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Dossier 3 p. 332 Islanda Paesi Bassi Regno Unito Francia Portogallo Spagna Italia Yemen Somalia Britannica Somalia Africa Orientale Britannica Africa Orientale Tedesca Madagascar Mozambico Sudafrica Beciuania Africa Tedesca del Sud-Ovest Angola Africa Occidentale Francese Camerun Nigeria Togo Costa d'Oro Gambia Sierra Leone Rio de Oro Algeria Tunisia Libia Egitto Sudan Groenlandia Canada Stati Uniti Puerto Rico Bahama Honduras Brit. Guayana Brit. Guayana Oland. Guayana Franc. India Ceylon Indocina Francese Malesia Indie Orientali Olandesi Filippine Australia Impero Russo Oceano Atlantico Oceano Pacifico Oceano Indiano Oceano Pacifico Eritrea Germania Danimarca Cuba Alaska Oceano Atlantico Marocco Congo Belga Rhodesia Belgio Regno Unito Nazioni e possedimenti coloniali Francia Germania Portogallo Spagna Impero ottomano Russia Stati Uniti Italia Paesi Bassi Danimarca Belgio Giappone L’età dell’imperialismo Il dominio imperialistico europeo tra Ottocento e Novecento 12.1 1850-1914: l’Europa conquista l’Africa Il colonialismo europeo fino al 1800 Il Cinquecento e il Seicento furono i secoli in cui il continente europeo cominciò a eserci- tare la sua influenza su tutto il pianeta: navi- gatori, conquistatori e missionari raggiunsero aree sempre più lontane e posero le basi per la successiva espansione. Nel corso dei secoli le navi dei mercanti europei scaricarono nei porti spagnoli, portoghesi, inglesi, olandesi e francesi quantitativi crescenti di materie prime provenienti da ogni parte del mondo. Poi, a seguito della Rivoluzione industriale, le stesse navi esportarono i prodotti delle fabbriche nelle Americhe e in Asia. D3 Nel corso dell’Ottocento la situazione non cambiò: la supremazia economica eu- ropea aumentò, i paesi industriali incre- mentarono continuamente la produzione e crebbe costantemente anche la superiorità tecnologica degli europei rispetto a tutti i popoli della Terra. Negli ultimi trent’anni del XIX secolo l’Europa costituiva il centro dell’economia mondiale, al quale cominciavano ad affian- carsi, come vedremo, solo gli Stati Uniti (in rapido sviluppo) e il Giappone. Tuttavia, dopo la grande conquista dell’America meridionale e settentrionale compiuta tra Seicento e Settecento da por- toghesi, spagnoli, inglesi e francesi, fino al 1800 gli europei avevano rinunciato a con- quistare e sottomettere ampi territori in altri continenti: l’espansione coloniale si era limitata a stabilire, in Asia e sulle coste dell’Africa, sicure basi commerciali e accor- di vantaggiosi con le autorità locali. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento le colonie americane si erano anzi rese au- tonome, ed erano sorti Stati indipendenti sia a nord (gli Stati Uniti) che a sud (il Mes- sico, il Brasile, l’Argentina e altri ancora) del continente americano. Dal colonialismo all’imperialismo Nel corso dell’Ottocento, l’espansione euro- pea riprese i caratteri di una vera conquista territoriale, che aveva come scopo l’assog- gettamento politico di intere popolazioni e lo sfruttamento economico delle regioni in cui esse abitavano. Tale espansione non veniva più dunque affidata solo ai missio- nari e alle compagnie commerciali private, ma era promossa direttamente dai gover- ni, che ne facevano un obiettivo di potenza nazionale e si servivano per realizzarla dei propri eserciti. Gli storici definiscono que- sta nuova fase dell’espansione occidentale «imperialismo» perché portò alla nascita di veri e propri imperi coloniali, costituiti da immensi territori direttamente ammini- strati dai governi europei e abitati da schiere numerose di cittadini provenienti dalla ma- drepatria in cerca di fortuna. La conquista di aree sempre più vaste e la sottomissione di intere popolazioni aveva infatti prima di tutto motivazioni economiche. Attraverso la politica imperialistica le potenze indu- striali raggiungevano tre obiettivi: in primo luogo, esse esercitavano il pieno controllo sulle risorse dei paesi ammini- strati. I conquistatori non si limitavano più a imporre agli indigeni vantaggio- se condizioni per i loro commerci – per esempio pagando poco i prodotti agricoli che acquistavano –, ma sfruttavano diret- tamente le terre, affidandole a proprietari europei e pagando poco i contadini lo- cali. In altre parole, dal momento in cui una nuova regione diveniva parte di un impero coloniale, terreni, miniere, fore- ste e ogni altra risorsa naturale di quella regione venivano considerati proprietà della potenza dominante; in secondo luogo, gli europei guadagna- vano mercati esclusivi per i prodotti delle proprie industrie. Nei territori sottomes- si era proibito importare merci da paesi in concorrenza con quello dominante: nelle colonie inglesi, per esempio, si do- vevano acquistare solo prodotti di fabbri- che inglesi. Si trattò di un obiettivo tanto più importante nell’epoca del protezioni- smo: le capitali europee chiudevano con alti dazi agli avversari i rispettivi mercati nazionali, e trovare in altri continenti uno sbocco alle produzioni della madrepatria diventava essenziale per la salvezza della propria economia; in terzo luogo, il dominio diretto sulla co- lonia consentiva agli europei di reclutare facilmente manodopera a basso costo per il lavoro manuale nelle grandi piantagioni e nei commerci, impiegati di basso livel- lo per l’amministrazione locale e soldati per formare eserciti costituiti da «truppe coloniali», con le quali garantire il proprio potere sulle popolazioni sottomesse. È facile immaginare che tutto ciò avve- niva ad esclusivo vantaggio delle potenze coloniali, con un conseguente e progressivo impoverimento delle regioni del continente interessate dal dominio imperialista. Importanti quanto le motivazioni econo- miche furono però le motivazioni politiche e ideologiche. Nella seconda metà dell’Otto- cento, la politica di potenza e la competizio- ne tra Stati non degenerò in un grande con- Scena di vita dei coloni inglesi in India, 1840 circa. 292 1860 1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia 1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti © Loescher Editore – Torino 293 1914 1876 Bell e Grey brevettano il telefono 1897 Invenzione dell’aspirina © Loescher Editore – Torino

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Dossier 3 p. 332

Islanda

Paesi Bassi

RegnoUnito

Francia

Portogallo SpagnaItalia

YemenSomalia

Britannica

SomaliaAfrica

OrientaleBritannicaAfrica

OrientaleTedesca

Madagascar

MozambicoSudafrica Beciuania

AfricaTedesca

del Sud-Ovest

Angola

Africa OccidentaleFrancese

Camerun

NigeriaTogoCosta

d'Oro

Gambia

SierraLeone

Rio de OroAlgeria

Tunisia

LibiaEgitto

Sudan

Groenlandia

Canada

Stati Uniti

Puerto Rico

Bahama

HondurasBrit.

Guayana Brit.Guayana Oland.

Guayana Franc.

India

Ceylon

IndocinaFrancese

Malesia

Indie Orientali Olandesi

Filippine

Australia

Impero Russo

O c e a n o

A t l a n t i c o

O c e a n o

P a c i f i c o

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O c e a n o

P a c i f i c o

Eritrea

Germania

Danimarca

Cuba

Alaska

O c e a n o

A t l a n t i c o

Marocco

CongoBelga

Rhodesia

Belgio

Regno Unito

Nazioni e possedimenti coloniali

Francia

Germania

Portogallo

Spagna

Impero ottomano

Russia

Stati UnitiItalia

Paesi Bassi

Danimarca

Belgio Giappone

L’età dell’imperialismo

Il dominio imperialistico europeo tra Ottocento e Novecento

12.1 1850-1914: l’Europa conquista l’Africa

Il colonialismo europeo fino al 1800

Il Cinquecento e il Seicento furono i secoli in cui il continente europeo cominciò a eserci-tare la sua influenza su tutto il pianeta: navi-gatori, conquistatori e missionari raggiunsero aree sempre più lontane e posero le basi per la successiva espansione. Nel corso dei secoli le navi dei mercanti europei scaricarono nei porti spagnoli, portoghesi, inglesi, olandesi e francesi quantitativi crescenti di materie prime provenienti da ogni parte del mondo.

Poi, a seguito della Rivoluzione industriale, le stesse navi esportarono i prodotti delle fabbriche nelle Americhe e in Asia. D3

Nel corso dell’Ottocento la situazione non cambiò: la supremazia economica eu-ropea aumentò, i paesi industriali incre-mentarono continuamente la produzione e crebbe costantemente anche la superiorità tecnologica degli europei rispetto a tutti i popoli della Terra.

Negli ultimi trent’anni del XIX secolo l’Europa costituiva il centro dell’economia mondiale, al quale cominciavano ad affian-carsi, come vedremo, solo gli Stati Uniti (in rapido sviluppo) e il Giappone.

Tuttavia, dopo la grande conquista dell’America meridionale e settentrionale

compiuta tra Seicento e Settecento da por-toghesi, spagnoli, inglesi e francesi, fino al 1800 gli europei avevano rinunciato a con-quistare e sottomettere ampi territori in altri continenti: l’espansione coloniale si era limitata a stabilire, in Asia e sulle coste dell’Africa, sicure basi commerciali e accor-di vantaggiosi con le autorità locali. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento le colonie americane si erano anzi rese au-tonome, ed erano sorti Stati indipendenti sia a nord (gli Stati Uniti) che a sud (il Mes-sico, il Brasile, l’Argentina e altri ancora) del continente americano.

Dal colonialismo all’imperialismo

Nel corso dell’Ottocento, l’espansione euro-pea riprese i caratteri di una vera conquista territoriale, che aveva come scopo l’assog-gettamento politico di intere popolazioni e lo sfruttamento economico delle regioni in cui esse abitavano. Tale espansione non veniva più dunque affidata solo ai missio-nari e alle compagnie commerciali private, ma era promossa direttamente dai gover-ni, che ne facevano un obiettivo di potenza nazionale e si servivano per realizzarla dei propri eserciti. Gli storici definiscono que-sta nuova fase dell’espansione occidentale «imperialismo» perché portò alla nascita di veri e propri imperi coloniali, costituiti da immensi territori direttamente ammini-strati dai governi europei e abitati da schiere numerose di cittadini provenienti dalla ma-drepatria in cerca di fortuna. La conquista di aree sempre più vaste e la sottomissione di intere popolazioni aveva infatti prima di tutto motivazioni economiche. Attraverso la politica imperialistica le potenze indu-striali raggiungevano tre obiettivi:

• inprimoluogo,esseesercitavanoilpienocontrollo sulle risorse dei paesi ammini-strati. I conquistatori non si limitavano più a imporre agli indigeni vantaggio-se condizioni per i loro commerci – per esempio pagando poco i prodotti agricoli che acquistavano –, ma sfruttavano diret-tamente le terre, affidandole a proprietari europei e pagando poco i contadini lo-cali. In altre parole, dal momento in cui una nuova regione diveniva parte di un impero coloniale, terreni, miniere, fore-ste e ogni altra risorsa naturale di quella

regione venivano considerati proprietà della potenza dominante;

• insecondoluogo,glieuropeiguadagna-vano mercati esclusivi per i prodotti delle proprie industrie. Nei territori sottomes-si era proibito importare merci da paesi in concorrenza con quello dominante: nelle colonie inglesi, per esempio, si do-vevano acquistare solo prodotti di fabbri-che inglesi. Si trattò di un obiettivo tanto più importante nell’epoca del protezioni-smo: le capitali europee chiudevano con alti dazi agli avversari i rispettivi mercati nazionali, e trovare in altri continenti uno sbocco alle produzioni della madrepatria diventava essenziale per la salvezza della propria economia;

• interzoluogo,ildominiodirettosullaco-lonia consentiva agli europei di reclutare facilmente manodopera a basso costo per il lavoro manuale nelle grandi piantagioni e nei commerci, impiegati di basso livel-lo per l’amministrazione locale e soldati per formare eserciti costituiti da «truppe coloniali», con le quali garantire il proprio potere sulle popolazioni sottomesse.

È facile immaginare che tutto ciò avve-niva ad esclusivo vantaggio delle potenze coloniali, con un conseguente e progressivo impoverimento delle regioni del continente interessate dal dominio imperialista.

Importanti quanto le motivazioni econo-miche furono però le motivazioni politiche e ideologiche. Nella seconda metà dell’Otto-cento, la politica di potenza e la competizio-ne tra Stati non degenerò in un grande con-

Scena di vita dei coloni inglesi in India, 1840 circa.

292 1860 1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti

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29319141876 Bell e Grey brevettano il telefono 1897 Invenzione dell’aspirina

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Album p. 310

I domini europei in Africa

Regno Unito

Francia

Germania

Portogallo

Spagna

Italia

Belgio

Tunisia

AlgeriMaroccospagnoloMadeira (Port.)

Canarie (Sp.)Ifni (Sp.)

Marocco

Rio De OroAlgeria

Isole diCapo Verde

(Port.)

Gambia

Guinea Port.

Sierra Leone

LIBERIATogo

Costad'Oro

Nigeria

Africa Occidentale Francese

Camerun

Fernando Poo (Sp.)

Sao Tomé e Principe (Port.)

Rio Muni

CongoFrancese Congo

Belga

Angola

AfricaOccidentale

Tedesca

Città del Capo

UnioneSudafricana

JohannesburgSwaziland

Basutoland

Rhodesiadel Sud

Mozambico

Beciuania

Madagascar

Réunion (Fr.)

Maurizio (R.U.)

NiassaIs. Comore (Fr.)

Is Aldabra(R.U.)

Is Amiranti(R.U.)Africa

OrientaleTedesca

Rhodesiadel Nord

KenyaUganda

SomaliaItaliana

SomaliaBritannica

Gibuti

ETIOPIA

Fashoda

SudanAnglo-egiziano Eritrea Socotra

(R.U.)

Africa

Equatoriale

Francese

Canaledi SuezIl Cairo

EgittoLibia

4 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo 12 L’età dell’imperialismo

flitto europeo, ma portò le nazioni europee a misurarsi nella gara per le colonie. Inoltre i popoli d’Europa, pur lottando nel teatro coloniale per affermare reciprocamente la propria superiorità, ritenevano tutti in-sieme di essere, come «razza», superiori ai popoli africani. Erano cioè convinti di dover svolgere una missione civilizzatrice, per aiutare le popolazioni africane a uscire dal-la presunta arretratezza culturale, sociale ed economica in cui si trovavano. Anche a causa di questo pregiudizio razzista, i con-fini delle colonie furono disegnati dagli eu-ropei al tavolo della diplomazia senza alcun riguardo per la situazione etnica dell’Africa e per le effettive condizioni e i bisogni delle popolazioni locali. A

Le principali potenze imperialiste furono l’Inghilterra e la Francia, ma anche il Bel-gio, la Germania e l’Italia riuscirono a creare nel tempo i loro imperi coloniali in Africa.

Protettorati e colonie europee in Africa

La nuova fase di conquista si compì prima di tutto in Africa. Nella seconda metà del XIX secolo, l’interesse delle potenze europee per tale continente crebbe costantemente e portò alla sua quasi totale conquista, soprat-

tutto dopo la scoperta di grandi ricchezze in materie prime come oro, argento, diamanti, rame, zinco e stagno.

Vi fu anzitutto una lunga stagione di sco-perte geografiche nell’entroterra, anima-ta da una schiera di esploratori capaci di sfidare i climi sfibranti e l’avversione delle popolazioni locali. Le loro vicende venivano seguite con passione in Occidente, per il loro sapore avventuroso e romantico, per il gusto del mistero e della scoperta che le accompa-gnava, per l’interesse scientifico verso luoghi e genti sconosciuti. I più noti fra essi furo-no il medico e missionario scozzese David Livingstone e il giornalista statunitense di origini gallesi Henry Morton Stanley. Livin-gstone partì dalla Colonia del Capo, percorse la regione dello Zambesi e viaggiò per le fo-reste incontaminate dell’Africa centro-meri-dionale, attraversandola da una sponda oce-anica all’altra. Stanley esplorò la regione del Congo per incarico del re del Belgio, diven-tando addirittura il primo governatore del-la colonia così creata e arricchendosi enor-memente. Una volta giunti in regioni dove i bianchi non erano mai stati visti, essi con-sideravano normale «prendere possesso» di quei territori in nome dei loro governi, senza alcun rispetto per le popolazioni locali. Al seguito dei viaggiatori si ponevano pre-

sto mercanti e missionari. I primi cercavano un profitto tramite il commercio, i secondi speravano di riuscire a convertire le popola-zioni africane al cristianesimo. Quando un paese europeo aveva avviato commerci con un popolo africano e assicurato il suo soste-gno alla diffusione del cristianesimo, si pro-clamava «protettore» di quella regione. Con il «protettorato», le autorità indigene man-tenevano una certa autonomia e una certa sovranità sui loro affari interni, lasciando al paese «protettore» il compito di difendere i loro confini e di rappresentarle negli affari internazionali. Quando poi, col tempo, la penetrazione economica si tramutava in occupazione territoriale, il protettorato di-ventava vera e propria colonizzazione. La colonia perdeva ogni autonomia e la poten-za europea si arrogava il diritto di ammi-nistrare il popolo conquistato con propri funzionari e di sfruttare a piacimento le sue ricchezze. La resistenza degli indigeni fu vinta spesso con le armi e nacquero così molte nuove colonie. [Testimonianze do-cumento 6, p. 320]

La Conferenza di Berlino e la spartizione dell’Africa

Nel 1869 fu inaugurato il Canale di Suez, un canale artificiale navigabile situato in Egitto tra Porto Said, sul Mar Mediterraneo, e Suez, sul Mar Rosso. La sua apertura permise il collegamento diretto via acqua tra l’Europa e l’Asia, senza più dover necessariamente circumnavigare l’Africa sulla rotta del Capo di Buona Speranza: grazie al Canale si regi-strò un forte sviluppo dei commerci tra Eu-ropa e Asia lungo la via che costeggiava le coste orientali africane.

