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1 LEZIONE DEL 07/01/2009 I PRESUPPOSTI DEL FALLIMENTO. Il d.lgs. n°169 del 12/09/2007, noto come correttivo alla riforma del fallimento e delle procedure concorsuali, ha apportato interessanti modifiche alla nuove veste che le disposizioni del R.D. n° 267 del 1929 avevano assunto già dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n°5 del 09/01/2006. 1. REQUISITI. La prima rilevante modifica concerne, innanzitutto, i presupposti in presenza dei quali soltanto risulta possibile giungere alla dichiarazione di fallimento: mentre nella sua formulazione originaria la norma prevedeva che potessero essere dichiarati falliti gli imprenditori commerciali (e solamente questi!) i quali, oltre a presentare il requisito oggettivo dell’insolvenza, possedessero altresì i seguenti requisiti soggettivi: 1) Che avessero effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a € 300.000,00; 2) Che avessero realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a € 100.000,00 (questa soglia è stata oggi innalzata fino a € 200.000,00). La norma del precedente art. 1 escludeva che potessero essere dichiarati falliti i piccoli imprenditori e contemplava una forma di riconoscimento negativo dell’imprenditore fallibile stabilendo che “Ai fini del primo comma,non sono piccoli imprenditori gli esercenti un’attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente…”. Ad oggi, la situazione risulta ribaltata poiché non solo è stata espunta l’espressa esclusione dei piccoli imprenditori, ma anche perché i criteri elencati non devono più sussistere alternativamente bensì cumulativamente. Inoltre ai due criteri quantitativi esistenti è stato aggiunto un terzo, ovvero l’avere “un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad € 5000.000,00”. Questa norma va altresì coordinata con la disposizione dell’art. 15, ultimo comma, in cui si dice che “non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro trentamila”. Se questi sono i cd. requisiti soggettivi di fallibilità, la legge postula che accanto a questi ne sussista un altro, di natura oggettiva, che non ha subito variazioni nel tempo, e che coincide con lo stato di insolvenza o di decozione in cui l’imprenditore deve venirsi a trovare. Una simile situazione è descritta nell’art. 5 l.f. : “l'imprenditore che si trova in stato d'insolvenza è dichiarato fallito. Lo stato d'insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i

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LEZIONE DEL 07/01/2009

I PRESUPPOSTI DEL FALLIMENTO.

Il d.lgs. n°169 del 12/09/2007, noto come correttivo alla riforma del fallimento e delle procedure concorsuali, ha apportato interessanti modifiche alla nuove veste che le disposizioni del R.D. n° 267 del 1929 avevano assunto già dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n°5 del 09/01/2006.

1. REQUISITI.

La prima rilevante modifica concerne, innanzitutto, i presupposti in presenza dei quali soltanto risulta possibile giungere alla dichiarazione di fallimento: mentre nella sua formulazione originaria la norma prevedeva che potessero essere dichiarati falliti gli imprenditori commerciali (e solamente questi!) i quali, oltre a presentare il requisito oggettivo dell’insolvenza, possedessero altresì i seguenti requisiti soggettivi:

1) Che avessero effettuato investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore a € 300.000,00;

2) Che avessero realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore a € 100.000,00 (questa soglia è stata oggi innalzata fino a € 200.000,00).

La norma del precedente art. 1 escludeva che potessero essere dichiarati falliti i piccoli imprenditori e contemplava una forma di riconoscimento negativo dell’imprenditore fallibile stabilendo che “Ai fini del primo comma,non sono piccoli imprenditori gli esercenti un’attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente…”.

Ad oggi, la situazione risulta ribaltata poiché non solo è stata espunta l’espressa esclusione dei piccoli imprenditori, ma anche perché i criteri elencati non devono più sussistere alternativamente bensì cumulativamente.

Inoltre ai due criteri quantitativi esistenti è stato aggiunto un terzo, ovvero l’avere “un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad € 5000.000,00”.

Questa norma va altresì coordinata con la disposizione dell’art. 15, ultimo comma, in cui si dice che “non si fa luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore a euro trentamila”. Se questi sono i cd. requisiti soggettivi di fallibilità, la legge postula che accanto a questi ne sussista un altro, di natura oggettiva, che non ha subito variazioni nel tempo, e che coincide con lo stato di insolvenza o di decozione in cui l’imprenditore deve venirsi a trovare.

Una simile situazione è descritta nell’art. 5 l.f.: “l'imprenditore che si trova in stato d'insolvenza è dichiarato fallito. Lo stato d'insolvenza si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i

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quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. La dottrina e la giurisprudenza sono giunte ad importanti conclusioni interpretative circa il significato da attribuire ad una simile locuzione: l’insolvenza va intesa come “lo stato patrimoniale di un soggetto che non ha più la capacità obiettiva di far fronte puntualmente alle proprie obbligazioni”.

La situazione di insolvenza è, dunque, una situazione del patrimonio dell’imprenditore che non gli permette più di assolvere regolarmente le proprie obbligazioni; tradizionalmente l’insolvenza è stata definita dalla giurisprudenza, non certo recente, come quella “condizione di squilibrio finanziario non superabile con mezzi ordinari nei termini ragguagliati all’ordinaria scadenza dei debiti”1. Si è aggiunto che connotati indefettibili e segni di riconoscimento dell’insolvenza sono da un lato la regolarità dei pagamenti, che non viene rispettata, e dall’altro la necessaria esteriorizzazione di tale stato attraverso determinati segni che la legge stessa riconosce e definisca (ovvero gli inadempimenti e/o gli altri fatti). Tale situazione va però tenuta distinta dall’inadempimento che consiste nella mancata esatta prestazione di quanto dovuto, riferendosi sempre e soltanto ad una singola ed identificata obbligazione: esso, in effetti, consegue ad una situazione di temporanea crisi di liquidità la quale può avere anche buone probabilità di essere sanata. Normalmente l’inadempimento è una manifestazione dello stato di insolvenza che,tuttavia, può manifestarsi anche in altri modi: pertanto, risulterà insolvente anche l’imprenditore che può pagare solo parzialmente i suoi debiti ovvero quello che può adempiere a tutti i suoi debiti in un momento successivo alla scadenza degli stessi. Essendo l’insolvenza una situazione d’impotenza patrimoniale non transitoria, essa non si identifica necessariamente né tout-court con l’eccedenza del passivo sull’attivo: in particolare la Suprema Corte ha ritenuto, concordemente a quanto già affermato dalla maggioranza della dottrina, che l’eccedenza dell’attivo sul passivo non è di per sé in grado di escludere l’esistenza di uno stato di insolvenza, sottolineando come la mancanza di liquidità e di credito serva solo ad integrare la nozione di insolvenza, risultando del tutto irrilevante la preponderanza dell’attivo sul passivo2.

2. COMPETENZA E PROCEDIMENTO. L’art. 6 disciplina la iniziativa per la dichiarazione di fallimento: la sostanziale e principale modifica apportata dal decreto correttivo del 2007 alla disposizione de qua si rinviene, in sostanza, nella eliminazione della dichiarazione di fallimento d’ufficio da parte del tribunale. Il fallimento, pertanto, potrà essere dichiarato solo su ricorso del debitore, di uno o più creditori o su richiesta del pubblico ministero. È, invece, l’art. 9 a determinare i criteri per l’individuazione del tribunale competente alla gestione del procedimento: “il fallimento è dichiarato dal tribunale del luogo dove l'imprenditore                                                             1  Cass. 26/02/1990 n°1439. 2  Cass. I 28/04/2006 n°9856; Cass. I 11/05/2001 n°6550.

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ha la sede principale dell'impresa”: la norma è, per questo aspetto rimasta del tutto invariata raffrontandola con la modifica già intervenuta col d.lgs. n°5/2006. È di particolare rilevanza la disposizione del secondo comma in cui si dispone che “il trasferimento della sede intervenuto nell’anno antecedente all’esercizio dell’iniziativa per la dichiarazione di fallimento non rileva ai fini della competenza”. Il legislatore ha, in buona sostanza, inteso rendere del tutto inefficace l’eventuale trasferimento della sede principale dell’impresa avvenuto entro l’anno dall’esercizio dell’iniziativa per evitare il fenomeno del cd forum shopping ovvero che fosse il debitore a scegliere il tribunale che doveva decidere del proprio fallimento. A ben riflettere, tuttavia, siffatto criterio ha una portata limitata in quanto esso si regge esclusivamente su un parametro di tipo cronologico che non può andare oltre l’anno che precede la data del deposito del ricorso di fallimento: vi è stata però una pronuncia della Corte di Cassazione nella quale il giudice di legittimità ha superato il dettato della norma in parola ritenendo altresì ininfluente il trasferimento di sede se l’insolvenza si sia già verificata, quand’anche essa non si fosse ancora manifestata3. Qualche Autore ha, infine, sottolineato come la nuova disciplina dell’art. 9 presenti comunque un inconveniente quale quello di sacrificare, in caso di effettivo e reale trasferimento, la garanzia della competenza della sede attuale dell’impresa4. I commi terzo e quarto della norma in parola, sanciscono la vigenza di un principio di nazionalità in materia, in quanto nulla vieta che l’imprenditore che abbia la sede principale della propria impresa all’estero possa essere dichiarato fallito in Italia, pur essendo già intervenuta una dichiarazione di fallimento nel Paese ove la sede è stata collocata. L’ultimo comma, poi, applica alla materia fallimentare il cd principio della perpetuatio iurisdictionis laddove stabilisce che “il trasferimento della sede all’estero non esclude la sussistenza della giurisdizione italiana, se è avvenuto dopo il deposito del ricorso di cui all’art. 6 o la presentazione della richiesta di cui all’art. 7”. Questa disposizione può essere altresì considerata un rafforzativo di quella di cui ai commi 2 e 3 del medesimo art. 9, tendenti a consentire al giudice nazionale di pronunciarsi in ogni caso sulla istanza avanzata ex art. 6 l.f.. Quanto alle fasi de procedimento della dichiarazione di fallimento, l’art. 15, rubricato appunto Procedimento per la dichiarazione di fallimento, ne scandisce le varie fasi: il procedimento per la dichiarazione di fallimento si svolge dinanzi al Tribunale in composizione collegiale con le modalità dei procedimenti in camera di consiglio, alla stessa maniera di quanto già previsto dalla disciplina anteriore alla riforma. Il Tribunale convoca, con decreto in calce al ricorso, il debitore e i creditori istanti per il fallimento e nel procedimento interviene il pubblico ministero che ha assunto l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento.

