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Pagina 1 MODULO DEDICATO AL TIROCINIO MIRATO GIUDICANTE PENALE PER I MAGISTRATI ORDINARI IN TIROCINIO NOMINATI CON D.M. 10.12.2015 E CON D.M. 18.1.2016 8-12 MAGGIO 2017 L’ESECUZIONE PENALE Coordinatore dr.ssa Gilda Zarrella 1. ART.648 c.p.p. IRREVOCABILITÀ DELLE SENTENZE E DEI DECRETI PENALI. - Questioni interpretative Il problema dei rapporti tra l’inammissibilità dell’impugnazione e l’obbligo di declaratoria delle cause di non punibilità - distinzione tra irrevocabilità e passaggio in giudicato della sentenza. 2. ART. 649 C.P.P. DIVIETO DI UN SECONDO GIUDIZIO. Questioni interpretative 1. La contestazione cd. aperta – Medesimezza del nuovo fatto contestato- Divieto di un secondo giudizio ex art. 649 c.p.p. – 2. Sentenza non definitiva: applicabile il principio del “ne bis in idem”? ART. 648 C.P.P. IRREVOCABILITÀ DELLE SENTENZE E DEI DECRETI PENALI. 1. Sono irrevocabili le sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non e ̀ ammessa impugnazione diversa dalla revisione. 2. Se l'impugnazione e ̀ ammessa, la sentenza e ̀ irrevocabile quando e ̀ inutilmente decorso il termine per proporla o quello per impugnare l'ordinanza che la dichiara inammissibile. Se vi e ̀ stato ricorso per cassazione, la sentenza e ̀ irrevocabile dal giorno in cui e ̀ pronunciata l'ordinanza o la sentenza che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso. 3. Il decreto penale di condanna e ̀ irrevocabile quando e ̀ inutilmente decorso il termine per proporre opposizione o quello per impugnare l'ordinanza che la dichiara inammissibile. Questioni. 1. Il problema dei rapporti tra l’inammissibilità dell’impugnazione e l’obbligo di declaratoria delle cause di non punibilità - distinzione tra irrevocabilità e passaggio in giudicato della sentenza. Sul punto, si vedano:

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MODULO DEDICATO AL TIROCINIO MIRATO GIUDICANTE PENALE PER I MAGISTRATI ORDINARI IN TIROCINIO

NOMINATI CON D.M. 10.12.2015 E CON D.M. 18.1.2016

8-12 MAGGIO 2017

L’ESECUZIONE PENALE

Coordinatore dr.ssa Gilda Zarrella

1. ART.648 c.p.p. IRREVOCABILITA DELLE SENTENZE E DEI DECRETI PENALI.

- Questioni interpretative

Il problema dei rapporti tra l’inammissibilità dell’impugnazione e l’obbligo di declaratoria delle cause di non punibilità - distinzione tra irrevocabilità e passaggio in giudicato della sentenza.

2. ART. 649 C.P.P. DIVIETO DI UN SECONDO GIUDIZIO.

Questioni interpretative

1. La contestazione cd. aperta – Medesimezza del nuovo fatto contestato- Divieto di un secondo giudizio ex art. 649 c.p.p. –

2. Sentenza non definitiva: applicabile il principio del “ne bis in idem”?

ART. 648 C.P.P. IRREVOCABILITA DELLE SENTENZE E DEI DECRETI PENALI.

1. Sono irrevocabili le sentenze pronunciate in giudizio contro le quali non e ammessa impugnazione diversa dalla revisione.

2. Se l'impugnazione e ammessa, la sentenza e irrevocabile quando e inutilmente decorso il termine per proporla o quello per impugnare l'ordinanza che la dichiara inammissibile. Se vi e stato ricorso per cassazione, la sentenza e irrevocabile dal giorno in cui e pronunciata l'ordinanza o la sentenza che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso.

3. Il decreto penale di condanna e irrevocabile quando e inutilmente decorso il termine per proporre opposizione o quello per impugnare l'ordinanza che la dichiara inammissibile.

Questioni.

1. Il problema dei rapporti tra l’inammissibilità dell’impugnazione e l’obbligo di declaratoria delle cause di non punibilità - distinzione tra irrevocabilità e passaggio in giudicato della sentenza.

Sul punto, si vedano:

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- Cass., Sez. un., 30.6.1999, Piepoli: “La inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza non impedisce che siano rilevate cause di non punibilità ex art 129 c.p.p.; rilevabilità che è, invece, preclusa dalla inammissibilità derivante dalla enunciazione di motivi non consentiti o non dedotti in appello, trattandosi di ipotesi di inammissibilità originaria” Contra. Cass., Sez. un., 22.11.2000, De Luca: “La inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità ex art. 129.”

- Cass. 28.4.2010 n. 18680: “ la remissione di querela , intervenuta nel corso del giudizio di Cassazione e ritualmente accettata, determina l’estinzione del reato anche in presenza di eventuali cause di inammissibilità del ricorso”.

- Cass., Sez. un., 22.11.2000, De Luca: “La inammissibilità del ricorso per manifesta

infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di dichiarare le cause di non punibilità ex art. 129.” Conformi, tra le molte, Cass. 20.1.2004, Tricomi; Cass. 20.11.2003, Viola; Cass. 27.11.2002, Laforè; Cass. 28.1.2002, Lo Nigro. Con specifico riferimento all’inammissibilità per assoluta genericità delle doglianze, v. per tutte Cass., Sez. un., 22.3.2005, Bracale; Cass., Sez. un., 27.6.2001, Cavalera; Cass. 29.11.2000, Maglieri; Cass., Sez. un., 24.6.1998, Verga

Deve, innanzitutto, distinguersi (anche “cronologicamente”) tra passaggio in giudicato della

sentenza e irrevocabilità/esecutorietà della medesima. Mentre per il verificarsi dell’irrevocabilità

sarebbe necessario attendere, in ossequio all’art. 648.2 c.p.p., una declaratoria definitiva di

inammissibilità dell’impugnazione, il passaggio in giudicato della sentenza- coincidente con

l’esaurirsi di ogni potere decisorio del giudice sui merita causae – conseguirebbe alla mera

proposizione dell’atto di impugnazione inammissibile. La declaratoria di inammissibilità avrebbe

un’efficacia puramente ricognitiva di un giudicato già formatosi: la sua emanazione, dunque, non

potrebbe non prevalere sull’obbligo di dichiarare la sussistenza della causa di non punibilità.

Questa tesi riprende la vecchia opinione dottrinale secondo cui le cause di inammissibilità

originaria dell’impugnazione (difetto di legittimazione ad impugnare, carenza di interesse,

impugnazione non presentata nella forma o nel luogo prescritti o presentata una volta scaduto il

termine) impediscono una valida instaurazione del giudizio di impugnazione, vietando al giudice di

emanare una qualunque decisione diversa dalla declaratoria di inammissibilità. Il proscioglimento

ex art. 129 c.p.p., di conseguenza, sarebbe consentito solo nelle ipotesi di inammissibilità

sopravvenuta (ad esempio, nel caso di rinuncia all’impugnazione), perché in questo caso il giudizio

di impugnazione sarebbe stato validamente instaurato. Alla fine degli anni novanta, le Sezioni unite

della Corte di cassazione avevano ribadito questa opinione aggiungendo, rispetto all’elenco di cui

sopra, tra le cause di inammissibilità sopravvenuta la manifesta infondatezza dei motivi di ricorso

per cassazione (art. 606.3 c.p.p.) e tra le cause di inammissibilità originaria le altre due cause di

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inammissibilità, specifiche del ricorso per cassazione, previste dallo stesso art. 606.3 c.p.p. (ricorso

proposto per motivi diversi da quelli previsti dalla legge e per violazioni di legge non dedotte con i

motivi d’appello). Le Sezioni unite avevano ritenuto che fosse qualificabile come “sopravvenuta” –

e che, dunque, non precludesse l’immediata declaratoria delle cause di non punibilità – la sola causa

di inammissibilità consistente nella manifesta infondatezza dei motivi di ricorso, sul presupposto

che per accertare le ulteriori ipotesi di inammissibilità contemplate nell’art. 606.3 occorrerebbe una

valutazione meramente formale intesa a verificare se siano state o meno rispettate le condizioni

dalla cui osservanza dipende la regolarità della domanda, mentre per dichiarare la manifesta

infondatezza del motivo di ricorso si renderebbe necessario un esame sulla fondatezza della censura

pienamente compatibile con il concorrente accertamento di una delle condizioni di cui all’art. 129

c.p.p.

Questa ipotesi ricostruttiva è stata tuttavia smentita da un ulteriore intervento delle Sezioni

unite. La Corte ha affermato che l’inammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 606.3 c.p.p.

impedisce il formarsi di un valido rapporto di impugnazione qualunque ne sia la causa, ivi

compresa, dunque, la manifesta infondatezza dei motivi: la possibilità di dichiarare le cause di non

punibilità a norma dell’art. 129 c.p.p. sarebbe pertanto immancabilmente preclusa. Secondo le

Sezioni unite, sarebbe arbitrario assegnare alla “manifesta infondatezza” una collocazione

autonoma rispetto alle altre cause di inammissibilità previste dalla legge, situandola in una sorta di

“zona grigia” a cavallo tra inammissibilità e infondatezza. In particolare, sarebbe un errore ritenere

che la distinzione possa venire effettuata sulla base del diverso grado di approfondimento degli atti

processuali richiesto per il suo accertamento: come tutte le cause di inammissibilità, anche la

manifesta infondatezza prescinderebbe da ogni scrutinio sul contenuto del ricorso, risolvendosi

nella mera constatazione dell’assenza di requisiti di legge.

Invero, l’indirizzo seguito dalla Corte di cassazione sembra dettato, più che da una rigorosa

lettura del dato normativo, da ragioni di ordine pratico, fondate sull’esigenza di scoraggiare il

ricorso ad impugnazioni meramente dilatorie, volte ad ottenere una pronuncia ex art. 129 c.p.p. di

estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Si vuole evitare, in altre parole, che la difesa

proponga impugnazioni manifestamente infondate e pretestuose al solo scopo di far maturare i

termini prescrizionali e “costringere” il giudice di legittimità a prosciogliere l’imputato a norma

dell’art. 129 c.p.p. Si vuole evitare, in altre parole, che la difesa proponga impugnazioni

manifestamente infondate e pretestuose al solo scopo di far maturare i termini prescrizionali e

“costringere” il giudice di legittimità a prosciogliere l’imputato a norma dell’art. 129 c.p.p. Si tratta

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di un’esigenza certamente comprensibile: ma la forzatura del dato normativo appare evidente e non

può non essere stigmatizzata.

È significativo, al riguardo, che le Sezioni unite, chiamate a stabilire i rapporti tra

inammissibilità dell’impugnazione e remissione della querela, abbiano concluso per la prevalenza

della declaratoria di estinzione ai sensi dell’art. 129 c.p.p. rispetto alla declaratoria di

inammissibilità del gravame (salvo che non si tratti di impugnazione presentata tardivamente),

privilegiando una linea interpretativa che tende a far coincidere, in questo peculiare ambito, il

momento del passaggio in giudicato della sentenza con quello della sua irrevocabilità1. A sostegno

di tale opinione, la Corte di cassazione ha valorizzato la peculiare natura – rispetto alle altre cause

estintive – della remissione di querela, sottolineando come quest’ultima si risolva in un autentico

diritto della persona offesa a porre nel nulla una condizione necessaria per l’esercizio dell’azione

penale. In quest’ottica, l’esigenza di attribuire alla volontà del querelante la massima efficacia sul

piano degli effetti giuridici ha suggerito alla Suprema Corte di attenuare il rigore dell’orientamento

espresso in tema di inammissibilità del gravame e applicabilità dell’art. 129 c.p.p. Tuttavia, le

Sezioni unite, lungi dal rivedere il quadro teorico posto a fondamento della tesi che scinde

passaggio in giudicato e irrevocabilità della sentenza, hanno fatto leva sulla disciplina sostanziale

della remissione di querela, ravvisando in essa decisivi connotati di peculiarità.

Questi i passaggi argomentativi cruciali della sentenza: (a) secondo il disposto dell’art.

152.3 c.p., la remissione di querela può intervenire solo prima della condanna; (b) per «condanna»

dovrebbe intendersi, in questo specifico contesto, la sentenza irrevocabile, costituente titolo per

l’esecuzione della pena; (c) l’inammissibilità del gravame (dovuta a causa diversa dall’inosservanza

del termine per proporla), non comportando l’esecutorietà della sentenza, lascerebbe dunque intatta,

in presenza di una remissione di querela ritualmente accettata dall’imputato, l’operatività dell’art.

129 c.p.p. Nella misura in cui duplica il concetto di giudicato, con l’effetto di affiancare alla

nozione di carattere generale ricavata dalle norme del codice di rito quella desunta dall’art. 152.3

c.p., “valida” solo ai fini circoscritti, tale percorso logico appare piuttosto artificioso: la soluzione

più corretta – inutile sottolinearlo – sarebbe stata quella di smentire tout court la dicotomia tra

passaggio in giudicato ed irrevocabilità della sentenza, per affermare, sulla base dell’art. 648 c.p.p.,

la coincidenza dei due momenti. Esce rafforzata, dunque, l’impressione che a guidare le Sezioni

unite siano state soprattutto ragioni di “equità”: intervenuta la remissione di querela, la scelta di

negare all’imputato il proscioglimento ex art. 129 c.p.p. sembra connotarsi in termini di

“ingiustizia” alla luce del fondamento politico-criminale di tale causa estintiva del reato. Stretta fra

                                                             

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l’esigenza di conferire il massimo risalto alla volontà della persona offesa e la necessità di

salvaguardare l’impianto teorico in precedenza messo a punto, la Corte di cassazione ha seguito una

linea di compromesso, che, tuttavia, per le basi concettuali su cui è costruita, presta il fianco a forti

obiezioni.