Si trattò di un progresso che stimolò in modo deciso le politiche di conquista degli occidentali verso l’Africa, di cui gli europei possedevano ancora una parte molto limi-tata. All’epoca, gli inglesi erano insediati nella punta meridionale del continente, nella Colonia del Capo, mentre i francesi possedevano l’Algeria e il Senegal e i porto-ghesi occupavano l’Angola e il Mozambico. Dopo il 1880, gli insediamenti europei si espansero rapidamente e nel giro di quattro decenni quasi tutta l’Africa cadde in mano agli europei.

L’esploratore americano Stanley in Congo durante la spedizione alla ricerca dell’ esploratore inglese Livingstone, 1890.

Stampa popolare d’epoca che mostra lo storico incontro tra Livingstone e Stanley in Africa.

Zambia: statua dell’esploratore britannico David Livingstone.

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I domini coloniali francesi e britannici

Gruppo di uomini e donne legati e condotti in schiavitù da commercianti di schiavi arabi, 1875.

La Conferenza di Berlino in una illustrazione di A. von Rössler.

Francia

RegnoUnito

O c e a n o

A t l a n t i c o

Canada

Bahama

Giamaica

HondurasBrit.

Guayana Brit.Guayana Franc.

Gambia

SierraLeone

O c e a n o

A t l a n t i c o

Africa OccidentaleFrancese

Algeria

Tunisia

Costa d'OroNigeria

Domini francesi

Domini britannici

Sudafrica BeciuaniaRhodesia

Madagascar

SomaliaBritannica

AfricaOrientaleBritannica

Gibuti

Yemen

Egitto

Sudan

India

Ceylon

IndocinaFrancese

Malesia

O c e a n o

P a c i f i c o

Australia

NuovaZelanda

O c e a n o

I n d i a n o

Marocco

O c e a n o

P a c i f i c o

4 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo 12 L’età dell’imperialismo

Per primi furono sottomessi la Tunisia e l’Egitto, rispettivamente nel 1881 e nel 1882. I due paesi erano nominalmente sotto il do-minio ottomano ma sostanzialmente indi-pendenti. Si erano inoltre fortemente inde-bitati con le banche europee per finanziare la modernizzazione interna e la costruzione di strade, porti e industrie. Fu proprio il pe-ricolo della loro bancarotta a spingere Fran-cia e Inghilterra a intervenire. Parigi prese a pretesto alcuni incidenti verificatisi alla frontiera con l’Algeria e inviò un corpo di spedizione armato a Tunisi, imponendo al bey il protettorato. Londra fece altrettanto in Egitto dopo lo scoppio di moti anti-euro-pei ad Alessandria d’Egitto e acquisì in que-sto modo il controllo economico e militare dello stesso Canale di Suez.

Subito dopo fu re Leopoldo II del Belgio a dare corpo a un suo impero personale in Africa centrale, sottomettendosi l’intera re-gione del Congo, e proprio le dispute legate all’avventura belga accesero tra le potenze europee tensioni che avrebbero potuto sfo-ciare in una guerra. Per cercare di risolvere tutto con la diplomazia, nel 1884-1885 (su iniziativa di Bismarck) a Berlino fu convo-cato un conferenza che doveva mettere or-dine tra le ambizioni occidentali sul conti-nente africano. Esso attribuì in via definitiva il Congo al Belgio e stabilì che l’occupazione effettiva con truppe e funzionari ammini-strativi sarebbe stata condizione sufficiente per l’assegnazione dei territori ancora di-

sponibili. L’espansione europea riprese al-lora e proseguì inarrestabile.

Gli inglesi si insediarono in Sudan, dove dovettero combattere fino alla fine dell’Ot-tocento per stroncare il governo islamico del Mahdi Mohammed Ahmed, che si op-poneva con la forza alla penetrazione e alla modernizzazione portata dagli occidentali. Gli stessi britannici si spinsero verso nord dalla Colonia del Capo e misero le mani an-che sul vasto territorio nigeriano e su buona parte dell’Africa orientale. I francesi fecero proprio il Marocco, sulle sponde del Medi-terraneo, gran parte dell’Africa sahariana e molti territori costieri nel golfo di Guinea. I belgi guadagnarono lo sbocco sull’Atlantico necessario al trasporto e alla commercializ-zazione delle straordinarie risorse minera-rie del Congo. Ai tedeschi toccarono ampie porzioni dell’Africa centrale e meridionale. Solo in una fase successiva a queste potenze si aggiunse l’Italia, con la conquista a fine Ottocento di Eritrea e Somalia e poi della Libia, tra 1911 e 1912.

Le decisioni prese a Berlino furono so-stanzialmente rispettate e i dissidi tra capi-tali vennero risolti con accordi diplomatici. Fu così per esempio tra l’Inghilterra e la Germania: Londra desiderava dare conti-nuità ai suoi domini dall’Egitto al Capo di Buona Speranza, ma non poté raggiungere l’obiettivo a causa della presenza tedesca in Africa orientale. I due paesi si accordarono nel 1890: in cambio della rinuncia a qualsia-

si pretesa sulla regione occupata da Berlino, l’Inghilterra ebbe l’isola di Zanzibar, snodo delle rotte commerciali nell’Oceano India-no; inoltre, la Germania si impegnò a non minacciare i possedimenti inglesi nella re-gione del Nilo. Gravi tensioni si verificarono anche tra inglesi e francesi: a Fashoda, in Sudan, nel 1898 soldati delle due potenze giunsero a un passo dalla guerra; tuttavia, i francesi, impegnati ad occupare il territorio dell’alto Nilo, si ritirarono e l’episodio non degenerò in scontro aperto.

Nel 1914 ormai quasi tutto il continen-te era sottomesso all’una o all’altra poten-za europea. Alle soglie della Prima guerra mondiale, solo la Liberia e l’Etiopia erano ancora indipendenti dal controllo straniero. L’impero inglese era il più vasto: somman-do i possedimenti africani a quelli conqui-stati in altri continenti si estendeva su circa 33 milioni di chilometri quadrati; in quei decenni, Londra metteva le mani anche su grandi parti dell’Oceania e l’Australia, de-stinata in principio a diventare una colonia penale, divenne il fulcro di floridi traffici commerciali. Enormemente ampio era pure l’impero francese. L’intero pianeta era però nel complesso diviso in zone di influen-za tra le diverse grandi potenze, tanto che appena prima della Grande guerra solo un quinto della Terra non si trovava sotto il di-retto controllo degli europei. [ I NODI DEL-LA STORIA p. 308]

12.2 L’espansione europea in Asia

La penetrazione europea in Asia nell’Ottocento

Come abbiamo visto, a metà dell’Ottocen-to l’Africa era ancora per gli occidentali un continente misterioso. Essi erano invece già penetrati da lungo tempo in Asia, dove mol-ti paesi europei gestivano importanti basi commerciali e possedevano estesi domini territoriali.

Gli inglesi occupavano Ceylon (Sri Lan-ka), Singapore, Hong Kong e altri porti lun-go le coste dell’Oceano Indiano e dell’Asia sud-orientale. Controllavano soprattutto, attraverso un fitto sistema di scambi, il sub-continente indiano. L’Indonesia, composta da un vasto arcipelago, era invece in mano agli olandesi. La cinese Macao e l’indiana Goa erano appannaggio del Portogallo, ul-timi resti di un impero commerciale e terri-toriale che aveva toccato il suo culmine due secoli e mezzo prima, mentre la Spagna go-vernava le Filippine. Si trattava insomma di presenze già poderose, ma dopo la metà del XIX secolo anche in Asia l’espansionismo europeo ebbe una decisa accelerazione. Basta ricordare i casi della Francia e della Russia.

La Francia fu l’ultima a mettere piede in Asia e giocò le sue carte nella regione in-

bey: titolo assunto dai sovrani di Tunisi e Tripoli.

Mahdi: nella tradizione islamica è «colui che è ben guidato da Dio».

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© Loescher Editore – Torino

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  Tweet Storia p. 358 Dossier 3 p. 332 La regina Vittoria con due attendenti indiani.

L’assalto delle forze alleate (inglesi e francesi) a Pechino (1860) durante la Seconda guerra dell’oppio.

4 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo 12 L’età dell’imperialismo

docinese. In tappe successive giunse a oc-cupare le aree corrispondenti agli attuali Vietnam, Cambogia e Laos. La Thailandia rimase indipendente e svolse le funzioni di «Stato-cuscinetto» tra i domini di Parigi e la Birmania, in mano a Londra.

La Russia, invece, allargò i propri con-fini in due direzioni diverse. In Asia orien-tale occupò i vastissimi e ricchi territori della Siberia, spingendosi fino alle sponde dell’Oceano Pacifico, dove sorse il porto di Vladivostok, meta finale della ferrovia Tran-siberiana, inaugurata nel 1904, che partiva da San Pietroburgo e giungeva in Estremo Oriente con un percorso di 9000 chilometri. In Asia centrale, lo zar si spinse fino a inclu-dere le nazioni alle pendici del Caucaso me-ridionale, ai confini con Turchia e Iran. An-che in questo caso i contrasti con la potenza inglese si risolsero diplomaticamente nel ri-conoscimento dell’indipendenza dell’Afgha-nistan e dello stesso Iran, che «isolavano» le conquiste russe dall’India, possedimento di Londra. Alle soglie del Novecento, dun-que, l’Impero russo si estendeva dall’Europa all’Asia, coprendone larghe parti.

Come vedremo adesso, più notevoli an-cora furono le vicende dell’India, sulla qua-le l’Inghilterra decise di esercitare un pieno dominio territoriale, e quelle della Cina, pa-ese che a metà Ottocento era, esattamente come il Giappone, assai arretrato rispetto all’Occidente ed esposto ai suoi attacchi. Ma Cina e Giappone reagirono in modo dif-ferente alla penetrazione europea ed ebbe-ro destini radicalmente diversi.

L’India: dalla Compagnia delle Indie Orientali alla corona inglese

L’Inghilterra aveva conquistato la suprema-zia sull’India alla fine del Settecento, ma fino alla metà del secolo successivo aveva rispettato, formalmente, l’autonomia dei diversi principati in cui era diviso il paese e affidato i suoi interessi commerciali alla potente Compagnia delle Indie Orientali.

D3 Nel corso dell’Ottocento, con il pretesto di garantire la sicurezza dei propri traffici, la Compagnia aveva assunto il controllo di vaste regioni nel Nord, spingendosi fino al Tibet e all’Afghanistan, e nell’Est del paese, cioè nel Bengala, fino alla Birmania. L’India era molto popolosa e rappresentava quindi un mercato di sbocco indispensabile ai pro-dotti industriali inglesi, mentre a sua volta Londra importava dalla regione soprattutto cotone e tè.

L’accresciuto attivismo della Compagnia, la sempre più pervasiva presenza di mer-canti e funzionari inglesi, il tentativo di im-porre lingua e costumi britannici, provoca-rono tuttavia forte resistenza in un’area che, almeno formalmente, era ancora sottoposta al controllo della dinastia imperiale Moghul. Nel 1857, una parte delle stesse truppe co-loniali che dipendevano dalla Compagnia si ribellò. Questa sollevazione fu detta «rivol-ta dei Sepoys», dal nome dei soldati indiani arruolati e posti al comando di ufficiali in-glesi. Essa interessò tutta l’India centrale e fu repressa con l’intervento di altre truppe, provenienti dall’Inghilterra e da aree dell’In-dia già pienamente sottomesse. Domata la ribellione, il governo inglese ritenne op-portuno stabilizzare il proprio dominio sul subcontinente: di conseguenza, nel 1858 la Compagnia delle Indie Orientali fu soppres-sa e l’India passò sotto il diretto controllo della Corona britannica. L’ultimo sovrano dell’antica dinastia dei Moghul fu deposto e al suo posto fu insediato un viceré.

Prudentemente, i viceré britannici non vollero sovvertire la struttura sociale india-na, ancora basata sulla rigida divisione in caste, e preferirono cercare il sostegno dei signori locali, allo scopo essenziale di incas-sare le imposte e assicurare l’ordine pubbli-co. L’India venne così pacificata e il prece-dente controllo dei traffici si trasformò in uno sfruttamento economico pieno. Emble-

matico dello sfruttamento era il ciclo della lavorazione del cotone: il tessuto di cotone esportato dall’India all’Inghilterra tornava poi in India lavorato per esservi lì rivenduto, con conseguente e inevitabile deperimento della manifattura tessile locale.

Nel 1876, la regina Vittoria assunse il titolo di «Imperatrice delle Indie», ben giu-stificato dal dominio sull’immenso subcon-tinente e dalle ulteriori conquiste della Bir-mania, della Malesia e di parte del Borneo.

La decadenza dell’Impero cinese

Per la Cina il XIX secolo fu un’epoca di deca-denza. La dinastia Qing governava il paese dal 1644 e manteneva l’impero in completo isolamento dal resto del mondo. Il potere centrale, che amministrava con rigore il ter-ritorio grazie ai mandarini, alti funzionari alle dirette dipendenze del sovrano, non ri-uscì a modernizzare la società e l’economia del paese fondata esclusivamente sull’agri-coltura. Gran parte della popolazione era costituita da contadini che vivevano in con-dizioni di povertà e si ribellavano con fre-quenza alle autorità.

Gli occidentali premevano da tempo per penetrare commercialmente nel paese, ma fino a Ottocento inoltrato furono autoriz-zati a insediarsi unicamente nel porto me-ridionale di Canton. Solo nel 1839 le rela-zioni esterne della Cina ebbero una svolta: gli inglesi avevano sviluppato un fiorente commercio d’oppio, proveniente dalle colo-nie indiane e molto apprezzato dai cinesi. I Qing si erano opposti alla diffusione di que-sta merce, vietandola per legge, e ritenevano diretto responsabile del traffico lo stesso go-verno di Londra. Il sequestro del carico delle navi straniere a Canton provocò una guerra tra la Cina e l’Inghilterra. Il conflitto – la co-siddetta Prima guerra dell’oppio – fu vinto da questi ultimi, che con la pace ottennero nel 1842 dall’imperatore la cessione di Hong Kong e l’apertura al commercio estero di al-tri quattro porti.

Emerse in questa occasione tutta l’arre-tratezza tecnologica e militare della Cina. A partire dal 1850, i Qing fronteggiarono numerose rivolte interne animate dai con-tadini che chiedevano una radicale riforma agraria, e tra 1856 e 1860 dovettero com-battere la Seconda guerra dell’oppio, que-

sta volta contro inglesi e francesi alleati. Lo scontro si risolse con una nuova sconfitta per Pechino, che fu costretta ad aprire al commercio straniero altri porti e addirittura i fiumi, a tollerare la presenza e l’azione dei missionari cristiani e allacciare normali re-lazioni diplomatiche con i paesi occidenta-li. In breve, l’economia cinese si trovò nelle mani degli europei e importanti aree della Cina furono sottoposte al controllo semico-loniale di Inghilterra, Francia e Germania.

La rivolta dei Boxers e la fine dell’Impero cinese

A partire dal 1860, per favorire lo sviluppo dei commerci europei in Cina, le potenze occidentali introdussero nel paese asiatico una certa modernizzazione. Furono amplia-ti i porti e costruite strade e ferrovie, mentre considerevoli capitali stranieri furono inve-stiti per creare fabbriche e banche, anch’esse controllate dagli europei e dagli americani.

Gli imperatori e la loro corte rimasero ostili a questo processo: la Cina stava diven-tando un grande affare per tutti gli stranieri, e a trarne vantaggio era solamente un’esigua minoranza di mercanti cinesi che commer-ciavano con gli europei. Ma non riuscirono ad opporvisi concretamente e le aree di in-fluenza commerciale delle potenze stranie-re si ampliarono sempre più. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, inoltre, anche il Giappone, sempre più potente, si inserì nel-la partita coloniale: nel 1894 invase la Corea, fino ad allora controllata da Pechino. I nip-

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29919141876 Bell e Grey brevettano il telefono 1897 Invenzione dell’aspirina

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Il capo indiano apache Geronimo con parte della sua tribù.

