillò i principi della vita cristiana, assicurando una seminagione abbondante di solide virtù. Il suo fu un apporto determinante per la futura missione di educatore e di pastore.

Dalla fede della madre Giovanni fanciullo acquistò la certezza dell’esistenza di un Dio grande nell’amore. Percepì la realtà di un nesso inscindibile tra la nostra fragile umanità e il suo Amore misericordioso. Imparò, esistenzialmente, che la fiducia in Dio non è mai vana, anche nei momenti più disperati. Qui si radica quella sua fede incrollabile, capace di “spostare le montagne”, e quella sua robusta speranza che lo spingeva a guardare oltre ogni umana prospettiva, a progettare e ad osare coraggiosamente quanto altri non avrebbero neppure lontanamente sognato. E tutto ciò egli lo evidenzia nelle Memorie e lo indica a noi suoi lettori.

Il racconto di Don Bosco è sintetico, ma efficacissimo: «Sua massima cura fu di istruire i suoi figli nella religione, avviarli all’ubbidienza ed occuparli in cose compatibili a quella età. Finché era piccolino mi insegnò Ella stessa le preghiere; appena divenuto capace di associarmi co’ miei fratelli, mi faceva mettere con loro ginocchioni mattino e sera e tutti insieme recitavamo le preghiere in comune colla terza parte del Rosario».

Nell’azione educatrice di Margherita c’è qualcosa di più di una formazione religiosa. «Dio – afferma don Lemoyne – era in cima a tutti i suoi pensieri, e quindi era sempre sulle sue labbra (...). Dio ti vede: era il gran motto col quale rammentava ad essi come fossero sempre sotto gli occhi di quel gran Dio, che un giorno li avrebbe giudicati. Se loro permetteva di andare a sollazzarsi nei prati vicini, li congedava dicendo: Ricordatevi che Dio vi vede. Se talora li scorgeva pensierosi e temeva che avessero nell’animo qualche piccolo rancore, sussurrava all’improvviso al loro orecchio: Ricordatevi che Dio vi vede, e vede anche i vostri più nascosti pensieri (...).

Cogli spettacoli della natura ravvivava pure in essi continuamente la memoria del loro Creatore. In una bella notte stellata uscendo all’aperto mostrava loro il cielo e diceva: È Dio che ha creato il mondo e ha messe lassù tante stelle. Se è così bello il firmamento, che cosa sarà del paradiso? Al sopravvenire della bella stagione, innanzi ad una vaga campagna, o ad un prato tutto sparso di fiori, al sorgere di un’aurora serena, ovvero allo spettacolo di un raro tramonto di sole esclamava: Quante belle cose ha fatto il Signore per noi!».

Don Bosco uomo di preghiera

Sarebbe però storicamente inesatto pensare che la preghiera di Don Bosco sia rimasta a questi livelli. L’esperienza “oratoriana”, educativa e pastorale, con i ragazzi poveri e con giovani discepoli, produsse in lui un salto verso una “preghiera apostolica”, verso la contemplazione nell’azione e l’estasi di fronte all’agire di Dio nell’animo dei giovanetti. Così cominciò e si sviluppò quell’unione tra atteggiamento di preghiera e vita intraprendente, intrisa di speranza e audacia, che suscitò inizialmente degli interrogativi sulla sua santità, dal momento che qualcuno lo giudicò soltanto un “imprenditore” di Dio, ma che è divenuta poi paradigma per la preghiera e la vita in Dio del salesiano.

Un metodo analogo a quello di mamma Margherita, maturato nell’esperienza pastorale e nel sacrificato servizio educativo, sarà usato da Don Bosco con i suoi giovani. Infatti all’inizio del suo

manuale di preghiera, il Giovane provveduto, elencando le Cose necessarie ad un giovane per diventar virtuoso, egli parte dalla Conoscenza di Dio: «Alzate gli occhi al cielo, o figliuoli miei, ed osservate quanto esiste nel cielo e nella terra. Il sole, la luna, le stelle, l’aria, l’acqua, il fuoco son tutte cose che un tempo non esistevano (...) È Dio che colla sua onnipotenza le trasse dal niente creandole» . Entrambe le esperienze gli servirono per diventare iniziatore dei giovani nella comunione con Dio.

Educato a saper contemplare Dio nella natura e negli avvenimenti umani, specialmente quelli che riguardavano i giovani a lui affidati, Don Bosco formava i suoi ragazzi a questo “sguardo semplice”, rivelatore dell’amore di Dio. Perciò era diventato attento osservatore della storia umana e della Chiesa, di cui era stato per i giovani narratore efficace. E i suoi ragazzi imparavano.

Di Michele Magone, durante una vacanza ai Becchi, il santo racconta: «Una sera mentre i nostri giovani erano già tutti a riposo, odo uno a piangere e a sospirare. Mi metto pian piano alla finestra e veggo Magone in un angolo dell’aia che mirava la luna e lagrimando sospirava. – Che hai, Magone, ti senti male? gli dissi. Egli che pensava di essere solo, né essere da alcuno veduto, ne fu turbato, e non sapeva che rispondere; ma replicando io la domanda, rispose con queste precise parole: – Io piango nel rimirare la luna che da tanti secoli comparisce con regolarità a rischiarare le tenebre della notte, senza mai disobbedire agli ordini del Creatore, mentre io che sono tanto giovane, io che sono ragionevole, che avrei dovuto essere fedelissimo alle leggi del mio Dio, l’ho disobbedito tante volte, e l’ho in mille modi offeso. Ciò detto si mise di nuovo a piangere. Io lo consolai con qualche parola, onde egli dando calma alla commozione andò di nuovo a continuare il suo riposo» Don Bosco commenta con ammirazione questa capacità di Michele di «ravvisare in ogni cosa la mano del Signore e il dovere di tutte le creature di obbedire a lui».