                                                            3   Si tratta della sent. Cass. I 29/04/2006 n°10051, emessa prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n°5/2006, la quale tuttavia, si inserisce perfettamente nello spirito della modifica legislativa. 4 G. Lo Cascio, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Milano 2007.

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Il decreto di convocazione è emesso dal presidente o dal giudice relatore, se vi è delega alla trattazione del procedimento ai sensi del comma 5. Tra la data della notificazione, a cura di parte, del decreto di convocazione e del ricorso, e quella dell’udienza deve intercorrere un termine non inferiore a quindici giorni. Nell’ipotesi in cui, invece, sia stato lo stesso debitore a depositare in proprio il ricorso di fallimento, l’art. 14 gli impone una serie di obblighi da rispettare: tali obblighi consistono nel deposito, presso la cancelleria del tribunale adito delle scritture contabili e fiscali obbligatorie per i tre esercizi precedenti ovvero dall’inizio dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata. Un primo intervento riformatore è consistito nella modifica del termine cui la documentazione debba fare riferimento che non è più quello dei due anni precedenti bensì dei tre esercizi precedenti alla presentazione dell’istanza. È fatto inoltre onere al medesimo debitore di depositare altresì uno stato particolareggiato ed estimativo delle attività dell’impresa stessa, l'elenco nominativo dei creditori e l'indicazione dei rispettivi crediti, l’indicazione dei ricavi lordi per ciascuno degli ultimi tre esercizi, l'elenco nominativo di coloro che vantano diritti reali e personali su cose in suo possesso e l'indicazione delle cose stesse e del titolo da cui sorge il diritto. Il decreto di fissazione dell’udienza collegiale, inoltre, contiene l’indicazione che il procedimento è volto all’accertamento dei presupposti per la dichiarazione di fallimento e fissa un termine non inferiore a sette giorni prima dell’udienza per la presentazione di memorie e il deposito di documenti e relazioni tecniche. In ogni caso, il tribunale dispone, con gli accertamenti necessari, che l’imprenditore depositi una situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata (verosimilmente nel caso in cui il ricorso di fallimento sia stato depositato da un soggetto diverso dallo stesso debitore): esso può, inoltre, richiedere anche eventuali informazioni urgenti. Al tribunale, in definitiva, sono stati comunque riconosciuti una serie di poteri probatori che esso può esercitare ed attivare di propria iniziativa; è innegabile che il giudizio aperto a seguito del deposito di un ricorso di fallimento debba svolgersi secondo tempi celeri e, quindi, con formalità semplificate, ciononostante non si può né deve impedire che il tribunale deliberi secondo il proprio libero convincimento, non limitandosi a tener fede alle sole allegazioni delle parti. Ciò stante, sarà certamente onere del debitore provare il possesso congiunto da parte sua di tutti i requisiti elencati nell’art. 1 comma 2 l.f., così come incomberà sul creditore ricorrente ovvero su quanti si inseriscano nella procedura provare i fatti da cui il proprio credito si sia originato; il tribunale ben potrà, però, in qualsiasi momento, disporre l’assunzione di ulteriori mezzi di prova o addirittura pervenire al rigetto del ricorso di fallimento allorchè il possesso congiunto dei suddetti tre requisiti da parte del debitore emerga anche aliunde (ad esempio dalla documentazione acquisita di propria iniziativa ovvero all’esito dell’intera istruttoria celebrata in contradditorio tra le parti). È importante sottolineare come il legislatore abbia voluto mantenere in capo al tribunale, subordinandolo però ad una specifica istanza di parte, il potere di emettere i provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio o dell’impresa oggetto del provvedimento, i quali hanno efficacia limitata alla durata del procedimento e vengono confermati o revocati dalla sentenza che dichiara il fallimento, ovvero revocati con il decreto che rigetta l’istanza.

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Come già ricordato, la legge dispone che non debba farsi luogo alla dichiarazione di fallimento se l’ammontare dei debiti scaduti e non pagati risultanti dagli atti dell’istruttoria prefallimentare è complessivamente inferiore ad euro trentamila. Sul procedimento camerale che precede l’eventuale dichiarazione di fallimento molto si è discusso in merito alla sua natura contenziosa, al suo carattere sommario nonché circa la sua compatibilità con il principio del giusto processo garantito dalla Carta Costituzionale. È pacifico che il procedimento debba seguire le regole di cui agli artt. 737 e ss c.p.c.: dalla lettura della Relazione governativa emerge che l’opzione a favore del rito camerale sarebbe stata orientata dalla esigenza di rispettare la naturale speditezza del procedimento che indubbiamente incide su diritti soggettivi, imponendo per ciò stesso l’attivazione di tutte le garanzie riconosciute dalla Costituzione. In particolare interessa valutare la compatibilità di siffatto impianto di regole processualistiche con il principio di cui all’artt. 111 Cost. del giusto processo: a ben riflettere, la compatibilità del rito ex art. 15 l.f. con il predetto principio di rango costituzionale discende dall’aver eliminato la possibilità che il tribunale proceda d’ufficio alla dichiarazione di fallimento di un imprenditore; dalla regolamentazione compiuta del contraddittorio tra le parti, in particolare del contraddittorio sulla formazione della prova; dall’aver delimitato il ricorso del giudice a poteri istruttori officiosi solamente ai casi di urgenza, sempre nel rispetto delle finalità di un simile procedimento nonché del principio del contraddittorio. Circa i dubbi che si erano nutriti sulla natura contenziosa di un simile giudizio, essi sono stati fugati dalla Corte Costituzionale la quale ha ritenuto che sul punto la riforma del 2006/2007 nulla abbia rinnovato “essendo indubbia la contrapposizione di posizione e interesse tra il creditore istante ed il debitore che resiste all’istanza di fallimento”5. La maggiore disputa dottrinaria si è svolta, tuttavia, avendo riguardo al carattere pieno ovvero sommario da dover riconoscere al giudizio prefallimentare: da un lato si ponevano quegli Autori i quali propendevano per la cognizione sommaria in ragione dell’esigenza di far presto per tutelare le posizioni quei terzi che potessero trarre eccessivo nocumento dall’impossibilità del comune debitore di onorare le proprie obbligazioni; dall’altro alto si ponevano quanti, all’opposto, riconoscevano nel rito camerale che si instaura nelle forme dell’art. 15 l.f. un giudizio a cognizione piena ed esauriente, sia pure a rito speciale semplificato. Successivamente, però, si è chiarito che la cognizione che caratterizza il procedimenti di istruttoria prefallimentare sicuramente non presenta i comuni tratti del giudizio sommario, laddove si dovesse pensare ad accertamento da parte dell’A.G. che avvenga con i caratteri della superficialità o parzialità; al contrario, il giudice deve essere pienamente convinto della sussistenza di tutti i presupposti e requisiti per procedere alla dichiarazione di fallimento, considerato che la legge prevede espressamente un ulteriore rimedio di contestazione dato dal reclamo ex art. 18 l.f.. Il giudice ha il dovere già in questa prima fase della procedura concorsuale e indipendentemente dal suo esito, di esaminare i “sintomi” dell’insolvenza, di valutare se l’imprenditore presenta i requisiti dimensionali oggi richiesti dal nuovo dettato dell’art. 1 e, infine, deve sempre in questa sede tenere conto delle eccezioni che il debitore eventualmente sollevi a propria discolpa.

                                                            5  Vedi C. Cost. 20/07/1999 n°328.

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Lo scopo cui la fase prefallimentare è deputata è quello di far sì che il tribunale a) verifichi la propria competenza; b) verifichi la sussistenza di tutti i presupposti e i requisiti che la legge postula perché si possa procedere alla dichiarazione di fallimento; c) valuti che è decorso meno di un anno dalla cancellazione della società del registro delle imprese se l’insolvenza si è manifestata prima, ovvero che non sia ancora trascorso l’anno successivo; d) che ricorra l’ulteriore condizione diu cui all’ultimo comma dell’art. 15, ovverossia che all’esito della predetta istruttorio l’imprenditore risulti avere una debitoria complessiva, anche non ancora scaduta, di importo pari o superiore a € 30.000,00. Ciò detto, la conclusione cui si è pervenuti è nel senso che non essendo possibile riferire la sommarietà alla cognizione quanto semmai alle sole modalità mediante le quali esso si sviluppa, si può ben parlare della fase dell’istruttoria prefallimentare come di un procedimento “deformalizzato ossia sommario quanto allo svolgimento”6. In definitiva quello descritto dall’art. 15 l.f. è sì un rito camerale ibrido, che tuttavia mantiene i caratteri tipici di un giudizio di primo grado a cognizione piena7. Un’ultima precisazione sul procedimento prefallimentare interessa il ruolo del p.m., che non ha subito modifiche a seguito di alcuna iniziativa riformatrice: ebbene, questi è parte necessaria del giudizio solamente allorquando sia sua l’iniziativa per la dichiarazione di fallimento. In tutti gli altri casi, il suo intervento è ammesso quando vi sia da tutelare un pubblico interesse onde egli potrà intervenire in tutti i casi previsti dall’art. 70 comma 3 c.p.c., esercitando tutti i poteri, probatori e non, che il codice di rito gli riconosce ex art. 72 comma 1 c.p.c.. Dopo l’udienza camerale in cui le parti dinanzi ai giudici hanno esposto le proprie deduzioni circa la fallibilità dell’imprenditore di cui trattasi, il tribunale deve decidere con una sentenza sia che accolga sia che rigetti il ricorso di fallimento. Il suo contenuto è descritto nell’art. 16: con la sentenza dichiarativa del fallimento, il tribunale contestualmente:

1) nomina il giudice delegato per la procedura; 2) nomina il curatore; 3) ordina al fallito il deposito dei bilanci e delle scritture contabili e fiscali obbligatorie, nonché

dell’elenco dei creditori, entro tre giorni, se non è ancora stato eseguito a norma dell'articolo 14;

4) stabilisce il luogo, il giorno e l’ora dell’adunanza in cui si procederà all’esame dello stato passivo, entro il termine perentorio di non oltre centoventi giorni dal deposito della sentenza, ovvero centottanta giorni in casi di particolare complessità della procedura, per far fronte alle molte difficoltà organizzative che il curatore ed il giudice delegato si troverebbero a dover affrontare laddove si trattasse di procedure particolarmente complesse, cui partecipi un numero elevato di creditori;

                                                            6  Vedi M. Fabiani, in A. Jorio e M. Fabiani, Il nuovo diritto fallimentare. Aggiornamento al d.lgs. n°169/2007, Bologna 2008. 7  Vedi F. De Santis, Istruttoria prefallimentare e diritto di difesa, Il Fallimento, 2008; M. Fabiani, L’impulso officioso nella gestione del procedimento prefallimentare, Il Foro italiano, 2007.