Stati Uniti nel 1775

Territori acquisiti con il trattato di Versailles (1783)

Louisiana ceduta dalla Francia (1803)

Aquisizione dal Regno Unito con la convenzione del 1818

Florida ceduta dalla Spagna

Annessione del Texas

Annessione dell’Oregon

California ceduta dal Messico

Territorio ceduto dal Messico

Data di acquisizione dei territori1845

RhodeIsland

MaineVermontN. Hampshire

Massachusetts

New JerseyConnecticut

New York

DelawareMaryland

Pennsylvania

WestVirginia Virginia

NorthCarolina

SouthCarolina

Georgia

Florida1819

Michigan

1783

Wisconsin

Illinois

Indi

ana Ohio

Kentucky

Tennessee

AlabamaMississippi

Louisiana

ArkansasOklahoma

MissouriKansas

1803Lou i s i a na

Iowa

Minnesota

Nebraska

South Dakota

NorthDakotaMontana

Wyoming

Colorado

NewMexico

T e x a s1845

1853

Arizona

Cal i fo rn ia1850California

NevadaUtah

Oregon1846

IdahoOregon

WashingtonCANADA

Alaska

1867

acquistatadalla Russia

RUSSIAC A N A D A

L’espansione degli Stati UnitiL’Impero cinese all’inizio del Novecento

Manciuria(alla Russia

dal 1900 al 1905poi giapponese)

R U S S I A

GIAPPONECorea(al Giappone)

Pechino

Mongolia interna

Mongolia esterna

Uriankhai(alla Russia)

Zungaria(alla Russia)

Xinj iang

Qinghai

Tibet

Port Arthur (Russia)Weihaiwei (R.U.)

Qingdao (Germania)

Shangai

Ningbo

Fuzhou

Formosa(al Giappone)

Xiamen

Hong Kong (R.U.)Canton

Macao (Portogallo)Guangzhouwan(Francesi)

Territori conquistatidalla dinastiaQing (Manchu)dopo il 1650Territori persidopo il 1847

nel 1842Porti aperti agli stranieri:

dal 1842 al 1911Territori cedutidalla Cina

Area della rivoltadei Boxers

4 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo 12 L’età dell’imperialismo

ponici ebbero facilmente la meglio: la Cina dovette cedere a Tokyo l’isola di Formosa e rinunciare alla stessa Corea, che al principio del Novecento sarebbe passata sotto protet-torato nipponico.

Di fronte a questa situazione, nel 1899 gli oppositori al controllo estero si ribellarono in tutto il paese, nel nome dell’orgoglio na-zionalista e delle antiche tradizioni impe-riali. La protesta era guidata dagli yihequan, uomini che coltivavano una forma tradizio-nale di arte marziale: tale termine significa infatti «pugno di giustizia e di fratellanza» e per questo gli insorti vennero dagli ingle-si ribattezzati Boxers, ossia «pugilatori». La «rivolta dei Boxers» ebbe pesanti effetti: le ferrovie vennero sabotate, molti convertiti al cristianesimo uccisi e a Pechino le delega-zioni diplomatiche occidentali furono asse-diate, e l’ambasciatore tedesco addirittura assassinato. Questo costituì il pretesto per l’intervento in forze delle potenze stranie-re. Nel 1901, un esercito internazionale (di cui faceva parte anche un reparto italiano) entrò nella capitale e costrinse i rivoltosi alla resa, occupando Pechino.

Indebolita e ormai completamente asservi-ta agli stranieri, la dinastia Qing fu rovesciata nel 1912 dal movimento nazionalista del Kuo-mintang che proclamò la repubblica ponendo fine al millenario Impero cinese: negli anni successivi tale movimento cercò di difendere l’autonomia della Cina dagli europei, ma so-prattutto dall’aggressione del Giappone.

12.3 Gli Stati Uniti diventano una potenza mondiale

L’espansione territoriale verso occidente

Nel corso dell’Ottocento gli Stati Uni-ti d’America erano un paese in continua espansione territoriale verso i vasti e incol-ti territori dell’Ovest (il così detto Far West) con una popolazione in crescita e un forte sviluppo economico.

Lo spostamento dei confini era inarre-stabile. Migliaia di immigrati provenienti dall’Europa venivano spinti dal governo a cercare terre e fortuna verso ovest (la famo-sa «conquista del West») nelle vaste praterie centrali percorse dalle mandrie di bisonti e abitate da circa un milione di indiani o nei territori debolmente controllati dal Messico.

I coloni potevano occupare le terre che avessero raggiunto e trasformarle in azien-de agricole di loro proprietà: un sistema di sfruttamento del territorio sconosciuto in-vece ai nativi americani della fascia centrale dell’America del Nord, popolazioni nomadi che vivevano di caccia seguendo le migra-zioni annuali delle mandrie di bisonti.

Questo «spirito di frontiera» travolse ogni ostacolo: era imperniato sul desiderio di libertà, sulla speranza di conquistarsi una vita migliore, su un profondo egualitarismo.

E allo stesso tempo sulla convinzione che ogni mezzo, anche la violenza, fosse lecito per la realizzazione del sogno del pioniere.

All’inizio dell’Ottocento, il paese si sten-deva ancora su una stretta fascia costiera, affacciata sull’Oceano Atlantico. Nel 1803 il governo acquistò dalla Francia la Louisiana e nel 1819 la Spagna cedette a Washington la Florida. A metà del secolo, in pochi anni al Messico furono strappati il Texas (1845), la California (1850) e il Nuovo Messico (1853), mentre a Nord i coloni bianchi occuparono senza scrupoli i territori degli indiani mas-sacrandoli o costringendoli alla fame con il continuo sterminio dei bufali. Ogni ter-ritorio acquistava il titolo di Stato e veniva associato all’Unione quando la popolazione bianca raggiungeva i 60.000 abitanti. Nac-quero così, tra gli altri, l’Ohio (1803), l’Illi-nois (1818), il Missouri (1821), l’Iowa (1846), il Minnesota (1858) e l’Oregon (1859). Nel 1860 gli Stati erano diventati oltre 30.

Vi erano ancora vastissimi territori da occupare nella parte centrale e occidenta-le del continente, ma era solo questione di tempo. Nel 1890 la disperata ed impari lotta degli indiani contro i bianchi poteva dirsi conclusa con il loro sterminio di massa e la riduzione dei superstiti a una condizio-ne di miseria nelle «riserve» loro destinate. Le imprese di capi celebri come Geronimo, della tribù degli Apache, o Toro Seduto, della tribù dei Sioux, che avevano fronteg-giato l’avanzata dei coloni in condizioni di

grande inferiorità numerica e tecnologica, appartenevano definitivamente al passato. Tutto il territorio degli attuali Stati Uniti era ormai proprietà dei conquistatori: i confini del paese si stendevano infatti dalle vecchie colonie inglesi sulle coste dell’Atlantico ai recentissimi territori californiani sulle co-ste dell’Oceano Pacifico. E la ferrovia e i pali del telegrafo, simboli della modernità e di questa straordinaria espansione, con-giungevano le due sponde del continente nordamericano.

Le differenze economiche tra Nord e Sud del paese

Dalle tredici colonie che si erano rese indi-pendenti dall’Inghilterra nel 1776, l’Unione aveva ereditato e sviluppato un sistema pro-duttivo che la divideva in due parti: il Nord e il Sud, segnati da differenze sempre più marcate:

• nel Nord stava nascendo una potente industria, che sfruttava la grande dispo-nibilità di manodopera, fornita dall’im-migrazione proveniente dall’Europa, e di materie prime (legname, carbone e fer-ro) di cui era ricco il territorio. Negli Stati settentrionali si sviluppò quindi una bor-ghesia di imprenditori molto dinamica, che si faceva prestare soldi dalle banche, costruiva nuove fabbriche ed era in gra-do di competere con le aziende europee dando lavoro a migliaia di operai. Per

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E. Johnson, Old Kentucky Home-Life in the South, 1859, New York, Collection of the New York Historical Society.

W. Hahn, Mercato in Sansome Street a San Francisco, 1872, Sacramento, Crocker Art Museum.

4 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo 12 L’età dell’imperialismo

sostenere lo sviluppo in corso furono co-struite e ampliate ferrovie, strade, porti commerciali e le città divennero grandi e moderne;

• l’economia del Sud, invece, era sempre più legata alla produzione agricola, al ruolo dominante dei grandi proprieta-ri terrieri e allo sfruttamento del lavo-ro degli schiavi neri. Si coltivavano e si esportavano grandi quantità di tabacco e canna da zucchero, ma la produzione che nel corso del XIX secolo crebbe mag-giormente era quella del cotone: mentre nel 1800 gli Stati Uniti vendettero cotone all’estero per 5 milioni di dollari, nel 1860 il ricavato fu di ben 121 milioni. Al Sud mancava una borghesia dinamica simile a quella del Nord e l’intera gerarchia so-ciale era fondata sul potere di poche mi-gliaia di grandi famiglie di latifondisti, che possedevano le terre e guidavano le istituzioni locali. Si trattava di una vera e propria minoranza aristocratica, gelosa della sua ricchezza, del suo potere e delle sue tradizioni.

La crescita della popolazione e i diversi orientamenti politici

Dal 1800 al 1860 la popolazione complessi-va degli Stati Uniti passò da 5 a 30 milioni di abitanti: una crescita vertiginosa dovuta in larga parte al continuo afflusso di im-migrati europei, che tuttavia si stabilivano principalmente negli Stati settentrionali, dove era più facile trovare lavoro e dove non esistevano barriere sociali che impedissero l’ascesa e l’arricchimento degli uomini più intraprendenti. La popolazione, quindi, au-mentava soprattutto al Nord, dove vivevano quasi esclusivamente bianchi: circa 21 mi-lioni. Negli Stati del Sud la popolazione era invece costituita dal 60% di bianchi, stimati in 5 milioni, e dal 40% di neri, che erano in tutto oltre 4 milioni.

Alle forti differenze nella composizione della popolazione e nell’economia si ac-compagnavano anche diverse tendenze po-litiche. Gli Stati «nordisti» erano favorevoli a un rafforzamento del potere centrale, che, secondo loro, doveva essere abbastanza for-te da difendere la nascente industria dalla concorrenza dei Paesi industriali europei. Erano quindi favorevoli al protezionismo e all’introduzione di tasse sulle importazio-ni. Gli Stati del Sud vivevano invece solo di esportazioni dei prodotti agricoli, che sareb-bero state messe a rischio dall’adozione del protezionismo: si poteva infatti facilmente prevedere che i mercati esteri si sarebbero chiusi ai prodotti americani per ritorsione contro Washington.

Gli Stati «sudisti», invece, difendevano la propria autonomia e le proprie tradizioni e, vivendo solo dell’esportazioni dei pro-dotti agricoli, erano assolutamente contrari all’imposizione di dazi sui commerci esteri. Difendevano infine l’autonomia dei singo-li Stati federati contro il rafforzamento e le ingerenze del potere centrale, che conside-ravano una minaccia.

1861-1865: la Guerra di Secessione

I grandi proprietari terrieri del Sud avrebbe-ro voluto introdurre il loro sistema econo-mico, imperniato sulle piantagioni di cotone lavorate da schiavi, anche nei nuovi Stati che si andavano formando a Sud-ovest, come il Texas, il Nuovo Messico e la California. Qui venivano messe a coltura sempre nuove terre, che contribuivano in buona misura alla straordinaria crescita dell’agricoltura statunitense. A questo progetto si oppone-vano gli Stati settentrionali, dove la critica all’ingiusto sfruttamento degli schiavi era sempre più aspra e dove si pretendeva che in tutta l’Unione valessero gli stessi diritti per tutti i cittadini. Gli Stati settentrionali volevano inoltre che nei nuovi territori del Sud-ovest fosse applicata l’agricoltura ispi-rata a criteri capitalistici che prosperava sulle coste dell’Atlantico. Lo schiavismo, in-somma, contrastava fortemente tanto con la mentalità democratica della popolazione del Nord quanto con le esigenze di una dina-mica economia di mercato, che necessitava di una manodopera libera di spostarsi. Non meno importante era infine il parere degli

stessi coltivatori dell’Ovest, che chiedevano la concessione dell’uso gratuito delle terre demaniali e che alle colture cotoniere prefe-rivano di gran lunga i cereali, che trovavano più facilmente collocazione nel ricco mer-cato delle città costiere settentrionali.

Mentre la tensione tra le due parti del paese cresceva, le elezioni presidenziali del 1860 furono vinte da Abraham Lincoln, un avvocato del Kentucky, che divenne il sedi-cesimo presidente degli Stati Uniti. Egli vole-va abolire la schiavitù (benché si mostrasse molto prudente sull’opportunità di abro-garla subito nell’intero paese) e sosteneva le esigenze dell’industria del Nord: proprio per questo aveva ottenuto quasi tutti i suoi voti negli Stati settentrionali. La sua elezione fu vista come una minaccia dal Sud, che teme-va un rafforzamento del governo centrale e una diminuzione della propria autonomia.

Il 20 dicembre 1860 la Carolina del Sud si dichiarò indipendente. In poche settima-ne altri dieci Stati meridionali si staccarono dall’Unione e diedero vita a una nuova fe-derazione: gli Stati Confederati d’America, che ebbero la loro capitale a Richmond, in Virginia. Si trattava di una «secessione», di una separazione dal corpo del paese di buo-na parte del suo territorio, che non venne accettata dal governo centrale. Le trattative non approdarono a nulla a causa dell’in-transigenza di entrambe le parti: nell’apri-le 1861 cominciò una lunga e sanguinosa guerra civile, la Guerra di Secessione.

Il conflitto fece oltre 600.000 vittime e ri-mane tuttora la guerra più sanguinosa tra quelle combattute dagli Stati Uniti nella loro storia. Particolarmente feroci e violenti furo-

La divisione tra nordisti e sudisti in America

Sviluppo dell’industria (borghesia)

Stati del Nord

Sviluppo dell’agricoltura (proprietari terrieri)

Stati del Sud

Guerra di Secessione: soldati con il cannone da assedio, 1863 circa, Fort Corcoran, Arlington, Virginia.

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no gli scontri tra le fanterie, a causa dell’uso delle armi più moderne: fucili a ricarica ve-loce e precisi nel tiro e artiglierie numerose e potenti. Da principio il Sud resse bene il con-fronto, perché le sue forze armate erano me-glio organizzate di quelle avversarie e il gene-rale Robert Lee, il loro comandante, le guidò abilmente. Col tempo, però, il Nord riacqui-stò la prevalenza. La battaglia di Gettysburg, nel luglio 1863, segnò il punto di svolta, poi-ché pose fine all’avanzata verso settentrione delle truppe sudiste. Nell’aprile 1865 i solda-ti degli Stati del Sud dovettero arrendersi ai nordisti guidati dal generale Ulysses Grant. La guerra, che i confederati al principio spe-ravano breve, era infatti diventata una guerra di logoramento: essi non potevano compete-re con la potenza industriale, la ricchezza di materie prime del Nord, e con la sua popola-zione molto più numerosa.

Già nel 1862, nel colmo della lotta, Lin-coln aveva fatto approvare una legge che dichiarava liberi tutti gli schiavi del paese a partire dal 1° gennaio 1863: si trattava del cosiddetto Proclama dell’Emancipazione. Egli inoltre stabilì che negli Stati dell’Ovest le terre demaniali venissero concesse gratuita-mente a chi si impegnava a coltivarle. Con la sconfitta, il Sud dovette accettare l’abolizio-ne della schiavitù, definitivamente stabili-ta nel 1865 in virtù del XIII emendamento costituzionale, e la piena sottomissione alle leggi dell’Unione.

Segregazione razziale, potenza industriale, melting pot

Pochi giorni dopo la fine del conflitto, il 14 aprile 1865, Lincoln fu assassinato da un sudista che voleva così vendicare la scon-fitta militare degli Stati confederati: era il segno evidente che le divisioni tra le due parti degli Stati Uniti continuavano. Al Sud le condizioni di vita dei neri, ormai divenuti cittadini americani a pieno titolo, rimasero ancora molto dure fino alla seconda metà del Novecento: essi dovettero subire il raz-zismo dei bianchi e diverse forme di discri-minazione all’interno della società (solo per fare un esempio, erano limitati i diritti allo studio, al lavoro e alla libera circolazione).

La guerra ebbe tuttavia, nel complesso, effetti positivi per lo sviluppo economi-co degli Stati Uniti. Il potere centrale si era rafforzato e le industrie del Nord godettero

della protezione garantita dai dazi introdotti sulle merci estere. Le materie prime furono sempre meglio sfruttate e le fabbriche sta-tunitensi (in particolare nei comparti side-rurgico, meccanico, elettrico e petrolifero), prima furono in grado di rivaleggiare con le omologhe inglesi e tedesche, poi addirittu-ra le superarono per volumi produttivi. Alla fine dell’Ottocento gli Stati Uniti erano se-condi all’Inghilterra solo per tonnellaggio di naviglio mercantile varato.

Fu anzi proprio negli Stati Uniti che il fenomeno dei trust e dei cartelli conobbe la massima espansione, incarnata da veri giganti degli affari come i Rockefeller e i Morgan, famiglie che dominavano rispet-tivamente il mercato del petrolio e quello finanziario. D’altro canto, Washington fu la prima capitale al mondo a emanare una legislazione in questo campo, allo scopo di limitare il potere economico e finanziario delle grandi concentrazioni industriali e bancarie: si favorivano in tal modo la libera concorrenza e, indirettamente, gli interessi dei consumatori.

Negli anni successivi al conflitto, nei nuo-vi Stati che sorgevano nelle immense prate-rie dell’Ovest si sviluppò la più progredita e specializzata agricoltura del mondo, in gra-do di esportare enormi quantità di cereali in Europa e in altri continenti.

Il Sud impiegò diverso tempo a ripren-dersi dalla sconfitta. Con l’abolizione della schiavitù il suo sistema economico era stato scardinato e la produzione di cotone crolla-ta. Ma l’introduzione di un’economia capi-talistica favorì il diversificarsi delle attività produttive anche negli Stati ex confederati, dove accanto all’agricoltura e all’allevamen-to si svilupparono le prime città con impor-tanti attività commerciali e industriali.