Sulla scia di San Francesco di Sales

Tutto questo si colloca sulla linea della spiritualità di san Francesco di Sales, il quale, nella seconda parte della Filotea (dove vengono elencati “alcuni consigli per l’elevazione dell’anima a Dio”), dopo la presentazione dell’orazione mentale, suggerisce altre cinque forme di preghiera breve, «che sono come prolungamenti della grande orazione»: le preghiere del mattino, quelle della sera, l’esame di coscienza, il raccoglimento spirituale e le aspirazioni a Dio. A quest’ultimo tipo di preghiera, fatto di «slanci del cuore, brevi, ma ardenti» verso Dio, Francesco invita il devoto: «Canta la sua bellezza, invoca il suo aiuto, gettati in spirito ai piedi della croce, adora la sua bontà, interrogalo spesso sulla tua salvezza, donagli mille volte al giorno la tua anima, fissa i tuoi occhi interiori sulla sua dolcezza, tendigli la mano come fa un bambino con il papà, perché ti guidi; mettilo sul petto come un profumato mazzolino di fiori, innalzalo nella tua anima come uno stendardo» .

Questo tipo di aspirazione a Dio è paragonato dal santo al pensiero di coloro che si amano: «costantemente rivolto alla persona amata, il cuore trabocca di amore per lei, la bocca non fa che tesserne

le lodi (...) Allo stesso modo coloro che amano Dio non possono passare un momento senza pensare a Lui, respirare per Lui, tendere a Lui, parlare di Lui, e vorrebbero, se fosse possibile, incidere sul petto di tutti gli uomini il santo nome di Gesù».

«Tutte le creature ti invitano a questo – scrive ancora san Francesco di Sales . Non c’è creatura che non proclami la lode dell’Amato (...); tutte le cose ti incitano a buoni pensieri, da cui vengono, per forza, slanci e aspirazioni a Dio. Eccone qualche esempio (...)». Gli esempi portati dal santo sono tratti dall’agiografia e dalla vita quotidiana o da spettacoli della natura. «Un’anima devota, vedendo il cielo stellato, che si specchia nell’acqua limpida di un ruscello dirà: Mio Dio, queste stelle le avrò sotto i piedi quando mi avrai accolto nelle tue tende (...) Un altro, vedendo gli alberi in fiore, esclamerà: Perché solo io sono senza fiori nel giardino della Chiesa? Un altro, osservando dei pulcini raccolti sotto la chioccia, dirà: Signore, conservaci sotto la protezione delle tue ali».

Così insegna san Francesco di Sales. Allo stesso modo Giovannino veniva da sua madre guidato e istruito sulle vie della fede e della contemplazione, ed acquistava quel senso profondo del Dio presente, che lo accompagnerà per tutta la vita. Sappiamo – come ancora si esprime san Francesco di Sales – che in questo esercizio semplice di contemplazione e di raccoglimento spirituale, che sfocia in brevi aspirazioni, in buoni pensieri e in giaculatorie spontanee, «si trova la radice profonda della devozione: può supplire alla mancanza di tutte le altre forme di orazione. Ma se manca questo non c’è modo di rimediare. Senza questo esercizio non è possibile la vita contemplativa, anzi sarà mal condotta anche quella attiva» .

Don Bosco è anche sensibile alle meraviglie della natura, ma molto di più a quelle dell’animo giovanile che supera i propri movimenti cattivi, coglie gli inviti della grazia e si apre generosamente a Dio. Contemplativo della salvezza, estatico dell’opera di Dio nella vita, pieno di ammirazione di fronte a Domenico Savio, si commuove davanti ai ragazzi del carcere, invoca l’aiuto di Maria Ausiliatrice alla vista degli abitanti della Patagonia, sospira per l’evangelizzazione dell’Asia.

Il marchio oratoriano

In questo clima, a Valdocco lo spirito e la pratica della preghiera erano strettamente congiunti con la carità educativa. Si poteva leggere sul volto dei suoi abitanti, molti dei quali formeranno la prima generazione salesiana: «Noi – scrive don Ceria – li abbiamo conosciuti: uomini così differenti d'ingegno e di cultura, così diseguali nelle loro abitudini: in tutti però spiccavano certi comuni tratti caratteristici, che ne costituivano quasi i lineamenti di origine. Calma serena nel dire e nel fare; paternità buona di modi e di espressioni, ma particolarmente una pietà la quale ben si capiva essere nel loro concetto l’ubi consistam, il fulcro della vita salesiana. Pregavano molto, pregavano devotissimamente: ci tenevano tanto a che si pregasse e si pregasse bene; sembrava che non sapessero dire quattro parole in pubblico o in privato, senza farci entrare in qualche modo la preghiera. Eppure (...) quegli uomini non mostravano di possedere grazie straordinarie d’orazione; infatti noi li vedevamo compiere con ingenua semplicità nulla più che le pratiche volute dalle regole o portate dalle nostre consuetudini». Amavano Dio e, in Lui, i giovani. Ecco il commento sull’unione tra tempi di orazione e vita, tra preghiera esplicita e missione.

La preghiera che Don Bosco pratica e cerca di insegnare ai suoi figli è lineare e semplice nelle sue forme, autentica, completa e popolare nella sostanza e nei contenuti, allegra e festiva nelle espressioni. È veramente una preghiera alla portata di tutti, dei fanciulli e degli umili in particolare, e prende corpo in quelle che egli chiama “pratiche di pietà”.

Scrive don Caviglia che Don Bosco non ha creato nessuna nuova forma speciale di pratica o di preghiera o devozione come il Rosario, gli Esercizi spirituali, la Via Crucis e via dicendo. Egli è aperto alle formule e, in certo senso, anche alle forme di pietà delle quali, da educatore, comprende l’utilità; è realista, bada alla sostanza, al rapporto con Dio ed al suo riflesso sulla vita: pregare è avere un tratto di amicizia con Lui per cui si passa facilmente dallo stare da soli con Lui al suo servizio nel prossimo.

È vero ciò che scrive don Ceria che Don Bosco non dedicava lungo tempo, come fecero altri santi (Curato d’Ars, S. Antonio M. Claret), alla meditazione. Ma avere un proprio modo di pregare non è lo stesso che non pregare o pregare troppo poco. Quantitativamente e qualitativamente diversa da quella di altri santi, la preghiera di Don Bosco risultava non meno vera e profonda alla prova dei fatti. Le testimonianze dei processi hanno svelato in Don Bosco una insospettata ed esaltante attività di preghiera. Magari mancavano l’esteriorità vistosa, i grandi gesti, ma la preghiera irrompeva da ogni parte. «Si può dire – ha dichiarato don Barberis – che pregava sempre; io lo vidi, potrei dire, centinaia di volte montando e scendendo le scale sempre in preghiera. Anche per via pregava. Nei viaggi, quando non correggeva bozze, lo vedevo sempre in preghiera. In treno – era solito dire ai suoi figli – non si stia mai in ozio, ma si dica il breviario, si reciti la corona della Madonna, o si legga qualche buon libro».