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5) assegna ai creditori e ai terzi, che vantano diritti reali o personali su cose in possesso del fallito, il termine perentorio di trenta giorni prima dell’adunanza di cui al numero 4 per la presentazione in cancelleria delle domande di insinuazione.

La sentenza è immediatamente esecutiva e produce i suoi effetti dalla data della pubblicazione ai sensi dell’art.133, comma 1, c.p.c.: gli effetti nei riguardi dei terzi si producono dalla data di iscrizione della sentenza nel registro delle imprese ai sensi dell’art. 17, secondo comma, norma che regola il sistema della pubblicità della sentenza dichiarativa di fallimento. Appare certamente opportuno ed appropriato soffermarsi sul contenuto che la sentenza dichiarativa di fallimento deve contenere: in primo luogo possiamo facilmente affermare che siffatto provvedimento abbia carattere sia decisorio, nella parte in cui dichiara il fallimento perché incide sulla posizione giuridica del fallito ma anche sui diritti dei creditori dello stesso, sia ordinatorio dal momento che essa contiene una serie di indicazioni e direttive circa la prosecuzione della procedura concorsuale. Trattandosi di un provvedimento definitivo, essa laddove non fosse impugnata a mezzo del reclamo, passa in cosa giudicata e gli effetti che da essa discendono acquistano regime di stabilità e definitività; tuttavia il giudicato si forma, e non potrebbe essere altrimenti, solamente sui presupposti logici e giuridici che sono stati valutati dal tribunale ai fini di quello specifico ricorso, mentre eventuali altre circostanze, elementi e/o fatti anche esaminati dal collegio in udienza prefallimentare non acquistano lo specifico regime del giudicato. Trattandosi di una sentenza, ci si aspetterebbe che la motivazione del provvedimento col quale si sia giunti alla declaratoria di insolvenza sia congrua e specifica; in realtà spesso accade che essa sia, all’opposto, succinta ed essenziale. A ben riflettere, non è doveroso che i giudici motivino sempre in modo ampio una simile pronuncia; pensiamo al caso in cui il fallimento sia dichiarato su istanza dello stesso imprenditore, ovvero anche al caso in cui il debitore non abbia presentato eccezioni di particolare rilevanza nel giudizio prefallimentare, onde la decisione a favore della dichiarazione di fallimento appare agevole. È naturale che laddove la stessa fase preliminare all’apertura della procedura concorsuale presenti elementi di particolare complessità, il collegio non potrà esimersi dal motivare congruamente e chiaramente le ragioni per le quali propenda oppure no per la dichiarazione di fallimento. Ci si è anche interrogati circa le conseguenze del difetto di motivazione nella sentenza de qua: la soluzione per la quale si propende è nel senso di non riconoscere che dal difetto di motivazione derivi la nullità assoluta del provvedimento. Il giudice del gravame ben potrà, dunque, procedere alle opportune correzioni e/o integrazioni ovvero, addirittura, potrà confermare la dichiarazione di fallimento anche sulla base di presupposti e motivi diversi da quelli indicati nel provvedimento impugnato. Si è detto che la sentenza ex art. 16 ha anche un contenuto obbligatorio perché impone una serie di precetti da seguire per il corretto prosieguo della procedura fallimentare: innanzitutto il tribunale nella stessa nomina tutti gli organi della procedura (g.d. e curatore); ordina la fallito il deposito di

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tutte le scritture contabili obbligatorie nonché delle scritture fiscali, oltre, ovviamente ai bilanci8; infine il fallito deve un elenco di tutti i propri creditori entro i tre giorni successivi al deposito della sentenza. Il mancato ottemperamento ad un simile obbligo, tuttavia, non dovrebbe far ritenere non pervenuta la comunicazione allo stesso del contenuto della sentenza, come ampiamente ritenuto in giurisprudenza9. È poi importante sottolineare come già con la sentenza dichiarativa di fallimento il tribunale fissi l’udienza per la verifica dei crediti e la formazione dello stato passivo, udienza che deve tenersi entro 120 gg dal deposito della sentenza, ovvero entro 180 gg in casi di particolare complessità. Questo termine viene qualificato dalla legge come perentorio; nonostante ciò, alcuna decadenza è stata comminata nel caso di sua violazione, trattandosi di un adempimento che va assolto da parte del g.d.10. La sentenza fissa poi l’ulteriore termine di 30 gg prima dell’adunanza affinchè i creditori o i terzi che vantino diritti reali sui beni del fallito depositino in cancelleria le proprie domande di insinuazione tempestiva allo stato passivo. Anche in questo caos però i creditori non tempestivi non saranno per ciò stesso esclusi dallo stato passivo del fallimento, dovendo allora ricorrere alle forme dell’insinuazione tardiva. Alla pronuncia della sentenza dichiarativa di fallimento la legge ricollega la produzione di effetti anche di carattere processuale: l’art. 43, dettato nel novero delle norme che disciplinano proprio gli effetti del fallimento recita chiaramente che “l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo” e siffatta interruzione opera in via automatica senza il bisogno che essa sia dichiarata dal difensore del fallito. Un’altra disposizione che rileva nell’ambito degli effetti processuali che derivano dalla dichiarazione di fallimento è quella di cui all’art. 51: “Salvo diversa disposizione di legge, dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale esecutiva o cautelare, anche per crediti maturati durante il fallimento, può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento”. È tuttavia consentito al curatore di subentrare al singolo creditore nelle procedure esecutive individuali che egli abbia già iniziato contro ilo debitore poi dichiarato fallito, ovvero il medesimo curatore potrà decidere che la vendita coattiva che sia già stata disposta dal g.e. avvenga in sede fallimentare unitamente alla vendita dell’intero complesso di beni ricompresi nel fallimento, con al conseguenza che la vendita forzata disposta in sede di esecuzione individuale verrà dichiarata improcedibile su istanza del curatore (art. 107 comma 6).

                                                            8   Da notare la differenza con la prescrizione di cui al precedente art. 14 nella quale si fa onere e non si obbliga il debitore a depositare le scritture contabili e fiscali obbligatorie concernenti i tre esercizi precedenti ovvero la minore durata dell’impresa. 9  Vedi Cass. 30/06/2005, CED 232801(m); Cass. 14/01/2000 Riv. GdF 2000. 10  Ciò stante. Illustri Autori ritengono che il termine in parola abbia carattere ordinatorio con la sola conseguenza che, dal suo mancato rispetto, potrannop derivare solo eventuali sanzioni di carattere disciplinare per quanti non lo rispettino (vedi U. De Crescienzo- E. Mattei- L. Panzani, La riforma organica delle procedure concorsuali. Commento al d.lgs. 09/01/2006 n°5, in Diritto fallimentare, collana diretta da L. Panzani, Milano 2006).

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La sentenza emessa ex art. 16 può essere impugnata da qualunque interessato con ricorso alla Corte di Appello entro 30 gg: il giudizio di reclamo è disciplinato dall’art. 18 l.f.. La prima modifica apportata dal legislatore del 2007 consiste nell’aver qualificato il rimedio previsto dalla norma non più come appello bensì come reclamo; inoltre il termine di trenta giorni è perentorio per espressa qualificazione legislativa; la norma individua anche il contenuto necessario del ricorso che, pertanto, dovrà indicare:

a) la Corte di appello competente; b) le generalità dell’impugnante e l’elezione di domicilio nel comune in cui ha sede la Corte

d’Appello; c) l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto su cui si basa l’impugnazione, con le

relative conclusioni; d) l’indicazione dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avversi e dei documenti

prodotti. La preposizione contenuta nel secondo comma stabilisce che la proposizione del reclamo non sospende gli effetti della sentenza impugnata, salvo quanto previsto dall’art. 19: per scongiurare i rischi che la perdurante efficace della sentenza dichiarativa di fallimento possono aver sortito sul patrimonio del debitore che sia stato illegittimamente dichiarato fallito, la legge ha adottato il rimedio della sospensione della liquidazione dell’attivo11 ovvero blocca tutte quelle attività che effettivamente potrebbero arrecare gravi pregiudizi all’imprenditore. Da quanto è dato apprendere dalla relazione alla decreto correttivo, “la sostituzione dell’appello col reclamo è coerente con il rito camerale, adottato non solo per la decisione di primo grado ma anche per la fase di gravame: il reclamo è, infatti, il mezzo tipico di impugnazione dei provvedimenti pronunciati in camera di consiglio, quale che ne sia la forma”. È da ritenere, pertanto, che la riforma abbia voluto escludere l’applicazione a siffatta fase di gravame della disciplina prevista dal codice di rito per le impugnazioni ordinarie (i.e. appello), assicurando comunque il pieno effetto devolutivo dell’impugnazione de qua. Il dies a quo per presentare il ricorso di reclamo decorre per il debitore dichiarato fallito dalla data della notifica della sentenza ex art. 17, qualora invece propongano reclamo tutti gli altri eventuali interessati, esso decorrerà nei loro confronti dal momento in cui la sentenza sia stata iscritta nel registro delle imprese, in quanto è dal quel momento che si può reputare nota anche nei loro confronti la vicenda fallimentare. Si applicherà in ogni caso, il termine lungo di decadenza dall’impugnazione previsto dall’art. 327, primo comma, c.p.c., con la conseguenza che il reclamo non sarà più proponibile una volta che sia decorso un anno dalla pubblicazione della sentenza. L’art. 18 prosegue descrivendo le modalità di svolgimento del giudizio di reclamo, che deve comunque rispettare il principio del contraddittorio e deve assicurare l’esercizio pieno del diritto di difesa a tutte le parti. La Corte provvede sul reclamo con una sentenza: nel caso di revoca del fallimento e conseguente accoglimento del reclamo, essa deve essere notificata sempre a cura della cancelleria al curatore, al creditore che ha chiesto il fallimento e al debitore SE NON RECLAMANTE, e

                                                            11 È il caso sia della disgregazione dell’azienda nel suo complesso sia della vendita della stessa, nella sua interezza ovvero nelle sue singole componenti.