Nel 1869 venne inaugurata la prima fer-rovia che congiungeva la costa dell’Oceano Atlantico con quella dell’Oceano Pacifico, mentre nel 1900 la rete ferroviaria degli Stati Uniti era di circa 300.000 chilometri: supe-rava, quindi, quella di tutta l’Europa messa insieme.

Milioni di immigrati continuarono nel frattempo a giungere nel paese. Prendeva così forma il melting pot, il «crogiolo» in cui si fondevano culture e ambizioni di uomini e donne provenienti da tutto il mondo. Esso avrebbe costituito la grande fortuna degli Stati Uniti, fornendo le risorse umane ne-

cessarie a sostenere l’impetuoso sviluppo del paese. Nel 1900 la popolazione com-plessiva superava i 75 milioni di abitanti e città come New York e Chicago erano ormai diventate vere e proprie metropoli: al vol-gere del secolo contavano rispettivamente 3,5 e 1,7 milioni di abitanti e tra i loro edifici svettavano i primi grattacieli.

Nel suo insieme la società degli Stati Uni-ti era forse la più democratica al mondo. Il desiderio di libertà che aveva animato la lotta delle 13 colonie al tempo dell’indi-pendenza da Londra si era infatti tradotto, col tempo, in una democrazia sostanziale, non limitata dal retaggio di passati feudali o aristocratici. Come in Inghilterra, la lot-ta politica era imperniata sul rispetto della regola dell’alternanza tra partiti di matrice liberale, l’uno più progressista e l’altro più moderato: erano rispettivamente il Partito democratico e il Partito repubblicano. An-cor più che in Inghilterra, era possibile mu-tare la propria condizione sociale di nascita e farsi strada nel mondo. Lo stesso proleta-riato urbano, che cresceva vistosamente a causa dell’espansione industriale del paese, non rinunciava a combattere gli aspetti più negativi del capitalismo rampante e a riven-dicare i propri diritti. Nacque così nel 1886 l’American Federation of Labour, la mag-giore federazione di sindacati americani, che difendeva i salariati pur senza abbrac-ciare la lotta di classe che negli stessi anni caratterizzava il socialismo e il marxismo europei. Connaturata alla mentalità ameri-cana, infatti, e dunque anche agli operai, era l’idea che nel Grande Paese fosse sempre possibile – con il giusto impegno – liberarsi dalle proprie umili origini per ascendere a una posizione sociale più gratificante.

Tra Ottocento e Novecento, società ed economia degli Stati Uniti erano insomma pronte a proiettare il paese sulla scena mon-diale da protagonista.

La politica estera degli Stati Uniti

In effetti, gli Stati Uniti avevano già da tempo sviluppato una loro politica estera piutto-sto attiva e imperniata quasi esclusivamen-te sul continente americano. La cosiddetta «dottrina Monroe» risaliva infatti al 1823, nel pieno delle rivoluzioni latinoamericane: nel dicembre di quell’anno il presidente sta-

tunitense James Monroe comunicò al mon-do l’intenzione di Washington di opporsi a qualsiasi intromissione europea negli affari delle Americhe che, sostenne, riguardavano solo gli americani. Dato il forte sviluppo in corso degli Stati Uniti, tale messaggio lascia-va presagire, come poi in realtà avvenne, l’estendersi degli interessi statunitensi in tutta l’area, e prima di tutto degli interessi commerciali e finanziari. Washington infatti sostituì rapidamente Londra come partner privilegiato dei traffici latinoamericani.

Dopo la Guerra di Secessione, il dinami-smo statunitense in politica estera riprese e trovò una svolta alla fine dell’Ottocento. Nel 1898, gli abitanti di Cuba si ribellarono al dominio della Spagna, che attuò una vio-lenta repressione. L’affondamento di una corazzata americana nel porto dell’Avana portò allo scoppiò di una guerra tra gli Stati Uniti e il paese iberico, che fu velocemente sconfitto. Cuba, la cui produzione di canna da zucchero era gestita proprio dagli Stati Uniti, diventò una repubblica indipenden-te sotto la tutela di Washington, che strappò alla Spagna anche Portorico e soprattutto le Filippine, impossessandosi così di un’im-portante testa di ponte nell’Asia sud-orien-tale. Contemporaneamente, occupò le isole Hawaii, in pieno Oceano Pacifico.

Tale fase di attivismo in campo estero ebbe culmine con l’apertura nel 1914 del Canale di Panama, che metteva in comuni-cazione Atlantico e Pacifico. Gli Stati favori-rono l’indipendenza del popolo panamense dalla Colombia e anche Panama divenne una repubblica sotto la tutela statunitense. Na-turalmente, gli americani assunsero anche il pieno controllo del Canale. Washington, che aveva nel frattempo varato una flotta da

Gli schiavi liberati accolgono e salutano Abraham Lincoln a Richmond, Virginia.

Guerra ispano-americana del 1898 per Cuba.

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guerra non inferiore a quella inglese, si po-neva a questo punto come interlocutore au-torevole delle maggiori potenze europee in campo internazionale. A sancire tale nuova prestigiosa condizione, appena pochi anni dopo, gli Stati Uniti sarebbero intervenuti in soccorso delle stesse democrazie europee, nella Prima guerra mondiale.

La rivoluzione messicana

Per il profondo influsso che ebbe sulle vicen-de politiche del continente latinoamericano, merita un cenno la rivoluzione messicana. Agli albori del XX secolo, il Messico era go-vernato da Porfirio Diaz, dittatore del paese senza quasi interruzione dal 1876. Diaz ave-va promosso lo sviluppo economico messi-cano con l’aiuto dei capitali stranieri, ma la sua politica spregiudicata aveva favorito la diffusione di una massiccia corruzione tra le classi dirigenti e gli amministratori dello Stato. Inoltre, egli non aveva intaccato il si-stema latifondistico di origine coloniale: una ristretta oligarchia terriera viveva quindi in condizioni di grande benessere a spese del-la maggioranza della popolazione, costituita dai peones, contadini poveri e sfruttati.

Nell’autunno del 1911 Diaz fu caccia-to, ma il Messico piombò in una lunga e tormentata guerra civile, che ebbe diversi protagonisti. Il liberale Francisco Madero, cui andava il merito della caduta del dit-tatore e che rappresentava le forze pro-gressiste più moderate, desiderose di una graduale democratizzazione della vita del paese, fu assassinato nel 1913. Il generale Adolfo Huerta, impadronitosi del potere e messosi a capo di un regime reazionario, fu a sua volta cacciato e la presidenza andò a Venustiano Carranza, che nel 1917 promul-gò una Costituzione di impronta democra-tica, sociale e anticlericale. Intanto, il paese era sconvolto dalle rivolte contadine, gui-date da capibanda leggendari come Emi-liano Zapata e Francisco «Pancho» Villa: essi lottavano per il varo di una radicale ri-forma agraria. Solo negli anni Venti del No-vecento, e dopo oltre un milione di morti, il Messico trovò una relativa pace: accadde grazie al presidente Álvaro Obregón, che avviò la redistribuzione delle terre ai con-tadini. Nacque allora il Messico moderno, fragile ma duratura democrazia del conti-nente latinoamericano.

12.4 La rapida ascesa del Giappone

Il risveglio del Giappone e la restaurazione Meiji

A metà dell’Ottocento, il Giappone rappre-sentava per gli occidentali – al pari della Cina – un profondo mistero. La penetrazio-ne dei mercanti e degli evangelizzatori euro-pei nell’arcipelago nipponico risaliva al Cin-quecento, ma già nel 1614 lo shogun Ieyasu Tokugawa aveva promulgato un decreto di espulsione di tutti i missionari cristiani, cui aveva fatto seguito una violenta persecu-zione dei seguaci della religione venuta da ovest. A partire dal 1640, gli unici europei cui gli shogun concessero di intrattenere relazioni commerciali con il Giappone fu-rono gli olandesi, i quali peraltro non pote-vano sbarcare sul territorio nipponico vero e proprio e rimanevano confinati nell’isola artificiale di Deshima, nella rada di Nagasa-ki. Per circa due secoli, dunque, il Giappone rimase completamente chiuso a qualsiasi influenza esterna.

L’apertura al resto del mondo avvenne verso la metà dell’Ottocento, per opera di due avvenimenti.

Il primo fu la ripresa della pressione occidentale affinché il paese si aprisse ai contatti esterni. Tentativi di penetrazione commerciale furono compiuti dagli inglesi già nel 1808 e dai russi nel 1811, ma venne-ro respinti. Sempre più difficile fu resistere dopo la vittoria europea contro la Cina nelle Guerre dell’oppio; ogni difesa cadde infine nel 1854, quando il commodoro Matthew Perry della marina degli Stati Uniti puntò i suoi cannoni contro le coste dell’arcipela-go. Washington ottenne allora il trattato di Kanagawa, con cui il Giappone consentì ad aprire alle navi americane i porti di Shimo-da e Hakodate. Negli anni successivi e sulla scorta di altrettanti accordi commerciali, diversi scali furono aperti alle navi occiden-tali, non solo americane ma anche europee, mentre i consoli delle potenze mondiali si insediavano nella capitale nipponica.

La nuova penetrazione straniera scate-nò violente rivolte xenofobe e innescò il secondo degli avvenimenti cui abbiamo accennato: la restaurazione imperiale del 1868. In quell’anno il regime degli shogun,

responsabili di aver firmato con gli occi-dentali i «trattati ineguali» , fu abbattuto e gli imperatori riacquistarono tutte le loro prerogative con la dinastia Meiji. I nuovi sovrani conquistarono il trono proprio im-pegnandosi a difendere il Giappone con-tro i «barbari» stranieri, nel nome del culto geloso delle tradizioni e dell’indipendenza nipponiche, e spostarono la capitale a Tok-yo. Essi per primi si rendevano conto della necessità di aprire il paese all’esterno e rice-vere il meglio del progresso portato dall’oc-cidente: solo un Giappone in grado di com-petere con gli europei sul piano economico e militare sarebbe stato infatti in grado di difendersi e mantenersi autonomo. Proprio allo scopo di modernizzare il paese furono allora adottati importanti provvedimenti che rapidamente innalzarono la potenza nipponica a rango mondiale.

Modernizzazione economica e ascesa internazionale

Nel 1871 il feudalesimo venne abolito per legge e i vecchi possessi terrieri furono ri-uniti in prefetture sottoposte al rigido con-trollo della capitale, mentre i loro proprie-tari venivano cooptati nella nuova struttura amministrativa statale.

Anche i sistemi monetario e fiscale fu-rono semplificati e uniformati alle norme emanate dalla capitale. Nel 1872 fu resa ob-bligatoria l’istruzione elementare per tutti i bambini e nello stesso anno le prime linee ferroviarie e telegrafiche si diramarono da Tokyo, conoscendo uno sviluppo immedia-to in tutto l’arcipelago. Missioni di studio furono inviate in Europa e negli Stati Uniti per apprenderne le tecnologie, si acquista-rono i brevetti occidentali e si pagarono gli esperti inglesi, tedeschi e francesi per lun-ghi soggiorni d’insegnamento in Giappone, mentre veniva favorito in ogni modo anche l’afflusso dei capitali stranieri. Questo sfor-zo enorme aveva lo scopo di avviare il pa-ese sulla strada dell’industrializzazione, da affiancare all’agricoltura, imperniata sulla coltivazione del riso e da sempre fiorente. Le fabbriche, massicciamente sostenute dall’investimento dei capitali statali, creb-bero per numero e produzione, soprattutto nei comparti siderurgico, tessile e meccani-co, dando vita a una vera e propria rivolu-zione economica. E nuovo prestigio sociale

acquistò la borghesia mercantile e impren-ditoriale, che nel Giappone del feudalesimo aveva sempre giocato un ruolo margina-le e che era tuttora assai modesta: solo in questa fase di progresso accelerato trovò l’occasione per crescere sensibilmente. Ad essa si unirono inoltre molti esponenti della vecchia classe dirigente terriera, che river-sarono sul nuovo investimento industriale i capitali accumulati nel tempo con la gestio-ne dei suoli. Nel 1889 entrò infine in vigore una Costituzione che, seppure conservando grandi poteri all’imperatore, introduceva il regime parlamentare.

Al principio degli anni Settanta il Giap-pone istituì la coscrizione obbligatoria, base per la creazione di un grande e po-tente esercito nazionale, che comprende-va nelle sue file moltissimi samurai. Questi guerrieri avevano improntato di sé la storia giapponese dei secoli passati e trovarono adesso una nuova collocazione, portando nell’esercito il proprio senso dell’onore, della disciplina, del sacrificio estremo in obbedienza all’autorità. In effetti, le forze armate nipponiche divennero in breve le prime dell’Estremo Oriente asiatico, come attestò nel 1894 la guerra con la Cina per il protettorato della Corea, vinta facilmente dai giapponesi. Nel 1901 essi parteciparono a fianco degli europei alla repressione della rivolta dei Boxers in Cina, ottenendo un im-portante riconoscimento del proprio ruolo internazionale. La definitiva «consacrazio-ne» a grande potenza giunse appena pochi anni dopo, in occasione della guerra che

Stampa giapponese rappresentante Perry (al centro) ed altri ufficiali della marina americana durante una dichiarazione ufficiale.

Il generale Emiliano Zapata.

shogun: capo militare feudale (corrispondente al grado di generale) cui era delegato il governo del paese.

xenofobia: avversione per gli stranieri e in generale per tutto ciò che è straniero.

trattati ineguali: particolari concessioni economiche (ad esempio esenzioni dal pagamento di dogane, diritto di essere giudicati dalle proprie autorità nazionali anche in caso di reati commessi in territorio giapponese, ecc.) che umiliavano il Giappone e ne limitavano la sovranità.

306 1860 1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti

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30719141876 Bell e Grey brevettano il telefono 1897 Invenzione dell’aspirina

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1839-1860 Gli europei si assicurano il controllo commerciale sulla Cina

1854 Gli Stati Uniti impongono al Giappone l’apertura ai commerci internazionali

1861-1865 Guerra di Secessione americana

1868 Restaurazione imperiale in Giappone: dinastia Meiji

1869 Apertura del Canale di Suez

1884-1885 Conferenza di Berlino

1904-1905 Guerra russo-giapponese

I NODI DELLA STORIAQuali furono le caratteristiche del colonialismo di fine Ottocento?

Il colonialismo europeo in Africa fu una delle pagine più brutali, forse la peggiore, dell’intera storia del XIX secolo. Se si guarda la carta politica dell’Africa è facile comprendere il disinteresse ver-so le popolazioni locali che caratterizzò l’avventura coloniale eu-ropea. I confini tra gli Stati, al contrario di quello che era succes-so normalmente per le nazioni europee, non seguono frontiere naturali (catene montuose, fiumi, ecc.) o un disegno irregolare prodottosi storicamente a seguito di complessi avvenimenti po-litici e culturali. I confini delle nuove colonie europee nel «con-tinente nero» vennero tracciati con il righello, in occasione di incontri diplomatici come la Conferenza di Berlino, da individui ignari della storia, della cultura e, spesso, della geografia di quel territorio. Popoli legati da antichissimi legami etnici furono divisi per sempre in nazioni differenti. Al contrario, etnie in tradizionale competizione furono obbligate a dividere il proprio destino in en-tità nazionali totalmente artificiali e insensate.L’Africa rappresentava l’ultimo continente sconosciuto del mon-do. La curiosità per le esplorazioni di uomini come Stanley e Livingstone vennero sostituite, ben presto, dal puro desiderio di aggiudicarsi le parti migliori di un territorio ancora vergine.

Inglesi e francesi, potendo già contare su solidi avamposti, riuscirono ad assicurarsi la maggior parte delle colonie. Ma anche piccole nazioni come il Belgio riuscirono a ottenere il controllo di territori immensi come il bacino del fiume Congo. Non mancarono i delusi. Prima di tutto i tedeschi, per i qua-li le poche colonie ottenute si rivelarono sempre un motivo di rancore profondo. Anche l’Italia aspirava a un ruolo di potenza coloniale, ma i suoi primi tentativi nell’Africa orientale, negli anni Novanta, si rivelarono un disastro. Tutte queste manovre erano inoltre sostenute dalla convinzione, diffusa in ogni strato della società, che gli europei fossero i portatori di una civiltà superiore. Non diverso era stato l’atteggiamento che francesi e inglesi avevano riversato in Asia, dove pure il confronto avveniva con realtà statuali antichissime e di grandissima tradizione. Fu tuttavia l’Africa il continente che più subì la ferocia del colonia-lismo europeo tardo ottocentesco. Gli europei che vi si recarono percorsero un viaggio che li avrebbe portati, volendo usare il titolo di un celebre romanzo di Joseph Conrad, al centro del «cuore di tenebra». Una tenebra di cui loro, in grande parte, erano i massimi responsabili.

1894 Il Giappone strappa la Corea al dominio cinese

1858 La corona britannica assume il controllo diretto dell’India

4 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo

309

12 L’età dell’imperialismo

oppose Giappone e Russia per la contesa sul territorio cinese della Manciuria, già in buona parte occupato dall’esercito di San Pietroburgo. La guerra russo-giapponese del 1904-1905 svelò infatti al mondo, con grande sorpresa dell’Occidente, l’assoluta superiorità militare di Tokyo sull’impero za-rista, che fu sconfitto sia a terra, a Mukden, che in mare, nella grande battaglia navale di Tsushima. Lo zar Nicola II fu costretto a rinunciare alla Manciuria, che da allora cadde sotto l’influenza politica ed econo-mica nipponica, a cedere parte dell’isola di Sakhalin e a riconoscere il protettorato del Giappone sulla Corea, che poi nel 1910 fu annessa da Tokyo.