Dispensato negli ultimi anni di vita dalla recita del Breviario, lo diceva in realtà quasi sempre e con grande devozione; impedito da forza maggiore vi suppliva, come risulta da questa sua formale ed eroica promessa, «col non fare atto o pronunziar parola che non avesse di mira la gloria di Dio».

La preghiera era per Don Bosco «l’opera delle opere»h, perché la preghiera «ottiene tutto e trionfa di tutto». Essa è ciò che è «l’acqua al pesce, l’aria all’uccello, la fonte al cervo, il calore al corpo». La sua istituzione è fondata sulla preghiera.

Don Bosco, capace di contemplare Dio sul volto e nella situazione dei giovani, non sente il bisogno d’imporre ai suoi discepoli altre pratiche comunitarie che non siano quelle del buon cristiano e del buon prete, se si tratta di preti. Si tratta di una preghiera che non è mai disimpegno o fuga dalle situazioni giovanili da trasformare secondo il progetto di Dio, o dagli uomini da orientare a Cristo: «da mihi animas cetera tolle». Già abbiamo ricordato il testo della prima redazione delle Costituzioni: «La vita attiva, cui tende specialmente la nostra società fa sì che i suoi membri non possano aver comodità di fare molte pratiche in comune» . C’è in questa espressione, l’affermazione implicita che sono possibili e raccomandabili molte altre forme di preghiera. Tra queste Don Bosco ha dato grande importanza alle giaculatorie.

«Ciascheduno – leggiamo ancora nelle Costituzioni – oltre le orazioni vocali, farà ogni giorno non meno di mezz’ora di orazione mentale, ad accezione che ne sia impedito dal sacro ministero. Nel qual caso supplirà colla maggior frequenza di giaculatorie indirizzando a Dio con gran fervore di affetto quei lavori, che lo impediscono dagli ordinari esercizi di pietà» [. Le giaculatorie, preghiera facile, essenziale, servivano per lui a mantenere desto il pensiero a Dio.

Possiamo dire che in Don Bosco tra preghiera e lavoro intercorre un rapporto perfetto di identità. In questo senso, ma solo in questo senso, si può dire che lavoro è preghiera. E questo, secondo don Ceria, è stato il segreto di Don Bosco, il tratto più caratteristico: «La differenza specifica della pietà salesiana è nel saper fare del lavoro preghiera».

Pio XI ne ha dato solenne conferma: «Questa, infatti, era una delle più belle caratteristiche di lui, quella cioè di essere presente a tutto, affaccendato in una ressa continua, assillante di affanni, tra una folla di richieste e consultazioni, e avere lo spirito sempre altrove, sempre in alto, dove il sereno era imperturbato sempre, dove la calma era sempre dominatrice e sovrana, così che in lui il lavoro era proprio effettiva preghiera, e si avverava il grande principio della vita cristiana: qui laborat orat».

Così, come Don Bosco viene identificato come l’uomo dell’«unione con Dio», il salesiano si caratterizza per essere l’uomo «contemplativo nell’azione» . Il problema è precisamente capire cosa significa quest’espressione.

Infatti nella tensione tra preghiera e azione è difficile raggiungere l’equilibrio, non tanto nella teoria, ma nella pratica della vita quotidiana . Il problema, posto fin dagli inizi del cristianesimo, è molto dibattuto. Agostino a tale proposito, commentando Luca 10, 38-42, scrive: «Le parole di Nostro Signore Gesù Cristo ci vogliono ricordare che esiste un unico traguardo al quale tendiamo, quando ci affatichiamo

nelle svariate occupazioni di questo mondo. Vi tendiamo, mentre siamo pellegrini e non ancora arrivati; in cammino e non ancora nella patria; nel desiderio e non ancora nell’appagamento. Marta e Maria erano due sorelle, non solo sul piano della natura, ma anche su quello della religione; tutte e due onoravano Dio, tutte e due servivano il Signore presente nella carne in perfetta armonia di sentimenti. Marta lo accolse come si sogliono accogliere i pellegrini, e tuttavia accolse il Signore come serva. Del resto tu, Marta, sia detto con buona pace, tu, già benedetta per il tuo encomiabile servizio, come ricompensa domandi il riposo. Ora sei immersa in molteplici faccende, vuoi ristorare dei corpi mortali, sia pure di persone sante. Lassù non vi sarà posto per tutto questo. E allora che cosa vi sarà? Ciò che ha scelto Maria: là saremo nutriti, non nutriremo. Perciò sarà completo e perfetto ciò che qui Maria ha scelto: da quella ricca mensa raccoglieva le briciole della parola del Signore [il quale] farà mettere a tavola [i suoi servi] e passerà a servirli» .

Marta e Maria sono un esempio di unità radicale in cui non si oppongono vita attiva e vita contemplativa; insieme rappresentano un’esistenza tutta presa dall’ascolto contemplativo, soprattutto quando si è chiamati ad impegnarsi nel mondo. L’unità radicale tra contemplazione e azione si ritrova nel rapporto e nella comunione con Dio.

Vediamo ora come si snoda questa tensione tra contemplazione e azione nella vita del salesiano, soffermandoci anzitutto sull’espressione «contemplativo nell’azione», per passare poi ad elencare alcune caratteristiche che definiscono la vita del salesiano come uomo contemplativo nel servizio ai giovani.

“Contemplativo nell’azione”

Il contemplare, cioè il venire come rapiti nello sguardo prolungato o brevissimo, ma intenso, con stupore e ammirazione, abbraccia ed afferra in un solo momento profondo la realtà nelle sue radici ed il soggetto nelle sue molteplici dimensioni unificate . È quello che propriamente si chiama una “esperienza”.

