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“Quaderni interdisciplinari” Antonino Sciotto L’IMPERIALISMO come fenomeno politico, economico e culturale MARNASCUOLA

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“Quaderni interdisciplinari”

Antonino Sciotto

L’ IMPERIALISMO

come fenomeno politico, economico e culturale

MARNASCUOLA

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La discussione che presentiamo è limitata all’aspetto storicodell’ imperialismo. L’edizione integrale del libro, pubblicato daMarna, contiene anche quello filosofico, che può interessareperò solo gli studenti dei licei.

MARNASCUOLA ha inoltre pubblicato:

Antonino Sciotto, Idologie e metodi storici, 2000Fabio Gabr ielli, Storiaoggi, 2001AA. VV., Guida per la ricerca. Come costruire un percorsointerdisciplinare, 2002 (disponibile su Scuola Online)AA. VV., Tempo della scienza e tempo della coscienza, 2002

E’ consentita la diffusione dell’opera attraverso ScuolaOnline e per uso esclusivamente personale; ne è

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I l candidato discute la tesi secondo la quale l’ imper ialismo nonha connotazioni ideologiche, ma affonda le sue radici inmeccanismi economici indipendenti che possono ancheprescindere dall’ indir izzo politico delle nazioni

Professore di Storia - Quale periodo vogliamo mettere a fuoco?

Candidato - Avrei preparato una tesina sull’ imper ialismo difine Ottocento.

P. - Come mai sente l’esigenza di una precisazionecronologica?

C. - Be’ , l’ imper ialismo, come tendenza di uno Stato aespandersi al di fuor i dei propr i confini, è sempre esistito: sipensi ai Persiani che invadono la Grecia, ai Macedoni cheinvadono la Persia, ai Romani che invadono praticamentetutto, per non par lare degli spagnoli, dei francesi, degli inglesi,dei russi, degli austr iaci, ecc, tutti popoli che hanno costruitodegli imper i più o meno estesi inglobando popoli a voltediversissimi tra loro, ma lasciando ai popoli conquistati largaautonomia.

P. - Si trattava in altri termini di una federazione di stati

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soggetti all’egemonia di uno di essi?

C. - Diciamo che il pr incipio del “ divide et impera” dei Romaniha costituito per molto tempo un metodo molto efficace diparecchi governi imper iali.

P. - Quale sarebbe, a suo parere, la peculiaritàdell’ imperialismo di fine secolo?

C. - A mio avviso l’ imper ialismo del secondo Ottocento e deipr imi del Novecento, almeno fino alla pr ima guerra mondiale,non è puro militar ismo, ossia espressione brutale di forzafisica, ma trova la sua giustificazione - ammesso chel’ imper ialismo abbia una qualche giustificazione etica...

P.- Suggerirei di limitarci al contesto storico, possibilmentesenza esprimere opinioni, e parlare di cause dell’ imperialismodi fine Ottocento. Ne conviene?

C. - D’accordo. Direi allora che le cause dell’ imper ialismo sonodi tipo economico e di tipo culturale.

P. - “ Culturali” in che senso?

C.- Penso, in I talia, al Regno di Corradini, che mirava aportare l’ I talietta meschina e pacifista (sono parole sue) nelnovero delle grandi potenze imper ialiste. Ma Corradini nonera solo, altre r iviste dello stesso tenore (r icordo I l Leonardo,La Prora), in sintonia con L’action française di Char lesMaurras, espr imevano le manie di grandezza di una frangiainizialmente non molto numerosa, ma certamente moltorumorosa, esaltando la violenza, il militar ismo, la guerra, ilvolontar ismo ed echeggiando Sorel, Nietzsche, D’Annunzio,Mar inetti e Papini; perfino un uomo mite come il Pascoli allafine dovette schierarsi.

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P. - Sempre nell’ambito delle matrici culturalidell’ imperialismo, si potrebbe inserire anche Darwin?

C.- Darwin no, ma ciò che fu denominato “ darwinismo sociale”certamente sì.

P.- Come definirebbe il “ darwinismo sociale” ?

C. - I l modello che il naturalista inglese ha pensato per ilmondo animale e vegetale, ossia la selezione naturale che portainevitabilmente alla sopravvivenza del più for te, fu applicatoanche al mondo degli uomini: i popoli, nella lotta per la vita, sicombattono fino a quando un popolo - più for te, più abile, piùintelligente, più tutto - non r iuscirà a prevalere sugli altr ipopoli; si stabilirebbe, secondo tale teor ia, unagerarchizzazione tra le nazioni, quindi la disuguaglianza,quindi ancora il dir itto dei for ti a imperare sui deboli.Insomma oppressi e oppressor i, padroni e servi, r icchi epover i, colonizzator i e colonizzati non sarebbero devianzedella mente, ingiustizie sociali, ecc., ma fatti della natura e,come tali, ineliminabili.

P.- Tralasciamo per il momento riferimenti letterari e filosoficiche potranno meglio essere delineati attraverso l’ intervento deidocenti di I taliano e di Filosofia e concentriamo la nostraattenzione sui fattori economici che portarono l’Europa versol’ imperialismo, come risulta dalla sua tesi.

C. - Per inquadrare l’argomento in modo corretto partireidalla seconda r ivoluzione industr iale. Direi pertanto chementre la pr ima r ivoluzione industr iale, quella per intenderciiniziata nella seconda metà del ‘700, era basata su una fonteenergetica largamente disponibile in Europa...

P. - “ Largamente” nel senso tutti o quasi tutti i popoli

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d’Europa potevano disporre del carbone?

C. - Allora diciamo che inizialmente non era strettamentenecessar io disporre solo di carbone e di ferro, bensì dellatecnologia necessar ia per costruire macchine a vapore in gradodi produrre, tanto per fare un esempio, tessuti di buona qualitàa livello industr iale e a prezzi accessibili.

P. - Per restare nel suo esempio, quale poteva essere ladifferenza merceologica tra un tessuto di lana e uno di cotone?

C. - La lana poteva essere prodotta, lavorata in panni evenduta in Europa, il cotone invece per ragioni climatichepoteva essere prodotto soltanto nei paesi caldi, da dove venivaimportato; qui veniva lavorato e il prodotto finito r ivendutotanto in Europa, quanto negli stessi luoghi di produzione.

P. - Di qui la necessità di possedere delle colonie e di qui lanascita dell’ imperialismo?

C. - Piuttosto, direi, di qui la necessità di controllare i mercatidove comprare della merce a un certo prezzo e r ivender la a unprezzo super iore. La differenza tra il prezzo d’acquisto e ilprezzo di vendita del prodotto industr iale costituisce il profittod’ impresa, incamerato dall’Europa, o meglio dai paesi europeiindustr ializzati, Gran Bretagna in testa alla lista.

P. - Se ho ben capito lei non lega indissolubilmentecolonialismo e imperialismo. Vuole spiegarsi meglio?

C. - I l colonialismo nella stor ia moderna è preesistenteall’ imper ialismo come ideologia, o almeno come quel tipo diideologia affermatasi nella seconda metà dell’800. I lcolonialismo del ‘500 e del ‘600 sembra più che altro unanecessar ia conseguenza delle scoperte geografiche: io scopro

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una terra, ne divento il propr ietar io e la utilizzo come mi parepiù opportuno. Che si tratti di colonie di insediamento o dicolonie di sfruttamento fino alla r ivoluzione industr iale èmarginale.

P. - Con la rivoluzione industriale invece cambierebbe lanatura del colonialismo. E’ questo che intende dire?

C. - In una pr ima fase no, poiché continua a sopravvivere ilvecchio colonialismo: il notabile, il contadino o l’avventur ieroche si trasfer iscono nella colonia restano ancora dei “ figli”separati con cui si mantiene un legame culturale, direi quasi“ affettivo” , senza tuttavia trascurare i rapporti di affar i, inbase ai quali si stabilisce uno scambio di prodotti grezzi fornitidalla colonia contro beni di consumo venduti dallamadrepatr ia.

P. - E in una seconda fase?

C. - La seconda r ivoluzione industr iale ha inizio quando siscopre una fonte di energia con un rendimento assai super iorea quello del carbone: il petrolio, a cui presto si affiancheràl’energia elettr ica prodotta in quantità industr iali. In tal modotutti i paesi europei vir tualmente avrebbero potutoindustr ializzarsi (e infatti a poco a poco si industr ializzarono,I talia compresa, seppure limitatamente al cosiddetto tr iangoloindustr iale Milano-Genova-Tor ino).

P. - Con quali conseguenze?

C. - Negli anni 70 , grazie alle innovazioni tecnologiche, laproduzione complessiva dell’ industr ia e dell’agr icolturaaumenta e migliora anche la distr ibuzione grazie all’estensionedella rete ferroviar ia, che copre ormai come una ragnatela

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tutta l’Europa. Di qui - nonostante la persistenza di vistosesacche di povertà nelle regioni sottosviluppate - una più largadiffusione del benessere verso i ceti popolar i. Poteva sembrareche la fede dei positivisti nel “ Progresso” costante dell’umanitàavesse concreta conferma nella realtà, l’ottimismo dilagava, laborghesia non chiedeva altro che lo Stato non inter fer isse conle leggi del libero scambio e lasciasse che il mercato regolassein modo naturale la produzione e il prezzo delle merci. Era iltr ionfo del liber ismo così com’era stato formulato da AdamSmith cent’anni pr ima.

P. - Secondo lei vi è qualche analogia con la situazioneattuale?

C. - Apparentemente sì, nel senso che anche oggi si chiede“ meno Stato e più mercato” e la fiducia nella tecnologia - inspecial modo quella in grado di produrre denaro - per molti èdiventata mater ia di fede, piuttosto che una var iabiledell’economia politica.