Solo mezzo secolo prima, il Giappone era ancora completamente chiuso al mondo, immerso nel feudalesimo, immobile social-mente e politicamente. Ora era uno Stato moderno, dotato di una società dinamica, di un’economia ricca e di una forza militare sorprendente: obiettivi raggiunti senza pe-raltro perdere il senso della propria identità nazionale, saldamente radicata negli abitan-ti dell’arcipelago. Tutto ciò faceva del Giap-pone, a inizio del Novecento, uno dei grandi protagonisti della politica planetaria.

Guerra russo-giapponese: la città portuale di Yokohama addobbata per festeggiare la vittoria a Tsushima, 1905.

1 Durante l’Ottocento il dominio commerciale delle potenze europee si trasforma in imperialismo. Dall’inizio dell’Ottocento, le potenze europee co-

minciarono ad amministrare direttamente territori sempre più ampi, fino a conqui-stare quasi tutto il mondo. Il colonialismo di marca commerciale si trasformò dunque in imperialismo di stampo politico e militare. La costruzione di grandi imperi coloniali era vantaggiosa per tre ragioni principali: permetteva ai nuovi dominatori di sfruttare direttamente le risorse dei paesi conquistati, costringeva le popolazioni locali ad acquistare i prodotti delle industrie nazionali europee e forniva manodopera a basso costo, funzionari di basso rango per l’amministrazione e truppe coloniali. A queste motivazioni si aggiungeva la convinzione degli europei di essere portatori di una cultura superiore e di avere, quindi, la missione di civilizzare il mondo.

2 L’occupazione dell’Africa avviene velocemente e la Conferenza di Berlino stabilisce i criteri di occupazione e spartizione del continente. L’espan-

sione europea in Africa fu molto rapida, dapprima grazie all’azione di esploratori e missionari, poi con l’intervento delle truppe militari e dei funzionari governativi. Inghilterra, Francia e Germania, soprattutto, imposero il proprio controllo su regioni immense. Nel 1869 venne inaugurato il Canale di Suez, volano ai traffici tra Europa e Asia. Nel 1884-1885 la Conferenza di Berlino definì le controversie tra potenze europee e stabilì che la semplice occupazione di un territorio ne convalidava il pos-sesso da parte della potenza occupante. Nel 1914, alle soglie della Prima guerra mondiale, quasi tutta l’Africa era ormai sottomessa.

3 Le potenze d’Europa occupano anche vaste aree dell’Asia. Anche in Asia gli europei si impadronirono di vaste aree. La Francia mise le mani sulla penisola

indocinese e la Russia si espanse verso il Caucaso e l’Estremo Oriente. Nel 1858 il governo britannico dichiarò il subcontinente indiano un possesso della corona. Nel corso del secolo, anche l’Impero cinese fu preda degli europei. Questi sviluppa-rono i loro commerci, in particolare gli scambi di oppio, e imposero la propria su-premazia. L’insofferenza contro gli stranieri culminò nella rivolta dei Boxers d’inizio Novecento, che si rivelò però inutile: al volgere del secolo, buona parte del territorio cinese era soggetta al controllo economico delle potenze occidentali.

4 Per gli Stati Uniti l’Ottocento è un secolo di piena espansione e dopo la Guerra di Secessione il paese entra in una fase di impressionante sviluppo.

Gli Stati Uniti erano un paese sempre più ricco, la popolazione aumentava e a Ovest nascevano continuamente nuovi Stati. L’Unione, tuttavia, soffriva di pesanti differen-ze tra il Nord, con un’economia industriale e favorevole al rafforzamento del potere centrale, e il Sud, con un’economia agricola basata sullo sfruttamento degli schiavi e geloso della propria autonomia. Nel 1860, dopo l’elezione a presidente di Abraham Lincoln, tra Nord e Sud scoppiò un terribile conflitto (la Guerra di Secessione) che si concluse nel 1865 con la vittoria del Nord. Si aprì allora la fase del definitivo svi-luppo industriale e militare degli Stati Uniti, che al principio del Novecento era ormai una delle prime potenze mondiali.

5 Dopo la restaurazione della dinastia Meiji, il Giappone avvia una fase di industrializzazione e di rafforzamento militare che la rende una grande

potenza. Alla metà dell’Ottocento il Giappone era completamente isolato dal mondo. Ad aprirlo alle influenze esterne furono le pressioni commerciali e militari delle poten-ze occidentali. L’arcipelago nipponico non cadde però sotto il controllo economico dei governi imperialisti. Nel 1868 la dinastia imperiale Meiji venne restaurata. I sovrani avviarono la rapida industrializzazione e il rafforzamento dell’esercito. Alla fine dell’Ot-tocento il Giappone era una temibile potenza economica e militare in grado di sconfig-gere la Cina e la Russia in due guerre per il possesso di vaste regioni in Oriente.

© Loescher Editore – Torino308 © Loescher Editore – Torino

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«Ebrei non desiderati»: avviso in una taverna di Corbach in Prussia.

L’antisemitismoIn Europa, nel contesto dei nazionalismi e degli imperialismi di fine Ottocento, il razzismo alimentò forme di intolleranza e discriminazione che, intrecciandosi con la tradizione antigiudaica cristiana, si rivolsero prioritariamente contro gli ebrei. Gli ebrei erano raffigurati attraverso stereotipi che ne denunciavano i presunti caratteri distintivi sul piano fisico e sul piano sociale: la tendenza alla speculazione finanziaria e quella alla cospirazione anti-nazionale. Di qui derivarono violentissi-me campagne antisemite che, dalla Russia alla Francia, coinvolsero molta parte d’Europa. In quest’epoca fu-rono gettati i presupposti dell’anti-semitismo nazista, che si sareb-be diffuso in Germania dopo la Prima guerra mondiale.

4 Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo 12 L’età dell’imperialismo

Nella seconda metà dell’Ottocento si diffusero forme sempre più aperte e radicali di razzismo, che divennero una delle ideologie di movimenti politici nazionalisti, imperialisti e autoritari. All’interno di contesti europei sempre più segnati dall’insicurezza individuale e collettiva, causata da gravi crisi economiche e da trasfor-mazioni sociali epocali, il confronto con l’altro, con il diverso, con l’emarginato si fece sempre più difficile, e oggetto di crescenti tensioni. In molti casi il razzismo si intrecciò strettamente con l’antisemitismo, ossia con l’odio per l’ebreo. Sia il razzismo sia l’antisemitismo pretendevano di fondarsi sulla scienza. Si trattava in realtà di pseudoscienze, fondate su assunti non dimostrati. Tuttavia, molte correnti della cultura europea, fin dal XVIII secolo e con maggior vigore nel XIX secolo, avevano teorizzato le differenze tra esseri umani e tra razze.

La frenologiaFin dal XVIII secolo, un nuovo genere di scienze cercò di deter-minare la natura umana e di comprenderne il funzionamento. In particolare, la frenologia si proponeva di indagare, attraverso la misurazione dei crani umani e lo studio delle loro diverse «regioni» interne, la personalità dei singoli individui. Il suo inventore fu il me-dico tedesco Franz Joseph Gall.

La fisiognomicaNon diversamente, la fisiognomica, che era stata inventata da Johann Kaspar Lavater nel XVIII secolo, cercava di stabilire connessioni organiche tra le qualità fisiche, psichiche e intellettuali degli esseri umani. In partico-lare, Lavater aveva la pretesa di collegare direttamente l’aspetto fisico di un volto ai caratteri psichici e intellettuali di un individuo. La fisiognomica fu ripresa e sviluppata soprattutto dall’antropologo e criminologo italiano Cesare Lombroso. Egli riconosceva nei tratti peculiari dei volti di alcuni criminali le ragioni ultime del loro atto criminoso. Carta frenologica: disegno che rappresenta le varie

facoltà mentali localizzate nella corteccia cerebrale.

«Fisiognomie di delinquenti», tavola da L’uomo delinquente di Cesare Lombroso.

«Crani di delinquenti», tavola da L’uomo delinquente, di Cesare Lombroso.

Le scienze sociali e la rappresentazione dell’altro

Disegni del 1868 che rappresentano l’evoluzione del teschio dalle scimmie all’uomo. Il teschio dell’uomo di colore ha la mascella molto più pronunciata di quello dello scimpanzé per dare l’impressione che gli africani siano più primitivi delle scimmie.

Razzismo e imperialismoTanto la frenologia quanto la fisiognomica contribuirono a definire il moderno concetto di razza. In questo modo la con-vinzione nell’irriducibile diversità delle razze umane, e dun-que degli individui che le componevano, trovava la conferma di queste pseudoscienze. Di qui scaturirono forme di razzi-smo che trovarono un ampio campo d’applicazione attraver-so l’espansione coloniale in Africa e in Asia e attraverso il confronto e lo scontro con i popoli colonizzati. Non è un caso quindi se l’età degli imperialismi, nella seconda metà del XIX secolo, coincise con una crescente ostilità e una deliberata violenza contro le «razze» considerate inferiori.

L’ebreo errante, con il cerchio giallo sul petto, imposto nel XVI secolo in Austria.

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ATTI

VITÀ

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Mostra quello che sai

7 Osserva le immagini a p. 296: per quale motivo sono state accostate queste due raffigurazioni? Quale messaggio vogliono comunicare?

Ragiona sul tempo e sullo spazio Impara il significato

Osserva, rifletti e rispondi alle domande

Le caratteristiche fondamentali dell’imperialismo

6 Osserva la mappa concettuale relativa all’imperialismo. Poi rispondi alle domande.

1 In che cosa si differenzia l’imperialismo dal colonialismo ottocentesco?2 Dal punto di vista ideologico, quale sistema di credenze alimenta

il fenomeno dell’imperialismo?3 Dal punto di vista economico, quali vantaggi presenta l’imperialismo?

Esplora il macrotema

3 Completa il testo.

A partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, le grandi potenze europee intraprendono una corsa all’espan-sione coloniale che mira a instaurare un dominio diretto sui territori di Africa e (1) . Tale espansione prende il nome di (2) ed è motivata principalmente dalla politica di potenza degli Stati europei; essa inoltre è resa possibile dalla superiorità tecnologica di questi ultimi.Nel corso della metà dell’Ottocento l’interesse per il continente africano cresce enormemente e por-ta alla sua quasi totale conquista, soprattutto dopo la scoperta di grandi ricchezze in (3) prime. I contrasti nati tra le potenze occidentali (in particolare Inghilterra, Francia, Germania, Italia e Belgio) per il controllo del territorio vengono placati con il congresso di (4) indetto da Bismarck: le decisioni sulla spartizione del continente sono rispettate e i dissidi tra le capitali vengono risolti con accordi diplomatici. Dopo l’Ottocento anche in Asia l’espansionismo subisce una decisa ac-celerazione, soprattutto da parte di Francia e Russia; l’Inghilterra, inoltre, decide di trasformare il pro-prio dominio commerciale in dominio territoriale: la Compagnia delle Indie Orientali viene soppressa e l’(5) passa sotto il diretto controllo della Corona britannica.La penetrazione europea coinvolge anche Cina e Giappone, da sempre caratterizzati da un (6) dal resto del mondo, i quali però rispondono in modo diverso alla penetrazione straniera e hanno destini radicalmente diversi. In seguito alla sconfitta nella Seconda guerra dell’ (7) la Cina è costretta ad aprire i porti al commercio straniero e ad allacciare relazioni diplomatiche con i paesi occidentali, non-ché a subire la modernizzazione del paese imposta dagli europei. In Giappone, invece, l’apertura avviene per opera di due avvenimenti: la ripresa della pressione occidentale e la restaurazione imperiale; il regime degli shogun, infatti, viene abbattuto e gli (8) riacquistano le loro prerogative impegnandosi a difendere il paese contro i «barbari» stranieri. Nondimeno, essi avviano una modernizzazione economi-ca che farà del Giappone uno dei protagonisti della scena internazionale.Ben presto però, la gara (9) tra le potenze imperialistiche porterà a riacutizzare le tensioni internazionali e le rivalità tra i paesi, fino allo scoppio del primo conflitto mondiale.

4 Scrivi quale significato assumono i seguenti concetti nel periodo dell’imperialismo.

1 Pregiudizio razzista 2 Bey 3 Colonia penale 4 Subcontinente 5 Pioniere 6 Riserva (indiana) 7 Naviglio mercantile 8 Commodoro

5 Prova a riflettere sul significato di «melting pot», fenomeno che caratterizza gli Stati Uniti a partire dalla seconda metà dell’Ottocento: pensi che sia un fenomeno attuale?

1 Osserva la cartina a p. 292 e rispondi alle domande: quali sono le tre maggiori potenze che si spartiscono l’Africa? E quali quelle che si spartiscono l’Asia?

2 Completa le frasi scrivendo l’anno esatto in cui accade l’evento, poi distingui con tre colori diversi gli eventi che riguardano l’Europa, quelli che si verificano in Asia e quelli che coinvolgono le Americhe.

1 Nel su iniziativa di Bismarck, a Berlino si svolge una conferenza per mettere ordine tra le ambizioni occidentali sull’Africa

2 Nel scoppia in India la «rivolta dei Sepoys», soldati indiani al servizio degli inglesi3 Nel il XIII emendamento costituzionale abolisce la schiavitù4 Nel l’Inghilterra vince la Prima guerra dell’oppio contro la Cina, ottenendo Hong Kong e l’apertura al

commercio estero di altri quattro porti5 Il 14 luglio Lincoln viene assassinato da un sudista6 Nel scoppia la «rivolta dei Boxers», in difesa dell’orgoglio nazionalista e delle antiche tradizioni imperiali7 Tra il e il è combattuta la guerra di Secessione8 Nel ha inizio la lunga guerra civile messicana9 Nel il presidente Monroe dichiara che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato alcuna intromissione delle

potenze europee negli affari delle Americhe10 Nel - Giappone e Russia combattono la guerra per la contesa sul territorio cinese della Manciuria11 Nel il movimento nazionalista del Kuomintang rovescia la dinastia Qing e proclama la repubblica ponendo

fine al millenario Impero cinese12 Nel il Giappone invade la Corea

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Documenti

1 La separazione dei poteri è il presupposto per la creazione di una società in cui i diritti e i doveri siano distribuiti equamente: quando è nato questo principio, che sta alla base dello Stato di diritto?

2 Sulla base di quello che hai letto, fai qualche esempio di Stato che non si può definire «Stato di diritto».

Lo Stato di diritto si affermò a partire dal XVIII secolo con la riflessione culturale degli illuministi e con le rivolu-zioni politiche che caratterizzarono l’Occidente. In quella espressione si racchiudono sia la tradizione anglosas-sone del Rule of law, cioè del «governo della legge», sia l’elaborazione dei giuristi tedeschi a conclusione del XIX secolo e in particolare del giurista Georg Jellinek: Stato di diritto è appunto la traduzione letterale del tedesco Rechts («diritto») staat («Stato»). Partendo dall’assunto che nessuno, neppure il sovrano, è sciolto dall’obbligo di rispettare le leggi, lo Stato di diritto segna il superamento dell’assolutismo e la nascita dello Stato moderno, il cui fondamento risiede nell’in-sieme delle persone che occupano lo spazio entro il quale si svolge la sua attività. Da sudditi si diviene, in linea generale, cittadini, titolari di una sovranità che trova nella legge limiti e modi di espressione.L’evoluzione dello Stato di diritto è differente a seconda delle peculiarità storiche dei diversi paesi. In un primo tempo, in quello cioè della sua teorizzazione, la formula Stato di diritto intendeva assolvere a una funzione stabi-lizzatrice, affermando innanzitutto il principio dello Stato sovrano, che escludeva quindi sia gli antichi soggetti (i re) sia quelli che sarebbero emersi nel corso nel XX secolo, cioè le masse. In questo senso, lo Stato di diritto è un prerequisito fondamentale di un sistema democratico, sebbene la sua codificazione sia avvenuta in un contesto storico che non prevedeva la democratizzazione. Anzi, l’avere individuato nello Stato o, come nel caso inglese, nel Parlamento, il titolare della sovranità si poneva in alternativa sia alla realtà dell’Antico regime sia al potere popolare emerso la prima volta con la rivoluzione. Da questo punto di vista, la discontinuità si realizzò in conseguenza degli effetti devastanti della Grande guer-ra e della formazione, sulle ceneri degli antichi imperi, di repubbliche, come quella tedesca di Weimar, aventi le fondamenta in un potere costituente risiedente nel popolo. Si andava così formando lo Stato democratico, che si fonda sul principio del popolo sovrano. Ne conseguono il riconoscimento della piena capacità politica di tutte le cittadine e di tutti i cittadini adulti e quindi l’affermazione del suffragio universale. Questa evoluzione dello Stato di diritto in Stato democratico si è accompagnata storicamente anche alla caratterizzazione di quest’ultimo come Stato sociale, che realizza le condizioni, in un sistema di libertà, per restringere le distanze economiche e di opportunità tra i cittadini. I requisiti che noi oggi attribuiamo allo Stato di diritto sono i seguenti: 1) il principio di legalità dell’amministrazio-ne pubblica, cioè il suo operare nel rispetto della legge generale e attraverso la sua applicazione da parte di giudici indipendenti; 2) la condizione di parità dei cittadini di fronte alla legge e nella sua applicazione; 3) una gerarchia che assegna alla Costituzione una preminenza e le cui norme informano di sé tutta la legislazione e, conseguen-temente, le decisioni. Non a caso, sul modello della Costituzione americana, anche nell’Europa continentale le Costituzioni hanno previsto la presenza di una Corte costituzionale (in Italia è regolata dagli articoli 134-137); 4) la separazione dei poteri tra legislativo, esecutivo e giudiziario (in Italia si è affermata compiutamente soltanto con la Costituzione repubblicana); 5) il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo.