La contemplazione cristiana comporta uno sguardo unitario che coglie, nel susseguirsi degli eventi, il compiersi del Regno di Dio e quindi la partecipazione alla costruzione di esso. Essa non si compie soltanto nel silenzio o nella solitudine, quasi fuori dalle aspirazioni, desideri, gioie e sofferenze del Regno, ma anche nella condivisione delle cose della vita che Gesù è venuto a portare.

In effetti, nella tradizione cristiana si può parlare di due grandi vie o luoghi preferenziali, non esclusivi, di contemplazione. Nel primo, la persona si distacca dalle “cose umane” per immergersi in Dio; nel secondo coglie, proprio nelle “cose umane”, come si fa presente Dio e il suo Regno e si mette a sua disposizione per partecipare al suo annuncio salvatore. «Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà» . Di conseguenza «assume» la vita come unione con Dio, nella sua passione per salvare l’uomo.

La differenza tra le due è data da una diversa accentuazione del rapporto tra Regno di Dio e vita umana. Chi vive il distacco dalle cose vuole comprenderle contemplandole in Dio. L’accento viene posto nel riconoscere il mistero di Dio, inaccessibile, luogo definitivo di riposo e di felicità per l’uomo. Chi invece vive la passione responsabile ed attiva per la salvezza, accentua l’Incarnazione di Dio, il suo mischiarsi con le cose della storia. Contempla Dio che offre la sua grazia per costruire qui e ora il suo

Regno, gode come Gesù delle meraviglie che il Padre opera negli umili e nei poveri. Così Dio viene “compreso” nella contemplazione delle cose e nelle diverse attività del Regno.

Entrambi gli atteggiamenti sono importanti ed irrinunciabili. Si tratta di accentuazioni che influiscono nella distribuzione del tempo e nelle scelte dello stile di vita. Del salesiano si afferma che la sua contemplazione affiora e si manifesta soprattutto nella passione per la vita dei giovani; quindi che, seguendo il mistero dell’Incarnazione, cerca di entrare profondamente in essa.

“Contemplare nell’azione” non vuol dire necessariamente pensare a Dio mentre si agisce. Si tratta piuttosto di un rendersi conto del fatto che in quell’attività umana è in gioco il compiersi del Regno di Dio. Contemplare nell’azione è un cammino che richiede condizioni analoghe al contemplare nella quiete e, anche se è grazia, viene acquisito attraverso la croce.

Alcune condizioni per divenire “contemplativi nell’azione” In modo sintetico elenco alcuni tratti che permettono al salesiano di contemplare Dio nella vita.

L’orientamento interiore

Tutti i cammini di spiritualità, anche quello del contemplativo nell’azione, valgono solo se portano verso il santuario del cuore, dove ci precede la Verità. Nella formazione religiosa insistiamo sull’interiorizzazione; nella religiosità diffusa, si distingue l’emozione di un momento dalla fede matura e personalizzata.

Per diventare contemplativo nell’azione occorre un clima interiore, fatto di fede aperta e vigilante, di umiltà e pazienza, di fedeltà a Dio a agli uomini, di dominio di sé e di apertura agli orizzonti di eternità. La qualità della contemplazione nell’azione è data dalla qualità umana del gesto che si compie e dalla consapevolezza, implicita ma viva nel profondo del credente, che il Regno di Dio è qui e ora, oppure che il Regno di Dio in tale situazione non si compie. Nel primo caso si gioisce, nel secondo si soffre. Soffrire e gioire sono frutto della contemplazione.

«Ciascuno di noi – ci ricordano le Costituzioni – ha bisogno di esprimere nell’intimo il suo modo personale di essere figlio di Dio, manifestargli la sua gratitudine, confidargli i desideri e le preoccupazioni apostoliche», perché tutta la sua vita sia «compenetrata di spirito apostolico, e tutta l’azione apostolica sia animata da spirito religioso» .

A questo punto possiamo richiamare sinteticamente i pensieri su don Cafasso, che fu sicuro maestro di preghiera per Don Bosco, che indicano la via migliore di vivere la carità unitiva ed illuminante nell’azione. Ci interessano gli atteggiamenti di fondo, mentre le pratiche sono legate alla persona ed al tempo.

«Il primo segreto – dice Don Bosco del Cafasso – fu la costante sua tranquillità. Egli aveva familiare il detto di S. Teresa: niente ti turbi! Perciò, con aria sempre ridente, sempre cortese, colla dolcezza propria delle anime sante disimpegnava con energia ogni affare anche prolungato, difficile e seminato talvolta di spinose difficoltà. Ma ciò senza affannarsi, senza che la moltitudine o la gravezza delle cose gli recassero il minimo turbamento. Questa maravigliosa tranquillità faceva sì che egli potea con calma trattare molti e svariati affari senza turbamento delle facoltà intellettuali» . È una specie di controfigura di un certo apostolo agitato che si può ritrovare oggi.

Il secondo segreto è la lunga pratica degli affari congiunta ad una grande confidenza in Dio. «Egli ripeteva spesso le parole del real profeta Davide: Dies diei eructat verbum (Sal 18, 2). Ciò che fo’ quest’oggi servemi di norma a quanto dovrò fare domani. Questa massima congiunta alla sua prudenza, esperienza e al suo lungo studio del cuore umano, gli avevano rese familiari le più elevate questioni. I dubbi, le difficoltà, le dimande più complicate dinanzi a lui scomparivano. Fattagli una questione, comprendevala al solo annunziarla, quindi alzato un istante il suo cuore a Dio rispondeva con prontezza e giustezza tale che una lunga riflessione non avrebbe fatto pronunziare miglior giudicio» . È la formazione permanente nella e dalla vita a confronto con la Parola.

Il terzo segreto era l’esatta e costante occupazione del tempo. «Nello spazio di trenta e più anni che lo conobbi, non mi ricordo di averlo veduto a passare un istante che potesse dirsi ozioso. Terminato un affare, tosto ne intraprendeva un altro. Quante volte fu veduto rimanere cinque ed anche sei ore al confessionale, e poi andare in camera, ove tosto cominciava la solita udienza, che durava più ore. Quante volte pure [fu veduto] giungere sfinito di forze dal predicare o dal confessare nelle carceri, ed invitato a riposare un momento: la conferenza, egli rispondeva, mi serve di riposo».