P. - Perché apparentemente?

C. - Perché in mezzo vi sono due guerre mondiali, una cr isieconomica spaventosa in seguito al crollo Wall Street del ‘29, ifascismi e l’affermazione dei sistemi democratici. I l mondo ècambiato di molto e seppure si par li insistentemente ancheoggi di pr ivatizzazione, globalizzazione, mercato, ecc. appareassai improbabile che due sistemi socio-economici sir ipresentino identici nel corso della stor ia. A detta deglieconomisti oggi i cicli di espansione-stagnazione sono messi inconto e il sistema di produzione, visto nella sua globalità,dispone degli anticorpi necessar i per stimolare la r ipresa.

P. - Nessuna riserva da parte sua sulla globalizzazione?

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C. - Sarei contrar io a considerare il mercato come unacategor ia dello spir ito, ma bisogna r iconoscere che laddovenon c’è stato mercato l’economia ha subito un collasso che èmolto di più di una recessione.

P. - Torniamo agli anni ‘70. Lei parlava di una forteespansione economica, tale da indurre alle più rosee previsioniper il futuro...

C. - Sì, ma la situazione si capovolse quanto l’abbondanzadelle merci saturò rapidamente i mercati d’Europa e in attesache se ne costituissero di nuovi, si ebbe una stagnazione delcommercio internazionale. La recessione durò una ventinad’anni (1873-1896) e durante questo per iodo si ebbero deglieffetti collaterali negativi che - non sembri azzardato dir lo -preparano l’Europa al pr imo conflitto mondiale.

P. - Vediamo di ordinare il discorso: nell’800 al rinnovamentotecnologico seguì una seconda rivoluzione industriale, che siespresse in una straordinaria espansione economica e unaconseguente saturazione dei mercati. Di qui la “ grandedepressione” di fine Ottocento con la tragica conseguenza dellaprima guerra mondiale. E’ così?

C. - Se gli stor ici par lano di una guerra per una più equar ipartizione delle colonie direi di sì.

P. - Però gli storici quello che affermano lo dimostrano, non silimitano soltanto a dirlo. Perciò tenti anche lei unadimostrazione che colleghi la “ grande depressione” alla primaguerra mondiale.

C. - Partiamo da una considerazione elementare:potenzialmente l’offer ta di prodotti industr iali è molto alta, ma

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se i mercati europei sono satur i, i prodotti in eccedenza ovengono collocati sui mercati extraeuropei oppure restanoinvenduti. Nel pr imo caso la produzione e conseguentemente iprofitti industr iali var iano in più o in meno a seconda delpotere d’acquisto dei popoli verso cui vengono indir izzati.Ossia, per par lare in concreto, se l’ Inghilterra produce mercipiù di quanto gli inglesi ne sono acquistare, ha sempre lapossibilità di inviare il surplus nelle sue colonie, dovecolonizzator i e parte dei colonizzati costituiscono un mercatoprotetto a tutto beneficio dell’economia inglese. Similmenteper la Francia, il Belgio, l’Olanda e in genere per tutte lepotenze coloniali, che hanno praticamente occupato il mondo.Dove non hanno colonie hanno i protettorati, ossia mercatidove collocare le eccedenze della loro produzione industr iale.Per questo - come accennavo pr ima - si ver ifica al loro internoun cambiamento di mentalità: la colonia non è più un terr itor iodi insediamento o di sfruttamento di mater ie pr ime (o permeglio dire, in parte continua a essere anche questo), ma èvista come un mercato, un mercato planetar io. Appare ovviopertanto che le potenze coloniali costituiscano un bloccoconservatore e tendano a difendere lo status quo con tutti imezzi possibili, anche con la guerra.

P. - Conosce la distinzione dello storico Mommsen tra" imperialismo informale" e " imperialismo formale" ?

C. - Sì, nel suo saggio Società e politica nell'età liberale.Europa 1870-1890, che si può leggere in La trasformazionepolitica nell' Europa liberale 1870-1890 a cura di var i autor ipubblicato di recente, Mommsen attr ibuisce " l' imper ialismoinformale" alle correnti liberali classiche che pr ivilegiavano illibero commercio ed erano contrar ie ad un imper ialismo for te,cioè che prevedesse " l' impiego di notevoli r isorse militar i edamministrative" . Invece, dopo il 1880, prende piede un" imper ialismo formale" , finalizzato alla negazione del

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liberalismo classico in nome dell' interventismo statale. Inpratica, al liberalismo borghese subentrava lo Statointerventista, negatore del libero mercato e depositar io dellaforza con cui acquisire colonie con la fiducia che avrebbero infuturo avuto un'utilità economica.

P. - Parlava prima di blocco conservatore: il sistema dellealleanze che ne derivava sarebbe stato dunque coerente ainteressi economici, piuttosto che a valori ideali contrappostitra “ sistemi democratici” e “ sistemi autoritari” ?

C. - L ’Entente cordiale tra Inghilterra e Francia fu più tardiestesa alla Russia, che francamente non mi pare che sul pianodelle libertà democratiche avesse qualcosa da insegnareall’ I talia, che faceva parte di un’alleanza contrapposta; ancheper questo sono portato a pensare che in caso di guerra nonerano in gioco i sistemi politici, bensì gli interessi economici.

P. - Quindi la contrapposizione sarebbe tra due blocchi, da unaparte gli imperi coloniali e dall’altra le potenze che aspirano adiventare tali. E’ così?

C. - Penso francamente che una simile interpretazione siarealistica, anche se stor ici di indir izzo neoidealistico tendono asottolineare invece altr i aspetti, tipo il progresso dell’ idealeliberale ecc.

P. - Ideali, questi, che non avrebbero rilevanza storica?

C. - Certamente sì, ma a condizione che non siano slegate daibisogni mater iali delle masse. Non si può pretendere che lemasse siano idealiste se sono disoccupate e affamate.

P. - Questo ci ricollega a quanto sosteneva quando parlavadegli sbocchi commerciali: le potenze colonialiste non facevano

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fatica a collocare le loro merci, quindi per esse la guerra nonera una necessità; lo era invece per le potenze prive o quasi dicolonie?

C. - Laddove invece le merci restino invendute diminuiscono laproduzione e i profitti, ma cala anche l’occupazione e con essail potere d’acquisto della popolazione, che a sua volta generaun’ulter iore diminuzione della produzione, aumento delladisoccupazione ecc., in una spirale verso il basso destinato acontinuare fino a quando non interverrà una causa esterna chela blocchi.

P. - Per fare un esempio di “ causa esterna” ?

C. - L ’ intervento dello Stato nel processo di produzioneindustr iale, come in Germania e in parte anche in I talia.Entrambe le nazioni si erano r iunificate da poco ed eranogiunte sulla scena internazionale nel momento in cui buoneterre da spartirsi ormai non ce n’erano più.

P. - Come si spiega allora la ripresa in I talia coi governiGiolitti?

C. - Giolitti capì che anzitutto occorreva r isolvere la cr isisociale che da una ventina d’anni creava gravi problemid’ordine pubblico, problemi che i governi precedenti nonerano r iusciti a circoscr ivere e - come sappiamo - eranosfociati nella tragica repressione del ‘98. Perciò proclamò chelo Stato non doveva schierarsi, nelle lotte tra proletar iato ecapitale, né da una parte né dall’altra, ma doveva mantenerela più assoluta neutralità.

P. - Ma, neutralità o intervento dello Stato per risolvere la crisieconomica?

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C. - Neutralità e intervento in questo caso non si escludono avicenda. Neutralità nella lotta tra capitale e lavoro salar iale eintervento a vantaggio tanto degli operai (legalizzazione deisindacati, pensione di vecchiaia, assicurazione contro gliinfor tuni, limitazione dell’orar io di lavoro, regolamentazionedel lavoro delle donne e dei fanciulli, r iposo festivoobbligator io), quanto del settore industr iale, attraverso ifinanziamenti statali. Insomma, messo “ Marx in soffitta” ,come egli stesso soleva dire (e la scissione del Partito socialistasembrava dargli ragione), in I talia, avvalendosi di una r ipresaeconomica generale dovuta alla r istrutturazione delle industr iee alla razionalizzazione della produzione stessa, si poteronoabbassare i costi di produzione e conseguentemente i prezzi sulmercato.

P. - Che cosa intende per “ ristrutturazione dell’ industria” ?

C. - Se si vuole abbassare i costi mi pare evidente che bisognao abbassare i salar i oppure r idurre i tempi di produzionemediante una tecnologia più avanzata. Sempre nell’ ipotesi chegli altr i costi restino invar iati.

P. - In quale direzione si poté agire?

C. - La pr ima ipotesi era impraticabile e non soltanto persensibilità sociale: diciamo che r idurre i salar i significavar idurre anche il potere d’acquisto degli operai nel momento incui si aveva invece bisogno di un mercato più r icettivo. Vi fu,al contrar io, almeno fino agli inizi del ‘900, un aumento deisalar i reali, in modo che i lavorator i potessero dirottarne unaparte a incrementare i depositi bancar i a disposizione degliimprenditor i o almeno creassero un mercato interno di “ benisuperflui” che alleviasse in parte la cr isi di sovrapproduzione.

P. - Dunque non restava che abbassare i tempi di produzione...

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C. - Così parve anche a Freder ick W. Taylor , un ingegnereamericano il quale, convinto che l’operaio davanti allemacchine perdesse tempo in movimenti inutili, si propose didefinirne esattamente i compiti in modo che tutti i “ tempimorti” fossero scientificamente eliminati a vantaggio dellaproduttività. Nella grande industr ia il taylorismo trovòattuazione nel fordismo. Henry Ford nel 1913 pensò che cisarebbe stato un grande r isparmio di tempo e di danaro seinvece di portare gli uomini al lavoro si fosse portato il lavoroagli uomini, di modo che l’operaio non dovesse più spostarsida una parte all’altra per prendere mater iali e strumenti per ilsuo lavoro. Era nata così l’ idea della catena di montaggio, cher iduceva enormemente i tempi e quindi i costi di produzione;tutto era ordinato scientificamente in modo tale che i pezzilavorati, scorrendo su binar i e altr i tipi di trasportator i,permettessero all’operaio tanto di stare fermo sul posto,quanto di eliminare qualsiasi movimento superfluo. “ L ’operaio— diceva H. Ford — deve fare possibilmente una cosa solacon un solo movimento” . Meglio ancora poi se “ quelmovimento” lo faceva a cottimo.