Il concetto di Stato di diritto segna la nascita dello Stato moderno: esso indica un organismo politico che fonda la sua legittimità non sul potere arbitrario del sovrano, ma su una costituzione che tutela i diritti fondamentali del cittadino e stabilisce la distribuzione del potere fra i vari apparati di governo. Lo Stato di diritto nacque sul finire del XVIII secolo, in seguito alle Rivoluzioni inglese e francese, dal superamento dell’assolutismo e si perfezionò grazie al contributo del pensiero liberale e democratico.

1. Lo Stato di diritto teorizzato da Kant

Le teorie dei Lumi provenienti dalla Francia trovarono terreno fertile nella Prussia governata da Federico II, che tentò di realizzare un esperimento di «assolutismo illuminato». Egli promosse una riforma della giustizia, con l’elaborazione di un nuovo codice (detto Corpus Fridericianum, 1748) che abolì la tortura, introdusse l’indipendenza dei giudici e concesse la libertà di culto e di opinione. Le idee della Rivoluzione francese esercitarono grande fascino anche sul filosofo Immanuel Kant che nella Critica della ragion pratica (1788) teorizzò la superiorità della «legge morale» in ogni individuo. Per lui la politica era subordinata al diritto e quest’ultimo alla morale.

Lo Stato che Kant teorizza nei suoi scritti politico-giuridici non è uno Stato esistente o che sia mai esistito nella realtà storica. Esso è piuttosto uno Stato ideale, è lo Stato come dovrebbe essere, per essere con-forme ai principi della ragione. […] Vediamo dunque tanto i fondamen-ti quanto la concreta articolazione dello Stato kantiano. Lo stato civi-le, in quanto stato giuridico, deve essere fondato, secondo il filosofo, sui seguenti principi a priori: 1) la libertà di ogni membro della società in quanto uomo; 2) l’uguaglianza di esso con ogni altro, in quanto sud-dito; 3) l’indipendenza di ogni mem-

bro di un corpo comune, in quanto cittadino. Che tali principi siano a priori significa che essi sono leggi o regole in base alle quali soltanto è possibile lo Stato secondo i dettami della pura ragione. In altre parole, lo stato civile è uno stato giuridico solo e soltanto se presuppone tali principi della ragione e si conforma ad essi. Del principio della libertà dell’individuo in quanto uomo Kant dà la seguente formulazione: «nes-suno mi può costringere ad essere felice a suo modo (come cioè egli si immagina il benessere degli altri uo-mini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra

buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo». […] Si tratta, come si vede, di un principio che noi oggi possiamo definire schiettamente liberale, in quanto esso mira a sal-vaguardare una larga sfera d’azione dell’individuo nella sua vita sociale e privata, al riparo dalle pretese e dalle intrusioni dei pubblici pote-ri. Senza la possibilità di seguire le proprie inclinazioni, di soddisfare i propri gusti, di manifestare il pro-prio carattere e di adottare lo stile di vita ad esso conforme, l’individuo è completamente asservito.

A. Andreatta, A.E. Baldini, Il pensiero politico dell’età moderna. Da Machiavelli a Kant, Torino, UTET, 1999

2. Lo Stato di diritto sovranazionale come strumento per ottenere una pace duratura

Secondo Kant nello stato naturale di «selvaggia libertà» gli uomini sono in perenne antagonismo tra loro; una volta però che si associano (cioè danno vita a una società) passano alla condizione di «legalità politica e giuridica», incarnata dallo Stato di diritto.

Se per diritto internazionale si inten-de il diritto alla guerra (poiché do-vrebbe essere il diritto di determina-re ciò che è giusto non secondo leggi esterne universalmente valide, che limitano la libertà di ciascuno, ma secondo massime unilaterali, per mezzo della forza), esso non signifi-ca propriamente nulla. Si dovrebbe infatti intendere nel senso che uomi-ni che pensano in tal modo hanno la sorte che si meritano, se si distruggo-no a vicenda e cercano così la pace eterna nella vasta fossa che copre coi loro autori tutti gli orrori della vio-lenza. Per gli Stati che stanno tra loro in rapporto reciproco non vi è altra

maniera razionale per uscire dallo stato naturale senza leggi, che è stato di guerra, se non rinunziare, come i singoli individui, alla loro selvaggia libertà (senza leggi), sottomettersi a leggi pubbliche coattive e formare uno Stato di popoli (civitas gentium), che si estenda sempre di più, fino ad abbracciare da ultimo tutti i popoli della terra. Me poiché essi, secondo la loro idea del diritto internazio-nale, non vogliono affatto questo e rigettano in ipotesis ciò che in tesi è giusto, così, in luogo dell’idea positi-va di una repubblica universale, per-ché non tutto debba andar perduto, fanno ricorso al surrogato negativo

di una “lega” permanente e sempre più estesa, che ponga al riparo dal-la guerra e arresti il torrente delle tendenze ostili contrarie al diritto, ma col continuo pericolo della sua rottura. […] Il diritto cosmopolitico dev’essere limitato alle condizioni di una universale ospitalità. Si tratta di diritto e quindi ospitalità significa il diritto di uno straniero che arriva sul territorio di un altro Stato di non essere da questo trattato ostilmente. Può essere allontanato, se ciò può farsi senza suo danno, ma, fino a che dal canto suo si comporta pacifica-mente, non si deve agire ostilmente contro di lui.

I. Kant, Per la pace perpetua, in C. Malandrino, Profilo antologico del pensiero politico. Da Machiavelli all’Unione Europea, Roma, Carocci, 2003

Stato di diritto

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Documenti

1. Il dibattito che precedette l’emanazione della Dichiarazione

Nella storia del pensiero politico la Rivoluzione francese ha provocato una cesura tra le teorie legate all’Ancien régime e quelle con-nesse con i nuovi ideali civili sociali e progressivi. Le carte costituzionali e le dichiarazioni realizzate in quel periodo furono precedute da accesi e appassionati dibattiti che ebbero, tra i protagonisti, l’abate di Chartres Emmanuel Joseph Sieyès. Riflettendo su cosa fosse il «Terzo Stato» (cioè la maggior parte del popolo francese) arrivò a queste conclusioni: «che cos’è il Terzo Stato? Tutto. Cosa è stato finora nell’organizzazione politica? Niente. Cosa chiede? Di diventare qualcosa!»

Chi dunque oserebbe dire che il Ter-zo Stato non ha in sé tutto ciò che occorre per formare una nazione completa? Esso è un uomo forte e robusto con un braccio ancora in catene. Se si eliminasse l’ordine privilegiato, la nazione non sareb-be qualcosa di meno, ma qualcosa di più. Oggi che cos’è il Terzo Stato? Tutto, ma un tutto libero e fioren-te. Nulla può procedere senza di lui, tutto andrebbe molto meglio senza gli altri. Non basta però aver mostrato che i privilegiati, lungi dall’essere utili alla nazione, pos-sono solo indebolirla e nuocerle; occorre anche provare che l’ordine

dei nobili non trova posto nell’or-ganizzazione sociale, che esso non solo è un peso per la nazione ma non potrebbe nemmeno farne par-te. In primo luogo, non è possibile, fra tutti gli elementi della nazione, ritrovare o collocare la casta dei no-bili. […] Che cos’è una nazione? Un corpo di associati che vive sotto una legge comune ed è rappresentato da uno stesso legislativo. Poiché ha privilegi, dispense, persino diritti separati dai diritti del corpo gene-rale dei cittadini, l’ordine nobiliare esce dall’ordine e dalla legge comu-ni. I suoi diritti civili ne fanno già un popolo separato nella grande na-

zione, di un vero «imperium in im-perio». Esso esercita a parte anche i propri diritti politici ed ha propri rappresentanti, che non ricevono nessuna procura dal popolo. Il cor-po dei suoi deputati siede a parte; e quand’anche si riunisse in una stes-sa aula con i deputati dei semplici cittadini, non è meno vero che la sua rappresentanza rimarrebbe es-senzialmente distinta e a sé stante: essa è estranea alla nazione sia per il suo fondamento, in quanto il suo mandato non viene dal popolo, sia per il suo oggetto, che consiste nel difendere non l’interesse generale, ma l’interesse particolare.

La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 venne varata in Francia il 26 agosto del 1789. Tale docu-mento ha ispirato numerose carte costituzionali e il suo contenuto ha rappresentato uno dei più alti riconoscimenti della libertà e dignità umana. All’indomani della presa della Bastiglia, l’Assemblea nazionale costituente decise di assegnare a una speciale commissione di cinque membri il compito di stilare una Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino da inserire nella futura Costituzione: tale documento attuò uno sconvolgimento radicale della società. Gran parte del suo contenuto è confluito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dalle Nazioni Unite nel 1948.

Dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo alla democrazia pluralista

1 Nelle varie Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino scritte dal Settecento ad oggi il riconoscimento del valore della persona e la salvaguardia della sua esistenza rappresentano concetti basilari. Come si spiega allora che in tante nazioni sia ancora prevista la pena di morte?

2 Ancora oggi persone che provengono da terre lontane sono costrette, anche da noi, a lavorare per pochi soldi, in condizioni disumane, senza alcun diritto: cosa pensi di tale situazione?

«I Rappresentanti del Popolo Francese, costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi, han-no stabilito di esporre, in una solenne dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo, affinché questa dichiarazione, costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale, rammenti loro incessantemente i loro diritti e i loro doveri; affinché maggior rispetto ritraggano gli atti del potere legislativo e quelli del potere esecutivo dal poter essere in ogni istanza paragonati con il fine di ogni istituzione politica; affinché i reclami dei cittadini, fondati da ora innanzi su dei principi semplici ed incontestabili, abbiano sempre per risultato il mantenimento della Costituzione e la felicità di tutti».Così incominciava la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 che segnava l’inizio di un nuovo mondo, in cui la politica assumeva, al pari di ogni altro aspetto della società, una dimensione includente. Si po-neva obiettivi ambiziosi e ricchi di contenuto, come, per esempio, l’aspirazione della «felicità per tutti». Quel «tutti» riguardava la borghesia in ascesa, ma alla felicità, cioè alla piena cittadinanza, avrebbero progressivamente aspi-rato masse sempre più vaste di esseri umani, che uscivano dalla dipendenza e dalla servitù. Gli atti formali della fase iniziale della Rivoluzione francese, che scoppiò due anni dopo l’approvazione della Costituzione degli Stati Uniti, contenevano il senso delle trasformazioni che, nei due secoli successivi, avrebbero profondamente mutato il mondo e avviato un processo di unificazione del globo.Dopo la Restaurazione, mentre il continente americano vedeva diffondersi i movimenti che nel primo decennio del XIX secolo avrebbero condotto le parti centrali e meridionali all’indipendenza, in Europa parve auspicabile un ritorno al passato. In realtà il 1848 mostrò che i presupposti della Rivoluzione francese erano imprescindibili: la domanda di democrazia politica e sociale si stava generalizzando nel cuore del vecchio continente. Costituzio-ne, suffragio, tutela del lavoro furono tutte rivendicazioni che dilagarono dalla Francia ai vecchi imperi.La Prima guerra mondiale liquidò le ultime tracce dell’Ancien régime e condusse all’affermazione delle società di massa e quindi alla ricerca degli istituti che ne agevolassero il governo: democrazia, socialismo, comunismo, fascismo furono le principali risposte. Il periodo tra le due guerre – che lo storico inglese Eric J. Hobsbawm ha definito l’«età della catastrofe» –, fu attraversato da un conflitto ideologico tra le differenti risposte ai dilemmi posti delle emergenti società di massa. In questo senso, i fascismi costituirono, pur con strumenti squisitamente moderni, la ricerca di una protezione e di un riparo dalle sfide della modernità.La Seconda guerra mondiale, sotto questo profilo, con il costituirsi di un’alleanza antifascista dei paesi di demo-crazia liberale (Stati Uniti, Regno Unito, Francia) con l’Unione Sovietica fu anche un’alleanza degli eredi dei prin-cipi della Rivoluzione francese contro i continuatori di quanti avevano cercato di avversarne l’affermazione.

2. La lotta per il riconoscimento dei diritti fondamentali in età contemporanea: Nelson Mandela

Arrestato nel 1963 per la sua opposizione al regime dell’apartheid (cioè la segregazione razziale dei neri), Nelson Mandela venne incar-cerato e restò in prigione per 27 anni. Dopo aver ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1993 è diventato il simbolo di coloro che ancora oggi, in varie parti del mondo, lottano per il riconoscimento dei diritti fondamentali.

Dopo 27 anni di detenzione, Man-dela è libero l’11 febbraio 1990. Da quel momento la storia del Suda-frica si mette a correre in fretta. Nel ’91 il leggendario Nelson comincia a negoziare la fine dell’apartheid. Nel ’93 divide con Frederik Willem de Klerk, il suo interlocutore bianco, il Nobel per la pace. Il 9 maggio 1994 Mandela viene eletto presidente. A sei mesi dall’evento che sconvolge le coordinate politiche sudafricane compare «Il lungo cammino verso la liberta»: l’autobiografia. […] Ai giovani entrati nell’età virile uno dei capi dell’etnia rivolge un discorso: «Noi sudafricani neri siamo un po-

polo soggiogato. Siamo schiavi nel-la nostra terra». Più tardi Nelson si troverà alle prese con la discrimina-zione razziale, ma l’uomo rinchiuso in carcere per buona parte della sua vita non cederà mai alla tentazione dell’odio, proprio qui risiede il suo grande spessore umano e civile. Negli stralci anticipati dallo Spiegel Mandela racconta alcuni episodi assai significativi. Dopo gli studi di diritto, il giovane lavora nell’ammi-nistrazione di una compagnia mine-raria. Una segretaria bianca gli dice: «qui non ci sono barriere di razza, se vuole può prendere il the con noi». Ma per Nelson e un collega nero una

barriera è rimasta: le due tazze a loro riservate. Ostentatamente, l’al-tro ignora le tazze nuove e ne prende una a caso fra quelle dei bianchi. Lui non vuole far torto al collega né alle segretarie: così preferisce rinunciare al the. Altro episodio: una dattilo-grafa bianca scrive sotto dettatura di Nelson quando arriva un visitatore. Lei si interrompe, prende un po’ di soldi dalla borsa e li porge a Mande-la: «vammi a comprare uno sham-poo». Lui capisce: la ragazza non può mostrarsi in un ruolo subordi-nato rispetto a un nero. E obbedisce: «Andai a prenderle lo shampoo».

A. Venturi, «Corriere della Sera», 15 novembre 1994

E.-J. Sieyès, Saggio sui privilegi, in Che cos’è il Terzo Stato?, Roma, Editori Riuniti, 1972

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Testimonianze Testimonianze

Documento 1 Gli statuti della Prima Internazionale (capitolo 9)

La Prima internazionale nacque a Londra nel 1864 e i suoi statuti furono approvati nel congresso del settembre 1866, a Ginevra. Ispirati da Marx, dichiaravano esplicitamente che il fine dell’associazione era riunire le forze operaie di tutti i paesi per rovesciare l’ordinamento sociale esistente, scalzando il padronato in favore del proletariato. Le divisioni tra le diverse anime dell’Internazionale vanificarono però ben presto questo ambizioso obiettivo: la sinistra europea non tollerava ancora una guida unitaria.

Documento 2 Doveri dei proletari e dei padroni secondo la Rerum novarum (capitolo 9)

La Rerum novarum fu emanata da Leone XIII nel 1891 e suscitò grande scandalo negli ambienti cattolici più tradizionalisti. Il papa ebbe infatti il coraggio di portare alla luce e trattare dottrinalmente la questione operaia, da tempo al centro del dibattito politico e culturale europeo. Nell’enciclica il pontefice rimarcava la distanza della Chiesa tanto dalle crudezze del liberismo senza regole quanto dal socialismo ateo e negatore della proprietà privata. Ma ammetteva la giustezza di molte rivendicazioni dei lavoratori ed esortava gli stessi credenti cattolici a operare per rapporti sociali più equi.

in G.M. Bravo, La Prima Internazionale. Storia documentaria, Roma, Editori Riuniti, 1978

Considerando,che l’emancipazione della classe operaia dev’essere opera dei lavora-tori stessi; che la lotta della classe operaia per l’emancipazione non deve tendere a costituire nuovi privilegi e monopoli di classe, ma a stabilire per tutti dirit-ti e doveri eguali e ad annientare ogni predominio di classe;che la soggezione economica del lavo-ratore nei confronti dei detentori dei mezzi di lavoro, cioè delle fonti della vita, è la causa prima della schiavitù in tutte le sue forme, di ogni miseria sociale, di ogni pregiudizio spirituale e di ogni dipendenza politica;

che l’emancipazione economica del-la classe operaia è di conseguenza il grande scopo al quale ogni movi-mento politico è subordinato come mezzo;che tutti i tentativi rivolti a questo scopo fino ad oggi sono falliti per mancanza di solidarietà tra le diverse branche di lavoro di ogni paese e per l’assenza di un’unione fraterna fra le classi lavoratrici dei diversi paesi; […]per queste ragioni i sottoscritti mem-bri del comitato […] hanno preso le misure necessarie per fondare l’As-sociazione internazionale dei lavo-ratori.