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successivamente deve essere pubblicata a norma dell’art. 17; in caso di rigetto del reclamo e conseguente conferma della sentenza dichiarativa di fallimento, la sentenza di rigetto è notificata al solo reclamante a cura della cancelleria. Avverso la sentenza della Corte di Appello è proponibile il ricorso in Cassazione entro il termine di 30 gg dalla notificazione. Se il fallimento viene revocato dai giudici di II grado, la legge dispone che restino salvi ed impregiudicati gli effetti degli atti regolarmente compiuti dagli organi della procedura nel rispetto della legge.

3. GLI ORGANI DELLA PROCEDURA FALLIMENTARE. Il capo secondo del titolo secondo del r .d. 267/1942 è rubricato Degli organi preposti al fallimento e contiene la disciplina dei poteri e delle funzioni che sono attribuite al tribunale fallimentare al g.d. e al curatore. In questo settore il decreto correttivo è intervenuto solo in minima parte dal momento che interessanti modifiche erano già state apportate dal precedente d.lgs. n°5/2006: in effetti l’impianto della tradizionale distinzione di poteri e funzioni che l’originario legislatore fallimentare aveva predisposto non è stato alterato. Il tribunale che ha dichiarato il fallimento è tuttora investito dall'intera procedura fallimentare; la norma dell’art. 23 sancisce che esso “provvede alla nomina e alla revoca o sostituzione, per giustificati motivi, degli organi della procedura, quando non è prevista la competenza del giudice delegato; può in ogni tempo sentire in camera di consiglio il curatore, il fallito, e il comitato dei creditori; decide le controversie relative alla procedura stessa che non sono di competenza del giudice delegato, nonché i reclami contro i provvedimenti del giudice delegato”. La riforma del 2006 ha eliminato la previsione che consentiva al tribunale di sostituire il giudice delegato. La sua attività si esplica, per lo più, mediante la decisione sulle impugnazioni, opposizioni o reclami avverso i provvedimenti decisori del g.d.. I provvedimenti del tribunale, nelle materie previste da questo articolo, sono pronunciati con decreto, salvo che sia diversamente disposto. Accanto all’art. 23 si colloca anche la successiva norma, quella dell’art. 24, che si occupa della competenza, diremmo, per materia del tribunale fallimentare; essa dispone che “Il tribunale che ha dichiarato il fallimento è competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano, qualunque ne sia il valore”. Il testo normativo è stato oggetto di intervento tanto nel 2006 quanto nel 2007: in questa seconda occasione, tuttavia, il legislatore è intervenuto in maniera sicuramente più incisiva, avendo eliminato la competenza del tribunale fallimentare a decidere anche le eventuali controversie di lavoro che fossero sorte a causa ed in occasione del fallimento. Sul punto, la relazione al d.lgs. n° 169/2007 precisa che siffatta modifica “viene a correggere una grave disarmonia, non giustificabile con particolari esigenze della procedura. Difatti, tali controversie sono cause aventi ad oggetto diritti soggettivi, che pur derivando dal fallimento si svolgono al di fuori della procedura concorsuale, nei confronti di terzi estranei al fallimento”.

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Per chiarezza espositiva occorre precisare tuttavia che la formula apparentemente onnicomprensiva dell’art. 24 in realtà non è tale: le azioni che derivano dal fallimento, infatti, sono solamente quelle che risultino fondate su di un titolo previsto da norme operanti solo a seguito della intervenuta dichiarazione di fallimento ovvero quelle azioni la cui disciplina del rapporto sostanziale che ne è alla base subisce delle forti deviazioni dallo schema originario a causa della concorsualità, non potendo nemmeno essere decise dopo la chiusura della procedura stessa. Inoltre è sempre necessario che si tratti di azioni promosse da organi del fallimento nei confronti di terzi e non viceversa; non possono tuttavia considerarsi azioni derivanti dal fallimento quelle tendenti ad accertare la responsabilità degli organi amministrativi e di controllo della società fallita in quanto esse non subiscono alterazioni rispetto allo schema che si rinviene nel codice civile che trova applicazione quando la società sia ancora in bonis, il che non toglie che spetti al curatore la legittimazione a proporre le relativa azioni in quanto egli agisce per conto della totalità dei creditori che abbiano subito un danno dalle condotte fraudolente di simili soggetti. A tal fine, giova precisare che il legislatore del 2007 ha altresì abrogato la disposizione prima contenuta nel comma 2 dell’art. 24 l.f., la quale, per lo svolgimento della procedura, rimandava alle norme previste dagli artt. 737 a 742 c.p.c., ovvero le norme del codice di rito che disciplinano i procedimenti in camera di consiglio, preferendo che tutte le controversie nascenti dal fallimento siano decise seguendo le regole del processo ordinario di cognizione. Si è osservato che, così disponendo, la norma avrebbe senza dubbio arrecato un danno ai terzi estranei al fallimento, quali appunto possono essere i lavoratori dipendenti dell’impresa insolvente ovvero anche quei terzi i cui atti, onerosi i gratuiti, possano essere oggetto di un’azione revocatoria fallimentare, i quali sarebbero stati iniquamente privati della garanzia del doppio grado di giurisdizione, attuando, pertanto, una palese violazione delle norme di cui agli artt. 3 e 24 Cost.. Una delle principali novità riguardanti i poteri e le attribuzioni degli organi della procedura concorsuale si rinviene nell’art. 25 rubricato “Poteri del giudice delegato”: siffatta norma è stata quasi integralmente modificata già con il d.lgs. n°5/2006, avendo il successivo decreto correttivo apportato solamente correzioni terminologiche alla stessa. La cd riforma a due tappe del fallimento e delle altre procedure concorsuali ha inciso fortemente sulla struttura della disposizione de qua in quanto essa oggi recita come segue: “il giudice delegato esercita funzioni di vigilanza e di controllo sulla regolarità della procedura e:

1) riferisce al tribunale su ogni affare per il quale è richiesto un provvedimento del collegio; 2) emette o provoca dalle competenti autorità i provvedimenti urgenti per la conservazione del

patrimonio, a esclusione di quelli che incidono su diritti di terzi che rivendichino un proprio diritto incompatibile con l’acquisizione;

3) convoca il curatore ed il comitato dei creditori nei casi prescritti dalla legge e ogni qualvolta lo ravvisi opportuno per il corretto e sollecito svolgimento della procedura;

4) su proposta del curatore, liquida i compensi e dispone l’eventuale revoca dell’incarico conferito alle persone la cui opera è stata richiesta dal medesimo curatore nell'interesse del fallimento;

5) provvede, nel termine di 15 gg, sui reclami proposti contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori;

6) autorizza per iscritto il curatore a stare in giudizio come attore o come convenuto. L’autorizzazione deve sempre essere data per atti determinati e per i giudizi deve essere

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rilasciata per ogni grado di essi. Su proposta del curatore, liquida i compensi e dispone l’eventuale revoca dell’incarico conferito ai difensori nominati del medesimo curatore;

7) su proposta del curatore, nomina gli arbitri, verificata la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge;

8) procede all’accertamento dei crediti e dei diritti reali e personali vantati dai terzi, a norma del Capo V della presente legge.