P. - Quale fu il ruolo dello Stato in questo processo diristrutturazione?

C. - Dal momento che era crollato il capitale industr iale - cioèquei profitti d’ impresa che, reinvestiti, permettonoall’ industr ia di autofinanziarsi - si resero necessar i deglistanziamenti statali a sostegno delle imprese. In altr i termini siaccrebbe in ogni settore economico l’ intervento dello Stato,che per proteggere i prodotti nazionali dalla concorrenzaestera alzò anche le tar iffe doganali...

P. - Con quali conseguenze?

C. - Diciamo che il protezionismo fu più proficuo per le grandi

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potenze coloniali, che in ogni caso avevano sbocchicommerciali assicurati; mediamente lo sviluppo dei paesiindustr ializzati tra il 1900 e il 1914 toccò il 50% .

P. - Perché “ più proficuo” ? A me risulta che in un’ I taliasenza colonie, nello stesso periodo, lo sviluppo industriale fudell’84%, quindi quasi il doppio della media europea. Dov’èl’errore?

C. - Non vi è errore in nessuna delle due affermazioni. Midevo solo spiegare meglio. In I talia, grazie non solo aifinanziamenti dello Stato, ma anche agli investimenti ester i -soprattutto tedeschi - si intensificò l’ industr ializzazione nelsettore siderurgico (acciaier ie di Terni, di Piombino, diSavona, di Bagnoli), nel settore automobilistico (Alfa Romeo,Fiat, Lancia), in quello delle macchine per scr ivere (Olivetti),ma - e qui sono i r isvolti negativi - nel complesso la tar iffadoganale e un mercato asfittico e non competitivodeterminarono un certo r itardo tecnologico, tanto chel’ importazione di macchinar i invece di diminuire aumentò inmisura considerevole. Si aggiunga che la politicaprotezionistica produsse un’ industr ia parassitar ia che potevasostenersi soltanto grazie alla mancanza di concorrenza sulmercato; una volta che questo non r iuscì più ad assorbire laproduzione, r icominciò la cr isi.

P. - E’ possibile stabilire una data dell’ inizio della crisi?

C. - Direi che il boom economico si esaurì intorno al 1907.

P. - E da questa data fino al 1914 il governo italiano nonprese altri provvedimenti per contenere la crisi?

C. - Giolitti pensò che la debolezza economica dell’ I taliader ivasse dalla frantumazione delle imprese, quindi favorì la

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concentrazione industr iale, ma favorì anche - probabilmentesenza voler lo, dal momento che si dichiarava ed effettivamenteera un autentico liberale - la formazione di trust in grado dimonopolizzare la produzione siderurgica, cotoniera, minerar ia,ecc. e capaci di condizionare for temente tanto l’opinionepubblica che gli indir izzi politici dei governi. La guerra libicapr ima e quella mondiale subito dopo nascono anche da qui.

P. - I l condizionamento tanto dei governi quanto dell’opinionepubblica fu un fenomeno esclusivamente italiano?

C. - Direi che fu un fenomeno europeo, anzi mondiale,considerando che Stati Uniti e Giappone erano due grandipotenze che concorrevano for temente alla formazione dellaproduzione industr iale. Naturalmente tale condizionamento èmeno appar iscente (ma c’è) nei paesi di antica tradizioneliberale, mentre è più accentuato negli Stati di recenteformazione (in I talia, in Germania), o che si sono“ occidentalizzati” da poco, come il Giappone. Sono questi ipaesi più aggressivi, ma anche i più frustrati dal non r iuscire atrovare terr itor i liber i da sfruttare sia come fonti di mater iepr ime, sia come sbocchi commerciali.

P. - I l condizionamento di cui parla produce un cambiamentodi mentalità politica rispetto al vecchio liberalismo?

C. - Nella misura in cui nel settore imprenditor iale contasempre di più il capitale finanziar io (cioè il danaro investitodalle banche o dalle holding nazionali o internazionali) esempre di meno quello che proviene dall’autofinanziamentoindustr iale, direi di sì.

P. - Non vedo ancora il nesso tra la politica finanziaria dellebanche o delle grandi holding e la fine del vecchio liberalismo.Può spiegarsi meglio?

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C. - Se le grandi holding sono in grado di spostare ingenticapitali d’ investimento da un settore all’altro, decretando lamorte o il r isanamento di imprese in piena cr isi, a me pareimpossibile che non condizionino tanto i governi quantol’opinione pubblica. E di conseguenza anche i par lamenti, chesono espressione di quella data opinione pubblica.

P. - Se, come sappiamo, la base elettorale si allarga, iparlamenti avrebbero dovuto essere più rappresentativi, quindimeno permeabili a possibili intrusioni da parte della grandefinanza. O no?

C. - In teor ia sì, ma nei fatti le cose andarono diversamente.Nell’Ottocento il par lamento era espresso da pochi elettor i,nobiltà e grande borghesia facevano le leggi pr ima di tutto persé stesse, non esitavano a trasformare il loro “ voto di destra”in “ voto di sinistra” , se il loro interesse personale lor ichiedeva, tanto i benefici di tale trasformismo restavano percosì dire in famiglia. Ora invece una base allargata fino alsuffragio universale espr ime interessi che non sono più soloquelli della grande borghesia, ma anche quelli di operai econtadini, tutta gente che lotta per obiettivi ben diversi daquelli della borghesia, se non addir ittura per la r ivoluzionesocialista. Insomma, il vecchio par lamento, certamente piùcoeso in quanto più coerenti erano gli interessi di chi loeleggeva, non esiste più, al suo posto è subentrato unpar lamento più frammentato, in certi casi più r issoso e indefinitiva più inconcludente.

P. - Se ho ben capito la sua tesi, le vecchie strutture delloStato, ideate per una società politica ristretta, crollano e legrandi holding finanziarie si appropriano, se non nella formaperlomeno nei fatti, del potere perso dal parlamento.

C. - Sì, ma senza trascurare il potere che acquistano anche le

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piazze. Se immaginiamo un potere tr iangolare, diciamo che aitre vertici troviamo la grande finanza, le piazze e il governo.Questo è in grado di intervenire pesantemente nell’economiadel paese e di condizionarne lo sviluppo. Certo non siamoancora al dirigismo statale, che è una prerogativa soprattuttodegli stati totalitar i tra le due guerre mondiali, ma lo Stato cher iprende il controllo dell’economia, e finalizza le sue scelte infunzione della politica che intende perseguire, comincia a farsisentire.

P. - “ Lo Stato riprende il controllo dell’economia” ? era esistitogià in passato qualcosa del genere?

C. - Nel XVI I secolo il mercantilismo aveva portato alla “ Statoimprenditore” in modo analogo a quanto successo nella pr imametà del ‘900.

P. - Be’ , il parallelismo andrebbe fatto con molte più cautele.Dica piuttosto in che senso le piazze acquistano potere.

C. - Diciamo che in precedenza la piazza si muoveva per fare ler ivoluzioni, oppure per protestare contro il governo o ilpadronato, e il più delle volte le sue aspirazioni venivanosoffocate nel sangue; ora invece si organizza per condizionareil governo, che a sua volta prefer isce dialogare direttamentecon le masse anziché col par lamento. Per fare un esempio tuttoitaliano: fino a che punto le manifestazioni degli interventistiinfluirono sulla decisione del governo Salandra di dichiarareguerra all’Austr ia? erano veramente Trento e Tr ieste, chel’Austr ia ci avrebbe concesso senza colpo fer ire, la mater ia delcontendere? oppure l’ interventismo di matr ice ir redentisticacopr iva interessi che avevano radici altrove?

P. - Radici che affonderebbero nei bisogni economici?

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C. - Sappiamo che in caso di vittor ia all’ I talia era statapromessa dalle potenze della Tiplice intesa la possibilità diespandersi nei Balcani, nell’ Impero ottomano e forse in Afr ica.Al di là dei vantaggi immediati che una guerra - r itenuta oltretutto di breve durata - poteva comportare per i cosiddetti“ pescecani di guerra” , arr icchitisi con le commesse militar i,anche l’ I talia sarebbe divenuta una potenza imper ialista,dando in tal modo sfogo a quel “ grosso ingorgo di capitale edi capacità produttiva” senza sbocchi, o con le limitazionidipendenti dalla for te concorrenza estera. Sono d’accordo conHobson quando afferma che la pressione del capitale in taledirezione è un fatto assolutamente incontrovertibile.

P. - Certo “ le contraddizioni del capitalismo” (per dirla collinguaggio marxiano) avranno avuto il loro peso, ma nonpensa che vi possano essere stati anche degli ideali chespinsero l’ I talia a entrare in guerra?

C. - Gli ideali degli interventisti paiono piuttosto nebulosi, secambiano dalla sera alla mattina, ossia dalla necessitàdell’ intervento a fianco degli imper i centrali a quello,diametralmente opposto, di una guerra insieme alle“ democrazie occidentali” . Se penso che la battaglia dellaMarna, e il conseguente arresto della travolgente avanzatadelle armate germaniche in Francia, fa da spartiacque a questasvolta, non mi pare che si tratti di ideali molto sentiti.

P. - Se vogliamo riassumere quanto ha sostenuto finora, mipare che la sua tesi consista in questo: la secondaindustrializzazione provocò una sovrapproduzione di beni diconsumo con gli effetti negativi legati alla saturazione deimercati. Dalla crisi si uscì mediante la ristrutturazioneindustriale, la razionalizzazione del lavoro mirante a ridurre icosti di produzione (ha accennato al taylorismo), laconcentrazione delle industrie favorita in qualche misura

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dall’ intervento dello Stato e dall’ ingresso del capitalefinanziario nella gestione dell’ impresa. I l capitale finanziario asua volta condizionò non solo la produzione, ma anche igoverni, direttamente o attraverso la piazza. Non le pare di averdato all’ imperialismo un’ interpretazione esclusivamenteeconomicistica? Possibile che non vi fossero anche motiviideali, che ovviamente si possono anche non condividere, mache tuttavia abbiano agito, specialmente tra coloro chescendevano in piazza, in una determinata direzione?