Il quarto segreto è la sua temperanza che in lui era attenta penitenza e che in Don Bosco mostra la coerenza di elementi che configurano la spiritualità salesiana. Senza una grande sobrietà, egli dice, è impossibile farci santi. «In simil guisa ogni giorno, ogni settimana, ogni mese, e l’anno intero, ad eccezione del momento del cibo, il rimanente del tempo poteva impiegarlo in cose utili pel bene delle anime.

Con questi quattro segreti – conclude Don Bosco – don Cafasso trovava modo di compiere molte e svariate cose in breve tempo e portare così la carità al più sublime grado di perfezione: Plenitudo legis dilectio (Rm 13,10)» .

L’intenzione

Non è vero che qualsiasi attività, comunque fatta, sia preghiera. Perché il nostro agire possa diventare luogo di incontro e comunicazione con Dio, è necessario che la nostra azione sia fatta in corrispondenza alla volontà di Dio e che proceda dall’intima unione con Lui.

La necessità che ha il salesiano di riservare un tempo specifico per la preghiera personale e comunitaria non è tanto perché si neghi che la vita quotidiana possa essere il luogo per incontrare Dio nei giovani, oppure perché si consideri che la vera preghiera sia soltanto quella esplicita, fatta in cappella; ma, piuttosto, perché il salesiano è consapevole della sua creaturalità, quindi, del suo essere peccatore. Appunto per questo può sviare l’intenzione nel suo agire e ha bisogno di intimità con il Signore per purificare le motivazioni dell’azione e così continuare a rapportarsi con Dio là dove Lui gli si vuole manifestare: nella vita.

Attraverso la preghiera esplicita, il salesiano scava nell’intimo di se stesso e purifica l’opzione fondamentale, riconfermando Dio come Signore della propria esistenza, che orienta la vita e dà senso a tutte le cose che fa. Nella preghiera esplicita, personale e comunitaria, il salesiano riconosce la priorità della scelta per Dio, come amore supremo che esclude tutto ciò che gli si oppone.

Se manca questa purificazione dell’intenzione, che procede dall’intima unione con Dio, l’azione – anche quella che possiamo chiamare di indole apostolica – diventa opera delle nostre mani e quindi causa di impoverimento spirituale. «La caratteristica sobrietà nelle pratiche di pietà voluta da Don Bosco va quindi interpretata non come un minimismo rilassato, ma in riferimento al contesto. In questo caso, alla ricchissima e intensa atmosfera soprannaturale dell’Oratorio di Valdocco, sia come irradiazione della santità di Don Bosco, sia come risultante dell’ambiente di fervore che lui aveva creato tra i giovani, e nel quale Dio era indiscussamente il centro di tutto» .

La trasformazione della vita in preghiera suppone quindi una solida unione con Dio. Solo allora la preghiera esplicita può, se si vuole, diminuire, perché l’azione, trasformata in preghiera, viene da dove l’anima si perde in Dio .

Sentirsi strumenti di Dio a favore dei giovani

Contro il rischio dell’efficientismo dilagante e della sola ricerca dei risultati, i Salesiani sentono, nel loro lavoro, l’urgenza di un atteggiamento di radicale umiltà. Si tratta di essere fedeli a una missione ricevuta. Quindi prima di un dare, la nostra missione è un ricevere. Non siamo proprietari del Regno, né del compito ricevuto. La Vigna ha un Padrone. Il lavoro diventa preghiera se è fatto con spirito di ubbidienza e disponibilità verso Colui che ci ha mandato: «Non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore; quanto a noi, siamo i vostri servitori per amore di Gesù».

Il salesiano si comporta da “mistico” nell’azione quando, consapevole della propria debolezza, lavora cercando di sapere che cosa è gradita a Dio e lasciandosi condurre dalla volontà di Colui che vuole che tutti gli uomini siano salvi.

La vita spirituale del salesiano consiste proprio nel lasciare che questo amore divino riempia il suo cuore per poterlo diffondere tra i giovani. Il «silenzio di tutto l’essere», di cui parla il CGS, «nasce proprio dal bisogno di procedere sempre più nell’intimità con Dio “sommamente amato”: un silenzio che ci mette nelle condizioni di ascoltare veramente Dio, e di identificarci col suo disegno di redenzione»

Il salesiano sa di essere stato scelto proprio per essere testimone e strumento di questa presenza attiva di Dio nella storia. Scorge come il suo agire è preceduto e superato da una presenza più forte. Ne gioisce, intercede e loda. Attraverso la presenza del salesiano, il giovane è toccato da un amore nuovo, potente e trasformante.

«Segno e portatore dell’amore di Dio ai giovani, specialmente più poveri» si traduce per il salesiano nel triplice atteggiamento di compassione, avvicinamento, intercessione, salvezza effettiva verso i giovani.

Scoprire la presenza dello Spirito nella vita dei giovani

Le Costituzioni parlano della docilità e disponibilità a rinnovare sempre l’attenzione allo Spirito: «Attento alla presenza dello Spirito e compiendo tutto per amore di Dio, [il salesiano] diventa, come Don Bosco, contemplativo nell’azione».

Lo Spirito agisce nel fondo di ogni coscienza umana. Occorre saper scoprire e interpretare questa presenza misteriosa, riconoscerne i segni, individuare i luoghi privilegiati e le diverse manifestazioni dello Spirito nella vita dei giovani.

Con meraviglia e gioia, il salesiano scopre Dio all’opera in un cuore accogliente, in un gruppo aperto, in un avvenimento banale o inaspettato. E per questo è disposto ad incontrare il giovane là dove egli si trova, consapevole di dover interpretare bene il senso dell’azione divina per esserne il servitore e il cooperatore visibile. E più particolarmente, è convinto che Dio parla segretamente a ogni giovane e lo invita con premura al dialogo dell’Alleanza in questo momento decisivo della sua storia personale.

Al posto della condanna, il salesiano preferisce il discernimento come strumento di lettura della storia da un punto di vista cristiano. Un criterio che implica un’accettazione della storia senza riserve pregiudiziali e senza ingenuità; anzi, la storia è luogo di lettura dei «segni», cioè di significati rilevanti per la fede cristiana (cf. Mt 16, 4).