Cass., Sez. un., 25.2.2004, Chiasserini; nello stesso senso Cass. 28.4.2010 n. 18680: “ la

remissione di querela, intervenuta nel corso del giudizio di Cassazione e ritualmente accettata, determina

l’estinzione del reato anche in presenza di eventuali cause di inammissibilità del ricorso.

ART. 649 C.P.P. DIVIETO DI UN SECONDO GIUDIZIO.

1. L'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345. 2. Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo’.

Questioni interpretative

3. La contestazione cd. aperta – Medesimezza del nuovo fatto contestato- Divieto di un secondo giudizio ex art. 649 c.p.p. –

Sul punto, si veda:

Corte cassazione, sezione VI, sentenza 29 marzo 2017 n. 15564

Nella fattispecie esaminata dalla sentenza sopra citata, il ricorrente riteneva che i fatti a lui contestati fossero i medesimi di quelli che avevano costituito oggetto di una precedente sentenza irrevocabile riguardante gli stessi imputati e le stesse modalità di svolgimento dell'azione delittuosa (nello specifico: spaccio di sostanze stupefacenti). Ai fini della determinazione della “medesimezza” del fatto, ex art. 649 c.p.p., la contestazione cd. aperta (senza indicazione della data di cessazione dell'illecito) non copre tutti gli episodi e i comportamenti criminosi avvenuti nel periodo di riferimento ma soltanto quelli concretamente individuabili in base all'imputazione effettuata e agli elementi di prova introdotti nel processo. Nel caso concreto, infatti, ai fini della insussistenza della medesimezza del nuovo fatto contestato rispetto a quello già giudicato in precedenza, rileva sia la circostanza che nel nuovo procedimento figurano acquirenti delle sostanze psicotrope diversi e ulteriori rispetto quelli individuati nella sentenza irrevocabile, sia la diversità delle modalità di commissione del fatto nuovo contestato (attività di spaccio svolta attraverso pusher incaricati della vendita).

1. Sentenza non definitiva: applicabile il principio del “ne bis in idem”?

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Cfr. Sez. Un. n.34655 del 2005: “Le situazioni di litispendenza, non riconducibili nell’ambito dei conflitti di competenza di cui all’art. 28 c.p.p., devono essere risolte dichiarando nel secondo processo, pur in mancanza di una sentenza irrevocabile, l’impromovibilità dell’azione penale in applicazione della preclusione fondata sul principio generale del ne bis in idem, semprechè i due processi abbiano ad oggetto il medesimo fatto attribuito alla stessa persona, siano stati instaurati ad iniziativa dello stesso ufficio del pubblico ministero e siano devoluti, anche se in fasi o in gradi diversi, alla cognizione di giudici della stessa sede giudiziaria”.

2. Applicazione al delitto previsto dall’art.612 bis c.p. (atti persecutori)

Cfr. Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza n. 48391/14; depositata il 20 novembre: Essendo il reato di stalking «necessariamente abituale» un solo episodio non è sufficiente a determinare la lesione del bene giuridico protetto dall’art. 612-bis c.p.. Ed i singoli segmenti persecutori, già oggetto di contestazione in altri procedimenti, non possono essere valutati come fatto integrante il reato oggetto del nuovo procedimento, né tali fatti già contestati possono essere valorizzati come elemento integrante la nuova condotta persecutoria, per non incorrere nel divieto del ne bis in idem; è possibile soltanto valutarli come antecedente storico-giuridico, come accade quando si valorizza un reato definitivamente accertato.

3. Il reato di omesso versamento dell’Iva: è possibile la diretta applicazione delle norme europee in materia di “ne bis in idem”?

Sul punto si veda:

- Cass. pen. sez. III, sent. 21 aprile 2016 (dep. 22 giugno 2016), n. 25815, pres. Amoresano, est. di stasi, ric. proc. gen. Torino in proc. Scagnetti

Con la sentenza sopra citata, la terza sezione penale della Cassazione, su ricorso per

saltum della pubblica accusa, annulla con rinvio una sentenza del Tribunale di Asti che aveva tra

l'altro disposto di non doversi procedere, ex art. 649 c.p.p., in relazione a un fatto di omesso

versamento di IVA (art. 10-ter d.lgs. 74/2000) per il quale erano già state irrogate sanzioni

amministrative dall'amministrazione tributaria.

La sentenza di merito si era evidentemente fondata sulla giurisprudenza della Corte EDU

secondo cui viola il diritto al ne bis in idem di cui all'art. 4 Prot. 7 CEDU l'apertura o la

prosecuzione di un procedimento penale avente ad oggetto la medesima violazione tributaria già

oggetto di un provvedimento sanzionatorio definitivo avente natura sostanzialmente punitiva in

base ai noti criteri Engel, ancorché formalmente qualificato come "amministrativo"

nell'ordinamento nazionale.

La Cassazione rammenta, anzitutto, che secondo l'insegnamento delle "sentenze

gemelle" della Corte costituzionale (le nn. 348 e 349/2007), in caso di contrasto tra una

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disposizione della CEDU o dei suoi protocolli e una norma nazionale il giudice comune deve

preventivamente sperimentare la possibilità di una interpretazione conforme di quest'ultima, in

modo da risolvere il contrasto in via ermeneutica. Ove ciò sia impossibile, il giudice dovrà

sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna ex art. 117 co. 1 Cost.,

assumendo la disposizione convenzionale come parametro interposto della questione, e

rimettendo così la questione alla Consulta; risultandogli invece preclusa la strada della

disapplicazione della norma interna contrastante.

Un tale assetto, ricorda ancora la Cassazione in stretta aderenza a quanto affermato dalla

Corte costituzionale con la sent. n. 80/2011, non è stato modificato dall'entrata in vigore del

Trattato di Lisbona, nel 2009, che - se ha attribuito il medesimo rango giuridico dei trattati alla

Carta dei diritto fondamentali dell'UE (di seguito: CDFUE) - non ha invece determinato alcuna

variazione del rango giuridico della CEDU e dei suoi protocolli nel nostro ordinamento.

Sulla scorta di tali premesse, osserva dunque la S.C. che l'art. 649 c.p.p. invocato dal

Tribunale di Asti fa inequivoco riferimento, nel dettare la disciplina del divieto di un secondo

giudizio, alla presenza di una "sentenza o di un decreto penale" divenuti irrevocabili: espressioni

che non possono essere dilatate, in via di interpretazione conforme, sino a comprendere

provvedimenti sanzionatori adottati dall'autorità amministrativa, ancorché qualificabili come

"sostanzialmente punitivi" in base all'apprezzamento autonomo della Corte EDU.

Risultando dunque impraticabile la strada di un'interpretazione conforme, il giudice di

merito avrebbe dovuto secondo la S.C. - in base all'insegnamento delle sentenze gemelle -

sollevare questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 649 c.p.p. ai sensi dell'art. 117

co. 1 Cost., assumendo per l'appunto quale parametro interposto l'art. 4 Prot. 7 CEDU, così come

interpretato dalla Corte di Strasburgo, "nella parte in cui non prevede l'applicabilità della

disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l'imputato sia stato giudicato, con

provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto nell'ambito di un procedimento

amministrativo per l'applicazione dì una sanzione alla quale debba riconoscersi natura penale

ai sensi della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà

fondamentali e dei relativi Protocolli".

La Cassazione si astiene, tuttavia, dal formulare essa stessa la questione di legittimità

costituzionale per due ragioni. La prima è che, in punto di fatto, non appare chiaro se

l'accertamento tributario compiuto a carico dell'imputato abbia carattere definitivo: il che

condiziona, ovviamente, la stessa rilevanza della questione, che - par di comprendere - dovrà a

questo punto essere rivalutata dal giudice del rinvio. La seconda, appena accennata nella parte

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conclusiva del provvedimento, è che la recentissima sentenza n. 102/2016 della Corte

costituzionale ha dichiarato inammissibile una questione di legittimità costituzionale identica a

quella ora prospettata (ancorché formulata in relazione a un procedimento per il diverso delitto

di abuso di informazioni privilegiate di cui all'art. 184 t.u.f.), sottolineando tra l'altro che "spetta

innanzitutto al legislatore stabilire quali soluzioni debbano adottarsi per porre rimedio alle

frizioni che tale sistema [di 'doppio binario' tra sanzione penale e amministrativa: n.d.r.] genera

tra l'ordinamento nazionale e la CEDU".

4. Principio di “ne bis in idem europeo” ed archiviazione emessa dall’autorità giudiziaria estera

Sul punto si vedano:

- Cass. Sezione II Penale, 8 maggio – 30 maggio 2014, n. 22566

Il principio del “ne bis in idem” europeo, sancito dall’art. 54 della Convenzione del 19 giugno 1990 di applicazione dell’Accordo di Schengen del 14 giugno 1985, ratificata e posta in esecuzione dall’Italia con L. 30 settembre 1993, n. 388, opera nel diritto interno solo in presenza di una sentenza o di un decreto penale divenuti irrevocabili, non potendo essere considerato preclusivo del giudizio in Italia per i medesimi fatti un provvedimento rapportabile a una decisione di archiviazione emessa dall’autorità giudiziaria straniera, inidonea a definire il giudizio con efficacia di giudicato. (Cass. Sezione II Penale, 8 maggio – 30 maggio 2014, n. 22566)

- Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, sentenza del 29 giugno 2016 Causa C-486/14 Piotr Kossowki

Si segnala la sentenza con cui la CGUE (grande sezione) ha affermato il seguente principio: «il principio del ne bis in idem sancito all’articolo 54 della Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen del 14 giugno 1985 tra i governi degli Stati dell’Unione economica Benelux, della Repubblica federale di Germania e della Repubblica francese relativo all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni, firmata a Schengen (Lussemburgo) il 19 giugno 1990, letto alla luce dell’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che una decisione del pubblico ministero che pone fine all’azione penale e conclude definitivamente, salvo riapertura o annullamento, il procedimento di istruzione condotto nei confronti di una persona, senza che siano state irrogate sanzioni, non può essere considerata una decisione definitiva, ai sensi di tali articoli, qualora dalla motivazione di tale decisione risulti che il suddetto procedimento è stato chiuso senza che sia stata condotta un’istruzione approfondita, laddove la mancata audizione della vittima e di un eventuale testimone costituisce un indizio dell’assenza di un’istruzione siffatta».

Cfr. Cass. Sez. 3, n. 31378 del 14/1/2015, Ghidini, Rv. 264332, che ha escluso la violazione del principio di “ne bis in idem” in caso di condanna per il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali, di cui all'art. 2, comma primo bis, D.L. 12 settembre 1983, n. 463 (conv. in l. 11 novembre 1983, n. 638), di soggetto già condannato alla "sanzione civile", prevista dall'art. 116, comma ottavo, lett. a), della legge 23 dicembre 2000, n. 388, per mancato o ritardato pagamento dei contributi, in quanto tale ultima sanzione, avendo effetti riparatori nei confronti dell'INPS, ha natura sostanzialmente, e non solo formalmente, civilistica

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- in un caso peculiare, Sez. 3, n. 36350 del 23/3/2015, Bertini, Rv. 265636, che ha dichiarato manifestamente infondata l'eccezione di legittimità costituzionale dell'art. 649 cod. proc. pen., per violazione degli artt. 24 e 117 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione EDU, nella parte in cui non prevede l'applicazione del principio del "ne bis in idem" anche quando, dopo un procedimento disciplinare davanti agli organi della giustizia sportiva conclusosi con l'applicazione di una sanzione, faccia seguito per lo stesso fatto l'attivazione di un procedimento penale in senso stretto (escludendosi, altresì, la stessa natura amministrativa della sanzione in parola che non esercita alcuna efficacia al di fuori dell'ordinamento di settore).

ART. 650 C.P.P. ESECUTIVITA DELLE SENTENZE E DEI DECRETI PENALI.

1. Salvo che sia diversamente disposto, le sentenze e i decreti penali hanno forza esecutiva quando sono divenuti irrevocabili. 2. Le sentenze di non luogo a procedere hanno forza esecutiva quando non sono piu soggette a impugnazione.

Il primo comma introduce la nozione di “esecutività”, ossia la capacità (astratta) dei provvedimenti (e dei precetti negli stessi contenuti) di essere concretamente eseguiti, agganciandola, in ossequio al principio di non colpevolezza sino alla condanna definitiva costituzionalmente sancito, a quella di “irrevocabilità”, ovvero al passaggio in giudicato della sentenza.

Ne discende che:

l’efficacia esecutiva diventa “una caratteristica intrinseca” del provvedimento divenuto irrevocabile (ex multis Cass. n. 230/1999).

Sul punto si veda Cass. n. 44236 del 2014

Non è necessaria, ai fini della formazione del titolo esecutivo e della legittima emissione dell'ordine di carcerazione, l'attestazione del cancelliere in calce alla sentenza circa l'avvenuto passaggio in giudicato di essa, allorchè esso non sia controverso, poichè l'efficacia esecutiva è una caratteristica intrinseca della sentenza divenuta irrevocabile e l'attestazione di cancelleria un mero adempimento amministrativo di carattere interno, previsto a tutt'altri fini dall'art. 27 reg. esec. c.p.p., approvato con D.M. 30 settembre 1989, n. 334 (Sez. 1^, Sentenza n. 1230 del 9/2/1999, P.M. in proc. Di Martino e altro, Rv. 212970; Sez. 6^, Sentenza n. 21925 del 5/3/2002, dep. 17/5/2003, Formisano, Rv. 225415; Sez. 5, Sentenza n. 32301 del 3.7.2003, Musei, Rv. 225119).