C. - Resta da vedere se i “ motivi ideali” cui lei accenna sonoun’elaborazione dello spir ito oppure una r iformulazione dibisogni economici. Certamente che vi fu una culturadell’ imper ialismo, ma mi pare arduo stabilire che cosa vienepr ima, se l’ imper ialismo come “ momento dello spir ito” oppurel’ imper ialismo come “ momento economico” .

P - Soffermiamoci, se preferisce, ancora un attimo sull’aspettoeconomico. Lei condivide, forse senza accorgersene, l'analisi diLenin, secondo il quale l’ imperialismo è la fase suprema delcapitalismo. Vi sono però altri che pensano in modo diverso.Per esempio Joseph Schumpeter, in un brano che lei acclude allasua tesina, analizza il fenomeno e conclude che “ un mondocapitalistico non potrebbe essere un terreno di cultura diimpulsi imperialistici” . Come lo spiega?

C. - Schumpeter si r ifer isce a un mondo capitalistico che nonesiste, un capitalismo puro dove tutte le energie individualivengono consumate se non nella guerra concorrenziale,nell’attività economica o nelle ar ti o nella scienza o nelle lottesociali. Non resterebbe quindi un “ eccesso di energie” dascar icare in guerre imper ialistiche. Dalla fine dell’800 a oggisono accadute molte cose e la seconda guerra mondiale, con laconseguente decolonizzazione, ci ha insegnato per lomeno chequel tipo di imper ialismo, fatto di conquiste terr itor iali, non ha

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più prospettive. Ma, detto questo, siamo sicur i che oggi nonesista imper ialismo?

P - Si riferisce al cosiddetto imperialismo del dollaro o che soio?

C. - Faccio una semplice constatazione: il Sud del mondo èpovero e affamato, e come se non bastasse anche indebitato; ipaesi tecnologicamente sviluppati comprano dai paesisottosviluppati (o “ in via di sviluppo” , come si ama dire con uneufemismo) le loro r isorse (banane, legnami pregiati, ecc.), conconseguenze devastanti sul piano ambientale (si pensi alladeforestazione dell’Amazzonia, dell’ Indonesia, eccetera). Conquali r isultati? Che i paesi pover i sono sempre più pover i equelli r icchi sempre più r icchi. Certamente nel meccanismo c’èqualcosa che non funziona, e sempre a loro svantaggio.Secondo me dove Schumpeter sbaglia è quando par la di“ istinto puro” , che a suo dire nel mondo capitalistico non hasenso.

P - I l “ puro istinto” , che non corrisponda a uno scopo, nelprocesso di razionalizzazione della vita economica, è destinatoa estinguersi. Non mi pare vi sia una contraddizione.

C. - Infatti non c’è contraddizione in termini, però leggiamo ilper iodo successivo, dove si stabilisce un parallelismo tral’ impulso all’ imper ialismo e l’ impulso alla procreazione, chesarebbe attutito, in ogni caso controllato dal processo dirazionalizzazione peculiare della società capitalistica. Quindi -conclude lo studioso austr iaco - “ dobbiamo aspettarci dir itrovar lo - questo processo di razionalizzazione - anche nelcaso dell' impulso imper ialistico; dobbiamo aspettarci chequesto impulso, poggiante sulle necessità più elementar i dellavita fisica, a poco a poco scompaia travolto dalle nuoveesigenze” . Anzitutto l’equivalenza tra impulso alla

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procreazione e impulso all’ imper ialismo non mi pare del tuttoconvincente, anche se in effetti il pr imo nella societàcapitalistica oggi è talmente attutito da far scendere la natalitàpraticamente a zero; eppoi, dove r isulta che l’ impulsoall’ imper ialismo oggi si è attutito? O meglio, “ attutite”appaiono certe pratiche dell’ imper ialismo, quali la conquistaterr itor iale e l’asservimento delle popolazioni, che dopo leatroci esper ienze dell’ultima guerra vengono r ipudiati come“ male assoluto” . Saddam Hussein recentemente è stato punitosul piano ideale - ossia al di là degli interessi economici cheavrebbe potuto ledere - propr io perché ha osato occupare unterr itor io usando metodi non in sintonia con le regole delledemocrazie occidentali, che mi pare abbiano elaborato modipiù sofisticati per governare i loro interessi. Se si stabiliscel’ identità imper ialismo uguale militar ismo diciamo cheSchumpeter ha ragione, anche se l’ inclinazione a “ mostrare imuscoli” non mi pare oggi una pratica del tutto r ipudiata; equesto può essere sufficiente per dimostrare che un “ mondopuramente capitalistico” , in cui l’energia nella guerra sir idurrebbe in energia nel lavoro, più che al mondo della Stor iaappartiene all’universo metafisico dell’ intellettuale austr iaco.

P. - Lei contesta che possa esistere un capitalismo puro...

C. - Se si accetta sul piano stor ico la tesi che possa esistere uncapitalismo puro, non vedo come non si debbano accettarealtre tesi della stessa natura. Che cosa r isponderebbe Schumpeter se per esempio gli si r ibattesse che in un mondopuramente cr istiano non solo non esisterebbero più guerreimper ialistiche, ma neppure fame e ingiustizie sociali? e anzi,per volare basso, nemmeno le liti condominiali?

P. - Cercando di volare al di sopra delle liti di condominio, cidia invece una bibliografia essenziale dell’ imperialismo.

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C. - Fondamentale mi pare il V volume della Storia delle ideepolitiche, economiche e sociali, pubblicato dalla UTET nel1972, dove è possibile reper ire un’ampia bibliografia tantosull’ imper ialismo e che sul colonialismo. Ma l’ impostazione chemi è parsa più interessante è quella di Hannah Arendt, che inLe origini del capitalismo, pubblicato nel 1951, sostiene che laborghesia europea ha dato inizio a un processo diespansionismo imper ialistico che finì per unire strettamenteesigenze del capitalismo finanziar io, spinte antiliberali eantidemocratiche, ideologie e sistemi colonialistici, e perfinolegittimazioni razzistiche. La Arendt, tedesca di or igine ebrea,costretta a emigrare negli Stati Uniti, ovviamente era moltosensibile a quest’ultimo tema.

P. - Certamente sì, ma cerchiamo di concentrarci sul rapportotra espansionismo imperialistico e capitalismo finanziario, poisemmai accennerà alle ideologie antiliberali eantidemocratiche.

C. - In sintesi la studiosa tedesca sostiene che l’ imper ialismonacque quando la classe dominante cozzò contro le limitazioninazionali all’espansione dei suoi affar i.

P. Per “ classe dominante” intende la borghesia?

C. - Non esattamente, per lomeno non tutta la borghesia. Mipare di aver capito che, secondo Hannah Arendt, allaborghesia che produceva beni industr iali per guadagnaredenaro si è sostituita una borghesia, meno numerosa ma moltopiù aggressiva, che produceva denaro attraverso il denaro. Visarebbe stata dunque una mutazione del capitalismo, daindustr iale a finanziar io.

P. - I l capitalismo finanziario porterebbe all’ imperialismo? Ache tipo di imperialismo si riferisce?

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C. - A quel certo tipo di imper ialismo che caratter izzò la pr imametà del Novecento.

P. - Resterebbe da stabilire la saldatura tra gli interessi delcapitale finanziario e quelli più generali dello Stato.

C. - La Harendt sostiene che l’espansionismo dello Stato fuimposto dalla borghesia come fine ultimo della politica estera;e ciò per la semplice ragione che i governi dovevano scegliere:o accettare il sistema capitalistico basato sulla legge delcostante sviluppo industr iale oppure, impedendo tale sviluppo,sacr ificare una notevole componente della r icchezza nazionale.Non vi era altra scelta.

P. - I l che equivale a dire che lo Stato era governato dallaborghesia finanziaria...

C. - Hannah Arendt sostiene che lo Stato decise di tutelare gliinteressi della borghesia finanziar ia estendendo i suoi poter ioltre i confini terr itor iali perché, posto di fronte a una perditaeconomica insostenibile e a un rapido e inaudito aumento delbenessere, non poté optare che per quest’ultimo.

P. - Quali furono le conseguenze di questa “ esportazione dipotere” oltre i confini territoriali?

C. - La pr ima e più grave conseguenza fu che le colonievennero gestite dal braccio armato della borghesia finanziar ia,nel senso che la polizia e le forze armate sfuggirono alcontrollo delle autor ità civili e divennero uno strumento diviolenza...

P. - Di necessaria violenza?

C. - Direi di quel tipo di violenza, non sempre necessar iamente

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fisica, der ivante dalla consapevolezza della propr ia super ior itànei confronti dei colonizzati, di chi si dichiara uomo - e talvoltasuperuomo - r ispetto agli homuncoli degni solo di servire larazza super iore. Anzi alcuni, come gli ebrei e gli zingar i, nonerano degni neppure di servire e andavano quindi eliminatimetodicamente.

P. - E le altre conseguenze di quella che abbiamo definito“ esportazione di potere” ?

C. - L ’altra conseguenza fu ovviamente che la forza siappropr iò della r icchezza; anzi, come scr ive la studiosatedesca, un’ illimitata accumulazione di potere der ivante dallaforza rendeva possibile un’ illimitata accumulazione di capitale.In altr i termini, poiché la r icchezza era vista in costanteaumento, anche la forza doveva aumentare parallelamente allar icchezza. La teor izzazione del binomio forza-r icchezza portòalla concezione imper ialistica dell’espansione come fine a sestessa.