Alla diagnosi dei segni dei tempi, corrisponde la terapia dell’aggiornamento, per tendere «l’orecchio alle voci della terra» e così stabilire un rapporto vivo e vitale col passato, il presente e il futuro. In tal modo, la contemplazione è inclusa nel donarsi pienamente al servizio dei giovani e del popolo, accettandone le esigenze quotidiane sull’esempio del Buon Pastore: partecipare alla paternità di Dio, operando come Lui in favore della vita, dalle forme più elementari (cibo, casa, istruzione), a quelle più alte (rivelazione del Vangelo, vita di fede).

Il salesiano esercita il suo ruolo di «strumento dell’amore di Dio ai giovani» sotto il segno della concretezza storica: «Il salesiano deve avere il senso del concreto ed essere attento ai segni dei tempi, convinto che il Signore lo chiama attraverso le urgenze del momento e del luogo»

CONCLUSIONE

Fin qui alcune considerazioni sulla preghiera del salesiano. Con l’espressione di Don Bosco, possiamo chiamarla la preghiera del “da mihi animas”. Essa dovrebbe impregnare l’agire del salesiano per il bene dei giovani. Don Bosco insiste che i suoi figli prendano l’abitudine di coniugare in un’unica realtà il lavoro, che può essere quasi frenetico, e la preghiera, che è respirare Dio, affinché ogni opera sia come un “salterio delle buone opere”.

Occorre ricordare che la maturazione personale e la crescita comunitaria non si escludono; anzi, debbono sostenersi e integrarsi reciprocamente. «Potremo formare comunità che pregano – ci ripete la Regola di vita – solo se diventiamo personalmente uomini di preghiera».«L’azione dello Spirito è per il professo fonte permanente di grazia e sostegno nello sforzo quotidiano per crescere nell’amore perfetto di Dio e degli uomini. I confratelli che hanno vissuto o vivono in pienezza il progetto evangelico delle Costituzioni sono per noi stimolo e aiuto nel cammino di santificazione» .

La preghiera dei nostri Santi

La testimonianza di fratelli e sorelle avviati verso gli altari manifesta come questa forma di preghiera non sia una proposta campata in aria, ma sia ormai assunta da fratelli e sorelle che la vivono nel quotidiano, come hanno confermato anche coloro che ne hanno esaminato la vita e le virtù alla luce della teologia. È interessante rivisitare il loro percorso nella condizione di consacrati/e o laici, perché appare evidente una costante: in tutti si nota una valorizzazione sentita delle pratiche o dei momenti espliciti, spesso ritagliati personalmente, e la consegna del proprio lavoro e della propria vita nelle mani del Signore.

È recente la canonizzazione di Mons. Luigi Versiglia. Egli scrive al Carmelo di Firenze: «Solleviamo più in alto i nostri cuori, dimentichiamo di più noi stessi e parliamo di più di Dio, del modo di servirlo di più, di consolarlo di più, del bisogno e del modo di guadagnargli delle anime. Voi, Sorelle, potrete più facilmente parlare a noi delle finezze dell’amore di Gesù, noi forse potremo parlare a voi della miseria di tante anime, che vivono lontano da Dio, e della necessità di condurle a Lui; noi ci sentiremo elevati all’amore a Dio, voi vi sentirete maggiormente spinte allo zelo».

A proposito del venerabile Artemide Zatti abbiamo sentito parlare particolarmente della instancabile carità . L’intensità con cui il Servo di Dio viveva il senso della presenza di Dio, lo portava a vederLo nei malati e nei sofferenti fino a modellare il suo parlare: «Sorella, prepari un bel letto per il Signore». Questo troviamo ripetutamente rilevato nelle testimonianze.

«L’impressione che ho ricevuto – afferma un teste – fu che era un uomo unito al Signore. La preghiera era come il respiro della sua anima, tutto il suo modo di fare dimostrava che viveva pienamente il primo comandamento di Dio, lo amava con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta l’anima».«Era evidente – aggiunge un altro – che il Servo di Dio praticava una preghiera continua; in bicicletta pedalava

e pregava, così pure quando curava i malati [ ]; con spontaneità proferiva espressioni di fede e pronunciava frasi che elevavano lo spirito, anche con i religiosi» E ancora: «Zatti si mosse in gioventù e in età adulta in una sfera soprannaturale, senz’altro interesse che la gloria di Dio e la salvezza delle anime».

Anche don Luigi Variara è ormai avviato verso la Beatificazione. La vita cristiana e religiosa di don Luigi Variara fu caratterizzata da un’intensa visione teologale e

da una costante attività sacerdotale e missionaria. La fede viva, che fu in lui sorgente di forza spirituale, era così semplice e forte da non lasciar posto alla stanchezza e allo scoraggiamento; e proprio con la fede egli riuscì a superare tutti gli ostacoli che si frapposero sulla sua strada, sempre e unicamente per amore di Dio e del prossimo.

L’amore di don Luigi Variara verso Dio è testimoniato dal suo modo di pregare, dal suo ardore eucaristico, dalla sua devozione ai Cuori di Gesù e di Maria. Il tipo di apostolato da lui svolto costituisce la migliore testimonianza di amore al prossimo, per l’eroica fortezza con cui seppe svolgerlo sino alla fine.

La liturgia della vita

All’accenno ai nostri Santi e Servi di Dio, che potrebbe essere approfondito, aggiungo una descrizione della preghiera educativa quotidiana. La ricavo da un testo del CG23: «Educare i giovani alla fede è, per il salesiano, lavoro e preghiera. Egli è consapevole che impegnandosi per la salvezza della gioventù fa esperienza della paternità di Dio. (...) Don Bosco ci ha insegnato a riconoscere la presenza operante di Dio nel nostro impegno educativo, a sperimentarla come vita e amore. (...) Noi crediamo che Dio ci sta attendendo nei giovani per offrirci la grazia dell’incontro con Lui e per disporci a servirLo in loro, riconoscendone la dignità ed educandoli alla pienezza di vita.