Questioni interpretative

1. Il giudicato parziale

Sul punto si vedano:

- Cassazione penale, sentenza 19/06/2013 n. 32477

Il principio secondo cui la sentenza di condanna per la parte divenuta irrevocabile deve essere posta in esecuzione anche in caso di rinvio parziale disposto dalla Corte di cassazione per ipotesi di reato in continuazione con la prima, ricollegabile alla regola della formazione progressiva del giudicato,

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trova applicazione solo se è stata determinata la pena minima che il condannato deve comunque espiare. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato l'ordinanza del giudice dell'esecuzione, che aveva determinato la pena in concreto da espiare sebbene il giudizio di rinvio avrebbe potuto individuare un diverso reato più grave e, conseguentemente, calcolare la pena in modo diverso).

- Cassazione penale sez. I 05 giugno 2012 n. 23592

La formazione del giudicato parziale, per essere la decisione di condanna divenuta irrevocabile in relazione all'affermazione di responsabilità per uno o per alcuni dei reati contestati con indicazione della pena che il condannato deve comunque espiare, impone che la condanna sia messa in esecuzione, a nulla rilevando l'annullamento con rinvio per gli altri autonomi capi.

Cassazione penale sez. VI 20 agosto 1997 n. 3216

Attesa la possibilità di formazione progressiva del giudicato penale, e considerato che l'irrevocabilità, ai sensi dell'art. 650 c.p.p., dà luogo, di regola, all'esecutività della decisione, deve ritenersi che, in presenza di capi di sentenza divenuti definitivi tanto con riguardo all'affermazione di responsabilità quanto con riguardo alla determinazione della relativa pena, legittimamente quest'ultima possa essere messa in esecuzione. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto che legittimamente, in un caso in cui si era proceduto per più reati uniti per continuazione, si fosse messa in esecuzione la pena relativa al reato base, in pendenza del giudizio di rinvio avente ad oggetto unicamente il reato satellite).

ART. 651 C.P.P. EFFICACIA DELLA SENTENZA PENALE DI CONDANNA NEL GIUDIZIO CIVILE O AMMINISTRATIVO DI DANNO.

1. La sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceita penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale. 2. La stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata a norma dell'articolo 442, salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato.

Sul punto si vedano:

- Cassazione civile sez. III 18 novembre 2014 n. 24475

La sentenza penale di non luogo a procedere per concessione del perdono giudiziale nei confronti di imputato minorenne non ha efficacia di giudicato nel giudizio civile risarcitorio, perché esula dalle ipotesi previste negli artt. 651 e 652 cod. proc. pen., non suscettibili di applicazione analogica per il loro contenuto derogatorio del principio di autonomia e separazione tra giudizio penale e civile. Ne consegue che il giudizio civile deve interamente ed autonomamente rivalutare il fatto in contestazione, sebbene, nel rispetto del contraddittorio, possa tener conto di tutti gli elementi di

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prova acquisiti in sede penale, al fine di ritenere provato il nesso causale fra la condotta del minore e la lesione subita dall'attore.

- Cass. civile n. 8421 del 2011

La sentenza, con la quale il giudice applica all'imputato la pena da lui richiesta e concordata con il pubblico ministero, pur essendo equiparata a una pronuncia di condanna ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 445 c.p.p., comma 1, non è tuttavia ontologicamente qualificabile come tale, traendo essa origine essenzialmente da un accordo delle parti, caratterizzato, per quanto attiene l'imputato, dalla rinuncia di costui a contestare la propria responsabilità. Ne consegue che non può farsi discendere dalla sentenza di cui all'art. 444 cod. proc. pen. la prova della ammissione di responsabilità da parte dell'imputato e ritenere che tale prova sia utilizzabile nel procedimento civile “ (Cass. n. 6047 del 2003). La sentenza di patteggiamento può solo costituire un elemento che va valutato dal giudice, ai fini del suo convincimento in merito all'esistenza del reato (Cass. n. 23906/2007; Cass. n. 2724 del 2001).

ART. 651-BIS C.P.P. EFFICACIA DELLA SENTENZA DI PROSCIOGLIMENTO PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO NEL GIUDIZIO CIVILE O AMMINISTRATIVO DI DANNO.

1. La sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del prosciolto e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale.

2. La stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto a norma dell'articolo 442, salvo che vi si opponga la parte civile che non abbia accettato il rito abbreviato.

Questioni interpretative.

1. E’ possibile revocare per sopravvenuta abolitio criminis le sentenze di proscioglimento per particolare tenuità del fatto passate in giudicato??

Sul punto si veda:

- Trib. Enna, ord. 22 giugno 2016, Giud. Minnella

I fatti prendono avvio da una sentenza di non punibilità emessa a norma dell'art. 131 bis

nei confronti di un soggetto imputato del reato di cui all'art. 2 comma 1 bis l. 638/1983. Nel caso

di specie, l'omesso versamento di ritenute previdenziali ed assistenziali per un valore pari a

94,94 euro era stato ritenuto dal giudice di particolare tenuità.

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Successivamente, il d.lgs. 15 gennaio 2016 n. 8 interveniva con effetto di parziale

abolitio criminis rispetto alla norma penale in questione: l'omesso versamento continua a

risultare penalmente perseguibile solo qualora superi la soglia dei diecimila euro; tutte le ipotesi

quantitativamente sottostanti, invece, risultano oggi sanzionabili solo amministrativamente.

Alla luce di questa novità normativa, la difesa dell'imputato proponeva davanti al giudice

dell'esecuzione istanza di revoca della sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del

fatto, passata ormai in giudicato, invocando l'art. 673 del codice di rito.

Il giudice ritiene fondata l'istanza, sulla base dei seguenti argomenti.

Anzitutto, l'ordinanza precisa che anche la depenalizzazione comporta un'abrogazione del

reato, tale da consentire la revoca del giudicato ex art. 673 c.p.p., dal momento che il giudice

dell'esecuzione sarà tenuto a dichiarare che il fatto non è - più - previsto dalle legge come reato.

In verità, un ostacolo alla possibilità di applicare nel caso di specie la revoca del

giudicato sembrerebbe derivare dal tenore letterale dello stesso art. 673 c.p.p., che parrebbe

confinare la possibilità di revoca, nel primo comma, alla "sentenza di condanna" e al "decreto

penale", e nel secondo comma, alla "sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere per

estinzione del reato o per mancanza di punibilità".

Quanto alla declaratoria ex art 131 bis, l'ordinanza osserva come non sembra possa

affermarsene il carattere pienamente assolutorio.

Invero, proprio la natura di causa di non punibilità dell'art. 131 bis risulta indicativa del

fatto che, anche nelle ipotesi suscettibili della declaratoria di particolare tenuità, si ha comunque

a che fare con la commissione di un fatto di reato completo di tutti i suoi elementi: dunque di un

fatto tipico, colpevolmente commesso dall'imputato, oltre che soggetto ad iscrizione nel

casellario giudiziale; mentre il proscioglimento che ne deriva nasce dalla sola rinuncia alla pena

compiuta dal legislatore, proprio in ossequio ai principio che confina il ricorso alla sanzione

penale all'extrema ratio.

L'ordinanza rileva poi come questa conclusione trovi riscontro normativo nell'art. 651 bis

c.p.p., introdotto insieme all'art. 131 bis dallo stesso d.lgs. 28/2015, ove si afferma che anche la

sentenza di proscioglimento per particolare tenuità del fatto "ha efficacia di giudicato quanto

all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che

l'imputato lo ha commesso" in ambito civile o amministrativo.

L'ordinanza fonda poi la ritenuta possibilità di revocare le sentenze emesse ex art 131 bis

sull'ulteriore argomento che, diversamente operando, verrebbe leso il principio di uguaglianza di

cui all'art. 3 Cost. Nell'ipotesi in esame, infatti, sorgerebbe un'evidente disparità di trattamento

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tra chi, avendo omesso versamenti per cifre fino a 9.999,99 euro, potrebbe beneficiare della

revoca della condanna passata in giudicato, mentre dovrebbe continuare a soffrire degli effetti

pregiudizievoli scaturenti dalla "assoluzione" ex art 131 bis chi abbia posto in essere omissioni

pari a poche decine di euro.

Tutto ciò premesso, ritiene il giudice che non vi sia necessità di investire la Corte

Costituzionale per annoverare tra le sentenze suscettibili di revoca ex art. 673 c.p.p. anche le

declaratorie di non punibilità per particolare tenuità del fatto, dal momento che ad un simile

risultato può pervenirsi ricorrendo all'interpretazione analogica dello stesso art. 673 c.p.p. Né,

così facendo, si incorre in una violazione dell'art. 14 delle preleggi, posto che l'estensione

analogica opera qui in bonam partem.

L'ordinanza accoglie dunque l'istanza di revoca della sentenza di proscioglimento per

particolare tenuità del fatto, disponendo contestualmente la cancellazione dell'iscrizione della

stessa dal casellario giudiziale.

ART. 652 C.P.P. EFFICACIA DELLA SENTENZA PENALE DI ASSOLUZIONE NEL GIUDIZIO CIVILE O AMMINISTRATIVO DI DANNO.

1. La sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all'accertamento che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto e stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso dal danneggiato o nell'interesse dello stesso, sempre che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto in condizione di costituirsi parte civile, salvo che il danneggiato dal reato abbia esercitato l'azione in sede civile a norma dell'articolo 75, comma 2. 2. La stessa efficacia ha la sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata a norma dell'articolo 442, se la parte civile ha accettato il rito abbreviato.

Questioni interpretative

1. Il problema concernente l'efficacia vincolante della sentenza penale nel giudizio di risarcimento del danno, nell'ipotesi in cui l'imputato sia prosciolto per una causa estintiva del reato.

Sul punto si vedano:

- Sez. Un. Cass. Civile n.1768 del 2011

"La disposizione di cui all'art. 652 c.p.p. (così come quelle degli artt. 651, 653 e 654 del codice di rito penale) costituisce un'eccezione al principio dell'autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile, in quanto tale soggetta ad un'interpretazione restrittiva e non applicabile in via analogica oltre i casi espressamente previsti. Ne consegue che la sola sentenza penale irrevocabile di assoluzione (per essere rimasto accertato che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima) pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o

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amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno, mentre alle sentenze di non doversi procedere perchè il reato è estinto per prescrizione o per amnistia non va riconosciuta alcuna efficacia extrapenale, benchè, per giungere a tale conclusione, il giudice abbia accertato e valutato il fatto (nella specie, il giudice penale, accertati i fatti materiali posti a base delle imputazioni e concesse le attenuanti generiche, per effetto dell'applicazione di queste ha dichiarato estinto il reato per prescrizione); b) che, in quest'ultimo caso, il giudice civile, pur tenendo conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale, deve interamente ed autonomamente rivalutare il fatto in contestazione (nella specie, il giudice civile, ha proceduto ad un riparto delle responsabilità diverso da quello stabilito dal giudice penale)".

Il contrasto di giurisprudenza:

Nell'interpretare il disposto degli artt. 651 e 652 del nuovo c.p.p., un primo orientamento

(Cass. n. 9798/96; n. 1319/96) ha negato qualsiasi efficacia vincolante alla sentenza di

proscioglimento, come nel caso già visto della declaratoria di estinzione del reato per amnistia. Tale

sentenza infatti, anche se emessa a seguito di dibattimento, non può essere equiparata alla sentenza

di condanna od a quella di assoluzione, le uniche cui le norme appena citate attribuiscono efficacia

vincolante nel giudizio civile di danno: ciò sia in conformità dei criteri mirati a ridurre l'efficacia

extrapenale del giudicato contenuti nella Legge-Delega 16 febbraio 1987 n. 81 (art. 2, nn. 22-25, e

53), sia perchè nel nuovo c.p.p. gli artt. 651-654, sull'efficacia extrapenale della sentenza, fanno

riferimento alle sole sentenze dibattimentali irrevocabili di condanna o di assoluzione, sicchè non è

più possibile equiparare a queste gli altri tipi di decisione, come la sentenza di non doversi

procedere.

Se ne è perciò tratta la conclusione che nel giudizio civile o amministrativo promosso per le

restituzioni ed il risarcimento del danno contro l'imputato, il giudice, dopo il proscioglimento

dell'imputato in applicazione dell'amnistia, deve interamente rivalutare il fatto, a nulla rilevando che

questo sia stato già accertato in sede penale, ai fini dell'applicazione dell'amnistia o della

declaratoria di prescrizione (Cass. n. 342/96; n. 3084/97; n. 10551/98; n. 10122/00; n. 3132/01; n.

2297/04 (Rv. 569935).

A conclusioni diverse invece l'orientamento in esame perviene allorchè il giudice penale

abbia concretamente accertato i fatti materiali posti a fondamento della derubricazione del reato o

del giudizio di comparazione tra circostanze. E' stato, infatti, affermato che l'art. 654 del nuovo

c.p.p. non ha fatto che riprodurre il vecchio art. 28 c.p.p. del 1930, e pertanto i principi sostenuti

dalla giurisprudenza con riferimento a quest'ultima norma debbono trovare applicazione anche dopo

l'entrata in vigore del nuovo codice di rito. Pertanto "la sentenza dibattimentale di proscioglimento

per prescrizione (...) può spiegare effetti nel giudizio civile instaurato nei confronti dell'imputato in

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ordine alla sussistenza dei fatti materiali in concreto accertati dal giudice penale" (Cass. n.