Dichiarano che questa associazio-ne internazionale e tutte le società e gli individui che vi aderiscono rico-nosceranno come regole della loro condotta tra loro e nei confronti di tutti gli uomini, senza distinzioni di colore, di fede o di nazionalità: verità, giustizia, moralità.Considerano come un dovere per ogni individuo richiedere, non sol-tanto per se stesso, ma per tutti, i diritti dell’uomo e del cittadino. Nes-sun diritto senza doveri, nessun do-vere senza diritti.

Siccome nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e for-mano quell’armonico temperamento che chiamasi simmetria; così volle na-tura che nel civile consorzio armoniz-zassero tra loro quelle due classi [pa-dronato e proletariato], e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra; né il capitale senza il lavoro, né il lavoro può stare senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose. […] E primieramente tutto l’insegna-mento cristiano, di cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo

a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri, in-cominciando da quelli che impone giustizia. Obblighi di giustizia, quanto al proletariato e all’operaio, sono que-sti: prestare interamente e fedelmen-te l’opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei pro-pri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamento; non mescolarsi con uomini malvagi, promettitori di cose grandi, senz’al-

tro frutto che d’inutili pentimenti e di perdite rovinose. Dei capitalisti poi e dei padroni sono questi i doveri: non tenere gli operai in luogo di schiavi; rispettare in essi la dignità dell’uma-na persona, nobilitata dal carattere cristiano. […] È obbligo perciò dei padroni […] non alienarlo [l’operaio] dallo spirito di famiglia e dall’amor di risparmio, non imporgli lavori spro-porzionati alle forze, o mal confacenti coll’età e col sesso. Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede.

Documento 4 Gli effetti contraddittori dell’emancipazione dei servi della gleba in Russia (capitolo 10)

L’emancipazione dei servi della gleba produsse in Russia effetti contraddittori. I contadini ebbero la libertà personale, ma a prezzo di un gravoso sacrificio economico. I nobili persero gli antichi privilegi feudali, ricevendo in compenso indennizzi spesso sproporzionati al valore effettivo delle terre cedute ai coltivatori. Soprattutto, il movimento dei capitali mise finalmente in moto energie imprendi-toriali ancora nascoste. Fu allora che prese avvio la ritardata industrializzazione del paese. Rileva tutto questo nelle sue memorie il principe Pëtr A. Kropotkin, di famiglia nobile e poi importante esponente dell’anarchismo russo.

[Ai contadini era] perfettamente chiaro quanto sarebbe stato difficile mettere insieme l’imposta di riscatto per la terra, che in realtà costituiva un indennizzo per la nobiltà per i perdu-ti servizi feudali. Ma apprezzavano tanto la liberazione dal servizio della gleba da accettare […] anche oppri-menti pesi economici […]. Allorché, quindici mesi dopo l’emancipazione, io ebbi agio di vedere i nostri conta-dini di Nikol’skoe, ne restai mera-vigliato. Essi conservavano l’innata bonarietà e mitezza, ma ogni traccia d’umile soggezione era scomparsa. Parlavano ai padroni come a loro pari, come se non vi fossero mai stati

rapporti diversi; e tra essi si trovava-no anche persone capaci di difende-re i propri diritti. […].Per molti signori la liberazione dei servi della gleba costituì un ottimo affare. Per esempio, terreni che mio padre, in previsione dell’emanci-pazione, aveva comperati pezzo per pezzo a undici rubli l’acro, ora nell’assegnazione ai contadini ven-nero calcolati a quaranta rubli, cioè tre volte e mezzo il prezzo del merca-to […]. Dopo la soppressione della servitù della gleba, s’aprirono molte nuove vie, per le quali si poteva pervenire ad accumulare patrimoni, e la gen-

te si accalcò in questi canali. Si pose mano con fretta febbrile alla costru-zione di ferrovie; la nobiltà s’affollò alle banche private di nuova crea-zione per assumere ipoteche; i nuovi notai privati ed avvocati acquista-rono grandi entrate; le società per azioni si moltiplicarono con rapidità strabiliante e i loro fondatori fecero fior di quattrini. Persone che prima erano vissute in campagna del picco-lo reddito d’una tenuta coltivata da un centinaio di servi della gleba, […] giunsero ad avere ora dei patrimoni, o rendite annue, che al tempo della servitù della gleba avevano goduto soltanto i magnati terrieri.

P.A. Kropotkin, Memorie di un rivoluzionario, in V. Gitermann, Storia della Russia, Firenze, La Nuova Italia, 1963

Documento 3 Bismarck spiega perché manipolò il «dispaccio di Ems» (capitolo 10)

Nelle sue memorie, l’ex cancelliere Bismarck raccontò come e per quali motivi aveva manipolato il testo del «dispaccio di Ems». Conscio dell’importanza dell’opinione pubblica nello spingere i governi a intraprendere la guerra, egli tagliò semplicemente la parte finale del comunicato. Nella sua forma originale, esso diceva che i negoziati sarebbero continuati a Berlino; nella sua nuova forma, dava l’impressione che i tedeschi rifiutassero recisamente ogni dialogo. L’effetto freddamente previsto da Bismarck si avverò: Na-poleone III dichiarò guerra a Guglielmo I.

Feci uso dell’autorizzazione reale […] di pubblicare il contenuto del tele-gramma e, mediante cancellature, senza aggiungere o mutare parola, […] ridussi il telegramma […]. La dif-ferenza di effetto che il testo abbrevia-to del dispaccio di Ems produceva in confronto di quello che avrebbe pro-dotto l’originale non era il risultato di parole più vivaci, ma della forma; la quale faceva apparire questa comu-nicazione come decisiva, mentre la redazione di Abeken [Christian von Abeken, consigliere personale del re di Prussia Guglielmo I] sarebbe apparsa solamente come un brano di un nego-

ziato in aria e da continuarsi a Berlino. Letta ai miei ospiti la redazione con-densata in tal modo, Moltke [Helmut von Moltke, capo di Stato maggiore dell’esercito prussiano] osservò: «Così ha un altro suono: prima era quello di una ritirata; ora quello di una fanfara che risponde a una sfida». Io spiegai: «Se questo testo, il quale non contie-ne né cambiamenti né aggiunte al te-legramma, ed è conforme all’incarico datomi da Sua Maestà, lo comunico subito e non solo alle gazzette, ma an-che telegraficamente a tutte le nostre ambasciate, prima di mezzanotte sarà noto a Parigi e farà quivi l’impressione

del panno rosso sul toro francese, non pure a causa del contenuto, ma anche del come è divulgato. Noi dobbiamo battere se non vogliamo far la parte di chi senza lotta è battuto. Ma l’esito dipende pure in modo essenziale dal-le impressioni che produrrà presso di noi e presso altri l’origine della guer-ra; importa che noi siamo gli assaliti, e l’arroganza e l’irascibilità dei Francesi ci serviranno in questo, se noi, con pubblicità europea, per quanto ci è possibile senza il portavoce del Par-lamento, annunziamo che impavidi facciamo fronte alle minacce della Francia».

O. von Bismarck, Pensieri e ricordi, Milano, Treves, 1922

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Testimonianze Interpretazioni

La stazione ferroviaria è il simbolo della modernità (capitolo 9)

Se il Novecento è stato il secolo dell’aeronautica, l’Ottocento fu certamente il secolo della ferrovia, che rivoluzionò il sistema dei tra-sporti. Il treno accorciò drasticamente le distanze tra località diverse, abbattendo i tempi di percorrenza e facilitando lo spostamento di merci e persone. I traffici crebbero, con effetti economici straordinari. Molto cambiò però anche in altri campi. Per esempio, nelle abitudini dei viaggiatori. O nell’architettura e nell’urbanistica: le antiche stazioni di posta furono sostituite dalle stazioni ferroviarie. Con modalità e conseguenze largamente impreviste, come spiega lo storico Wolfgang Schivelbusch.

Il traffico preindustriale interurbano era legato allo spazio del territorio che attraversava. E tale rimaneva an-che dopo aver raggiunto la propria destinazione: la città. Il rapporto tra la diligenza e la città era esattamente uguale a quello tra la diligenza e gli spazi aperti. I suoi locali di transito, le stazioni della posta, si trovavano nel centro delle città e di regola face-vano parte della locanda che da essi prendeva nome («Della posta»), una costruzione che ben poco si differen-ziava dalle case vicine. L’integrazione nella vita urbana era perfetta.A questo stretto rapporto pose fine la ferrovia. I suoi luoghi di sosta – le

stazioni ferroviarie – stanno alle an-tiche stazioni di posta come il treno sta alla carrozza e la linea dei binari alla strada normale: sono qualcosa di fondamentalmente nuovo. La stazio-ne ferroviaria non è parte integrante delle città, come risulta evidente già dalla sua ubicazione all’esterno delle mura, e ne rimane a lungo la strana appendice. Ben presto, i quartieri urbani che confinano direttamente con essa vengono bollati come «in-dustriali» e «proletari». Diventano la zona malfamata della stazione […].La stazione passeggeri delle grandi città è caratterizzata da una curiosa bipartizione: la stazione vera e pro-

pria, cioè la tettoia in ferro e vetro, e l’atrio in muratura, la prima rivol-ta verso lo spazio aperto, la secon-da verso la città. Tale divisione in due settori assai diversi, felicemen-te definiti […] «per metà fabbrica, per metà palazzo», rappresenta una novità nella storia dell’architettura. […] A partire dalla metà del secolo, la stazione segna la fisionomia delle grandi città europee […]. La stazione agisce dunque come una chiusa. La sua funzione è quella di conciliare due tipi molto diversi di traffico, lo spazio del traffico della città e quello della ferrovia.

W. Schivelbusch, Storia dei viaggi in ferrovia, Torino, Einaudi, 1988

La crisi agricola causa dell’emigrazione europea (capitolo 9)

La «grande depressione» iniziata nel 1873 fu causa diretta dell’impennata migratoria europea di fine Ottocento. La crisi economica ebbe infatti risvolti particolarmente pesanti nelle regioni e nei Paesi incapaci di fronteggiare con successo la concorrenza dei pro-dotti agricoli a basso costo provenienti da Stati Uniti, Russia e Australia. Dove non si riuscì a riconvertire l’agricoltura per renderla più competitiva e dove non bastò il protezionismo di marca governativa, l’unica possibilità di sopravvivenza era partire. Fu così che milioni di europei lasciarono le campagne del continente per cercare fortuna nel Nuovo Mondo.

Negli anni Ottanta una gran massa di cereali era disponibile a basso prez-zo sui mercati europei proveniente dalla Russia, dall’Australia, ma so-prattutto dalle fertili pianure degli Stati Uniti […]. Le ferrovie e le grandi navi a vapore erano pronte a traspor-tare tonnellate e tonnellate di grano nelle regioni europee dove la densità di popolazione e il livello del reddito ne consentivano l’acquisto. Offerta e domanda si incontravano, ma le con-seguenze economiche e sociali erano sconvolgenti. Il prezzo del frumento in Europa crollò. […] Gli anni Ottanta furono perciò gli anni della crisi agra-

ria, che soprattutto colpì quei pae-si dove la produttività agricola era bassa […]. Una rapida riconversione dell’agricoltura si imponeva. […] Il risanamento e la trasformazione dell’agricoltura italiana […] incon-trarono un ostacolo gravissimo nelle condizioni di miseria e nell’arretra-tezza economica e sociale di alcune regioni, e in particolare del Mezzo-giorno. […] La crescita demografica delle regioni meridionali, in mancan-za di altre attività produttive, gravava sulle limitate risorse di una povera agricoltura. Il caso italiano, in parti-colare il flusso migratorio transoce-

anico alimentato dalle regioni meri-dionali, consente di accennare ad un altro degli aspetti caratterizzanti del periodo 1870-1914: l’emigrazione di massa […]. L’Europa esportava mer-ci, uomini, capitali, servizi: merci, capitali, servizi dai paesi più ricchi, forza-lavoro dai paesi più poveri. […] La possibilità di facili trasporti […] creò per un certo periodo una vera e propria complementarità tra offerta e domanda di lavoro. Solo la tratta degli schiavi può, per alcuni aspetti, essere paragonata a questo grande movimento di massa […].

P. Villani, L’età contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1993

Documento 5 Cavour spiega il principio «libera Chiesa in libero Stato» (capitolo 11)

Il conte di Cavour morì parecchi anni prima dell’entrata dei bersaglieri a Roma e dell’annessione della Città Eterna al Regno d’Italia. Per diversi decenni, tuttavia, i governi italiani praticarono nei confronti del papato la politica da lui stesso impostata sul principio «libera Chiesa in libero Stato». Cosa esso significasse è spiegato da queste note, redatte da Cavour pochi mesi prima della sua scom-parsa per i diplomatici incaricati di trattare con Pio IX. Egli chiedeva al papa di rinunciare al potere temporale e consentire quindi la completa unificazione della penisola. E gli garantiva in cambio un’assoluta libertà in campo spirituale, certo superiore a quella concessa da molti sovrani europei, abituati a intromettersi continuamente nelle scelte della Chiesa.

Documento 6 Civilizzare i popoli primitivi è il «fardello del Bianco» (capitolo 12)

Rudyard Kipling, uno dei più famosi letterati britannici tra Ottocento e Novecento, nacque a Bombay nel 1865 e fu un perfetto cono-scitore dell’ambiente coloniale. Compose The White Man’s Burden («Il fardello dell’uomo bianco») nel 1899 e in esso compendiò le opinioni degli europei sui popoli di Africa e Asia. Opinioni che a noi oggi sembrano stereotipi razzisti ma che all’epoca erano sincere e comuni convinzioni: il bianco aveva il dovere di civilizzare i primitivi abitatori dei continenti colonizzati, anche se spesso tale missione non veniva adeguatamente ricompensata. Riproduciamo quattro significative strofe della celebre poesia.

C. Cavour, Carteggi. La questione romana negli anni 1860-1861, Bologna, Zanichelli, 1929

J.R. Kypling, Poesie, Milano, Mursia, 1981

Il popolo italiano è profondamente cattolico. La storia dimostra che nes-sun scisma poté mai metter vaste ra-dici in Italia […]. Questa perfetta omogeneità delle popolazioni italiane sotto il rappor-to religioso dimostra che, quando venisse a cessare in Italia il funesto dissidio esistente fra la Chiesa e lo Stato, il clero non avrebbe a temere che alcuna rivalità, alcuna influenza opposta alla religione cattolica com-battesse o limitasse l’esercizio legitti-mo dell’azione che naturalmente gli compete. L’Italia è quindi la terra in cui la libertà produrrebbe effetti più favorevoli agli interessi della Chiesa,

il campo destinato dalla Provvidenza all’applicazione del principio libera Chiesa in libero Stato. […] Non v’ha dunque che un modo di fondare sopra solide basi l’indipen-denza completa ed effettiva del pa-pato e della Chiesa: è il rinunciare al potere temporale e dichiarare, col Vangelo, che il regno della Santa Sede non è circoscritto da condizio-ni di tempo né di spazio. Parimenti non v’ha che un governo, quello di re Vittorio Emanuele, il quale pos-sa e voglia farsi strumento di questa gloriosa trasformazione del papato. Gli altri governi europei non accor-deranno mai alla Chiesa quella com-

pleta libertà d’azione cui essa ha di-ritto: non avendo alcun compenso a chiederle, alcun vantaggio ad ottene-re da questo atto di giustizia, essi non s’indurranno giammai a rinunciare a privilegi, di cui si mostrarono fino-ra gelosissimi difensori. Re Vittorio Emanuele per contro si glorierebbe d’inaugurare per primo da Roma il sistema della completa indipenden-za della Chiesa; e, solo quando egli ne avesse dato l’esempio, gli altri princi-pi sarebbero costretti dalla pubblica opinione a smettere ogni egoistica preoccupazione ed a lasciare alla Chiesa quell’impero dell’anima che alla Chiesa si compete.

Addossatevi il fardello del Bianco –Mandate i migliori della vostra razza – Andate, costringete i vostri figli all’esilioPer servire ai bisogni dei sottoposti;Per custodire in pesante assettoGente irrequieta e sfrenata – Popoli truci, da poco soggetti,Mezzo demoni e mezzo bambini.

Addossatevi il fardello del Bianco – Resistere con pazienza, Celare la minaccia del terroreE frenare l’esibizione dell’orgoglio;In parole semplici e chiare,Cento volte rese evidenti,Per cercare il vantaggio altrui,E produrre l’altrui guadagno.

Addossatevi il fardello del Bianco – Le barbare guerre della pace – Riempite la bocca della CarestiaE fate cessare la malattia;E quando più la meta è vicina,Il fine per altri perseguito,Osservate l’Ignavia e la Follia paganaridurre al nulla tutta la vostra speranza. […]

Addossatevi il fardello del Bianco – E cogliete la sua antica ricompensa:Le accuse di chi fate progredire,L’odio di chi tutelate – Il grido della masse che attirate(Ah, lentamente!) verso la luce:«Perché ci avete tolto dalla schiavitù,La nostra amata notte egiziana?»