Il giudice delegato non può trattare i giudizi che abbia autorizzato, né può far parte del collegio investito del reclamo proposto contro i suoi atti. I provvedimenti del giudice delegato sono dati con decreto motivato. Le modifiche apportate, sebbene aventi in taluni casi carattere puramente terminologico, non sono per ciò stesso prive di rilievo: certamente la modifica dei termini usati dalla legge, ha prodotto non poche conseguenze altresì sul significato della disposizione. Ai giudici delegati, infatti, si attribuisce solamente un potere di vigilanza e controllo, i cui contenuti sono peraltro ben poco chiari, non essendo più egli considerato quale soggetto propulsore della procedura. La riforma ha inteso distinguere in maniera ancora più netta le funzioni del g.d. da quelle che, invece, competono al curatore, la cui posizione risulta, all’opposto, rafforzata dal decreto legislativo del 2007. In realtà, con siffatta riforma, il curatore è stato svincolato dalla guida g.d. nel senso che il legislatore ha voluto renderlo maggiormente autonomo e svincolato rispetto all’organo giudiziario, sebbene rimanga in ogni caso l’obbligo per il curatore di “rendere conto” del proprio operato al g.d. stesso. La relazione che accompagna il decreto del 2007 sul punto spiega che “il giudice delegato non è più l’organo motore della procedura, essendo stata sostituita l’attività di direzione con quella di vigilanza e controllo. Nondimeno, proprio questi poteri sono stati rafforzati in funzione di verificare che la maggiore autonomia del curatore non si risolva in una gestione incontrollata”. Non a caso, al n°3 dell’art. 25 si consente al g.d. di convocare il curatore ed il comitato dei creditori non solo nei casi previsti dalla legge, ma anche ogni volta che egli lo ritenga opportuno per il corretto e sollecito svolgimento della procedura. Interessante è la previsione di cui al successivo n°6 che ammette la possibilità che sia il curatore a provvedere alla nomina dei difensori, non più solo avvocati, della procedura. L’utilizzo del termine difensori è stato imposto onde ricomprendere anche tutti gli altri professionisti che possono assistere la procedura ad esempio nelle commissioni tributarie, ove, non è necessario che il difensore sia sempre un avvocato. In ottemperanza, poi al disposto di cui all’art. 24 l.f., il g.d. può conoscere e decidere le controversie insorte sull’accertamento dei crediti e dei diritti reali e personali vantati dai terzi: a questo punto, tuttavia, la riforma ha inserito una precisazione che si traduce in un limite per l’accertamento dal parte del g.d.: non è possibile che le controversie di questo tipo siano sussunte nella competenza del g.d. qualora i terzi vantino diritti che siano incompatibili con l’acquisizione dei beni al fallimento. Per ragioni di imparzialità dell’organo giudicante, la legge prevede che il g.d. non possa essere parte del collegio chiamato a decidere un’impugnazione avverso un proprio atto, così come non può trattare i giudizi peri quali abbia concesso la relativa autorizzazione al curatore.

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L’ultimo comma chiarisce, invece, che la forma di provvedimenti del g.d. è quella del decreto motivato, a differenza della previgente versione normativa che parlava di decreto tout-court. La successiva norma, contenuta nell’art. 26, è dedicata ai reclami contro i provvedimenti del g.d.: l’istituto del reclamo è stato ampiamente rivisto dalla riforma del 2007: il reclamo si propone sempre con ricorso, al tribunale o alla Corte d’appello, che provvedono in camera di consiglio. Legittimati a proporre reclamo sono tuttora il curatore, il fallito, il comitato dei creditori e chiunque vi abbia interesse: tuttavia il termine di dieci giorni per la sua proposizione decorre da dies a quo diversi per i singoli legittimati: se ricorrente è il curatore, il fallito ovvero il CDC, i dieci gironi decorrono dal momento della comunicazione o notificazione del provvedimento reclamato; all’opposto, per tutti gli altri legittimati esso decorre dal momento in cui sono state compiute tutte le formalità pubblicitarie prescritte dal giudice (tribunale o g.d.). Esiste, però un termine di decadenza dalla proposizione del reclamo: “indipendentemente dalla previsione di cui al comma 3, il reclamo non può proporsi decorsi 90 gg dal deposito del provvedimento in cancelleria”. Infine, il reclamo non sospende l’esecuzione del provvedimento. Il reclamo si propone con ricorso, atto che deve contenere una serie di requisiti indicati nei numeri da 1 a 4 della norma, i quali rivelano tutte le informazioni utili all’identificazione della controversia e del suo oggetto. Quanto alla procedura da seguire, essa è indicata nella medesima disposizione:

1) il presidente nei cinque giorni successivi al deposito del ricorso, designa il giudice relatore e fissa con decreto l’udienza di comparizione entro quaranta giorni dal deposito del ricorso;

2) il reclamante deve notificare il ricorso e il decreto al curatore e ai controinteressati entro cinque gironi dalla comunicazione del decreto;

3) tra la data di notifica e quella dell’udienza deve intercorrere un termine non inferiore a quindici giorni;

4) il resistente deve costituirsi almeno cinque gironi prima dell’udienza depositando una memoria che contenga l’elezione di domicilio nel Comune in cui ha sede il tribunale o la Corte d’appello, l’esposizione delle sua difese in fatto e in diritto, nonché l’indicazione dei mezzi di prova e dei documenti prodotti.

Nel medesimo termine e con le medesime forme di cui al n°4, devono costituirsi gli interessati che intendono intervenire nel giudizio. Nel corso dell’udienza il collegio, sentite le parti, assume, anche d’ufficio i mezzi di prova, eventualmente delegando uno dei suoi componenti. Entro trenta giorni dall’udienza di comparizione della parti, il collegio provvede con decreto motivato, con il quale conferma, modifica o revoca il provvedimento reclamato. Una particolare considerazione è stata riservata anche dal legislatore della riforma alla figura del curatore fallimentare cui sono dedicate le norme contenute nella sezione III del capo II del titolo I (artt. 27-39). L’ingente numero di disposizioni che riguardano il ruolo, i compiti, le responsabilità, i doveri nonché la misura del compenso da corrispondergli per l’attività prestata, sono indice dell’attenzione che il legislatore ha voluto dedicare alla regolamentazione di un’attività tanto delicata quanto impegnativa quale quella che il curatore è chiamato a prestare sin dal momento della propria nomina.

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La sezione III del titolo I del r.d. 267/1942 è dedicata alla figura de curatore fallimentare, che più di ogni altra probabilmente ha risentito dell’intervento riformatore il quale ha alterato gli originari equilibri di poteri e funzioni tra le figure de g.d. da una parte, del curatore de un’altra e ancora del C.D.C.. L’art. 27 sancisce che il curatore è nominato con la sentenza di fallimento, o in caso di sostituzione o di revoca, con decreto del tribunale: sin dal 2006 il legislatore ha provveduto ad eliminare il ruolo degli amministratori giudiziari, tra cui il curatore veniva scelto. Le maggiori novità concernono, tuttavia, i nuovi requisiti che il professionista deve presentare per poter esser nominato curatore: sotto quest’aspetto la riforma ha accolto la sempre più forte tendenza all’associazionismo che professionale che, anche in Italia, si sta espandendo velocemente toccando anche le professioni giuridico-economiche. Possono, dunque, essere chiamati a svolgere le funzioni di curatore: a) avvocati, dottori commercialisti, ragionieri e ragionieri commercialisti; b) studi professionali associati o società fra professionisti, sempre che i soci delle stesse abbiano i requisiti professionali di cui alla lettera a). In tal caso, all’atto dell’accettazione dell’incarico, deve essere designata la persona fisica responsabile della procedura; c) coloro che abbiano svolto funzioni di direzione e controllo in società per azioni, dando prova di adeguate capacità imprenditoriali e purché non sia intervenuta nei loro confronti dichiarazione di fallimento. Il decreto 169/2007 ha abrogato la disposizione dell’originario secondo comma nella quale si prevedeva che il Tribunale dovesse motivare nella sentenza, le ragioni che lo avevano orientato alla proprio scelta: si è ritenuto che siffatta motivazione appesantisse troppo ed inutilmente il provvedimento di nomina, anche perchè è la legge che individua i requisiti che il singolo debba possedere per assumere tale ufficio, pertanto non si comprende la ragione per la quale anche il giudice debba spiegare le ragioni della propria scelta. La norma è invece rimasta inalterata in riferimento alle incompatibilità con tale carica: non possono infatti essere nominati curatore il coniuge, i parenti e gli affini entro il quarto grado del fallito, i creditori di questo e chi ha concorso al dissesto dell’impresa durante i due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, nonché chiunque si trovi in conflitto di interessi con il fallimento. Non v’è dubbi che la novità di maggiore interesse è quella introdotta alla lett. b) la quale, appunto, fa riferimento alle società tra professionisti e a studi professionali associati, precisando, tuttavia, che nell’ipotesi in cui la nomina a curatore dovesse investire un simile soggetto, all’atto dell’accettazione dell’incarico, questi dovrà designare “la persona fisica responsabile della procedura”. È necessario, ovviamente, come chiaramente precisato dalla stessa disposizione, che gli associati allo studio legale rivestano le qualità individuate dalla lett. a) della medesima norma, sebbene sia l’intero studio legale ad essere considerato curatore del fallimento12.

                                                            12   L. Abete, Commento all’art. 28, in Il nuovo diritto fallimentare, diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, Torni, 2006. Contrario alla presente ricostruzione è, invece, D. Spagnuolo, Commento all’art. 28, in La riforma della legge fallimentare, a cura di A. Nigro e M. Sandulli, Torino, 2006, il quale opta a favore della tesi che vuole mantenere inalterate le singole soggettività che operano all’interno dello studio legale nominato curatore, sostenendo che “nel caso di nomina a curatore di uno studio professionale associato, occorre perciò ritenere l’incarico conferito individualmente

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La società tra professionisti è una figura molto recente per il nostro ordinamento in quanto essa è stata introdotta solamente dall’art. 16 comma 1 del d.lgs. n°96/2001, norma la quale consente espressamente di esercitare in forma collettiva l’attività di rappresentanza, assistenza e difesa in giudizio: in definitiva, ad oggi, la società tra avvocati è l’unica esistente e regolamentata per legge. Inoltre, la società tra professionisti non può assumere la forma di un società di persone; lo studio professionale associato, invece, torva la propria fonte di normazione nella legge n°1815 del 1939, ove all’art. 1 si dispone che si può parlare di studio professionale nell’ipotesi in cui vi sia un’associazione fra più persone fisiche “munite dei necessari titoli di abilitazione professionale, ovvero autorizzate all’esercizio di specifiche attività in forza di particolari disposizioni di legge” e queste si associano al fine di esercitare quelle attività o professioni per le quali abbiano conseguito l’abilitazione. Non è stato dunque riconosciuto al tribunale nè il potere di indicare il professionista che all’interno dell’organismo collettivo scelto si occupi del singolo fallimento né quello di procedere ad una eventuale sostituzione del singolo associato laddove fosse necessario: una simile decisione spetta al curatore e può essere assunta in qualunque momento della procedura. Il curatore deve, entro i due giorni successivi alla partecipazione della sua nomina, far pervenire13 al giudice delegato la propria accettazione (art. 29). Se il curatore non osserva questo obbligo, il tribunale, in camera di consiglio, provvede d'urgenza alla nomina di altro curatore: non è imposto alcun termine finale alo curatore per la sua accettazione, tuttavia, considerato che la nomina è immediatamente efficace perché contenuta nella sentenza dichiarativa di fallimento, appare ragionevole che sia il tribunale stesso a fissare un termine adeguato al cui inutile decorso esso risulta legittimato a provvedere alla nomina di un nuovo e diverso professionista. Il curatore, per quanto attiene all'esercizio delle sue funzioni, è pubblico ufficiale, come chiaramente recita l’art. 30. Al curatore spetta l'amministrazione del patrimonio fallimentare ed egli è tenuto a compiere tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni a esso attribuite. Il legislatore, sempre nell’art. 31, ha chiarito altresì quali azioni il curatore possa intraprendere, previa autorizzazione del giudice delegato, pur non potendo questi assumere mai le vesti di legale del fallimento quand’anche ne possedesse i titoli. Merita qualche più profonda riflessione l’assunto secondo cui il curatore operi sotto la vigilanza del g.d. e del C.D.C.: sicuramente la riforma ha espulso gli organi dell’autorità giudiziaria dall’attività meramente gestoria che il fallimento richiede, incentrandola tutta nelle attribuzioni del