Il momento educativo diviene così il luogo privilegiato del nostro incontro con Lui» e della contemplazione della sua opera nella vita dell’uomo. Chi educa è chiamato a riconoscere Dio che opera nella persona umana e a mettersi a suo servizio. Qualcosa di simile a quello che dovette fare Maria, perché nella umanità di Gesù si manifestasse in forma storica la coscienza divina. Maria dovette accompagnarlo e sostenerlo con il cibo, l’affetto, il consiglio, l’insegnamento della lingua e delle tradizioni, l’inserimento nei rapporti umani, l’iniziazione all’universo dei gesti e delle parole religiose, senza sapere di scienza certa che cosa si sarebbe rivelato questo suo figlio.

C’è un dialogo misterioso tra ciascun giovane e quello che gli giunge dall’esterno, quello che sorge dentro di lui, quello che scopre come imperativo, grazia o senso. Un po’ alla volta va acquistando piena coscienza di sé, va elaborando un progetto di esistenza nel quale scommette le sue forze e gioca le sue possibilità.

L’educatore è chiamato ad offrire tutto quello che giudica opportuno, vivendo con speranza le incognite del futuro. Si interessa sinceramente dell’umano incerto che cresce. In esso infatti Dio verrà accolto e anche in forza della crescita si manifesterà con sempre maggior luminosità.

Chi educa, dunque, – genitore, insegnante, amico o animatore – mantiene viva la consapevolezza che egli è parte nella festa dell’incontro di Dio con i giovani. È l’amico dello sposo, non protagonista ma aiuto e spettatore attivo, come Maria alle nozze di Cana.

Proprio nella fede che intravede l’agire di Dio, nella speranza che attende la sua manifestazione nella vita dei giovani, e nella carità che si mette a disposizione del giovane e dello sposo si sviluppano i sentimenti e si vivono come preghiera i momenti educativi di gioia, di attesa, di dolore, di sforzo, di apparente fallimento. Si ringrazia, ci si rallegra, ci si lamenta, si intercede, si desidera, si invoca.

La celebrazione liturgica ha un Kyrie, un Gloria, un Credo, un’offerta, uno spazio simbolico, una comunità, tempi di penitenza e di esultanza. Così la liturgia della vita ha momenti di risultati gratificanti e di delusione, di iniziativa e di attesa, di solitudine e di compagnia. C’è uno spazio (cortile, scuola, quartiere!) e ci sono persone da amare e con le quali collaborare di cuore (la comunità educante).

Il tutto, vissuto alla luce della presenza operante di Dio, diventa orazione - contemplazione. Avviene come nella comunicazione tra persone che si conoscono bene: un sentimento si può esprimere con parole, con un gesto, con un dono, con uno sguardo, con un silenzio, con una visita, con un messaggio attraverso telefono o fax.

Si tratta – direbbe Sant’Agostino – di “prendere in mano il salterio delle buone opere e con esso cantare le lodi del Signore”.

Si deve però tener presente che c’è un rapporto tra atteggiamento continuo di preghiera ed esercizio di preghiera, tra preghiera-parola e preghiera-vita, tra preghiera esplicita e preghiera diffusa nella giornata, tra liturgia celebrata e liturgia della vita. Ed è forse in questo rapporto che si trovano le difficoltà, ma nel quale allo stesso tempo sta la ricchezza del salesiano, e perciò un punto fondamentale della sua formazione spirituale-apostolica.

I due elementi o aspetti sono importanti: l’uno per l’altro, entrambi per la stabilità e la pienezza della vita consacrata. Chi lascia l’uno, perde l’altro.

Colui che suggerisce ed educa ha bisogno di apprendimento e tempi speciali di concentrazione. «Molti credono che la preghiera venga da sé e non vogliono saperne del suo esercizio, ma sbagliano» .

C’è bisogno di una iniziazione calma e progressiva alle diverse forme di preghiera: vocale, mentale, lettura, silenzio, contemplazione, formule, creatività. Bisogna praticarle in diverse situazioni e momenti, fino ad impregnare la vita, in modo che la preghiera entri e venga fuori da noi per molte vie e in molte forme.

L’esercizio, poi, radica la consuetudine: la regolarità è determinante; tutte le cose importanti nella nostra vita hanno un orario, un tempo riservato; se un giorno non le possiamo fare nell’orario consueto, ne fissiamo subito un altro. Così per mangiare, dormire, lavarci.

Le mediazioni comunitarie sono indispensabili per noi: i luoghi, i tempi, le forme, la comunità. Dico “per noi”, perché lo stile comunitario ricopre tutte le dimensioni della nostra vita. Per altri religiosi può essere diverso. Ma si richiede anche l’applicazione personale. Il risultato e la modalità di questa applicazione sono diversi. Ciascuno ha il suo modo di pregare, come ha il suo modo di parlare, camminare e guardare. In questa chiave vanno interpretati la maggior o minor emotività, le distrazioni, le preferenze per la riflessione o le formule, i periodi di stanchezza.

Considerato tutto questo, che è necessario, dobbiamo riconoscere che la preghiera del cristiano rimane un dono. Cristo è il solo orante. Egli ci incorpora alla sua preghiera nello Spirito. Noi non sappiamo né che cosa dire né come dirlo. Lo Spirito mette sulle nostre labbra quello che conviene chiedere: «Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo stesso Spirito intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello spirito poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio».

«Sovente – dice un autore – i libri e guide parlano della preghiera come di una capacità che bisogna acquistare con sforzi propri, come una scienza o una abilità (...) ci si sente persi per strade intricate e di nuovo il desiderio di poter pregare rimane frustrato». “Signore, insegnaci a pregare”. La nostra vita ha bisogno di integrare riflessione e prassi, studio ed attività, silenzio ed incontro, sebbene per noi ciò non sia legato ad una rigida alternanza di tempi. E ciò nelle condizioni attuali di vita in cui si è più esposti alla molteplicità, al logorio, all’incalzare degli impegni.

Iniziazione dei giovani alla preghiera

Un ultimo punto, non meno importante, è quello della iniziazione dei giovani alla preghiera. Ringraziando il Signore, un primo livello generale viene offerto a tutti attraverso la catechesi, la preghiera giornaliera ben curata, le celebrazioni dell’Eucaristia, le feste.