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Interpretazioni Interpretazioni

Dalla guerra nascono il Reich tedesco e la Terza Repubblica francese (capitolo 10)

Dopo il conflitto austro-prussiano del 1866, divenne evidente la prevalenza della Prussia tra i popoli di lingua tedesca. Sotto la guida di Berlino era sul punto di costituirsi un nuovo e grande impero nell’Europa centrale: si trattava di una prospettiva che la Francia, sicura dei suoi mezzi e del suo ruolo di potenza continentale egemone, non poteva assolutamente accettare. Fortissimo fu dunque lo shock dopo la sconfitta di Sedan. Avvenne così che dalla guerra del 1870-1871 nacquero addirittura due nuovi Stati: la Terza Re-pubblica francese e il Reich tedesco. La violenza che li aveva generati sarebbe però ricaduta su di essi nella catastrofe della Prima guerra mondiale.

L’incapacità degli italiani di scrivere e parlare nella lingua patria (capitolo 11)

Negli anni immediatamente post unitari, sapevano scrivere e parlare italiano non più di 600.000 individui su circa 25 milioni di abitanti del regno: appena il 2,5% della popolazione. È questa la conclusione cui giunge il linguista Tullio De Mauro. Anche tanti che avevano la licenza elementare, infatti, perdevano confidenza con la lingua patria perché interrompevano gli studi e perché nessuno attorno a loro la parlava. Uniche eccezioni, per ragioni storiche, la Toscana e Roma. L’Italia era dunque da costruire, prima di tutto, attorno a questo mattone fondamentale: la conoscenza della lingua comune.

La straordinaria novità dei boulevards parigini (capitolo 10)

Ridisegnare la città, per molti motivi diversi: economici, igienico-sanitari, militari, di prestigio. Questo fu l’obiettivo di Napoleone III e del prefetto Haussmann nello sventrare il cuore di Parigi e nel ricostruirlo da capo. Servendosi prima di tutto dei boulevards: lunghi, larghi e incredibilmente spaziosi viali alberati, qualcosa che nessuna città europea aveva mai visto in precedenza. Furono proprio i boulevards e la ristrutturazione urbanistica di Parigi tra i maggiori lasciti del Secondo Impero francese all’Europa contemporanea.

I nuovi boulevards avrebbero per-messo di scorrere attraverso il centro cittadino e di spostarsi rapidamente da un capo all’altro della città […]. Avrebbero, inoltre, spazzato via le viuzze dei quartieri poveri e aperto uno «spazio vitale» fra strati di tene-bre e di una congestione soffocante. Avrebbero straordinariamente fa-vorito l’espansione del commercio locale […]. Avrebbero pacificato le masse occupando decine di migliaia di lavoratori […] in opere pubbliche a lungo termine che, a loro volta, avrebbero prodotto migliaia di al-tri posti di lavoro nel settore priva-to. Avrebbero creato, infine, lunghi

ed ampi corridoi in cui le truppe e l’artiglieria si sarebbero mosse effi-cacemente contro future barricate e insurrezioni popolari. […]. La nuova opera di ricostruzione com-portò la demolizione di centinaia di edifici, privò di un tetto migliaia e migliaia di persone, sconvolse interi quartieri sopravvissuti allo scorrere dei secoli, ma per la prima volta nella storia dischiuse il cuore della città a tutti i suoi abitanti. […]. I boulevards di Napoleone e Haussmann posero le nuove basi […] per l’aggregazione di una enorme quantità di persone. A li-vello della strada erano fiancheggia-ti da piccole imprese e negozietti di

tutti i generi, con ogni angolo cintato per ristoranti e caffè con marciapiedi a terrazzo. […] I marciapiedi di Haus-smann erano, al pari dei boulevards, prodigiosamente ampi […]. Vennero istituite le isole pedonali. Vennero progettati ampi scorci panoramici a perdita d’occhio, con file d’alberi in prospettiva e monumenti alle estre-mità dei boulevards […]. Tutte queste caratteristiche contribuirono a fare della nuova Parigi uno spettacolo straordinariamente seducente. […] Negli anni dal 1880 al 1890, il mo-dello haussmanniano era universal-mente considerato il modello ideale di urbanistica moderna.

Rimaneva tuttavia ancora aperto un conto: quello con la Francia napoleo-nica. […] L’Imperatore, […] non ebbe la saggezza di sottrarsi al vortice della guerra, come egli avrebbe pur potuto fare per molto tempo. Da una parte, infatti, gli eventi decisivi erano tutti accaduti nel 1866; dall’altra tuttavia Berlino, proprio in considerazione di Parigi, non aveva assunto le insegne esteriori della nuova potenza, il tito-lo di Imperatore e la denominazione Impero tedesco. […]Il punto centrale divenne il veto francese all’unità prussiano-tedesca […]. La guerra, preparata con grande

sangue freddo dalla Prussia sul pia-no diplomatico e su quello militare, impetuosamente e retoricamente celebrata dalla Francia, non fu decisa dalle sanguinose battaglie a cavallo in Lorena e neppure dalle cariche di Wörth e di Weissenburg in Alsazia. A Sedan l’Imperatore e l’esercito prin-cipale francesi furono strategica-mente accerchiati. Imperatore e Im-pero erano così perduti per la Francia e guadagnati per la Prussia. Con la capitolazione di Sedan la guerra tuttavia non cessò, ma piuttosto dera-gliò. La Repubblica francese, anziché capitolare, si batté a oltranza sulla Loi-

ra e difese Parigi. I tedeschi insistette-ro sull’annessione dell’Alsazia e della Lorena, gli obbiettivi sognati nel 1813 dai nazionalisti tedeschi del sud, e su enormi riparazioni di guerra. Alla fine, e questa fu la terza guerra che si com-batté in una sola, il popolo di Parigi si sollevò con la Comune sia contro il go-verno borghese di Versailles sia contro gli assedianti tedeschi. L’ultimo atto si svolse nella forma di una guerra civile francese. Due grandi potenze, la Fran-cia della Terza Repubblica e il Reich tedesco, nacquero dai dolori della guerra e sarebbero tramontate in do-lori ancora maggiori.

Al momento dell’unificazione la popolazione italiana era per quasi l’80% priva della possibilità di venire a contatto con l’uso scritto dell’ita-liano, ossia, per l’assenza dell’uso orale, dell’italiano senz’altra specifi-cazione. Sarebbe tuttavia un errore attribuire la possibilità di conoscere l’italiano al restante 20% della popo-lazione […]. Coloro cui toccava nel 1861 la qualifica di non analfabeti erano lontani in genere da un pos-sesso reale della capacità di leggere e scrivere. […] Insegnanti, dirigenti scolastici e uo-mini d’ogni parte politica concor-davano nel ritenere che la semplice

istruzione elementare fosse insuffi-ciente a garantire un duraturo pos-sesso della condizione di non analfa-beta. […] Nei primi anni dopo l’Unità […] un reale contatto con la lingua comune e la sua effettiva e definitiva acquisizione erano riservati soltanto a coloro che, dopo le scuole elemen-tari, continuavano per qualche anno gli studi. Nel 1862-1863 l’istruzione postelementare veniva impartita all’8,9 per mille della popolazione in età tra gli 11 e i 18 anni. Si potrebbe dunque concludere che attraverso la scuola la conoscenza dell’italiano era garantita a questa percentuale della popolazione e, quindi, che gli «italo-

foni» (o, a dire meglio, gli «italografi») erano poco meno dell’uno per cento. Per quanto sia già infima, tale per-centuale è eccessiva rispetto all’ef-fettiva realtà […]. Adottando tuttavia criteri di grande larghezza, si può concludere che negli anni dell’uni-ficazione coloro che fuori di Roma e della Toscana erano giunti ad ap-prendere l’italiano erano circa l’8 per mille della popolazione […]. Altro era il caso di Firenze (con le restanti città toscane) e di Roma: […] in Toscana e a Roma i dialetti locali erano par-ticolarmente vicini nella struttura fo-nologica, morfologica e lessicale alla lingua comune.

M. Stürmer, I confini della potenza. L’incontro dei tedeschi con la storia, Bologna, Il Mulino, 1996

M. Berman, L’esperienza della modernità, Bologna, Il Mulino, 1985

Novità e caratteri dell’imperialismo ottocentesco (capitolo 12)

Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, l’evento più importante della storia mondiale fu il fenomeno che abbiamo chiamato «imperialismo». Per comprenderne l’ampiezza, basta ricordare alcuni dati. Nel 1914, i domini dell’Inghilterra si estendevano su oltre 33 milioni di chilometri quadrati e 394 milioni di sudditi. Nello stesso anno, i possedimenti francesi comprendevano 10 milioni di chilometri quadrati e 55 milioni di abitanti. In quel medesimo periodo crebbero le colonie anche di Russia, Germania, Belgio e Italia. Lo storico Rosario Villari elenca i fattori che furono alla base della competizione coloniale.

L’imperialismo fu […] un fenome-no nuovo, diverso dal colonialismo dell’antichità e dei primi secoli dell’età moderna. La spinta fondamentale de-rivò dalla ricerca di nuove zone d’im-piego del capitale eccedente oltre che dalla necessità […] di accaparrarsi fonti di materie prime e sbocchi di mercato. […]. Il dominio politico ap-parve come la migliore garanzia degli investimenti e dell’attività economica delle grandi potenze negli immensi territori sottosviluppati del continente africano e dell’Asia.A questa spinta fondamentale si col-legarono anche altri motivi, di natura

politica, sociale ed ideologica. L’ec-cesso di popolazione fu allora assun-to come una delle principali giustifi-cazioni della politica imperialista. Il possesso di colonie avrebbe dovuto assicurare l’emigrazione della popo-lazione eccedente in territori sotto la stessa autorità politica e fornire alla madrepatria la possibilità di un incre-mento economico adeguato al mo-vimento demografico. […] Il nuovo sistema coloniale, infine, non mutò i rapporti di lavoro nelle madrepatrie: la politica imperialistica scongiurò tem-poraneamente, in alcuni paesi, l’esa-sperazione dei conflitti di classe, ma

nello stesso tempo […] allargò enor-memente, con l’inclusione dei popoli dei paesi sottosviluppati, la massa di manodopera che era sotto il dominio del capitale. […]I presupposti ideologici delle tenden-ze imperialiste […] trovarono larga ri-sonanza nella cultura europea. Il tema principale era l’affermazione della su-periorità di determinate razze e nazio-ni nei confronti di altri popoli della ter-ra. Poiché questi ultimi erano incapaci di utilizzare le ricchezze dei loro paesi, le nazioni «superiori» rivendicavano il pieno diritto di impadronirsene.

R. Villari, Mille anni di storia. Dalla città medievale all’unità dell’Europa, Roma-Bari, Laterza, 2001

T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1963

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3 Costruisci una mappa concettuale sulle cause e le caratteristiche della Guerra di Secessione (capitolo 12).

1 Leggi attentamente i seguenti documenti: il primo è un’accusa di Crispi che rimprovera ai socialisti di aver manovrato i Fasci dei lavoratori siciliani, mentre il secondo è la testimonianza di un colonnello reduce di Adua. Partendo da questi due testi, scrivi una breve trattazione che metta in luce le caratteristiche della politica di Crispi, sia di quella interna, sia di quella coloniale.

Il problema sociale non è quello che falsi apostoli predicano alle masse inconsce ed ignoranti, ma quello che tutti (nessun partito escluso) meditiamo con ansia affannosa, affinché, cessata ogni distinzione di classe, tutti in Italia siano liberi cittadini.Si è gettato nell’animo della plebe il concetto che la proprietà sia male posseduta dai borghesi. Avrei capito la discus-sione di una tale tesi nel secolo XVIII, ed anche nel principio dell’attuale. Ma, abolito il feudo […], divenuta libera la proprietà […], resi facili gli acquisti, può dirsi realmente oggi che i possessori delle terre non le tengano per diritto proprio e legittimo? Ora, infondere nell’animo delle plebi che il possesso degli attuali proprietari sia violento, che esse abbiano diritto alla divisione delle terre, importa lo stesso che alimentare il pensiero del delitto. Fortunatamente l’idea non si è generalizzata. E male si era scelta, a codesta propaganda, la Sicilia, dove il concetto della famiglia, il sentimento della autonomia personale sono profondi e non possono essere scossi in nessun modo.E qui viene, seguendo il corso della discussione, un altro quesito: può darsi realmente che i moti siciliani siano de-rivati dalla miseria? Basta guardare un po’ ai Comuni dove i moti scoppiano, per poter essere di contrario avviso. La provincia di Trapani è una delle più agiate. Se percorrete quella provincia, voi non troverete un mendico per le strade. Venendo poi da quella provincia verso Palermo, troverete lo stesso benessere. Partinico, Monreale, Parco, Misilmeri, Belmonte, Comuni dove scoppiarono i moti, hanno sufficiente agiatezza, e, quello che è di più, sono Comuni dove la proprietà è molto divisa. In questi Comuni non ci sono latifondi, o almeno sono molto lontani.Ma donde vennero dunque questi moti, e chi li provocò? Non possiamo nasconderlo, e nessuno lo potrà nascondere: furono essi l’effetto di una cospirazione continua, insistente e talvolta violenta, che ci avrebbe portato a lutti maggio-ri, se il Governo non fosse arrivato a tempo ad impedirla.

E. Anchieri, Antologia storico-diplomatica, Milano, ISPI, 1941

Le mie parole potranno suonare sgradite, ma non mi perito di proferirle poiché al di sopra, molto al di sopra, delle persone vi è la patria. Qui non parlo né a corrispondenti di giornali, né a pubblico, qui siamo in famiglia. La franchez-za, anche se rude, è virtù di soldato. Nascondere le piaghe non è curarle […].Allorché mi recai in Africa non ero anti-africanista, nel significato comunemente dato a questa parola; tuttavia tanti entusiasmi, forse irragionevoli, certo non ragionati, mi lasciavano freddo e mi davano da riflettere. Fui quindi lietis-simo che l’occasione mi si offrisse di sollevare il velo che copriva la novella Iside. Sollevatolo, provai più disgusto che delusione.L’Italia, non ricca, aveva voluto darsi il lusso di una colonia; ma nella scelta non era stata illuminata dalla buona stella che, pur tante volte, le era stata guida fedele. Andammo ad imbatterci nel popolo più guerriero d’Africa, e nella terra più povera e meno ospitale. […]È opportuno e utile rimanere oggi in Africa? Non sta a me il rispondere a questa domanda; né voglio farlo. Gli africa-nisti interessati, che a bella posta fanno e hanno fatto di tutto per traviare a loro profitto l’opinione pubblica, procu-rando di confondere la questione coloniale coll’onore della bandiera e col patriottismo – cose assolutamente distinte – non esiterebbero a darvi una risposta. A me pare che correremmo rischio di mettere davvero a repentaglio l’onore della bandiera in Europa qualora, per ostinarci a non riconoscere un errore commesso, proseguiremo a sottrarre all’esercito tante forze vive, in uomini ed in denaro, quanto ne assorbirebbero quelle aride sabbie.Il mio pensiero intimo è, ormai, a tutti voi manifesto, e mi conforta il convincimento che non da pochi sia condiviso. Se volevamo estendere ed affermare il nostro dominio africano dovevamo farlo a ragion veduta, con mezzi adeguati, ed in tempo opportuno. Oggi mi par tardi […].

U. Brusati, Conferenza agli ufficiali del presidio di Torino del 1° marzo 1897, testo conservato presso il Museo del Risorgimento di Milano

2 Scrivi una breve trattazione (dieci/quindici righe) dei seguenti argomenti.

1 Le conseguenze economiche della seconda rivoluzione industriale.

2 L’emigrazione dall’Europa al Nuovo Mondo a cavallo tra Ottocento e Novecento.

3 La nascita dei partiti degli operai.

4 Le caratteristiche fondamentali del cancellierato di Bismarck.

5 Le caratteristiche dell’impero di Napoleone III.

Verso la Terza prova: trattazione sintetica di argomenti

4 Facendo riferimento alla traccia fornita qui di seguito, prepara una breve esposizione sull’imperialismo (capitolo 12), che potrai poi esporre oralmente.

Nazionalismo à Revanscismo à Politica di potenza à Guerra à Gara coloniale in Africa e Asia

Missionari e compagnie commerciali à Basi commerciali e accordi con le autorità locali à Potenze europee à Controllo territoriale con funzionari europei

Colonialismo à Imperialismo

Motivazioni economicheSfruttamento del territorio à Controllo delle risorse à Soldati, impiegati e manodopera

Politiche protezionistiche in Europa à Sbocchi per i prodotti delle industrie nazionali

Motivazioni politiche e ideologichePregiudizio razzista à Civiltà superiori à Missione civilizzatrice

Arricchimento delle potenze europee e impoverimento delle regioni interessate dal dominio imperialista

Africa Scoperte geografiche à Esplorazioni (David Livingstone e Henry Morton Stanley) à Avvio commerci e diffusione del cristianesimo à Ricchezze territoriali e apertura del Canale di Suez à Protettorati à Colonie

Rivalità tra le potenze per l’occupazione deI territori à Bismarck e la Conferenza di Berlino à Spartizione dell’Africa

AsiaIndia à Compagnia delle Indie Orientali à «Rivolta dei Sepoys» à Dominio diretto della corona inglese à Regina Vittoria assume il titolo di «Imperatrice delle Indie» à Ciclo della lavorazione del cotone come emblema dello sfruttamento

Cina à Guerra dell’oppio à Isolamento dal resto del mondo à Apertura ai commerci stranieri à Modernizzazione imposta à «Rivolta dei Boxers» à Intervento esercito internazionale

Competizione economica à Competizione politica à Rivalità e tensioni internazionali

Unità 4 • Verso il Novecento

Verso la Prima prova: saggio breve

Verso il Colloquio orale: preparazione dell’argomento a scelta

Verso il Colloquio orale: guida all’esposizione orale

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