                                                                                                                                                                                                     a tutti i professionisti dello studio medesimo, i quali risponderanno tutti in proprio e in via solidale dell’eventuale inadempimento, salva la necessaria nomina di uno di essi quale responsabile della procedura”. Una simile ricostruzione, tuttavia è smentita dalla lettera della legge allorquando impone allo studio di designare, all’atto dell’accettazione, la persona fisica che sarà responsabile della procedura concorsuale dimostrando con ciò di ritenere il soggetto studio associato come un’entità unica, sebbene frazionata al suo interno; i professionisti persone fisiche saranno titolari di un unico rapporto contrattuale ed avranno, perciò, diritto ad un unico compenso. 13  La precedente formulazione della norma imponeva al curatore di comunicare la propria accettazione al g.d.; non sembra, tuttavia, che una tale variazione terminologica possa aver influito anche sugli oneri che ricadono sullo stesso.

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curatore; ciò stante questo soggetto deve sempre operare nel rispetto della legge e tutelando gli interessi della messa dei creditori. A fronte di ciò, la legge fallimentare ne sottopone l’azione al vaglio del comitato dei creditori, che si esprime a mezzo di pareri motivati, nonché all’autorizzazione del giudice delegato il quale mantiene, pur sempre, un ruolo di garante della legalità della procedura stessa. Il g.d. non ha alcuna possibilità né diritto di indagare il merito delle scelte gestorie ed economiche del curatore, non può operare, dunque, quelle tipiche valutazioni di opportunità che risultano esser state tutte attribuite al comitato dei creditori14. Il controllo affidato al g.d., pertanto, coinvolge sicuramente i tre vizi di legittimità, quali incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge, ma non si può negare che il giudice abbia anche il compito di assicurare che il curatore rispetti le cd norme di relazione facendo intervenire gli altri organi quando la legge lo preveda e consenta. Il curatore deve generalmente esercitare personalmente le attribuzioni del proprio ufficio: gli è oggi consentito, altresì, di delegare ad altri specifiche operazioni, previa autorizzazione del C.D.C., con esclusione degli adempimenti di cui agli artt. 89, 92, 95, 97 e 104 ter. In questi casi, tuttavia, viene chiarito che il compenso spettante al delegato viene detratto da quello poi liquidato al curatore. Senza dubbio l’art. 33 è una delle norme chiave fra quelle che regolano l’attività e l’ufficio del curatore, individuando il contenuto specifico e la periodicità con al quale questi è chiamato a relazionare al g.d.; entro due mesi dalla dichiarazione di fallimento, il curatore deve presentare al giudice una relazione particolareggiata sulle cause e circostanze del fallimento, sulla diligenza spiegata dal fallito nell'esercizio dell'impresa, sulla responsabilità del fallito o di altri e su quanto può interessare anche ai fini delle indagini preliminari in sede penale. Nella relazione, il curatore deve inoltre indicare:

1) gli atti del fallito già impugnati dai creditori, nonché quelli che egli intende impugnare e il giudice delegato può chiedere al curatore una relazione sommaria anche prima del termine suddetto;

2) se si tratta di società, la relazione deve esporre i fatti accertati e le informazioni raccolte sulla responsabilità degli amministratori e degli organi di controllo, dei soci e, eventualmente, di estranei alla società, mentre scompare il riferimento espresso ai sindaci, sostituto dal più generico rinvio agli organi di controllo.

Una copia della relazione ex art. 33, nel suo testo integrale, è trasmessa al pubblico ministero. Il curatore, ogni sei mesi successivi alla presentazione della relazione di cui al primo comma, redige altresì un rapporto riepilogativo delle attività svolte, con indicazione di tutte le informazioni raccolte dopo la prima relazione, accompagnato dal conto della sua gestione. Copia del rapporto è trasmessa al comitato dei creditori, unitamente agli estratti conto dei depositi postali o bancari relativi al periodo: questo, ovvero ciascuno dei suoi componenti. può formulare osservazioni scritte.

                                                            14 Ad una simile soluzioni si è giunti prendendo spunto da u precedente giurisprudenziale della Corte di Cassazione, sulla scorta dell’orientamento formulatosi in tema di responsabilità degli amministratori di società di capitali (Cass. 28/04/1997 n°3652). La sentenza de qua individua il discrimine tra questi due piani nella mancata assunzione, da parte del curatore, di quelle informazioni e cautele che gli si richiedono all’atto dell’assunzione dell’incarico.

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Infine, un’altra copia del rapporto è trasmessa, assieme alle eventuali osservazioni scritte del C.D.C., all’ufficio del registro delle imprese non oltre 15 gg dalla scadenza per il deposito delle osservazioni scritte nella cancelleria del tribunale fallimentare. Lo scopo cui la norma intende assolvere è quello di rendere del tutto edotto il g.d. circa gli avvenimenti più importanti della vita della società fallita al fine di consentirgli di conoscerla in maniera approfondita: le conseguenze cui una buona relazione possono portare sono di non poco momento, in quanto sulla base delle deduzioni del curatore il g.d. può orientarsi nella scelta di autorizzare la prosecuzione temporanea dell’esercizio dell’attività d’impresa ovvero di autorizzare l’affitto dell’azienda ex art. 104 bis l.f.. Nulla toglie, inoltre, che laddove il contenuto della relazione lo consenta, il giudice potrebbe anche ammettere il fallito al beneficio dell’esdebitazione ex art. 142. In passato la norma prevedeva che il curatore dovesse relazionare anche in ordine alle condizioni ed allo stile di vita del fallito; oggi una simile specificazione è stata eliminata pur tuttavia la dottrina ritiene che a simili circostanze il curatore debba pur sempre fare riferimento al fine di valutare la condotta dell’imprenditore secondo i parametri del reato di bancarotta semplice (art. 217 l.f.). Il curatore ha il potere di ricercare tutte le informazioni utili sia da atti documenti in possesso del fallito che ricorrendo al suo interrogatorio, pur non essendo titolare di alcun potere coercitivo; l’eventuale non disponibilità da parte del fallito potrà solo essere valutata sai fini della mancata concessione del beneficio dell’esdebitazione. L’art. 36, rubricato reclamo contro gli atti del curatore e del comitato dei creditori, introduce un nuovo schema di funzionamento dei rapporti tra curatore- g.d.- C.D.C., instaurando un nuovo assetto a seguito della ridefinizione delle rispettive competenze: “contro gli atti d'amministrazione del curatore e contro le autorizzazioni o i dinieghi del comitato dei creditori, il fallito e ogni altro interessato possono proporre reclamo al giudice delegato per violazione di legge, entro otto giorni dalla conoscenza dell’atto o, in caso di omissione, dalla scadenza del termine indicato nella diffida a provvedere. Il giudice delegato, sentite le parti, decide con decreto motivato, omessa ogni formalità non indispensabile al contraddittorio”. Così disponendo, il ricorso al giudice delegato diviene un mezzo per far valere solamente eventuali violazioni di norme che regolano la procedura, non potendo, come già detto, assolutamente il g.d. operare valutazioni circa il merito delle scelte concernenti la gestione economica della procedura. Contro il decreto del giudice delegato è ammesso ricorso al tribunale entro otto giorni dalla data della comunicazione del decreto medesimo. Il tribunale decide entro trenta giorni, sentito il curatore e il reclamante, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, con decreto motivato non soggetto a gravame. Se è accolto il reclamo concernente un comportamento omissivo del curatore, questi è tenuto a dare esecuzione al provvedimento dell’autorità giudiziaria. Se è accolto il reclamo concernente un comportamento omissivo del comitato dei creditori, il giudice delegato provvede in sostituzione di quest’ultimo con l’accoglimento del reclamo.