13939/99).

Pertanto, quando il giudice penale, al fine di accertare l'estinzione del reato per prescrizione,

accerta la sussistenza di circostanze attenuanti e le compara con le aggravanti, compie un vero e

proprio giudizio di merito, come tale vincolante nel giudizio civile al pari di quello contenuto nella

sentenza di assoluzione.

L'opposta opinione condurrebbe ad effetti irrazionali ed incostituzionali, discriminando tra

"fattispecie processuali in cui l'accertamento di determinati fatti si tradurrebbe in una sentenza

formalmente di merito vincolante agli effetti civili e quelle in cui lo stesso accertamento sarebbe

destinato a restare confinato all'interno della dinamica del giudizio penale" (Cass. n. 3937 /98; n.

14328/00; n. 810/95; n. 6906/93 (Rv.482867).

I precedenti delle Sezioni Unite civili e penali.

Le S.U. sono già intervenute sul tema, benchè con una sentenza (la n. 12243/09) non resa in

sede di composizione di contrasto, ma in sede d'impugnazione di una sentenza del Tribunale

Superiore delle Acque Pubbliche. Va pure ravvisato che nella decisione di cui si discorre le S.U. si

sono pronunciate sull'interpretazione dell'art. 654 c.p.p., e cioè della norma che disciplina l'efficacia

della sentenza penale nei giudizi civili ed amministrativi diversi da quello di danno. Tuttavia, i

principi affermati sono suscettibili di applicazione anche con riferimento ai giudizi puramente

risarcitori, posto che sia gli artt. 651 e 652 c.p.p. (disciplinanti gli effetti della sentenza penale di

condanna od assoluzione nel giudizio civile di danno), sia l'art. 654 c.p.p. (disciplinante gli effetti

della sentenza penale di assoluzione nel giudizio civile diverso da quello di danno), fanno tutti

riferimento alla "sentenza penale irrevocabile (di condanna o di assoluzione) pronunciata in seguito

a dibattimento".

Il Supremo Consesso ha inteso far proprie le seguenti argomentazioni ed apportare

continuità all'indirizzo già espresso.

La vicenda aveva ad oggetto la domanda di risarcimento del danno proposta dalla pubblica

amministrazione nei confronti di persona imputata di furto continuato di acqua pubblica e

successivamente prosciolta per sopravvenuta amnistia. Per applicare l'amnistia, tuttavia, il giudice

penale aveva accertato in concreto la sussistenza dell'attenuante della speciale tenuità del fatto:

sicchè, era sorta questione se tale accertamento bastasse a vincolare il giudice civile in merito

all'accertamento della responsabilità del convenuto, ovvero se fosse possibile nel giudizio

risarcitorio un autonomo accertamento dei fatti.

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Nell'occasione le S.U. hanno affermato che la sentenza di proscioglimento è priva di

efficacia vincolante nel giudizio civile, anche quando fondata sul concreto accertamento dei fatti

materiali ascritti all'imputato, perchè: gli artt. 651-654 c.p.p. attribuiscono l'efficacia di giudicato

alla sola sentenza penale di condanna o di assoluzione, e tale non è la sentenza di non doversi

procedere ex art. 529 c.p.p.; nulla rileva che la sentenza di proscioglimento sia "omogenea" rispetto

alla sentenza di assoluzione (per questa affermazione si veda Cass. 14328/00), come si

desumerebbe dalla rubrica del Libro 7^ titolo 3^, Capo 2^, Sezione Prima del c.p.p., proprio perchè

il legislatore nell'art. 654 c.p.c., ha esplicitamente richiamato le sole sentenze di assoluzione e

perciò la specie anzichè il genere.

La risoluzione del contrasto.

Le Sezioni Unite accolgono l'interpretazione normativa secondo cui l'efficacia del vincolo è

attribuibile alla sola sentenza penale dibattimentale di assoluzione.

Infatti, la tesi che sostiene l'interpretazione estensiva dell'art. 652 c.p.p. è errata in quanto

contrasto con la lettera e la ratio della disposizione, oltre che con i principi generali e con la volontà

del legislatore. Essa, in estrema sintesi, perpetua l'interpretazione che era stata data all'art. 25

dell'abrogato codice, senza tener conto che è venuto meno il presupposto sul quale essa fondava,

ossia i principi di unitarietà della giurisdizione e di prevalenza della sentenza penale su quella

civile.

Anche a seguito di reiterati interventi della Corte Costituzionale sugli artt. 25, 27 e 28 c.p.p.

del 1930, la legge di delegazione per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale 16

febbraio 1987, n. 81 conteneva criteri direttivi (art. 2, nn. 22-25 e 53) miranti a ridurre l'efficacia

extrapenale del giudicato. Il legislatore delegato in conformità di questi criteri ha previsto una

drastica riduzione degli effetti extrapenali della decisione penale, coerentemente, del resto, con la

logica complessiva del nuovo codice in ordine ai rapporti tra giudizio penale e giudizio civile, i

quali ormai non sono più improntati al principio, in precedenza imperante nel sistema inquisitorio,

della unitarietà della funzione giurisdizionale e quindi della priorità e del primato della

giurisdizione penale e della sua pregiudizialità rispetto agli altri processi.

Nel nuovo ordinamento processuale, ispirato al principio accusatorio, il precedente principio

generale è venuto meno e vige invece il principio della parità ed originarietà dei diversi ordini

giurisdizionali e della sostanziale autonomia e separazione dei giudizi. Ciò si desume anche dal

fatto che nel nuovo codice di procedura non è stata riprodotta la disposizione di cui all'art. 3,

comma 2, del codice abrogato (sulla sospensione necessaria della controversia civile in pendenza

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del processo penale) nè diverse altre disposizioni alla stessa collegate (parte dell'art. 24 c.p.p. e ss.),

e, conseguentemente, con la sua riformulazione ad opera della legge n. 353 del 1990, è stato

eliminato ogni riferimento alla cd. pregiudiziale penale dal testo dell'art. 295 c.p.c..

Il legislatore, dunque, con il codice di procedura del 1988 ha introdotto il diverso principio

della (pressochè) completa autonomia e separazione fra giudizio civile e giudizio penale, nel senso

che, tranne alcune particolari e limitate ipotesi di sospensione del processo civile previste dall'art.

75 c.p.p., comma 3, da un lato, il processo civile deve proseguire il suo corso senza essere

influenzato dal processo penale e, dall'altro, il giudice civile deve procedere ad un autonomo

accertamento dei fatti e della responsabilità civile dedotti in giudizio.

Questo nuovo principio generale è peraltro attenuato dal riconoscimento al giudicato penale

di valore preclusivo negli altri giudizi in specifiche limitate ipotesi, e precisamente in quelle

disciplinate dall'art. 651 c.p.p., con riferimento al giudicato di condanna e dall'art. 652 c.p.p., con

riferimento al giudicato di assoluzione nei giudizi civili ed amministrativi di danno, dall'art. 653

c.p.p., con riferimento al giudizio disciplinare e dall'art. 654 c.p.p., con riferimento al giudicato

assolutorio o di condanna negli "altri" (diversi da quelli precedenti) giudizi civili ed amministrativi.

Nella sopra citata sentenza è stato affermato il seguente principio di diritto:

"La disposizione di cui all'art. 652 c.p.p. (così come quelle degli artt. 651, 653 e 654 del codice di rito penale) costituisce un'eccezione al principio dell'autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile, in quanto tale soggetta ad un'interpretazione restrittiva e non applicabile in via analogica oltre i casi espressamente previsti. Ne consegue che la sola sentenza penale irrevocabile di assoluzione (per essere rimasto accertato che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima) pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno, mentre alle sentenze di non doversi procedere perchè il reato è estinto per prescrizione o per amnistia non va riconosciuta alcuna efficacia extrapenale, benchè, per giungere a tale conclusione, il giudice abbia accertato e valutato il fatto (nella specie, il giudice penale, accertati i fatti materiali posti a base delle imputazioni e concesse le attenuanti generiche, per effetto dell'applicazione di queste ha dichiarato estinto il reato per prescrizione); b) che, in quest'ultimo caso, il giudice civile, pur tenendo conto degli elementi di prova acquisiti in sede penale, deve interamente ed autonomamente rivalutare il fatto in contestazione (nella specie, il giudice civile, ha proceduto ad un riparto delle responsabilità diverso da quello stabilito dal giudice penale)".

ART. 653 C.P.P. EFFICACIA DELLA SENTENZA PENALE NEL GIUDIZIO DISCIPLINARE

1. La sentenza penale irrevocabile di assoluzione ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilita disciplinare davanti alle pubbliche autorita quanto all'accertamento che il

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fatto non sussiste o non costituisce illecito penale ovvero che l'imputato non lo ha commesso. 1-bis. La sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilita disciplinare davanti alle pubbliche autorita quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceita penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso.

Sul punto si veda:

- Cassazione civile sez. un. 31 ottobre 2012 n. 18701

A norma degli art. 445 e 653 c.p.p., come modificati dalla l. 27 marzo 2001 n. 97, la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ha efficacia di giudicato — nei giudizi disciplinari che si svolgono davanti alle pubbliche autorità, e quindi anche in quelli che riguardano avvocati — quanto all'accertamento del fatto, alla sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso; la stessa, però, non esplica alcuna efficacia in ordine alla valutazione sulla rilevanza del fatto e sulla personalità del suo autore sotto il profilo deontologico, essendo tale apprezzamento riservato al giudice disciplinare, in coerenza con quanto disposto dall'art. 5 del Codice deontologico forense. (Nella specie, la S.C. ha confermato la decisione del Consiglio nazionale forense che, nell'applicare la sanzione della radiazione, aveva valutato la condotta dell'incolpato, giudicandone l'offensività in relazione ai principi supremi di giustizia e lealtà processuale ed ai valori di dignità, prestigio e decoro del medesimo professionista, degli altri colleghi coinvolti nella vicenda e dell'intera classe professionale, in piena autonomia rispetto al giudice penale il quale aveva concesso attenuati generiche e sospensione condizionale della pena escludendo il pericolo di recidiva).

ART. 654 C.P.P. EFFICACIA DELLA SENTENZA PENALE DI CONDANNA O DI ASSOLUZIONE IN ALTRI GIUDIZI CIVILI O AMMINISTRATIVI.

1. Nei confronti dell'imputato, della parte civile e del responsabile civile che si sia costituito o che sia intervenuto nel processo penale, la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo, quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipende dall'accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, purche i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa.

Sul punto si vedano:

- Cassazione civile n. 20325 del 2006

In virtù del principio fondamentale di unità della giurisdizione, ai sensi dell’art. 652 (nell’ambito del giudizio civile di danni) e dell’art. 654 (nell’ambito di altri giudizi civili) del nuovo codice di procedura penale il giudicato di assoluzione è idoneo a produrre effetti preclusivi – quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non l’ha commesso –nel giudizio civile solo quando contenga un effettivo, specifico e concreto accertamento circa l’insussistenza del fatto

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o l’impossibilità di attribuire questo all’imputato e non anche quando l’assoluzione sia determinata dall’insussistenza di sufficienti elementi di prova circa la commissione o l’attribuibilità di esso all’imputato.

- Cassazione penale sez. V 26 settembre 2014 n. 49580

Non sussiste l'interesse dell'imputato a proporre impugnazione avverso la sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, pronunciata ex art. 530, comma 2, c.p.p. - per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova - in quanto tale formulazione non comporta una minore pregnanza della pronuncia assolutoria né segnala residue perplessità sulla innocenza dell'imputato, né spiega minore valenza con riferimento ai giudizi civili, come comprovato dal tenore letterale degli art. 652 e 654 c.p.p.; pertanto, essa non può in alcun modo essere equiparata all'assoluzione per insufficienza di prove prevista dal previgente codice di rito. (Dichiara inammissibile, Giud.pace Rovereto, 19/04/2013 )

ART. 655 C.P.P. FUNZIONI DEL PUBBLICO MINISTERO.

1. Salvo che sia diversamente disposto, il pubblico ministero presso il giudice indicato nell'articolo 665 cura di ufficio l'esecuzione dei provvedimenti.

2. Il pubblico ministero propone le sue richieste al giudice competente e interviene in tutti i procedimenti di esecuzione.

3. Quando occorre, il pubblico ministero può chiedere il compimento di singoli atti a un ufficio del pubblico ministero di altra sede.

4. Se per l'esecuzione di un provvedimento e necessaria l'autorizzazione, il pubblico ministero ne fa richiesta all'autorità competente; l'esecuzione è sospesa fino a quando l'autorizzazione non e concessa. Allo stesso modo si procede quando la necessita dell'autorizzazione e sorta nel corso dell'esecuzione.

5. I provvedimenti del pubblico ministero dei quali è prescritta nel presente titolo la notificazione al difensore, sono notificati, a pena di nullità, entro trenta giorni dalla loro emissione, al difensore nominato dall'interessato o, in mancanza, a quello designato dal pubblico ministero a norma dell'articolo 97, senza che cio determini la sospensione o il ritardo dell'esecuzione.

Questioni interpretative.