P. - Sarebbe qui la differenza profonda tra imperialismovecchio e nuovo?

C. - L ’ imper ialismo di vecchio tipo, come dicevo pr ima,esportava capitali e operava investimenti all’estero comerimedio di emergenza per essere in condizione di produrre conmaggior i profitti dei beni di consumo e, sia detto per inciso,aveva una sua etica; il nuovo imper ialismo invece chiede allaStato di estendere i suoi poter i oltre i confini nazionali e usaquesto potere per aumentare la sua r icchezza. Se l’espansionedel capitale è vista come una costante dell’economia, alloraanche l’espansione della forza seguirà la stessa linea ditendenza.

P. - Con questa impostazione lo scontro tra imperialismi

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appare inevitabile?

C. - Direi che le due guerre mondiali dimostrano che è statoinevitabile.

P. - Ha parlato di etica del vecchio imperialismo. Può chiariremeglio?

C. - I l vecchio imper ialismo si potrebbe r idurre a puro esemplice colonialismo, e questo a espansione dei profitti.L ’ imprenditore che produce ed esporta beni di consumoincrementa la sua r icchezza, che però non è fine a se stessa, macostituisce un segno benevolo della volontà divina. SecondoMax Weber il calvinista che agisce economicamente vuoleraggiungere il successo quale segno di una predestinazione alui favorevole. La dimensione etica del capitalismo di vecchiotipo era in questa mistura di economia e di religione, dicertezze e di mister i, di salvezza e di eterna dannazione.Insomma era in gioco l’anima del credente, piuttosto che il suoconto in banca.

P. - Alla fine della nostra discussione, vuole fare il puntoconclusivo sulla posizione da lei sostenuta sull’ imperialismo?

C. - La seconda r ivoluzione industr iale saturò il mercato conun eccesso di beni di consumo. Le strategie adottate per usciredalla cr isi furono:

primo, di natura economica (r istrutturazione erazionalizzazione dell’ industr ia, interventi statali, capitalismofinanziar io);

secondo, di natura ideologica (nazionalismo, volontà dipotenza, razzismo).

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Letture commentate

J. A. Hobson, Necessità dell’imperialismo

Noi dobbiamo avere mercati per le nostre manifatture incontinuo sviluppo, dobbiamo avere nuovi sbocchi per gliinvestimenti dei nostr i surplus di capitale1 e per le energie deisurplus demografici, dotati di spir ito di avventura: taleespansione è necessar ia e rappresenta una necessità vitale peruna nazione che possieda una forza di produzioneconsiderevole e in costante aumento come la nostra. Unapercentuale sempre più larga della nostra popolazione si dedicaalla produzione di manufatti e al commercio nelle città, per cuidipende, sia per la propr ia sussistenza sia per il propr iolavoro, dai r ifornimenti alimentar i2 e dalle mater ie pr ime deipaesi stranier i. Per comprare e pagare tutte queste cose, noidobbiamo vendere le nostre merci all’estero. Durante i pr imitre quarti del secolo siamo stati in condizioni di far lo senzadifficoltà attraverso una naturale espansione commerciale con ipaesi del continente e con le nostre colonie, gli uni e le altre digran lunga indietro r ispetto a noi quanto a per izia edesper ienza della produzione di manufatti e nell’esercizio degliscambi commerciali. Fin tanto che l’ Inghilterra mantenne unvir tuale monopolio sui mercati mondiali per certe importanticategor ie di prodotti manufatti, l’ imper ialismo non fu

2 Sui «rifornimenti alimentari» occorre fare una precisazione: se siescludono i tipici «prodotti coloniali» (caffè, tè, zucchero, ecc.),importare da oltreoceano derrate alimentari non era conveniente, poichéle spese di trasporto incidevano a tal punto che i prezzi sul mercato nonerano concorrenziali. Ma quando furono costruite navi veloci e di grandetonnellaggio e fu trovato un metodo per conservare le merci deperibili(inscatolamento o refrigerazione) i prodotti americani, soprattutto,scesero di prezzo e misero in crisi l’agricoltura europea.

1 Londra infatti diventò la capitale finanziaria del mondo. Gliinvestimenti inglesi all’estero raggiunsero il 44% degli investimenti totali.

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necessar io3. Nel corso degli ultimi trent’anni, tale supremazianella produzione dei manufatti e nel commercio dei medesimi èstata for temente scossa: altr i Stati, in particolare la Germania,gli Stati Uniti e il Belgio, si son fatti avanti a rapidissimi passi ese non hanno schiacciato e neppure bloccato l’ incremento delnostro commercio estero, la loro concorrenza sta rendendosempre più arduo disporre con profitto del pieno surplus dellenostre manifatture. Le intrusioni di questi paesi nei nostr ivecchi mercati, e persino nei nostr i possedimenti, ci impongonocon la massima urgenza l’adozione di energiche misure che ciassicur ino nuovi mercati. Tali nuovi mercati devono trovarsi inpaesi finora arretrati, soprattutto nei tropici, dove vivonopopolazioni numerose con possibilità di aumento e di sviluppodei bisogni economici, che i nostr i mercanti e i nostr imanifattur ier i sono in grado di soddisfare. I nostr i r ivalistanno occupando e annettendo terr itor i per scopi analoghi e,una volta che li hanno annessi, li chiudono ai nostr i scambicommerciali4. E’ necessar io usare la diplomazia e le armi dellaGran Bretagna allo scopo di costr ingere coloro che possiedonoi nuovi mercati a trattare con noi: e l’esper ienza insegna che ilmezzo più sicuro per assicurarsi e per sviluppare tali mercati è

4 Durante i periodi di crisi, per salvaguardare la produzione interna, siricorre al protezionismo. Provvedimenti per proteggere i mercati inEuropa furono presi o negli Stati in cui l’industria era ancora debole(come in Italia) oppure dove i mezzi di produzione eranotecnologicamente obsoleti (come in Inghilterra). Poiché ovviamente alprotezionismo si risponde con misure protezionistiche anche da parte diquei paesi che avrebbero maggiore interesse al libero scambio, ilprotezionismo finisce per generalizzarsi.

3 Come si vede per Hobson c’è distinzione tra colonizzazione eimperialismo. La prima si caratterizzava per l’occupazione di territori «dipopolamento» (come nel Nordamerica) oppure di zone costiere dirifornimento di materie prime e di punti strategici per il controllo deimari; l’imperialismo invece si potrebbe intendere come un’estensionedella propria nazione fino a sovrapporsi ad altre, spesso ritenute inferiori — o comunque da avviare allo sviluppo secondo modelli culturalielaborati nella madrepatria.

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quello di stabilire protettorati5 oppure di annettere deiterr itor i. L ’attuale valore di questi mercati non deve esserepreso come una prova conclusiva dell’economia di una politicadel genere: il processo con cui si educano bisogni più alti, chenoi siamo in condizione di soddisfare, è di necessità unprocesso graduale e il costo di un imper ialismo siffatto deveessere considerato come un’uscita di capitale, i cui fruttisaranno raccolti dai nostr i poster i. Può darsi che i nuovimercati non siano grandi, ma essi costituiscono utili e comodisbocchi per l’eccesso delle nostre grandi industr ie tessili emetallurgiche e, una volta che le grosse comunità asiatiche eafr icane dell’ interno siano raggiunte, ci si può attendere, comerisultato, una rapida espansione degli affar i commerciali.

Di gran lunga più grande e più importante è la pressione delnostro capitale verso settor i esterni di investimento. Inoltrementre i produttor i di manufatti e i commercianti sono bencontenti di trattare con Stati ester i, per gli investitor i simanifesta una tendenza for tissima a lavorare nel senso di unaannessione politica di paesi che consentono loro gli investimentipiù speculativi. La pressione del capitale è un fattoassolutamente incontrovertibile. Rilevanti r isparmi vengonorealizzati, che non possono trovare vantaggioso investimentonel nostro paese: essi devono, di conseguenza, trovare impiegoaltrove ed è propr io per il profitto della nazione chedovrebbero essere impiegati nella misura più ampia possibilein regioni dove possano essere utilizzati nell’apr ire nuovimercati al commercio inglese e nuovo impiego alle forzeimprenditor iali inglesi.

Per quanto costoso, per quanto r ischioso questo processo diespansione imper iale possa essere, è indispensabile allacontinuità dell’esistenza e del progresso del nostro paese: senoi lo abbandoniamo, dovremo accontentarci di cedere lo

5 Sono Stati formalmente indipendenti, di fatto controllati dall’esterno.

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sviluppo del mondo ad altre nazioni, le quali inter fer irannodovunque con il nostro commercio e giungeranno persino ainfiacchire i mezzi a nostra disposizione, che ci assicurano orale forniture alimentar i e le mater ie pr ime necessar ie permantenere la nostra popolazione. Ne consegue, dunque, chel’ imper ialismo non va visto come una scelta ma come unanecessità6 .

(John Atkinson Hobson, Imperialism. A study, pubblicato nel1902)

Qui Hobson traccia un quadro dell’ideologia dominante inquesto periodo, indicando la necessità dell’imperialismoinglese conseguente allo sviluppo industriale del suo paese. L’Inghilterra - sostiene lo studioso -, se non vuole perdere lasupremazia industriale a favore di altri stati (Germania, StatiUniti e Belgio) che si sono “fatti avanti a rapidissimi passi” ehanno ridimensionato il commercio estero britannico, devedisporre di nuovi mercati in paesi finora arretrati ma connumerosa popolazione in grado, nel tempo, di assorbire ilsurplus delle manifatture inglesi. E anche se apparediscutibile l’attuale importanza di un mercato, bisogna sapereattendere che l’educazione a beni di consumo non di primanecessità si compia, perciò il costo di un imperialismo siffattodeve essere considerato come “un investimento di capitali, icui frutti saranno raccolti dai nostri posteri”.Fin qui questo tipo di investimenti potrebbero essereconsiderati alla stregua degli odierni investimenti all’estero,sennonché la “pressione del capitale” non può esaurirsi inuna pura e semplice commercializzazione di manufatti conpaesi terzi, ma pretende che per “gli investimenti piùspeculativi”, ossia per quel tipo di investimenti destinati aprodurre alti profitti, vi sia l’annessione politica dei paesi che

6 Il rapporto tra capitalismo e imperialismo è un problema che è statomolto discusso ed e tuttora un argomento scottante per i significatipolitici (comunismo/ anticomunismo) di cui si può caricare. In T. Kemp,Teorie dell’imperialismo. Da Marx a oggi, Torino, Einaudi, 1969, sonoraccolti i più importanti contributi sul dibattito in questione.