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Come autorevolmente sostenuto15, “mentre nel reclamo contro le autorizzazioni rilasciate, la decisione del giudice è rescindente, nelle altre ipotesi è anche rescissoria, ma non per questo necessariamente allineata alle aspettative del reclamante”. Proprio nella fese del reclamo contro simili atti del curatore ovvero del C.D.C. sembrano farsi largo spazi per l’esercizio di un controllo di merito da parte del tribunale, come potrebbe avvenire laddove il comitato neghi un’autorizzazione e l’atto venga impugnato per il mancato raggiungimento di una valida maggioranza; in simili circostanze, l’accoglimento del reclamo non può comportare il rilascio di alcuna autorizzazione laddove risultasse che essa non poteva comunque essere rilasciata. Consentire al giudice di operare un controllo anche di merito in simili circostanze non appare, tuttavia, contrario al nuovo spirito della legge fallimentare se è vero che si consente al g.d. di surrogarsi al C.D.C. in caso di suo non corretto funzionamento o comunque nei casi di urgenza16. Come già osservato, il ruolo attribuito al curatore è stato oggetto di un forte intervento da parte del legislatore il quale ha colto l’occasione, con la riforma per rimarcare anche i profili di responsabilità e le conseguenti sanzioni che allo stesso possono essere comminate: l’art. 37 si occupa della revoca del curatore dal proprio incarico. Esso prevede che il tribunale può in ogni tempo, su proposta del giudice delegato o su richiesta del comitato dei creditori o d'ufficio, revocare il curatore con decreto motivato, sentiti il curatore interessato ed il comitato dei creditori. Contro il decreto di revoca o di rigetto dell’istanza di revoca, è emesso reclamo alla Corte di appello ai sensi dell’art. 26-bis; sebbene il reclamo non sospenda l’efficacia del decreto. Oltre alla revoca, la legge fallimentare prevede anche il caso della sostituzione del curatore e/o dei componenti il C.D.C.: l’art. 37-bis infatti, sancisce che: “conclusa l’adunanza per l’esame dello stato passivo e prima della dichiarazione di esecutività dello stesso, i creditori presenti, personalmente o per delega, che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi, possono effettuare nuove designazioni in ordine ai componenti del comitato dei creditori nel rispetto dei criteri di cui all’art. 40; possono chiedere la sostituzione del curatore indicando al Tribunale le ragioni della richiesta e un nuovo nominativo. Il Tribunale, valutate le ragioni della richiesta di sostituzione del curatore, provvede alla nomina dei soggetti designati dai creditori, salvo che non siano rispettati i criteri di cui agli artt. 28 e 40”. Con la riforma del 2006 è stata per la prima volta inserita la possibilità, per la maggioranza semplice dei creditori allo stato ammessi al passivo al netto di quei creditori che si trovino in situazione di conflitto di interessi, di avanzare proposte in merito non solo alla sostituzione del curatore, ma anche all’ammissione di nuovi membri nel C.D.C.. Il limite temporale entro cui però talli attività possono esplicarsi coincide con la chiusura dell’udienza di verifica dello stato passivo, e comunque non può superare la dichiarazione di esecutività dello stesso. La relazione alla riforma del 2007, sul punto, spiega che è stato scelto siffatto limite temporale “al fine di evitare che una maggioranza occasionale dei creditori presenti in adunanza anzichè la maggioranza di tutti i creditori ammessi, possa provocare la sostituzione di un curatore sgradito solo ad alcuni”.

                                                            15  Vedi M. Fabiani, Sub art. 36, in Codice commentato del fallimento, diretto da G. Lo Cascio, I edizione, 2008, Ipsoa. 16  Una simile soluzione è condivisa anche da C. Ferri, Gli organi del fallimento, in Il Fallimento 2006.

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Quanto alla conferme, invece, degli organi in questione, la riforma, contrariamente a quanto stabilito dalla legge di delega, non si è espressa circa le modalità di conferma di tali organi: la ragione sta nel fatto che, se non ci sono proposte in linea con il primo comma della disposizione, allora sia il curatore che il C.D.C., si intenderanno implicitamente approvati. La decisione circa i rilevi formulati spetta, oggi, al tribunale e non più al g.d., e laddove esso ritenga opportuno provvedere alla sostituzione del curatore, ci si aspetta che il provvedimento finale motivi in maniera adeguata le ragioni che lo sostengono. Una delle norma di maggiore interesse che concernono la figura del curatore fallimentare è quella contenuta nell’art. 38 e che individua i profili di responsabilità del curatore: questi deve adempiere ai doveri del proprio ufficio, imposti dalla legge o derivanti dal piano di liquidazione approvato, con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico, non essendo sufficiente la normale diligenza richiesta al quisque de populo. Egli deve tenere un registro, preventivamente vidimato da almeno un componente del comitato dei creditori, e annotarvi giorno per giorno le operazioni relative alla sua amministrazione. È previsto altresì che, pendente il fallimento, il nuovo curatore eserciti un'azione di responsabilità contro il curatore revocato, previa autorizzazione del giudice delegato, ovvero del comitato dei creditori. La legge ha quindi consentito che l’autorizzazione a promuovere l’azione di responsabilità nei confronti del precedente curatore revocato, possa essere conferita anche dal comitato dei creditori e non più solamente dal g.d.. Il curatore che cessa dal suo ufficio, anche durante il fallimento, deve rendere il conto della gestione a norma dell'art. 116 l.f.. Sulla responsabilità imputabile al curatore si può dire che essa certamente risponde al canone di cui all’a 1176 comma 2 c.c. e non alla semplice responsabilità del bonus pater familias, il che comporta una restrizione dell’area dell’esenzione da responsabilità rispetto a quella assicurata dal primo comma. È inoltre facilmente rilevabile il richiamo implicito alla disposizione che individua i profili di responsabilità degli amministratori di società per azioni, come definito dall’art. 2393 c.c., pur omettendo il richiamo alle “specifiche competenze” che ivi si attua. Risulta oramai pacifico, poi, che la responsabilità del curatore vada inquadrata come una responsabilità di tipo contrattuale, soggetta, come tale, all’ordinario termine decennale di prescrizione17. Il curatore, però, risponderebbe a titolo extracontrattuale nei confronti del ceto creditorio complessivamente inteso laddove egli renda insufficiente il patrimonio a disposizione di questi per il proprio soddisfacimento, ovvero ne aggravi la persistente insufficienza18. In ultima analisi, possiamo affermare che la responsabilità del curatore sia una responsabilità, dolosa o colposa, che scaturisce dalla violazione dei doveri del proprio ufficio dando origine a duna condotta, anche omissiva, che cagioni un danno al patrimonio fallimentare19.

                                                            17  In tale senso vedi G. D’Attorre, Commento all’articolo 38, in A. Nigro- M. Sandulli (a cura di), La riforma della legge fallimentare, Torino, 2006; vedi Cass. 05/04/2001 n°5044 e Cass. 11/02/2000 n°1507. 18  Vedi L. Abete, Commento sub art. 38, in Il nuovo diritto fallimentare diretto da A. Jorio e coordinato da M. Fabiani, Bologna, 2006.

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Un ultimo, assolutamente non marginale aspetto relativo alla disciplina del curatore è quello relativo alla determinazione del compenso e delle spese che gli sono dovuti; l’art. 39 prevede che questi, anche se il fallimento si chiude con concordato, sono liquidati ad istanza del curatore con decreto del tribunale non soggetto a reclamo, su relazione del giudice delegato, secondo le norme stabilite con decreto del Ministro della giustizia. La liquidazione del compenso è fatta dopo l'approvazione del rendiconto e, se del caso, dopo l'esecuzione del concordato. E' in facoltà del tribunale di accordare al curatore acconti sul compenso per giustificati motivi. Se nell’incarico si sono succeduti più curatori, il compenso è stabilito secondo criteri di proporzionalità ed è liquidato, in ogni caso, al termine della procedura, salvi eventuali acconti. Nessun compenso, oltre quello liquidato dal tribunale, può essere preteso dal curatore, nemmeno per rimborso di spese: la norma commina la sanzione della nullità per ogni promessa e/o pagamento fatti contro questo divieto, ammettendo sempre, al contempo, la ripetizione di quanto pagato, indipendentemente dall'esercizio dell'azione penale. La sezione III (artt. 40 e 41), si occupa, invece, del comitato dei creditori: esso è nominato dal giudice delegato entro 30 gg dalla sentenza di fallimento sulla base delle risultanza documentali, sentiti il curatore e i creditori che, con la domanda di ammissione al passivo o precedentemente, abbiano dato la propria disponibilità ad assumere l’incarico ovvero abbiano segnalato altri nominativi. Salvo quanto previsto dall’art. 37-bis, la composizione del comitato dei creditori può essere modificata dal giudice delegato in relazione alle variazioni dello stato passivo o per altro giustificato motivo. Il comitato è composto di tre o cinque membri scelti fra i creditori, in modo da rappresentare in misura equilibrata quantità e qualità dei crediti e avuto riguardo alle possibilità di soddisfacimento dei crediti stessi. Il comitato, entro 10 gg dalla nomina, provvede, su convocazione del curatore, a nominare a maggioranza il proprio presidente, con la precisazione che il componente del comitato che si trova in conflitto di interessi si astiene dalla votazione. La principale novità introdotta dalla riforma concerne la necessità di rispettare un criterio di proporzionalità nella composizione del comitato, al fine di rappresentare in modo adeguato quantità e qualità dei crediti, sempre considerando, però, le reali possibilità di soddisfacimento degli stessi. Quella del comitato dei creditori è forse la parte della legge fallimentare che maggiormente risulta innovata e rinnovata in quanto esso da un lato ha mantenuto la funzione di organo del fallimento avente funzioni generiche di sorveglianze e vigilanza sull’operato del curatore, ma certamente a seguito dei due interventi di riforma, gli sono stati affidati anche ingenti poteri decisori e di ingerenza diretta nell’attività amministrativa fallimentare. Nonostante le nuove rilevanti e significative attribuzioni il C.D.C. rimane un organo, come tale diverso ed autonomo dia suoi singoli componenti ma soprattutto impossibilitato ad operare come espressione dei creditori.

                                                                                                                                                                                                     19  Una mirabile ricostruzione della responsabilità del curatore e degli elementi da provare in un giudizio ex art. 38 l.f. si rinvengono in Trib. Milano 13/06/2006.