Il potere del giudice dell’esecuzione di rimodulare la pena a fronte della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice: la definitiva erosione del principio di intangibilità del giudicato

Sul punto si veda:

- Cassazione penale sez. un. 29 maggio 2014 n. 42858

Successivamente ad una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la rideterminazione della pena, che non sia stata interamente espiata, da parte del giudice dell'esecuzione. Ne consegue che per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 251 del 2012, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 69, comma 4, c.p. nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309 del 1990, sulla recidiva di cui

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all'art. 99, comma 4, c.p., il giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 666, comma 1, c.p.p. e in applicazione dell'art. 30, comma 4, della legge n. 87 del 1953, potrà affermare la prevalenza della circostanza attenuante, sempreché una simile valutazione non sia stata esclusa nel merito dal giudice della cognizione, secondo quanto risulta dal testo della sentenza irrevocabile. Per effetto della medesima sentenza della Corte Costituzionale n. 251 del 2012, è compito del pubblico ministero, ai sensi degli artt. 655, 656, 666 c.p.p., di richiedere al giudice dell'esecuzione l'eventuale rideterminazione della pena inflitta all'esito del nuovo giudizio di comparazione.

In sintesi la vicenda processuale.

Nella vicenda Gatto, il Tribunale di Napoli, in funzione di giudice dell'esecuzione, ha

dichiarato inammissibile la richiesta del Pubblico Ministero, il quale invocando la sentenza della

Corte Costituzionale n. 251 del 5 novembre 2012, ha sollecitato la rideterminazione della pena

inflitta all'imputato per il delitto di detenzione a fini di cessione a terzi di sostanze stupefacenti con

sentenza dello stesso Tribunale, che ha ritenuto la riconosciuta attenuante del fatto di lieve di entità

(art. 73 comma 5 d.P.R 309/1990) equivalente alla recidiva reiterata specifica. Il giudice

dell'esecuzione ha osservato che la sentenza della Corte Cost. non ha comportato abolitio criminis e

ha motivato l'ordinanza di inammissibilità richiamando "l'intangibilità derivante dalla preclusione

del giudicato". Contro detto provvedimento ha proposto ricorso per violazione della legge penale ai

sensi dell'art. 606 comma 1, lett. b) il locale Procuratore della Repubblica. Il Procuratore generale

presso la Corte di Cassazione ha sostenuto l'inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza

dei motivi, "non essendo consentito al giudice dell'esecuzione di effettuare alcun giudizio di

bilanciamento tra opposte circostanze”

La invocata sentenza della Corte costituzionale, 5 Novembre 2012, n. 251, in particolare,

aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 69, comma quarto, cod. pen., come

sostituito dall’articolo 3 della Legge, 5 Dicembre 2005, n. 251 (cosiddetta Legge “ex – Cirielli”),

nella parte in cui sanciva il divieto di prevalenza della circostanza attenuante speciale di cui

all’articolo 73, comma quinto, del D.P.R., 9 Ottobre 1990, n. 309 (“fatto di lieve entità”), sulla

circostanza aggravante di cui all’articolo 99, comma quarto, cod. pen. (recidiva reiterata).

Il contrasto giurisprudenziale

La questione di diritto contenuta nell'ordinanza di rimessione alla Prima Sezione Penale, è stata enunciata nei seguenti termini:

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"Se, successivamente a una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, possa comportare una rideterminazione della pena in sede di esecuzione".

L'indirizzo inaugurato dalla sentenza Hauohu (Cass., Sez. I, n. 977/2011), afferma che "gli

articoli 136 Cost. e 30 commi 3 e 4 L. n. 87/1953 non consentono l'esecuzione della porzione di

pena inflitta dal giudice di cognizione in conseguenza dell'applicazione di una circostanza

aggravante che sia stata successivamente dichiarata costituzionalmente illegittima" sostenendo che

"spetta al giudice dell'esecuzione il compito di individuare la porzione di pena corrispondente e di

dichiararla non eseguibile, previa sua determinazione ove la sentenza del giudice della cognizione

abbia omesso di individuarla specificamente, ovvero abbia proceduto al bilanciamento tra

circostanze". In senso conforme, si sono espresse Sez. II, n. 8720/2011, Sez. I, n. 19361/2012 Teteh

Assic, Sez. 1, n. 26899 del 25/05/2012, Harizi, Sez. 1, n. 40464 del 12/06/2012 Kabi, Sez. IV, n.

21982/2013, Ingordini.

La sentenza Hamrouni (Sez. I, n. 27640/2012, Hamrouni) oppone a tale orientamento

un'interpretazione abrogativa dell'art. 30 comma 4 della legge n. 87/1953 affermando che la

disciplina prevista nella citata norma è stata completamente assorbita dall'art. 673 c.p.p. e

concludendo che "non è soggetta a revoca in executivis la sentenza di condanna intervenuta per

reato aggravato da circostanza dichiarata costituzionalmente illegittima successivamente al suo

passaggio in giudicato né è consentito al giudice dell'esecuzione dichiarare non eseguibile la

porzione di pena corrispondente". L’indirizzo integralista Hamrouni, enuclea numerosi argomenti,

che le stesse Sezioni Unite provvedono a ricostruire, per punti, nella parte motiva della sentenza in

commento:

1) Innanzitutto, l’orientamento integralista ritiene non sussistere alcuna violazione del

principio di eguaglianza di cui all’articolo 3 Cost., con riferimento al trattamento riservato alle

condotte sanzionate con pronuncia passata in giudicato prima della dichiarazione di illegittimità

costituzionale di una norma penale sostanziale diversa da quella incriminatrice incidente sulla

determinazione della pena rispetto alle condotte giudicate successivamente a tale pronuncia ablativa

della Consulta. Ciò in quanto, “la res iudicata costituisce fondamento affatto ragionevole del

discrimen tra situazioni uguali, come risulta dalla disciplina di cui all’art. 2, quarto comma, cod.

pen.”;

2) L’articolo 673, comma primo, cod. proc. pen., “concerne pacificamente il caso della

radicale obliterazione del carattere della illiceità penale della condotta, già tipizzata, per effetto

della eliminazione di ogni pena relativa”;

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3) Non è consentita l’applicazione alle fattispecie considerate dell’articolo 30 della Legge,

11 Marzo 1953, n. 87, e dunque il suo richiamo da parte dell’orientamento contrapposto risulta

essere non corretto, poiché l’intervento del giudicato penale di condanna esaurisce completamente

la “applicazione” di ogni norma penale incidente sul trattamento sanzionatorio, in quanto “la

esecuzione della pena trova esclusivamente titolo nel relativo provvedimento di irrogazione della

sanzione [la sentenza definitiva di condanna], il quale, in virtù dell’efficacia preclusiva del

giudicato, è affatto insensibile a ogni questione circa la applicazione della norma definitivamente

operata dal giudice [di cognizione]”;

4) Il comma quarto dell’articolo 30 della Legge del 1953, in particolare, deve ritenersi a

fortiori non applicabile in quanto, prevedendo, in conseguenza della dichiarazione di

incostituzionalità, la cessazione non solo dell’esecuzione ma altresì di “tutti gli effetti penali” della

sentenza irrevocabile di condanna, implica necessariamente il radicale presupposto della abolitio

criminis (alla stregua, dunque, dell’articolo 2, comma secondo, cod. pen.);

La risoluzione del contrasto.

Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, a composizione del contrasto

giurisprudenziale sopra delineato, ritengono, con la sentenza “Gatto”-29 maggio 2014 n. 42858, di

optare per l’indirizzo maggiormente conforme al principio garantista del favor libertatis, accolto

dalla pronuncia Hauohu del 2011 con riferimento al caso specifico della declaratoria di illegittimità

costituzionale di una norma penale sancente una circostanza aggravante. Per tale via, dunque, le

Sezioni Unite intendono generalizzare l’orientamento avanguardista, estendendolo a tutte le ipotesi

nelle quali venga in rilievo il problema della legittimità costituzionale della pena divenuta

irrevocabile, legittimità che deve permanere in tutte le fasi del procedimento penale, anche in quella

di esecuzione della sanzione.

Le Sezioni Unite, in particolare, pervengono alla conclusione della estensione della portata

operativa del potere del Giudice dell’esecuzione di rimodulare la pena in senso più favorevole al

condannato a tutte le ipotesi di dichiarazione di illegittimità costituzionale di qualsivoglia norma

penale che incida, direttamente o indirettamente, sul trattamento sanzionatorio, sulla base di plurimi

e fondamentali argomenti, meritevoli di partita trattazione.

In definitiva, è possibile procedere a una ricostruzione schematica e sintetica dei passaggi logici fondamentali del complesso iter motivazionale della sentenza:

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1) Il giudice dell’esecuzione è titolare del potere di rimodulare la pena in executivis anche a fronte di dichiarazione di illegittimità costituzionale di norma penale diversa da quella propriamente incriminatrice;

2) Tale potere ha sua base giuridica, sul piano sostanziale, nel combinato disposto di cui agli articoli 136 Cost. e 30, commi terzo e quarto, della Legge, 11 Marzo 1953, n. 87; sul piano processuale, nel combinato disposto di cui agli articoli 666 e 670 cod. proc. pen., disciplinanti il procedimento di incidente di esecuzione vertente sul titolo esecutivo;

3) Il Pubblico Ministero, ai sensi dell’articolo 666, comma primo, cod. proc. pen., ha il dovere di innescare, a fronte della intervenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale, il procedimento di incidente di esecuzione;

4) L’applicabilità del meccanismo anzidetto, teso a garantire, anche in fase esecutiva, la legalità costituzionale della pena in ossequio ai principi sottesi al favor libertatis, non trova ostacolo in una anacronistica, e non ulteriormente accettabile, concezione piena e assoluta del principio di intangibilità del giudicato. Ciò in quanto, il principio di intangibilità del giudicato, riconducibile a una accezione autoritaria dell’ordinamento giuridico, è stato oramai superato da una concezione elastica e garantistica di giudicato, la quale ritiene ragionevole un travolgimento della res iudicata in funzione del perseguimento di valori, quali quelli di inviolabilità della libertà personale, finalismo rieducativo e proporzionalità della pena, da considerarsi prevalenti, nel bilanciamento costituzionale, rispetto a quello di certezza del diritto;

5) La assunta permeabilità del giudicato, però, incontra alcuni limiti invalicabili, quali:

a) La statuizione, contenuta nella sentenza definitiva di condanna, concernente i profili dell’accertamento dei fatti e della responsabilità del condannato (la cosiddetta “parte statica” della sentenza).

b) Il ne bis in idem di cui all’articolo 649 cod. proc. pen.

c) I cosiddetti “rapporti esauriti” (afferenti alla parte di pena già eseguita).

d) La statuizione del Giudice di cognizione: al riguardo la Suprema Corte specifica che “ovviamente, nell’esercizio di tale potere-dovere [di rimodulare la pena], il giudice dell’esecuzione non ha la stessa libertà del giudice di cognizione, dovendo procedere – non diversamente da quanto è previsto negli artt. 671 e 675 cod. proc. pen., - nei limiti in cui gli è consentito dalla pronuncia di cognizione [...]. In sintesi, le valutazioni del giudice dell’esecuzione non potranno contraddire quelle del giudice della cognizione risultanti dal testo della sentenza irrevocabile”.

Illuminante la massima discendente dalla sentenza emessa dalla Cassazione penale Sez. Un. 29 maggio 2014 n. 42858)

“Successivamente ad una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione d'illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la rideterminazione della pena, che non sia stata interamente espiata, da parte del giudice dell'esecuzione. Ne consegue che per effetto della sentenza della Corte

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Costituzionale n. 251 del 2012, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 69, comma 4, c.p. nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309 del 1990, sulla recidiva di cui all'art. 99, comma 4, c.p., il giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 666, comma 1, c.p.p. e in applicazione dell'art. 30, comma 4, della legge n. 87 del 1953, potrà affermare la prevalenza della circostanza attenuante, sempreché una simile valutazione non sia stata esclusa nel merito dal giudice della cognizione, secondo quanto risulta dal testo della sentenza irrevocabile. Per effetto della medesima sentenza della Corte Costituzionale n. 251 del 2012, è compito del pubblico ministero, ai sensi degli artt. 655, 656, 666 c.p.p., di richiedere al giudice dell'esecuzione l'eventuale rideterminazione della pena inflitta all'esito del nuovo giudizio di comparazione.”

ART. 656 C.P.P. ESECUZIONE DELLE PENE DETENTIVE.

1. Quando deve essere eseguita una sentenza di condanna a pena detentiva, il pubblico ministero

emette ordine di esecuzione con il quale, se il condannato non e detenuto, ne dispone la

carcerazione. Copia dell'ordine e consegnata all'interessato.

2. Se il condannato e gia detenuto, l'ordine di esecuzione e comunicato al Ministro di grazia e

giustizia e notificato all'interessato.

3. L'ordine di esecuzione contiene le generalita della persona nei cui confronti deve essere eseguito

e quant'altro valga a identificarla, l'imputazione, il dispositivo del provvedimento e le disposizioni

necessarie all'esecuzione. L'ordine e notificato al difensore del condannato.

4. L'ordine che dispone la carcerazione e eseguito secondo le modalita previste dall'articolo 277.

4-bis. Al di fuori dei casi previsti dal comma 9, lett. b), quando la residua pena da espiare,

computando le detrazioni previste dall'articolo 54 della legge 26 luglio 1975, n. 354, non supera i

limiti indicati dal comma 5, il pubblico ministero, prima di emettere l'ordine di esecuzione, previa

verifica dell'esistenza di periodi di custodia cautelare o di pena dichiarata fungibile relativi al

titolo esecutivo da eseguire, trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza affinché provveda

all'eventuale applicazione della liberazione anticipata. Il magistrato di sorveglianza provvede

senza ritardo con ordinanza adottata ai sensi dell'articolo 69-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354.