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ne fruiscono. Di qui la necessità dell’imperialismo, che perHobson è “indispensabile alla continuità dell’esistenza e delprogresso” del suo paese. E’, insomma, un dovere, non unascelta.

V. I. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo

Dobbiamo ormai tentare di sintetizzare quanto sin qui abbiamodetto intorno all’imperialismo e di concludere. L’imperialismosorse dall’evoluzione e in diretta continuazione delle qualitàfondamentali del capitalismo in generale. Ma il capitalismodivenne imperialismo capitalistico soltanto a un determinato edassai alto grado del suo sviluppo, allorché alcune qualitàfondamentali del capitalismo cominciarono a mutarsi nel loroopposto, quando pienamente si affermarono e si rivelarono isintomi del trapasso ad un più elevato ordinamento economico esociale. In questo processo vi è di fondamentale, nei rapportieconomici, la sostituzione dei monopoli capitalistici alla liberaconcorrenza. La libera concorrenza è l'elemento essenziale deicapitalismo e della produzione mercantile in generale; ilmonopolio è il diretto contrapposto della libera concorrenza. Mafu proprio quest'ultima che cominciò sotto i nostri occhi atrasformarsi in monopolio creando la grande produzione,eliminando la piccola industria, sostituendo alle grandi fabbrichealtre ancor più grandi, spingendo tanto oltre la concentrazionedella produzione e del capitale che da essa sorgeva e sorge ilmonopolio, cioè i cartelli, [ ... ], i trust, fusi con il capitale di unpiccolo gruppo di una decina di banche che manovrano miliardi.Nello stesso tempo i monopoli, sorgendo dalla liberaconcorrenza, non la eliminano, ma esistono con essa e al disopradi essa, originando così una serie di aspre e violentecontraddizioni, attriti e conflitti. Il sistema dei monopoli è ilpassaggio dal capitalismo ad un ordinamento superiore. Se sivolesse dare la più concisa definizione possibiledell'imperialismo, si dovrebbe dire che l'imperialismo è lo stadiomonopolistico del capitalismo. Tale definizione conterrebbel'essenziale, giacché da un lato il capitale finanziario è il capitalebancario delle poche grandi banche monopolistiche, fuso coicapitale delle unioni monopolistiche industriali, e d'altro lato la

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ripartizione dei mondo significa passaggio dalla politica coloniale,estendentesi senza ostacoli ai territori non ancor dominati danessuna potenza capitalistica, alla politica coloniale del possessomonopolistico della superficie terrestre definitivamente ripartita.

[Vladimir I. Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo,Roma, Editori Riuniti, 1964]

Lenin, nel saggio L'imperialismo fase suprema delcapitalismo, pubblicato a Zurigo nel 1916 e ristampato nel1917 a Pietrogrado, sostiene la tesi dell'imperialismo come"stadio monopolistico del capitalismo". Sarà questa la fase,secondo il leader bolscevico, in cui matureranno i tempi dellarivoluzione proletaria, che non scoppierà simultaneamente intutto il mondo, ma, visto il difforme sviluppo del capitalismo, làove l'anello imperialista risulterà più debole. Dal socialismo inun solo Paese si passerà, poi, a tutto il mondo.Lenin, nel passo qui riprodotto, sottolinea come dalla fusionetra capitale finanziario e capitale industriale sia nata unapolitica monopolistica, finalizzata alla spartizione della terra,completando così il passaggio dalla libera concorrenza almonopolio capitalistico.

J. Schumpeter, Le radici psicologiche dell'imperialismosecondo un filosofo dell'economia

Svincolati dalle rigide norme di epoche trascorse,dall'ambiente che per secoli li aveva circondati vincolandoli einsieme proteggendoli, dalle antiche associazioni di villaggio, dimaniero, di gilda, spesso dalla famiglia nel senso più lato;separati dalle cose fra le quali erano vissuti un anno dopo l'altro,dall'infanzia fino alla vecchiaia - attrezzi, casa, contrada - especialmente dal suolo; costretti a provvedere a se stessi con leloro forze, presi nella logica spietata della corsa al guadagno,pure gocce nell'oceano della vita della grande industria, espostialle inesorabili pressioni della concorrenza, liberi dal controllo dimodi di pensare antichi e dal peso di istituti ed organismi che

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nell'ambito del villaggio, del maniero e della gilda ne erano iveicoli e i tutori, estraniati dal vecchio mondo e impegnati acostruirne uno nuovo - meccanizzato e specializzato -, tuttiquesti tipi sociali dovevano inevitabilmente democratizzarsi,individualizzarsi e razionalizzarsi: democratizzarsi, perché alquadro di posizioni di forza consacrate dal tempo ne andavasubentrando uno, generato dalla vita industriale, di mutamentocontinuo; individualizzarsi, perché possibilità soggettive diideazione e creazione andavano sostituendosi a un insieme didati oggettivi immutabili; razionalizzarsi, perché la labilità di tuttele posizioni economiche subordinava sempre più la lorosopravvivenza ad un ininterrotto processo di decisionicoscientemente razionalistiche, e metteva in aspro risalto taledipendenza. Formatisi alla scuola del razionalismo economico,questi individui non potevano permettere a nessuna sfera dellavita di sottrarsi al generale processo di razionalizzazione, eassunsero nei confronti della struttura sociale, dello Stato, delleclassi dominanti, un atteggiamento nettamente critico. Le ormedi questo processo sono incise in ogni pagina della civiltàmoderna, i cui tratti fondamentali esso spiega. Tutte cose ben note e riconosciute in tutto il loro peso; non dirado, anzi, esagerate. La loro applicazione al nostro tema èchiara. Si tratta di uno sviluppo sfavorevole a tutto ciò che èpuramente istintivo, e in quanto soltanto istintivo. Esso creaun'atmosfera socio-psicologica adeguata alle forme economichemoderne, in cui le disposizioni ereditate, tradizionali, solo perchéereditate e tradizionali, non sopravvivono più che non possanosopravvivere le forme di mestiere trasmesse di padre in figlio.Esattamente come queste si conservano nella sola misura in cuivengono continuamente «riadattate», così le tendenze istintivesi mantengono unicamente in quanto le condizioni che diederoloro vita sussistano, o in quanto l'«istinto» in questione tragganuova ragione d'essere dalle condizioni nuove. L'«istinto» che èpuro istinto, che non corrisponde a uno scopo, si estingue conrelativa rapidità nel mondo capitalistico, così come vi ècondannata a morte precoce un'impresa economica inefficiente.Questo processo di razionalizzazione si vede all'opera perfinonel caso degli istinti più imperiosi, per esempio nei fatti dellaprocreazione. Dobbiamo quindi aspettarci di ritrovarlo anche nelcaso dell'impulso imperialistico; dobbiamo aspettarci che questo

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impulso, poggiante sulle necessità più elementari della vitafisica, a poco a poco scompaia travolto dalle nuove esigenze. Vi si aggiunge un altro fattore: l'economia concorrenzialeassorbe tutte le energie degli individui, a tutti i livelli economici.Applicazione costante, vigile attenzione, energia concentratasono condizioni di sopravvivenza nel suo ambito: prima di tutto,nelle professioni specificamente economiche; in secondo luogo,in altre attività organizzate sul loro modello. Qui, un eccesso dienergia da scaricare nella guerra e nella conquista, e tale daalimentarne il gusto, è assai meno riscontrabile che inqualunque società precapitalistica. La stessa energia eccedentetrova perlopiù sfogo nell'attività economica, dando origine allasua più brillante manifestazione - il capitano di industria - ;mentre per il resto si rivolge alle arti, alla scienza, alle lottesociali. In un mondo puramente capitalistico, quella che untempo era energia nella guerra si ridurrebbe a semplice energianel lavoro, in ogni sorta di lavoro. E le guerre di conquista e leavventure di una politica estera attivistica apparirebbero nellaluce di perturbamenti sgradevoli, distruttivi del senso della vita; di aberrazioni dai compiti ritenuti «veri» in quanto e perchéabituali.

Perciò un mondo capitalistico non potrebbe essere unterreno di cultura di impulsi imperialistici.

[Joseph .A. Schumpeter, Sociologia dell'imperialismo, inAntologia di scritti a cura di M. Messori, Bologna, Il Mulino,1984]

Secondo Joseph Schumpeter l'imperialismo non è la "fasesuprema del capitalismo", come sosteneva Lenin, semmai lafase iniziale di un capitalismo non ancora depurato dei suoielementi "atavici". Per chiarire il concetto, ogni società —scrive il filosofo — ha delle esigenze vitali che si consolidanoin strutture culturali, abitudini psichiche e, in sensoeconomico, in determinati modi di produzione. Nelle epochepassate tali "esigenze vitali" si tradussero spesso in istintiaggressivi verso altri e produssero guerre imperialistiche (leguerre di Luigi XIV, per esempio). Con l'industrializzazioneperò si crearono nuovi tipi sociali, quali i capitani d'industria, iquali imposero progressivamente una loro visione del mondo

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che a poco a poco divenne cultura dominante. In questanuova cultura, quella appunto capitalistica, le "esigenze vitali"furono dirottate in altre direzioni (guadagno, successoindividuale) e ininfluente si rivelò la conquista di territori persoddisfare un impulso "che non corrisponde a uno scopo".Qualora impulsi di questo tipo si riscontrino in una societàcapitalistica, essi vanno interpretati come residui del passato(è in questo senso che Schumpeter parla di "atavismo") che,in un capitalismo "puro", sono destinati a scomparire. Eccoperché l'imperialismo sarebbe, secondo il filosofo austriaco,una distorsione del capitalismo, e non un suo prodotto.