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Il C.D.C. no è mandatario di questi ultimi, non è chiamato a garantirne i crediti o le posizioni avendo il dovere di operare in condizioni di assoluta imparzialità ed indipendenza da questi ultimi20; l’interesse che il comitato è chiamato a tutelare è quello dell’intera procedura non quello dei creditori del fallimento, neppure nella loro totalità, pertanto, il membro del comitato che volesse farsi portatore di istanze proprie dei singoli creditori automaticamente si troverebbe in una situazione di conflitto di interessi con siffatto organo. Il successivo art. 41 regola e descrive le funzioni che sono assegnate al C.D.C., organo che oggi assume, molto più che in passato come ben si comprende, un ruolo da vero protagonista ed artefice delle sorti dell’intera procedura concorsuale21. Il comitato dei creditori deve vigilare sull’operato del curatore, autorizzarne gli atti ed esprimere pareri nei casi previsti dalla legge, ovvero su richiesta del tribunale o del giudice delegato, succintamente motivando le proprie deliberazioni. Anche per il C.D.C. vale la regola della maggioranza, nel senso che le deliberazioni del comitato sono prese a maggioranza dei votanti, e devono intervenire nel termine massimo di 15 gg successivi a quello in cui la richiesta è pervenuta al presidente dello stesso. Il voto può essere espresso in riunioni collegiali ovvero per mezzo telefax o con altro mezzo elettronico e telematico, purchè sia possibile conservare la prova della manifestazione di voto. È molto interessante soffermarsi sul disposto del comma 4 della disposizione de qua a tenore del quale: “in caso di INERZIA, di IMPOSSIBILITA’ di costituzione per insufficienza di numero o indisponibilità dei creditori, o di funzionamento del comitato o di URGENZA, provvede il giudice delegato”. Il legislatore ha, in ogni caso, approntato un sistema di sostituzione del g.d. al C.D.C. laddove quest’ultimo non dovesse agire pur essendone stato esplicitamente richiesto, venendo meno, pertanto ad una delle funzioni che le legge gli ha comunque attribuito: in questi casi al g.d. non si dà al facoltà di intervenire, bensì il potere di intervenire per superare l’empasse. Quanto all’inerzia, il legislatore sembra aver intenzionalmente utilizzato un’espressione vaga in quanto essa può essere determinata in riferimento allo scorrere del tempo: l’unico termine che si rinviene nella disciplina del C.D.C. è quello legato alla sua costituzione che deve avvenire entro 15 gg a far data dal recapito della richiesta al suo presidente. In realtà, non è ben determinabile neppure questo eventuale “ritardo” nella convocazione in quanto si può verificare che la votazione avvenga con mezzi telematici che difficilmente possono far determinare con sufficiente esattezza il momento in cui vengono ricevute.

                                                            20   Sul punto confronta G. Schiavon, Sub art. 40, in Codice commentato del fallimento, diretto da G. Lo Cascio, I edizione, Ipsoa, 2008. 21  Concorda sulla centralità della nuova figura del comitato dei creditori anche G. Schiavon, Sub art. 41, in Codice commentato del fallimento, op. cit., a detta del quale “la riforma ha ridisegnato i ruoli degli organi, confinando i poteri del giudice e del tribunale nell’esclusivo ambito della risoluzione dei conflitti endofallimentari e del controllo di legalità della procedura, incrementando il ruolo operativo e gestionale del curatore, ma, soprattutto, attribuendo al comitato dei creditori poteri di indirizzo e compiti decisionali, prima sconosciuti,sulle fondamentali scelte riguardanti le sorti dell’impresa fallita nel procedimento concorsuale”. L’autore, inoltre, si mostra entusiasta dell’apertura culturale che il legislatore ha mostrato di aver recepito con la riforma delle procedure concorsuali, tuttavia, si dice anche fortemente scettico circa l’effettiva messa in opera delle buoni intenzioni da cui la legge è animata proprio con riguardo al ruolo del C.D.C..

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Anche laddove la decisione del comitato dovesse intervenire oltre il predetto termine, alcuna sanzione sarebbe applicabile, salvo che non sia, nel frattempo, intervenuta la decisione sostitutiva del g.d.. Problematico è il riferimento all’urgenza che potrebbe anche prestarsi ad un distorto utilizzo dello strumento della sostituzione allorquando si tratti di decidere o di esprimere pareri in merito a questioni o aspetti particolarmente delicati e all’interno di procedure che possono avere grande rilievo: in effetti il richiamo alle situazioni di urgenza potrebbe riguardare tutte quelle ipotesi in cui il decorso dei 15 gg entro cui il C.D.C. deve riunirsi possa arrecare seri pregiudizi alle pretese della massa e una convocazione in tempi più rapidi di tale organo non appaia possibile. Un situazione è urgente quando essa, per qualsiasi regione, richiede una decisione immediata e non differibile nel tempo. Un ulteriore elemento di dubbio riguarda l’individuazione del soggetto tenuto a valutare l’effettiva urgenza della situazione, se sia il g.d. ovvero il curatore: sicuramente la decisione che, in ragione dell’urgenza, dovesse essere assunta dal g.d., non abbisognerebbe del parere del comitato dei creditori, possedendo i crismi della definitività e stabilità22. Interessante risulta il riconoscimento al comitato e ad ogni suo componente della facoltà di ispezionare in qualunque tempo le scritture contabili e i documenti della procedura ben potendo, inoltre, chiedere notizie e chiarimenti al curatore e al fallito, una simile facoltà va intesa nell’ottica della partecipazione sempre più ampia che il legislatore ha inteso suscitare in quest’organo, coinvolgendolo in tutte le vicende che riguardano la vita del patrimonio fallimentare e le sorti dello stesso. Ai componenti del comitato dei creditori si applica , in quanto compatibile, l’art. 2407, primo e terzo comma, del c.c.: anche questa è una disposizione sulla responsabilità e, di conseguenza, sulla diligenza richiesta ai componenti tale collegio. Non a caso si è scelto di rinviare alla fattispecie che descrive il profilo di responsabilità dei membri del collegio sindacale nelle società di capitali; il comitato dei creditori è anch’esso, al pari del g.d., un organo di vigilanza sull’operato del curatore, che però forse possiede un quid pluris rispetto all’A.G. in quanto ha il potere di sindacare anche il merito delle scelte tecniche e soprattutto economiche operate dal curatore, in quanto composto da soggetti che sono titolari di pretese giuridiche riconosciute nei confronti del fallito23. La limitazione del rinvio ai soli primo e terzo comma dell’art. 2407 c.c. sembra trovare ragione proprio nell’attività di autorizzazione che si esterna a mezzo di pareri vincolanti, che, tuttavia, non compete ai sindaci di una società di capitali24.                                                             22  In questi casi sarebbe addirittura consumato ogni potere di intervento del C.D.C. salvo il caso in cui esso proponesse reclamo al tribunale avverso il provvedimento del g.d. (cfr. G. Schiavon, Sub art. 41, op. cit.). 23  Non poche perplessità si nutrivano tuttavia sull’opportunità di una simile scelta, in quanto da un lato la responsabilità ex art. 2407 c.c. mal si conciliava con la funzione consultiva che il C.D.C. è chiamato a svolgere a mezzo di pareri non vincolanti e, dall’altro, mal si conciliava con l’espletamento della funzione autorizzativa che si traduceva, invece, nella produzione di atti vincolanti. 24    Trapela un certo scetticismo anche dalla stessa relazione che accompagna il decreto correttivo nella quale si giustifica al scelta di rinviare solamente ad una parte dell’art. 2407 c.c. “tenute presenti le profonde diversità esistenti tra le attività del collegio sindacale e quelle del comitato dei creditori, nonché il fatto che il rischio di incorrere in un tale tipo di responsabilità per la cd. culpa in vigilando, ha prodotto una certa riluttanza nell’accettare la nomina a membro del comitato dei creditori”.

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Ciò stante, la legge fallimentare ne ha ancorato i parametri di responsabilità e comportamento a quelli di un altro organo di controllo societario, prevedendo che essi “devono adempiere i loro doveri con la professionalità e la diligenza richiesti dalla natura dell’incarico” ma ha fatto anche di più, richiamando direttamente l’ultimo comma dell’art. 2407 c.c. in cui si stabilisce che “all’azione di responsabilità contro i sindaci si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli artt. 2393, 2393 bis, 2394, 2394 bis 2 395 c.c.”. Rimane escluso invece il rinvio al secondo comma dell’art. 2407 che richiama una forma di responsabilità di tipo solidale fra i sindaci di una società ed i suoi amministratori “per i fatti e le omissioni di questi, quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità con gli obblighi della loro carica”. Manca, dunque, ogni riferimento ad una forma di responsabilità omissiva del comitato, per mancato controllo sull’operato del curatore, che potrebbe essere giustificata in ragione del fatto che ogni azione del curatore deve trovare conforto in un parere del C.D.C., ovvero in un atto dell’autorità giudiziaria. Non è escluso, inoltre, che il comitato possa essere ritenuto responsabile per aver autorizzato, anche implicitamente con parere vincolante, un atto del curatore dal quale sarebbe poi scaturito il danno, l’unico presupposto da ricercare, infatti, consiste nel nesso di causalità fra un’autorizzazione resa dal C.D.C. e un atto del curatore che si sia rivelato pregiudizievole. L’azione di responsabilità può essere proposta anche durante lo svolgimento della procedura. Con il decreto di autorizzazione il g.d. sostituisce i componenti del C.D.C. nei confronti dei quali ha autorizzato l’azione. La responsabilità del comitato è solidale sia all’interno dell’organo, fra i suoi membri, sia fra questi e il curatore, quando l’azione sia stata proposta anche nei suoi riguardi; tali soggetti possono comunque esercitare, all’interno, il diritto di rivalsa. In quanto componenti di un organo con il quale essi non si riconoscono e del quale non sono mandatari, la responsabilità imputabile ai singoli membri del C.D.C. avrà natura extracontrattuale con l’ulteriore conseguenza che la prescrizione maturerà dopo il decorso di soli 5 anni; il dies a quo da cui la stessa decorre varia a seconda del soggetto che agisce. La legge, infatti, consente la solo curatore di iniziare un’azione di responsabilità ex art. 41 anche in pendenza della procedura fallimentare, onde per il curatore la prescrizione inizierà a decorrere dal giorno in cui il danno si è prodotto, mentre per tutti gli altri legittimati il termine quinquennale inizierà a decorrere dal decreto di chiusura del fallimento ovvero dalla sentenza di omologazione del concordato fallimentare.