La presente disposizione non si applica nei confronti dei condannati per i delitti di cui all'articolo

4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354.

4-ter. Quando il condannato si trova in stato di custodia cautelare in carcere il pubblico ministero

emette l'ordine di esecuzione e, se ricorrono i presupposti di cui al comma 4-bis, trasmette senza

ritardo gli atti al magistrato di sorveglianza per la decisione sulla liberazione anticipata.

4-quater. Nei casi previsti dal comma 4-bis, il pubblico ministero emette i provvedimenti previsti

dai commi 1, 5 e 10 dopo la decisione del magistrato di sorveglianza.

5. Se la pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena, non e superiore a tre anni,

quattro anni nei casi previsti dall'articolo 47-ter, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, o sei

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anni nei casi di cui agli articoli 90 e 94 del testo unico approvato con decreto del Presidente della

Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni, il pubblico ministero, salvo quanto

previsto dai commi 7 e 9, ne sospende l'esecuzione.

L'ordine di esecuzione e il decreto di sospensione sono notificati al condannato e al difensore

nominato per la fase dell'esecuzione o, in difetto, al difensore che lo ha assistito nella fase del

giudizio, con l'avviso che entro trenta giorni puo essere presentata istanza, corredata dalle

indicazioni e dalla documentazione necessarie, volta ad ottenere la concessione di una delle misure

alternative alla detenzione di cui agli articoli 47, 47-ter e 50, comma 1, della legge 26 luglio 1975,

n. 354, e successive modificazioni, e di cui all'articolo 94 del testo unico approvato con decreto del

Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni, ovvero la

sospensione dell'esecuzione della pena di cui all'articolo 90 dello stesso testo unico. L'avviso

informa altresı che, ove non sia presentata l'istanza o la stessa sia inammissibile ai sensi degli

articoli 90 e seguenti del citato testo unico, l'esecuzione della pena avra corso immediato.

6. L'istanza deve essere presentata dal condannato o dal difensore di cui al comma 5 ovvero allo

scopo nominato dal pubblico ministero, il quale la trasmette, unitamente alla documentazione, al

tribunale di sorveglianza competente in relazione al luogo in cui ha sede l'ufficio del pubblico

ministero. Se l'istanza non e corredata dalla documentazione utile, questa, salvi i casi di

inammissibilità, può essere depositata nella cancelleria del tribunale di sorveglianza fino a cinque

giorni prima dell'udienza fissata a norma dell'articolo 666, comma 3. Resta salva, in ogni caso, la

facoltà del tribunale di sorveglianza di procedere anche d'ufficio alla richiesta di documenti o di

informazioni, o all'assunzione di prove a norma dell'articolo 666, comma 5. Il tribunale di

sorveglianza decide entro quarantacinque giorni dal ricevimento dell'istanza.

7. La sospensione dell'esecuzione per la stessa condanna non puo essere disposta piu di una volta,

anche se il condannato ripropone nuova istanza sia in ordine a diversa misura alternativa, sia in

ordine alla medesima, diversamente motivata, sia in ordine alla sospensione dell'esecuzione della

pena di cui all'articolo 90 del testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9

ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni.

8. Salva la disposizione del comma 8-bis, qualora l'istanza non sia tempestivamente presentata, o il

tribunale di sorveglianza la dichiari inammissibile o la respinga, il pubblico ministero revoca

immediatamente il decreto di sospensione dell'esecuzione. Il pubblico ministero provvede

analogamente quando l'istanza presentata e inammissibile ai sensi degli articoli 90 e seguenti del

testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive

modificazioni, nonche, nelle more della decisione del tribunale di sorveglianza, quando il

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programma di recupero di cui all'articolo 94 del medesimo testo unico non risulta iniziato entro

cinque giorni dalla data di presentazione della relativa istanza o risulta interrotto. A tal fine il

pubblico ministero, nel trasmettere l'istanza al tribunale di sorveglianza, dispone gli opportuni

accertamenti.

8-bis. Quando e provato o appare probabile che il condannato non abbia avuto effettiva

conoscenza dell'avviso di cui al comma 5, il pubblico ministero puo assumere, anche presso il

difensore, le opportune informazioni, all'esito delle quali puo disporre la rinnovazione della

notifica.

9. La sospensione dell'esecuzione di cui al comma 5 non puo essere disposta:

a) nei confronti dei condannati per i delitti di cui all'articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n.

354, e successive modificazioni, nonche di cui agli articoli 423-bis, 572, secondo comma, 612-bis,

terzo comma, 624-bis del codice penale, fatta eccezione per coloro che si trovano agli arresti

domiciliari disposti ai sensi dell'articolo 89 del testo unico di cui al decreto del Presidente della

Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni;

b) nei confronti di coloro che, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trovano in stato di

custodia cautelare in carcere nel momento in cui la sentenza diviene definitiva;

c) [nei confronti dei condannati ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'articolo 99,

quarto comma, del codice penale»].

10. Nella situazione considerata dal comma 5, se il condannato si trova agli arresti domiciliari per

il fatto oggetto della condanna da eseguire, e se la residua pena da espiare determinata ai sensi del

comma 4-bis non supera i limiti indicati dal comma 5, il pubblico ministero sospende l'esecuzione

dell'ordine di carcerazione e trasmette gli atti senza ritardo al tribunale di sorveglianza perché

provveda alla eventuale applicazione di una delle misure alternative di cui al comma 5. Fino alla

decisione del tribunale di sorveglianza, il condannato permane nello stato detentivo nel quale si

trova e il tempo corrispondente è considerato come pena espiata a tutti gli effetti. Agli adempimenti

previsti dall'articolo 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, provvede

in ogni caso il magistrato di sorveglianza.

Questioni interpretative

1. La sospensione dell’efficacia dell’ordine di esecuzione ex art. 656 c.p.p.: è preclusa per il reato ex art. 609 bis c.p. nella parte in cui disciplina l’ipotesi di lieve entità?

Sul punto si vedano le seguenti sentenze:

- Cassazione penale sez. I 03 dicembre 2013 n. 2283

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Il divieto di sospensione dell'esecuzione della pena non si applica all'ipotesi di violenza sessuale attenuata di cui all'art. 609 bis ultimo comma c.p., per effetto della mancata inclusione - in forza nel rinvio normativo operato dall' art. 656 comma 9 lett. a) del codice di rito - nel novero dei reati indicati dall'art. 4 bis comma 1 quater l. n. 354 del 1975, per i quali opera la presunzione di pericolosità superabile solo all'esito del periodo di osservazione della personalità. Rigetta, G.i.p. Trib. Milano, 20/02/2013

- Cassazione penale n. 10537 del 2012 e Sez. Un., n. 24561, 2006

Si deve porre in evidenza che il suddetto art. 656 c.p.p., comma 9, lett. a) individua i reati

ostativi alla sospensione dell'esecuzione della pena detentiva attraverso il rinvio alla L. 26 luglio

1975, n. 354, art. 4 - bis e successive modificazioni. Si tratta di un rinvio formale (dinamico) e non

recettizio (statico) perché non recepisce materialmente la norma richiamata ed i suoi presupposti

soggettivi di applicabilità, ma si limita ad affidare alla norma richiamata l'individuazione delle

categorie di delitti per i quali non si applica la sospensione delle pene detentive brevi. Insomma, il

catalogo dei delitti ostativi alla sospensione iniziale della carcerazione breve è identico a quello dei

delitti che sono ostativi alle misure alternative alla detenzione; il che risponde perfettamente alla

ratio dell'istituto processuale di cui all'art. 656 c.p.p., comma 5, giacché la sospensione della

detenzione è direttamente funzionale alla eventuale applicazione delle misure alternative alla

detenzione, anche se prescinde dal controllo sui requisiti soggettivi di applicabilità delle misure

stesse, che è affidato soltanto al tribunale di sorveglianza".

Nè può revocarsi in dubbio che l'art. 4 - bis, comma 1 - quater preveda la possibilità di

concessione dei benefici alle categorie di reati in esso elencate soltanto sulla base dei risultati

dell'osservazione scientifica per almeno un anno. Anche per i reati qui elencati c'è, infatti, una

presunzione di pericolosità che può essere superata solo all'esito di valutazione che spetta al

tribunale di sorveglianza dopo l'osservazione e, quindi, esclude la sospensione dell'esecuzione da

parte del pubblico ministero.

Tanto vale per la fattispecie di cui all'art. 609 - quater cod. pen. (Sez. 1, n. 41958,

22/10/2009) ma anche per quella di cui all'art. 609 -bis cod. pen. Detta preclusione non può, invece,

riferirsi all'ipotesi prevista dall'art. 609 - bis c.p.p., u.c. che è espressamente esclusa dal catalogo dei

reati ai sensi dell'art. 4, comma 1 - quater Ord. Pen..

Pertanto, seguendo il richiamato principio del rinvio formale costantemente affermato dalla

Suprema Corte, deve ritenersi che nell'ipotesi di cui all'art. 609 - bis cod. pen. attenuata è esclusa la

presunzione di pericolosità che preclude la sospensione dell'esecuzione della condanna.

2. La competenza a decidere e le modalità di presentazione dell’istanza di misura alternativa alla detenzione in pendenza della sospensione ex art. 656 comma 5 c.p.p., dell'esecuzione della pena detentiva

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Sul punto si vedano:

- Cassazione penale sez. I 15 luglio 2013 n. 37978

La competenza per territorio a decidere sull' istanza di esecuzione domiciliare della pena presentata, ai sensi dell'art. 1 l. n. 199 del 26 novembre 2010, dal condannato non detenuto, appartiene al magistrato di sorveglianza che ha giurisdizione sul luogo in cui l'interessato ha la residenza o il domicilio, in applicazione del generale principio di cui all'art. 677 comma 2 c.p.p. (In motivazione, la Suprema Corte ha precisato che, non prevedendo la normativa del 2010 espressa deroga al principio generale, non è possibile applicare la speciale regola di competenza stabilita dall'art. 656 comma 6 c.p.p.). Dichiara competenza, Mag. sorv. Salerno, 06/03/2013

- Cassazione penale sez. I 05 aprile 2013 n. 18441

La presentazione al p.m. dell'istanza di misura alternativa alla detenzione in pendenza della sospensione ex art. 656 comma 5 c.p.p., dell'esecuzione della pena detentiva, può avvenire o mediante materiale deposito dell'atto nella segreteria della Procura della Repubblica o mediante spedizione a mezzo del servizio postale, essendo tuttavia essenziale che essa pervenga alla segreteria stessa entro il termine di trenta giorni, pena la cessazione della sospensione provvisoria suddetta. (In motivazione la Corte ha sottolineato l'inapplicabilità alla disciplina in oggetto della disposizione dettata dall'art. 583 c.p.p. per il deposito degli atti di impugnazione). Rigetta, GipTrib. Rimini, 12/07/2012

ART. 657 C.P.P. COMPUTO DELLA CUSTODIA CAUTELARE E DELLE PENE ESPIATE SENZA TITOLO.

1. Il pubblico ministero, nel determinare la pena detentiva da eseguire, computa il periodo di custodia cautelare subita per lo stesso o per altro reato, anche se la custodia e ancora in corso. Allo stesso modo procede in caso di applicazione provvisoria di una misura di sicurezza detentiva, se questa non e stata applicata definitivamente.

2. Il pubblico ministero computa altresı il periodo di pena detentiva espiata per un reato diverso, quando la relativa condanna e stata revocata, quando per il reato e stata concessa amnistia o quando e stato concesso indulto, nei limiti dello stesso.

3. Nei casi previsti dai commi 1 e 2, il condannato puo chiedere al pubblico ministero che i periodi di custodia cautelare e di pena detentiva espiata, operato il ragguaglio, siano computati per la determinazione della pena pecuniaria o della sanzione sostitutiva da eseguire; nei casi previsti dal comma 2, puo altresı chiedere che le sanzioni sostitutive espiate siano computate nelle sanzioni sostitutive da eseguire per altro reato.

4. In ogni caso sono computate soltanto la custodia cautelare subita o le pene espiate dopo la commissione del reato per il quale deve essere determinata la pena da eseguire

5. Il pubblico ministero provvede con decreto, che deve essere notificato al condannato e al suo difensore.

Questioni interpretative

1. In sede di determinazione della pena da eseguire è possibile computare a norma dell’art. 657 c.p.p. il periodo di custodia cautelare subìto per un altro reato, anche nel caso in cui il

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condannato abbia ottenuto, per il medesimo periodo, un’equa riparazione per ingiusta detenzione? Sul punto si veda:

- Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione n. 31416 del 2008 con cui è stato risolto il contrasto emerso in giurisprudenza.

Dal dettato dell’art. 314 c. 4 c.p.p. (in base al quale il diritto alla riparazione per ingiusta

detenzione è escluso per quella parte della custodia cautelare che sia stata computata ai fini della

determinazione della pena) si deduce l’ulteriore speculare principio secondo cui chi ha ottenuto la

riparazione non può più beneficiare della fungibilità con riguardo ad un identico periodo di

carcerazione senza titolo; che i due istituti sono alternativi, essendo quindi rimessa all’interessato la

facoltà di scegliere quello di cui avvalersi; che occorre evitare un’ingiustificata disparità di

trattamento fra chi, avendo ottenuto la fungibilità non potrebbe conseguire la riparazione e chi,

invece, avendo ottenuto quest’ultima, avrebbe diritto anche alla fungibilità (Cass. 10-5-99 n. 3488

Rv. 214644; Cass. 16-1-04 n. 18966 Rv. 227968; Cass. 11-2-04 n. 10366 Rv. 227229).