M. Weber, Le origini protestanti del capitalismo

Cercheremo ora di illustrare ancora, in modo specifico, i punti incui la concezione puritana della professione e l'esigenza di unacondotta di vita ascetica dovevano influenzare direttamente losviluppo dello stile di vita capitalistico. L'ascesi si rivolge contutta la sua forza, come abbiamo visto, soprattutto contro unacosa: il godimento spontaneo dell'esistenza e delle gioie cheessa può offrire. [...] La società monarchico-feudale proteggeva i«desiderosi di divertimenti» contro la nascente morale borghesee la conventicola ascetica ostile all'autorità, così come oggi lasocietà capitalistica suole difendere i «volonterosi di lavorare»contro la morale di classe degli operai e il sindacato ostileall'autorità. Di fronte a ciò i Puritani sostenevano il loro caratterespecifico più decisivo: il principio di una condotta di vita ascetica.[...]L'ascesi protestante intra-mondana - così possiamo senz'altroriassumere ciò che abbiamo detto finora - agì dunquepotentemente contro il godimento spontaneo del possesso erestrinse il consumo, specialmente il consumo di lusso. D'altraparte essa liberò nel risultato psicologico, l'acquisizione dei benidagli ostacoli dell'etica tradizionalistica, spezzò le catenedell'aspirazione al guadagno non soltanto legalizzandola, maconsiderandola addirittura (nel senso che abbiamo illustrato)come voluta da Dio. La lotta contro i piaceri della carne el'attaccamento ai beniesteriori era una lotta non già contro l'acquisizione razionale [ ... ]bensì contro l'impiego irrazionale dei possesso. Ma questo

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consisteva soprattutto nell'apprezzare come un valore le formeostensibili dei lusso, condannabili in quanto divinizzazione dellacreatura, che erano connaturate alla sensibilità feudale, anzichél'impiego razionale e utilitario, voluto da Dio, per gli scopi di vitadei singolo e della collettività. Al possidente essa voleva imporrenon la macerazione, ma l'uso dei suo possesso per cosenecessarie e di utilità pratica. Il concetto di comfort delimita inmodo caratteristico l'ambito delle destinazioni dei possesso lecitedal punto di vista etico, e naturalmente non è un caso che losviluppo dello stile di vita che si connette con quel concetto siastato osservato prima e più chiaramente proprio tra irappresentanti più coerenti di tutta questa concezione della vita: iQuaccheri. Ai fronzoli e al lustro della pompa cavalleresca che,poggiando su una base economica poco solida, preferiscel'eleganza meschina alla sobria semplicità, essi contrappongonocome ideale la pulita e solida comodità della home borghese.Dal lato della produzione della ricchezza economico-privatal'ascesi combatteva contro l'ingiustizia così come contro ognicupidigia puramente impulsiva. [...]Ma qui l'ascesi era la forza «che vuole sempre il bene e creasempre il male» - il male nel suo senso, cioè il possesso e le suetentazioni. Infatti non soltanto essa vedeva - d'accordo conl'Antico Testamento e in piena analogia con la valutazione eticadelle «opere buone» - nell'aspirazione alla ricchezza come scopoil colmo dei riprovevole, e nella conquista della ricchezza comefrutto dei lavoro professionale la benedizione di Dio; ma, cosaancor più importante, la valutazione religiosa del lavoroprofessionale mondano indefesso, costante, sistematico come ilpiù alto mezzo ascetico e nello stesso tempo come la confermapiù sicura e visibile dell'uomo rinato e della genuinità della suafede costituiva la leva più potente che si potesse pensare perl'espansione di quella concezione della vita che abbiamo quidefinito come lo «spirito» dei capitalismo. E se noi combiniamoquella restrizione dei consumo con questoscatenamento dell'aspirazione all'acquisizione, il risultatoesteriore è ovvio: la formazione dei capitale attraverso lacostrizione ascetica al risparmio.

[Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, inSociologia della religione, Vol. I, Comunità, Milano, 1982]

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Max Weber, uno dei grandi padri della sociologia, è ilsostenitore della celebre quanto discussa tesi secondo cuil’etica protestante dell’ascesi e del lavoro, in particolare quelladel calvinismo, sarebbe all’origine del capitalismo. Secondo Irigidi parametri dell’etica protestante non è ammissibile “ilgodimento spontaneo dell’esistenza e delle gioie che essapuò offrire”. Questa ascesi intra-mondana porta allarestrizione del consumo, al risparmio e a vedere nellaricchezza e nel lavoro professionale i segni della benedizionee dell’elezione di Dio. Da questa miscela, sempre secondoWeber, non poteva che scaturire il capitalismo.

H. Arendt, L’imperialismo ha per scopo l’accumulazione dicapitale finanziario

L’imperialismo nacque quando la classe dominantecozzò contro le limitazioni nazionali dell'espansione dei suoiaffari. La borghesia si dedicò alla politica spinta dalla necessitàeconomica; poiché, se non voleva buttare a mare il sistemacapitalistico, basato sulla legge del costante sviluppo industriale,doveva imporre questa legge ai rispettivi governi proclamandol’espansione come fine ultimo della politica estera.

Con la parola d’ordine «l'espansione per l’espansione»cercò di indurre i governi nazionali a posi sul piano della politicamondiale7 [...]

I vari governi consideravano con diffidenza la crescentetendenza a trasformare gli affari in una questione politica e a

7 Nella parte omessa del brano la Arendt sostiene che in passato laclasse dominante non riuscì mai del tutto a convincere i governi adaccettare la tesi dell’espansionismo fine a se stesso, poiché si creòsempre un equilibrio naturale tra «imperi concorrenti»; la competizioneera pertanto considerata un residuo del passato che perdurava nellaconvinzione liberale che la libera concorrenza stabilisseautomaticamente i propri limiti, proteggendo il «gioco delle libere forze»e impedendo che un concorrente liquidasse tutti gli altri.

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identificare gli interessi economici di una categoria relativamenteristretta con gli interessi nazionali veri e propri. Ma sembrava chel’unica alternativa all’intervento dello stato fosse il deliberatosacrificio di una notevole componente della ricchezza nazionale.Solo con l'espansione degli strumenti di potere si potevanormalizzare il movimento degli investimenti all'estero,reinserendo nel sistema economico della nazione le speculazionicol capitale superfluo, che minacciavano di inghiottire in un giocod'azzardo tutti i risparmi. Lo stato estese il suo potere oltre iconfini territoriali perché, posto di fronte alla scelta fra unaperdita economica insostenibile e un rapido inaudito aumento delbenessere, non poté optare che per quest'ultimo.

La prima conseguenza dell'esportazione di potere fu chegli strumenti statali di violenza, la polizia e le forze armate, chenell'ambito della nazione erano soggette al controllo delle autoritàcivili, si arrogarono le prerogative di rappresentanti nazionalinelle colonie, dove erano state dislocate come custodi deicapitale investito. Qui, in regioni arretrate senza industrie eorganizzazione politica, dove la violenza aveva più libertàd'azione che in qualsiasi paese occidentale, si consentì allecosiddette leggi dei capitalismo di diventare realtà. L'idea fissadella borghesia di ottenere che il denaro generasse denaro, comegli uomini generano uomini, era rimasta un orribile sogno finché ildenaro aveva dovuto percorrere la lunga via dell'investimentonella produzione; il denaro non aveva mai generato denaro, magli uomini avevano prodotto beni e guadagnato denaro. Il segretodella nuova felice realizzazione stava nel fatto che le leggieconomiche non ostacolavano più l'avidità delle classi abbienti. Ildenaro poteva finalmente generare denaro perché la forza, conassoluto disprezzo di tutte le leggi, economiche oltre che etiche,poteva appropriarsi della ricchezza. Un'illimitata accumulazionedi potere rendeva possibile un'illimitata accumulazione dicapitale.

L'esportazione di capitale e gli investimenti all'estero, cheda principio erano stati un rimedio d'emergenza, diventarono unacaratteristica permanente di tutti ì sistemi economici, appenavennero protetti dall'esportazione di potere statale. Laconcezione imperialistica dell'espansione come fine a se stessa,e non come mezzo temporaneo, fece la sua comparsa nelpensiero politico quando divenne evidente che una delle più

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importanti funzioni dello stato nazionale sarebbe stata la costanteestensione dei potere. I funzionari coloniali incaricati diamministrare questo potere formarono ben presto un grupposeparato in seno alla collettività nazionale e, pur svolgendo laloro attività lontano dalla madrepatria, esercitarono una notevoleinfluenza sul suo corpo politico. Poiché non erano in fondo altroche funzionari della violenza, ragionavano esclusivamente intermini di politica di potenza. Furono i primi a sostenere comegruppo, sulla base delle loro esperienze, che la forza eral'essenza di ogni struttura politica.

(Hannah. Arendt, Le origini del totalitarismo, Comunità, Milano,1967)

Anche Hannah Arendt, studiosa tedesca costretta a emigrarenegli Stati Uniti perché ebrea, lega l’imperialismoall’espansione economica della borghesia finanziaria, in gradodi condizionare i governi affinché identifichino gli interessi diuna categoria piuttosto ristretta con gli interessi nazionali. LoStato pertanto fu costretto, per non perdere una notevolecomponente della ricchezza nazionale, a una «espansionedegli strumenti di potere» al di fuori dei propri confini,cosicché polizia e forze armate si arrogarono le prerogative dirappresentanti nazionali nelle colonie, dove avevano ilcompito di custodire il capitale investito. In passato gliinvestimenti di capitali erano indirizzati a produrre dei beniche portavano profitto, ora invece il denaro produce denaro.Tale mutazione del capitalismo è associata, secondo la tesidella Arendt, a una rottura delle leggi sia economiche cheetiche, che non ostacolano più l’avidità delle classi abbienti,tese a una «illimitata accumulazione di capitale». Ma tale“accumulazione di capitale” è resa possibile soltantoattraverso l’appoggio dello stato nazionale, che con la suaillimitata accumulazione ed estensione del potere garantisceun’illimitata accumulazione di ricchezza. La concezioneimperialistica dell’espansione è dunque fine a se stessa e laforza diventa l’essenza di ogni struttura politica.