I gruppi giovanili, che seguono la Spiritualità Giovanile Salesiana, possono coniugare meglio orazione esplicita e offerta di sé per gli altri secondo il piano di Dio. Nei gruppi emergono gli animatori e dirigenti. Questi non debbono essere solo “movimentisti”, coordinatori, ma animatori, secondo la loro età e preparazione, di un’esperienza umana e spirituale. Non è male che tra i gruppi e per i loro membri vi siano occasioni e scuole di preghiera.

La partecipazione dei giovani alla preghiera comunitaria, conforme a tempi e condizioni opportune, può essere anche uno stimolo ed una proposta. Non dimentichiamo che da essi sgorga saggezza di vita attraverso la Parola ascoltata, la condivisione, la presa di coscienza del nostro approdo definitivo, l’attenzione allo Spirito.

Maria, icona della nostra preghiera

Maria è icona, modello e ispirazione di questa forma di orazione: nel dialogo dell’Annunciazione, nel grato e gioioso inno del Magnificat, la sorpresa nel tempio, l’attenta cura di Gesù, la sequela fino alla Croce.

Vi è un’istantanea in cui l’atteggiamento di Maria appare in uno splendore semplice ed essenziale. Il momento dell’Incarnazione è un avvenimento in apparenza insignificante, che accade in una piccola nazione, nei dintorni di una cittadina sconosciuta, fuori dagli ambiti dove avvengono le cose che contano e dove si prendono le decisioni che influiscono sulla gente. Betlemme è l’opposto di Roma, Gerusalemme o Babilonia. La grotta è l’antitesi di una reggia, un tempio o un palazzo.

E così il fatto sarebbe rimasto per sempre: nascosto e insignificante. L’annuncio degli angeli, invece, lo fa diventare “notizia” per i pastori che ascoltano non solo il racconto dell’accaduto, ma la sua interpretazione salvifica: il bambino nato non è un uomo qualunque, è l’atteso, il Salvatore.

Luca riproduce così la natura dell’evangelizzazione. Essa non è una dottrina su Dio e sul mondo, né insegna soltanto verità religiose o etiche, ma riferisce avvenimenti veramente accaduti, evidenziandone il significato che hanno per l’uomo e il messaggio che contengono. La luce che si sprigiona dall’annuncio viene da Dio, ma è contenuta e rivelata nei fatti della storia umana.

E qui Luca sottolinea la diversa conoscenza che i vari personaggi hanno dell’Incarnazione e del suo significato, che è come la chiave per vivere nella fede tutti gli altri eventi della vita personale e sociale.

I pastori devono recarsi sul posto dove l’Incarnazione accade e possono averne una testimonianza diretta. Si fermano un po' di tempo e ascoltano Maria. Poi ritornano e riferiscono quanto è stato detto loro sul bambino. Essi non hanno esperienza personale di fatti precedenti, come l’annunciazione e la nascita verginale e non hanno nemmeno assistito all’apparire di Gesù.

La gente che ascolta i pastori si stupisce di quello che essi raccontano. Non esprime ancora la fede, ma è soltanto presa da quell’interesse iniziale, da quella curiosità per il meraviglioso in cui la fede può avere inizio.

«Maria, da parte sua, conserva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» . Ella non deve venire, come i pastori, al luogo dove avviene l’Incarnazione. È già lì, è parte dell’avvenimento. Non deve sentire da altri come sono andate le cose e quale significato hanno. Ella conserva memoria di tutte le promesse fatte all’umanità, come dimostra il Magnificat, ed è consapevole che Colui che è cresciuto nel suo seno viene dallo Spirito Santo.

Maria non si allontana, una volta visto il bambino, come i pastori, dal luogo dell’avvenimento. Rimane. Non può allontanarsi. Dovunque Gesù si incarna, Lei è indispensabile. Non capisce ancora tutti i significati che si sprigionano, né può enumerare tutte le energie che scaturiscono dall’Incarnazione.

Significati ed energie si riveleranno lungo la vita di Cristo e lungo tutti i secoli. Però Maria conserva nel cuore il ricordo dell’avvenimento, lo tiene caro, lo medita, vi è attenta e all’occasione lo sa ripensare per scoprirne nuove conseguenze.

Questa è la meditazione di Luca, che può suggerire anche a noi qualche spunto di meditazione sulla nostra spiritualità pastorale.

Noi non possiamo essere solo visitatori, turisti della parola e del mistero di Cristo. Sant’Agostino, paragonando gli atteggiamenti delle tre categorie di persone di cui abbiamo parlato, domanda al cristiano: A chi assomigli? a coloro che sentono l’annuncio e soltanto si stupiscono? ai pastori che vengono alla grotta, prendono qualche notizia e partono per annunciarla, o a Maria che coglie tutta la verità di Cristo, la serba nella mente e la medita continuamente? L’ammirazione dei primi si diluisce presto; l’informazione dei pastori, pur dettata dalla fede, è imperfetta e germinale. Soltanto chi contempla e interiorizza il mistero di Cristo può estrarne nuova luce e significati per i tempi e per i popoli.

La storia della Chiesa annovera molte figure di evangelizzatori di primo piano. Sono tutti “meditatori” pazienti della Parola e contemplatori umili del mistero. Quello che hanno approfondito nella preghiera e nello studio lo esprimono nella predicazione, negli scritti, nella guida della comunità cristiana, nell’orientamento delle anime.

Comunicare l’avvenimento di Cristo è la nostra professione e la finalità della nostra vocazione Dobbiamo esserne specialisti, perché lo avviciniamo con calma e tempo, ne ricaviamo luce per la

nostra vita personale, lo confrontiamo comunitariamente con quello che osserviamo nel nostro ambiente: questo si chiama interiorità. Non è un’operazione tecnica, ma l’effetto di una passione: «Io vi ho generato a Cristo» . Lo possiamo dire anche a riguardo dell’educazione cristiana. Viene al caso un’espressione di Don Bosco: «Ora vedo nella Congregazione un bisogno, quello di metterla al riparo dalla freddezza col promuovere lo spirito di pietà e di religiosa osservanza» .

I nostri ambienti hanno la vocazione di far trasparire la presenza di Dio: questo sopra ogni altra finalità, il resto viene come conseguenza. (Da una lettera ai Salesiani del 1-1-2001 di D. J. E. Vecchi- Ottavo successore di Don Bosco)