In termini difformi è stato invece affermato che il comma 4 dell’art. 314 c.p.p. prevede

esclusivamente il caso in cui il soggetto abbia usufruito della fungibilità e non già quello in cui egli

abbia “scelto” la riparazione per cui solo il primo beneficio deve ritenersi preclusivo dell’altro; a

sostegno di tale soluzione si è evidenziato che non è appropriato parlare di vera e propria facoltà di

scelta in capo all’interessato in quanto i due istituti sono ontologicamente diversi, essendo la

fungibilità affidata ai poteri di ufficio dell’organo dell’esecuzione mentre la richiesta di riparazione

è interamente rimessa alla volontà del privato; infine è stato sottolineato che ogniqualvolta la

possibile fungibilità si concretizzi dopo la scadenza del termine posto dall’art. 315 c. 1 c.p.p. si

verterebbe in fattispecie di “rinuncia coatta” ad uno dei due benefici e di converso che la disparità

di trattamento, paventata dal contrario indirizzo, è superabile con il rimedio dell’azione giudiziaria

esercitabile dallo Stato per l’indebito arricchimento (Cass. 23-11-04 n. 358 Rv. 230723).

Una soluzione intermedia risulta infine adottata in una più recente pronuncia la quale, a

fronte di conseguita riparazione, limita la possibilità di ottenere la detrazione del periodo di custodia

sofferta senza titolo all’ipotesi in cui, quando l’interessato ebbe a promuovere l’istanza di cui all’art.

314 c.p.p., non era ancora applicabile la fungibilità; qualora invece il soggetto, “pur essendo

attivabili entrambi le opzioni, abbia per propria scelta chiesto e conseguita la riparazione”, è stato

negato che il medesimo possa invocare l’operatività dell’altro istituto (Cass. 5-12-07 n. 47001 Rv.

238489).

Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 31416 del 2008

hanno ritenuto di aderire all’impostazione adottata dalla sentenza n. 358 del 2004 la quale

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riconosce, in generale e senza individuare limitazioni, l’applicabilità del beneficio della fungibilità,

anche se il condannato abbia ottenuto la riparazione per l’ingiusta detenzione.

Di seguito la massima della sentenza sopra citata:

Ai fini della determinazione della pena da eseguire vanno computati anche i periodi di custodia cautelare relativi ad altri fatti, per i quali il condannato abbia già ottenuto il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione, stante la inderogabilità della disciplina di cui all’art. 657 c.p.p. e dovendosi escludere l’esistenza di una facoltà da parte dell’interessato (pur quando ne sussisterebbe la possibilità, attesa la già intervenuta esecutività della sentenza di condanna all’atto della richiesta di riparazione) tra il ristoro pecuniario di cui all’art. 314 cpp e lo scomputo dalla pena da espiare della custodia cautelare ingiustamente sofferta, fermo restando che, al fine di evitare che l’interessato consegua un’indebita locupletazione , il giudice investito della richiesta di riparazione può sospendere il relativo procedimento, ove gli risulti l’esistenza di una condanna non ancora definitiva a pena dalla quale possa essere scomputato il periodo di custodia cautelare cui la detta richiesta si riferisce e che, ove la somma liquidata a titolo di riparazione sia stata già corrisposta, lo Stato può agire per il suo recupero esperendo l’azione di ingiustificato arrichimento di cui all’art. 2041 c.c. ( Sez. Un n. 31416 del 2008).

2. La fungibilità tra pena e misura di sicurezza detentiva

- Cassazione penale sez. I 14 luglio 2014 n. 38336

La fungibilità fra pena e misura di sicurezza detentiva di cui all'art. 657 c.p.p., opera soltanto nel caso in cui quest'ultima sia stata provvisoriamente applicata per la stessa causa, determinando una ininterrotta privazione della libertà personale dell'imputato, riferibile in parte a custodia cautelare ed in parte ad applicazione provvisoria di misura di sicurezza, con la conseguenza che tale criterio non opera quando venga applicata definitivamente la misura di sicurezza poiché l'intero periodo di privazione della libertà personale non può essere computato al contempo come internamento per misura di sicurezza detentiva e come espiazione della pena inflitta. (Fattispecie nella quale è stata esclusa la fungibilità tra l'esecuzione della pena detentiva e la misura di sicurezza della casa di lavoro, applicata all'imputato a seguito di autonomo procedimento di sorveglianza, nel quale era stato dichiarato delinquente abituale). (Rigetta, Gip Trib. Rimini, 15/04/2013 )

ART. 657-BIS C.P.P. COMPUTO DEL PERIODO DI MESSA ALLA PROVA DELL'IMPUTATO IN CASO DI REVOCA.

In caso di revoca o di esito negativo della messa alla prova, il pubblico ministero, nel determinare la pena da eseguire, detrae un periodo corrispondente a quello della prova eseguita. Ai fini della detrazione, tre giorni di prova sono equiparati a un giorno di reclusione o di arresto, ovvero a 250 euro di multa o di ammenda

ART. 658 C.P.P. ESECUZIONE DELLE MISURE DI SICUREZZA ORDINATE CON SENTENZA.

Quando deve essere eseguita una misura di sicurezza, diversa dalla confisca, ordinata con sentenza, il pubblico ministero presso il giudice indicato nell'articolo 665 trasmette gli atti al

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pubblico ministero presso il magistrato di sorveglianza competente per i provvedimenti previsti dall'articolo 679. Le misure di sicurezza di cui sia stata ordinata l'applicazione provvisoria a norma dell'articolo 312 sono eseguite dal pubblico ministero presso il giudice che ha emesso il provvedimento, il quale provvede a norma dell'articolo 659 comma 2.

Questioni interpretative

- Cassazione civile sez. lav. 18 ottobre 2013 n. 23704

In tema di immigrazione, il provvedimento di espulsione dello straniero adottato, quale misura di sicurezza, dal giudice penale non è - salvo che non ne sia stata disposta l'applicazione provvisoria - immediatamente operativo, presupponendo il successivo intervento del magistrato di sorveglianza ed, in caso di impugnazione delle determinazioni di quest'ultimo, del tribunale di sorveglianza. Ne consegue che l'ordine di espulsione disposto con sentenza non produce, di per sé, la condizione soggettiva di straniero espulso, né comporta il rifiuto del rinnovo o la revoca del permesso di soggiorno. (In applicazione dell'anzidetto principio, la S.C., con riguardo a vicenda soggetta alla previsione di cui all'art. 22 del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 268, nel testo antecedente al d.lgs. 30 luglio 2002, n. 189, ha corretto la motivazione della decisione di merito che, senza considerare che era già intervenuto un autonomo diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, aveva ritenuto l'ordine di espulsione contenuto nella sentenza penale la ragione dell'insorgere del divieto di occupazione del lavoratore e, dunque, di cessazione del rapporto per impossibilità sopravvenuta della prestazione). Cassa con rinvio, App. Bologna, 18/10/2007

ART. 659 C.P.P. ESECUZIONE DI PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE DI SORVEGLIANZA.

1. Quando a seguito di un provvedimento del giudice di sorveglianza deve essere disposta la carcerazione o la scarcerazione del condannato, il pubblico ministero che cura l'esecuzione della sentenza di condanna emette ordine di esecuzione con le modalita previste dall'articolo 656  comma. 4. Tuttavia, nei casi di urgenza, il pubblico ministero presso il giudice di sorveglianza che ha adottato il provvedimento può emettere ordine provvisorio di esecuzione che ha effetto fino a quando non provvede il pubblico ministero competente.

2. I provvedimenti relativi alle misure di sicurezza diverse dalla confisca sono eseguiti dal pubblico ministero presso il giudice di sorveglianza che li ha adottati. Il pubblico ministero comunica in copia il provvedimento all'autorita di pubblica sicurezza e, quando ne è il caso, emette ordine di esecuzione, con il quale dispone la consegna o la liberazione dell'interessato.

ART. 660 C.P.P. ESECUZIONE DELLE PENE PECUNIARIE.

1. Le condanne a pena pecuniaria sono eseguite nei modi stabiliti dalle leggi e dai regolamenti. 2. Quando e accertata la impossibilita di esazione della pena pecuniaria o di una rata di essa, il pubblico ministero trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza competente per la conversione, il quale provvede previo accertamento dell'effettiva insolvibilita del condannato e, se ne e il caso, della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria. Se la pena e stata rateizzata, e convertita la parte non ancora pagata. 3. In presenza di situazioni di insolvenza, il magistrato di sorveglianza puo disporre la rateizzazione della pena a norma dell'articolo 133-ter del codice penale, se essa non e stata disposta con la sentenza di condanna ovvero puo differire la conversione per un tempo non superiore a sei mesi. Alla scadenza del termine fissato, se lo stato di insolvenza perdura, e disposto

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un nuovo differimento, altrimenti e ordinata la conversione. Ai fini della estinzione della pena per decorso del tempo, non si tiene conto del periodo durante il quale l'esecuzione e stata differita. 4. Con l'ordinanza che dispone la conversione, il magistrato di sorveglianza determina le modalita delle sanzioni conseguenti in osservanza delle norme vigenti. 5. Il ricorso contro l'ordinanza di conversione ne sospende l'esecuzione

Questioni interpretative

- Cassazione penale, sez. I, 12 maggio 2009 n. 22780

Il provvedimento di rateizzazione della pena pecuniaria è attribuito alla competenza del magistrato di sorveglianza dall'art. 660, comma 3, c.p.p. (Fattispecie in tema di conflitto negativo di competenza tra il magistrato di sorveglianza e il g.i.p. che aveva emesso il decreto penale di condanna).

ART. 661 C.P.P. ESECUZIONE DELLE SANZIONI SOSTITUTIVE.

1. Per l'esecuzione della semidetenzione e della libertà controllata, il pubblico ministero trasmette l'estratto della sentenza di condanna al magistrato di sorveglianza territorialmente competente che provvede in osservanza delle leggi vigenti. 2. La pena pecuniaria, quale sanzione sostitutiva, e eseguita a norma dell'articolo 660.

Sul punto si veda:

- Cassazione penale sez. I 19 luglio 1995

Il potere di modificare le prescrizioni inerenti all'ordinanza che ha disposto le modalità di esecuzione della semidetenzione o della libertà controllata spetta allo stesso magistrato di sorveglianza che ha emesso la suddetta ordinanza, a prescindere dal fatto che la persona sottoposta agli obblighi si sia trasferita.

ART. 662 C.P.P. ESECUZIONE DELLE PENE ACCESSORIE.

1. Per l'esecuzione delle pene accessorie, il pubblico ministero, fuori dei casi previsti dagli articoli 32 e 34 del codice penale, trasmette l'estratto della sentenza di condanna agli organi della polizia giudiziaria e di pubblica sicurezza e, occorrendo, agli altri organi interessati, indicando le pene accessorie da eseguire. Nei casi previsti dagli articoli 32 e 34 del codice penale, il pubblico ministero trasmette l'estratto della sentenza al giudice civile competente. 2. Quando alla sentenza di condanna consegue una delle pene accessorie previste dagli articoli 28, 30, 32-bis e 34 del codice penale, per la determinazione della relativa durata si computa la misura interdittiva di contenuto corrispondente eventualmente disposta a norma degli articoli 288, 289 e 290.

Sul punto si vedano:

- Cassazione penale sez. VI 20 gennaio 2011 n. 13789

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Il rimedio accordato al pubblico ministero ove la sentenza di condanna abbia omesso di applicare le pene accessorie, è il ricorso al giudice dell'esecuzione e non l'impugnazione.(Dichiara inammissibile, App. L'Aquila, 10 dicembre 2009).

- Cassazione penale sez. I 10 novembre 2004 n. 45381

L'assoluto automatismo nell'applicazione delle pene accessorie, predeterminate per legge sia nella specie che nella durata e sottratte, perciò, alla valutazione discrezionale del giudice, comporta, da un lato, che l'erronea applicazione di una pena accessoria da parte del giudice di cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell'esecuzione, e dall'altro che, quando alla condanna consegue di diritto una pena accessoria così dalla legge stabilita, il p.m. ne può chiedere l'applicazione al giudice dell'esecuzione qualora si sia omesso di provvedere con la sentenza di condanna.

ART. 663 C.P.P. ESECUZIONE DI PENE CONCORRENTI.

1. Quando la stessa persona e stata condannata con piu sentenze o decreti penali per reati diversi, il pubblico ministero determina la pena da eseguirsi, in osservanza delle norme sul concorso di pene.

2. Se le condanne sono state inflitte da giudici diversi, provvede il pubblico ministero presso il giudice indicato nell'articolo 665 comma 4. 3. Il provvedimento del pubblico ministero e notificato al condannato e al suo difensore

Sul punto si vedano:

- Cassazione penale sez. I, 23 giugno 2010 n. 27569

Ai fini dell'esecuzione di pene concorrenti vanno inserite nel cumulo non solo tutte le pene che non risultano ancora espiate alla data di commissione dell'ultimo reato, ma anche quelle già espiate che possono comunque avere un riflesso sul cumulo materiale, in vista della maturazione dei requisiti temporali per l'ammissione ad eventuali benefici penitenziari (cfr. Cassazione penale sez. I, 23 giugno 2010 n. 27569 che annulla con rinvio, Gip Trib. Torino, 22 novembre 2009).