G. Pascoli, La grande Proletaria

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La grande Proletaria si è mossa.Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in Patria eranotroppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltrealpi e oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzarterrapieni, a gettar moli, a scavar carbone, a scentar8 selve, adissodare campi, a iniziare culture, a erigere edifizi, ad animareofficine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare tutto ciò cheè più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò piùdifficile ancora: ad aprire vie nell'inaccessibile, a costruire cittàdove era la selva vergine, a piantar pometi, agrumeti, vignetidove era il deserto; e a pulire scarpe al canto della strada.Il mondo li aveva presi a opra9 i lavoratori d'Italia; e più neaveva bisogno, meno mostrava di averne, e li pagava poco e litrattava male e li stranomava10 [ ... ] .Così queste opre11 tornavano in Patria poveri come prima epeggio contenti di prima, o si perdevano oscuramente nei gorghidelle altre nazionalità.Ma la grande Proletaria ha trovato luogo12 per loro: una vastaregione bagnata dal nostro mare, verso la quale guardano, comesentinelle avanzate, piccole isole nostre; verso la quale siprotende impaziente la nostra isola grande, una vasta regioneche già per opera dei nostri progenitori fu abbondevole l'acque edi messi, e verdeggiante d'alberi e giardini; e ora, da un pezzo,per l'inerzia di popolazioni nomadi e neghittose, è per gran parteun deserto. Là i lavoratori saranno, non l'opre, mal pagate mal pregiate malnomate, degli stranieri, ma, nel senso più alto e forte delleparole, agricoltori sul suo, sul terreno della Patria; non dovranno,il nome della Patria, a forza, abiurarlo13, ma apriranno vie,colteranno le terre, deriveranno acque, costruiranno case,faranno porti, sempre vedendo in alto agitato dall'immensopalpito dei mare nostro il nostro tricolore.E non saranno rifiutati, come merce avariata, al primo approdo; e

13 rinnegarlo

12 “un posto al sole”, come avrebbe detto più tardi Mussolini

11 operai, lavoratori

10 storpiava i nomi, li offendeva

9 assunti a giornata

8 tagliare, abbattere

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non saranno espulsi, come masnadieri, alla prima loro protesta; enon saranno, al primo fallo d'un di loro, braccheggiati inseguitiaccoppati tutti, come bestie feroci.Veglieranno su loro le leggi alle quali diedero il loro voto.Vivranno liberi e sereni su quella terra che sarà unacontinuazione della terra nativa, con frapposta la strada vicinaledel mare. Troveranno, come in Patria, a ogni tratto le vestigia deigrandi antenati.Anche là è Roma.[...]Ora l'Italia, la grande martire delle nazioni, dopo solicinquant'anni ch'ella rivive, si è presentata al suo dovere dicontribuire per la sua parte all'umanamento e incivilimento deipopoli; al suo diritto di non essere soffocata e bloccata nei suoimari; al suo materno ufficio di provvedere ai suoi figli volonterosiquel che sol vogliono, lavoro; al suo solenne impegno coi secoliaugusti delle sue due Istorie, di non essere da meno nella suaterza Era di quel che fosse nelle due prime; si è presentatapossente e serena, pronta e rapida, umana e forte, per mare, perterra e per cielo.

(Giovanni Pascoli, La grande Proletaria si è mossa, in Prose,vol.1, Milano, Mondadori, 1946)

Giovanni Pascoli si interessò di politica solamente negli annigiovanili, ma dopo aver scontato qualche mese di carcere per“manifestazione sediziosa”, preferì dedicarsi alla letteratura eall’insegnamento. Ritornò alla politica nel 1911, in seguito allaguerra contro l’impero ottomano per la conquista della Libia,con questo discorso pubblicato sulla “Tribuna” il 27 novembredello stesso anno. La metamorfosi di Pascoli, dal socialismo antimperialistaall’adesione alla politica espansionistica dell’Italia, si spiega inparte con la sua poetica del “nido” domestico, i cuicomponenti sono fratelli e devono amarsi, non combattersi; lapatria altro non è che un “nido”, una famiglia allargata,all’interno della quale non può esservi “lotta di classe”, lottache semmai dev’essere trasferita all’esterno: «è la lotta a chigiunge prima allo stendardo nemico, a chi prima lo afferra, achi prima muore». I nemici naturali dell’Italia “proletaria” sono

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dunque gli imperi coloniali contro cui è lecito lottare perstrappare loro delle terre dove poter inviare i nostri lavoratoriche non si sentano più sfruttati e derisi dagli stranieri e doveanzi vivano liberi e sereni, soggetti soltanto alle leggi che lorostessi hanno votato.

G. Le Bon, L’individuo nella folla

Annullamento della personalità cosciente, predominio dellapersonalità inconscia, orientamento determinato dallasuggestione e dal contagio dei sentimenti e delle idee in un unicosenso, tendenza a trasformare immediatamente in atti le ideesuggerite, tali sono i principali caratteri dell'individuo in una folla.Egli non è più se stesso, ma un automa, incapace di esserguidato dalla propria volontà.Per il solo fatto di appartenere a una folla, l'uomo scende dunquedi parecchi gradini la scala della civiltà. Isolato, era forse unindividuo colto; nella folla, è un istintivo, e dunque un barbaro[...].Ecco perché vediamo una giuria emettere verdetti che ciascungiurato singolarmente disapproverebbe. Ed un'assembleaparlamentare adottare leggi e provvedimenti che ciascuno deisuoi membri condannerebbe in privato [...]. Possiamo concludere, dalle osservazioni precedenti, che la follaè sempre intellettualmente inferiore all'uomo isolato. Ma dalpunto di vista dei sentimenti, e delle azioni determinate da talisentimenti, essa può, a seconda delle circostanze, esseremigliore o peggiore. Tutto dipende dal modo in cui la sisuggestiona. Ecco il fatto trascurato dagli scrittori che hannostudiato le folle soltanto dal punto di vista criminale. Le follespesso sono criminali, certamente, ma spesso anche eroiche. Sipossono condurre facilmente alla morte per il trionfo di una fedeo di una idea. Si possono accendere d'entusiasmo per la gloria eper l'onore. Si possono trascinare, quasi senza pane e senz'armi,come al tempo delle Crociate, a liberare dagli infedeli il sepolcrodi un Dio, o come, nel '93, a difendere il suolo della patria.Eroismi evidentemente un po' incoscienti, ma è proprio con talieroismi che si fa la storia. Se si dovessero mettere all'attivo deipopoli soltanto le grandi imprese freddamente ragionate, gli

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annali del mondo ne registrerebbero ben poche [...].Non appena un certo numero di esseri viventi sono riuniti - sitratti di una mandria di animali o di una folla d'uomini - ricercanod'istinto l'autorità di un capo, di un trascinatore.Nelle folle umane, il capo ha un compito importante. La suavolontà costituisce il nucleo attorno al quale si formano e siidentificano le opinioni. La folla è un gregge che non può fare ameno di un padrone.Il prestigio è in realtà una sorta di fascino che un individuo,un'opera o una dottrina esercitano su di noi.Un fascino che paralizza tutte le nostre facoltà critiche e ci colmadi stupore e di rispetto. I sentimenti così provocati sonoinesplicabili, come tutti i sentimenti, ma probabilmentesomigliano alla suggestione subita da un soggetto magnetizzato.Il prestigio è la molla più forte di ogni potere. Gli dèi, i re e ledonne non avrebbero mai regnato senza di esso.

[Gustave Le Bon, Psicologia delle folle, trad. G. Villa, Milano,Longanesi, 1970]

La psicologia dei fenomeni sociali di massa è oggetto distudio della sociologia e, naturalmente, della psicologia. Frale varie opere sull’argomento costituisce un punto diriferimento ineludibile quella del medico francese Gustave LeBon, Psicologia delle folle, pubblicata nel 1895. Secondol’autore l’individuo, nella folla, modifica strutturalmente i suoicomportamenti, che contribuiscono al formarsi di un’animacollettiva priva però di effettiva autonomia. Infatti, sempresecondo Le Bon, l’individuo perde, nella massa, capacitàcritica, consapevolezza e un rapporto equilibrato tra pensaree agire. Un ruolo decisivo sulla folla lo gioca, naturalmente, illeader, la cui volontà “costituisce il nucleo attorno al quale siformano e si identificano le opinioni”.

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NOTA BIBLIOGRAFICA

La bibliografia sull’ imperialismo è sterminata. Si consigliatuttavia di leggere, oltre agli autori citati nel testo, almeno ilsaggio di T. Kemp, Teorie dell'imperialismo, Torino, Einaudi,1969 e per ulteriori approfondimenti AA.VV., Studi sullateoria dell'imperialismo. Dall'analisi marxista alle questionidell'imperialismo contemporaneo, Torino, Einaudi, 1977.

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SCHEMI

L ' i m p e r i a l i s m ocome fenomeno

politico-economicoe c u l t u r a l e

materie coinvolte:

Storia FilosofiaI ta liano

H o b s o n

S c h u mpeter

L e n i n

N i e t z s c h eS p l e n g e r

W e i l

A r e n d t

P a s c o l i

per au t or i

W e b e r

L e B o n

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SISTEMA INDUSTRIALE

modernizzazione

aumento della

produzione

nuove fontienergetiche

espansione dei mercati

saturazionedei mercati

c o n t r a z i o n e

di produzione e manodopera

RECESSIONE ECONOMICA

INTERVENTO DELLO STATO

E

delle infrastrutture

II^ riv. industriale

ESPANSIONE DEL

SVILUPPO DI SCIENZA E TECNICA

GRANDE DEPRESSIONE

(1873-1896)

disoccupazione

scioperi

emigrazione

INTERVENTO DELLE BANCHE

ripresa economica

(1896-1907)

necessità di ampliare i mercati

IMPERIALISMO

(CAPITALE FINANZIARIO)(CAPITALE STATALE)