- Cassazione penale sez. I 09 novembre 2012 n. 7333

In materia di applicazione in sede esecutiva della disciplina del reato continuato è ammissibile, in quanto non meramente ripropositiva, la domanda relativa a fatti, successivamente ricompresi insieme ad altri in un provvedimento di esecuzione di pene concorrenti ex art. 663 c.p.p., che abbiano già formato oggetto di una precedente istanza, respinta, di applicazione della continuazione, costituendo la sopravvenienza di un provvedimento di cumulo, ancorché comprensiva di reati per i quali l'esistenza del vincolo sia stata esclusa, un nuovo elemento che impone la valutazione del nesso ideativo e volitivo tra tutti i fatti in esso confluiti. (cfr. Cassazione penale sez. I 09 novembre 2012 n. 7333 che annulla con rinvio, Trib. Asti, 14/04/2011).

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ART. 664 C.P.P. ESECUZIONE DI ALTRE SANZIONI PECUNIARIE.

1. Le somme dovute per sanzioni disciplinari pecuniarie o per condanna alla perdita della cauzione o in conseguenza della dichiarazione di inammissibilità o di rigetto di una richiesta, sono devolute alla cassa delle ammende anche quando ciò non sia espressamente stabilito. 2. I relativi provvedimenti possono essere revocati dal giudice, su richiesta dell'interessato o del pubblico ministero, prima della conclusione della fase del procedimento nella quale sono stati adottati, sempre che la revoca non sia vietata. [3. I provvedimenti non più revocabili si eseguono nei modi previsti per il recupero delle spese processuali anticipate dallo Stato.] 4. Per l'esecuzione delle sanzioni conseguenti a violazioni amministrative accertate nel processo penale, il pubblico ministero trasmette l'estratto della sentenza esecutiva all'autorita amministrativa competente.

ART. 665 C.P.P. GIUDICE COMPETENTE.

1. Salvo diversa disposizione di legge, competente a conoscere dell'esecuzione di un provvedimento è il giudice che lo ha deliberato. 2. Quando è stato proposto appello, se il provvedimento è stato confermato o riformato soltanto in relazione alla pena, alle misure di sicurezza o alle disposizioni civili, e competente il giudice di primo grado; altrimenti è competente il giudice di appello. 3. Quando vi è stato ricorso per cassazione e questo è stato dichiarato inammissibile o rigettato ovvero quando la corte ha annullato senza rinvio il provvedimento impugnato, e competente il giudice di primo grado, se il ricorso fu proposto contro provvedimento inappellabile ovvero a norma dell'articolo 569, e il giudice indicato nel comma 2 negli altri casi. Quando è stato pronunciato l'annullamento con rinvio, è competente il giudice di rinvio. 4. Se l'esecuzione concerne più provvedimenti emessi da giudici diversi, e competente il giudice che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo. Tuttavia, se i provvedimenti sono stati emessi da giudici ordinari o giudici speciali, è competente in ogni caso il giudice ordinario. 4-bis. Se l'esecuzione concerne piu provvedimenti emessi dal tribunale in composizione monocratica e collegiale, l'esecuzione e attribuita in ogni caso al collegio.

Questioni interpretative.

1. L'erronea o omessa applicazione da parte del giudice di cognizione di una pena accessoria predeterminata per legge nella specie e nella durata o l'applicazione da parte del medesimo giudice, previa delimitazione del principio di legalità della pena in rapporto al giudicato e alla sua applicazione in sede esecutiva, di una pena accessoria 'extra' o 'contra legem', possano essere rilevate, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell'esecuzione?

Sul punto si veda:

- Cass. Sez. Un. pen., sent. 27 novembre 2014 (dep. 12 febbraio 2015), n. 6240 che ha affermato il seguente principio:

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"L'applicazione di una pena accessoria extra o contra legem da parte del giudice della cognizione può essere rilevata, anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza, dal giudice dell'esecuzione, purché essa sia determinata per legge (o determinabile, senza alcuna discrezionalità) nella specie e nella durata, e non derivi da un errore valutativo del giudice della cognizione".

2. L’ordine di demolizione impartito con sentenza di condanna irrevocabile e la successiva sanatoria o condono

Sul punto si veda:

- Cass. n.24273 del 2010

Il giudice dell'esecuzione deve revocare l'ordine di demolizione impartito con la sentenza di condanna o di patteggiamento soltanto quando siano già sopravvenuti atti amministrativi del tutto incompatibili con esso e può altresì sospendere tale ordine quando sia concretamente prevedibile e probabile l'emissione, entro breve tempo, di atti amministrativi incompatibili.

- Cass. pen. sez.4 n.15210 del 5.3.3008

In sede di esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo, disposto con la sentenza di condanna ai sensi dell'art.7 L.n.47 del 1985, il giudice, al fine di pronunciarsi sulla sospensione dell’esecuzione per avvenuta presentazione di domanda di condono edilizio, deve accertare l'esistenza delle seguenti condizioni: 1) la riferibilità della domanda di condono edilizio all'immobile di cui in sentenza; 2) la proposizione dell'istanza da parte di soggetto legittimato; 3) la procedibilità e proponibilità della domanda, con riferimento alla documentazione richiesta; 4) l'insussistenza di cause di non condonabilità assoluta dell'opera; 5) l'eventuale avvenuta emissione di una concessione in sanatoria tacita per congruità dell'obiezione ed assenza di cause ostative; 6) la attuale pendenza dell'istanza di condono; 7) la non adozione di un provvedimento da parte della P.A. contrastante con l'ordine di demolizione".

- Cass. Sez. Un. n.42858/2014

L’ordine di demolizione del manufatto abusivo, disposto con la sentenza di condanna per reato edilizio, non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta all’irrevocabilità della sentenza , non avendo natura penale ma di sanzione amministrativa.

- Cass. n. 30004/2013

Per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 251 del 2012, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 69, comma 4, c.p. nella parte in cui vietava di valutare prevalente la circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309 del 1990, sulla recidiva di cui all'art. 99, comma 4, c.p., il giudice dell'esecuzione, ai sensi dell'art. 666, comma 1, c.p.p. e in applicazione dell'art. 30, comma 4, della legge n. 87 del 1953, potrà affermare la prevalenza della circostanza attenuante, sempreché una simile valutazione non sia stata esclusa nel merito dal giudice della cognizione in applicazione di norme diverse da quelle dichiarate incostituzionali; tuttavia nel rideterminare la pena deve attenersi ai limiti derivanti dai principi in materia di successioni di leggi penali nel tempo.

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- Cass. n. 48337/2014

L'art. 665, comma quarto, c.p.p. allorchè, in caso di esecuzione di una pluralità di provvedimenti emessi da giudici diversi, attribuisce la competenza al giudice che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo, si riferisce ai soli provvedimenti di condanna (anche eventualmente a pena non eseguibile), gli unici per i quali è prevista l'attivazione del procedimento esecutivo. (In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto non fosse competente in sede esecutiva il giudice che per ultimo aveva emesso sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato).Contra: In caso di esecuzione di una pluralità di provvedimenti emessi dai giudici diversi , la competenza appartiene al giudice che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo anche quando questo è costituito da una sentenza di proscioglimento.

- Cass. n. 10676/2015

Nei procedimenti con pluralità di imputati, la competenza del giudice di appello a provvedere "in executivis" va affermata, in forza del principio dell'unitarietà dell'esecuzione, non solo rispetto a coloro per i quali la sentenza di primo grado è stata sostanzialmente riformata, ma anche rispetto a coloro nei cui confronti la decisione sia stata confermata, pure quando la riforma sostanziale consiste nel proscioglimento di una persona diversa dall'istante.

ART. 666 C.P.P. PROCEDIMENTO DI ESECUZIONE.

1. Il giudice dell'esecuzione procede a richiesta del pubblico ministero, dell'interessato o del difensore. 2. Se la richiesta appare manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge ovvero costituisce mera riproposizione di una richiesta gia rigettata, basata sui medesimi elementi, il giudice o il presidente del collegio, sentito il pubblico ministero, la dichiara inammissibile con decreto motivato, che e notificato entro cinque giorni all'interessato. Contro il decreto puo essere proposto ricorso per cassazione. 3. Salvo quanto previsto dal comma 2, il giudice o il presidente del collegio, designato il difensore di ufficio all'interessato che ne sia privo, fissa la data dell'udienza in camera di consiglio e ne fa dare avviso alle parti e ai difensori. L'avviso e comunicato o notificato almeno dieci giorni prima della data predetta. Fino a cinque giorni prima dell'udienza possono essere depositate memorie in cancelleria. 4. L'udienza si svolge con la partecipazione necessaria del difensore e del pubblico ministero. L'interessato che ne fa richiesta e sentito personalmente; tuttavia, se e detenuto o internato in luogo posto fuori della circoscrizione del giudice, e sentito prima del giorno dell'udienza dal magistrato di sorveglianza del luogo, salvo che il giudice ritenga di disporre la traduzione. 5. Il giudice puo chiedere alle autorita competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno; se occorre assumere prove, procede in udienza nel rispetto del contraddittorio. 6. Il giudice decide con ordinanza. Questa e comunicata o notificata senza ritardo alle parti e ai difensori, che possono proporre ricorso per cassazione. Si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni sulle impugnazioni e quelle sul procedimento in camera di consiglio davanti alla corte di cassazione . 7. Il ricorso non sospende l'esecuzione dell'ordinanza , a meno che il giudice che l'ha emessa disponga diversamente. 8. Se l'interessato e infermo di mente, l'avviso previsto dal comma 3 e notificato anche al tutore o al curatore; se l'interessato ne e privo, il giudice o il presidente del collegio nomina un curatore

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provvisorio. Al tutore e al curatore competono gli stessi diritti dell'interessato. 9. Il verbale di udienza e redatto soltanto in forma riassuntiva a norma dell'articolo 140 comma

Questioni interpretative

Sul punto si vedano:

- Cass. Sez. Un. n. 47766/2015:

L'illegalità della pena, derivante da palese errore giuridico o materiale da parte del giudice della cognizione, privo di argomentata valutazione, ove non sia rilevabile d'ufficio in sede di legittimità per tardività del ricorso, è deducibile davanti al giudice dell'esecuzione, adito ai sensi dell'art. 666 cod. proc. pen.

- Cassazione penale sez. I 05 giugno 2014 n. 40835

In tema di contraddittorio nel procedimento di esecuzione, ai sensi dell'art. 666, comma 4, c.p.p., l'interessato, detenuto in un luogo posto fuori dalla circoscrizione del giudice che procede, non ha diritto di essere tradotto in udienza, ma soltanto (su sua richiesta) di essere sentito dal magistrato di sorveglianza del luogo in cui si trova, prima del giorno fissato per l'udienza, con la conseguenza che la sua omessa audizione non è causa di nullità assoluta, ma integra una nullità del procedimento di ordine generale e a regime intermedio ex art. 178, comma 1, lett. c), c.p.p. (Rigetta, Trib. Verona, 11/10/2013 ).

- Cassazione penale sez. III 01 luglio 2014 n. 50005

Il provvedimento del giudice dell'esecuzione divenuto formalmente irrevocabile preclude, ai sensi dell'art. 666, comma 2, c.p.p., una nuova pronuncia sul medesimo "petitum" finché non si prospettino elementi che, riguardati per il loro significato sostanziale e non per l'apparente novità della veste formale, possono essere effettivamente qualificati come nuove questioni giuridiche o nuovi elementi di fatto, sopravvenuti ovvero preesistenti, che non abbiano già formato oggetto di valutazione ai fini della precedente decisione. (Fattispecie di inammissibilità di nuova istanza di sospensione di ordine di demolizione, presentata da soggetti diversi dal destinatario della precedente decisione di rigetto e sulla base di elementi già esaminati dal primo giudice). (Dichiara inammissibile, App. Napoli, 06/06/2013 )

Cassazione penale sez. I 22 settembre 2014 n. 43390

L'art. 666, comma 2, c.p.p. - nel prevedere la possibilità di dichiarare "de plano" l'inammissibilità della richiesta, quando la stessa sia manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge - non è applicabile in tema di affidamento in prova al servizio sociale, nel caso in cui il richiedente non abbia allegato un'attività di lavoro, non rientrando tale elemento tra le condizioni richieste dalla legge per la concessione del beneficio in esame e dovendosi valutare la mancanza di un'occupazione stabile unitamente agli altri elementi riguardanti la personalità del richiedente. (Annulla senza rinvio, Trib.sorv. Torino, 04/12/2013 ).

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ART. 667 C.P.P. DUBBIO SULL'IDENTITA FISICA DELLA PERSONA DETENUTA.

1. Se vi è ragione di dubitare dell'identità della persona arrestata per esecuzione di pena o perche evasa mentre scontava una condanna, il giudice dell'esecuzione la interroga e compie ogni indagine utile alla sua identificazione anche a mezzo della polizia giudiziaria. 2. Quando riconosce che non si tratta della persona nei cui confronti deve compiersi l'esecuzione, ne ordina immediatamente la liberazione. Se l'identita rimane incerta, ordina la sospensione dell'esecuzione, dispone la liberazione del detenuto e invita il pubblico ministero a procedere a ulteriori indagini. 3. Se appare evidente che vi e stato un errore di persona e non e possibile provvedere tempestivamente a norma dei commi 1 e 2, la liberazione può essere ordinata in via provvisoria con decreto motivato dal pubblico ministero del luogo dove l'arrestato si trova. Il provvedimento del pubblico ministero ha effetto fino a quando non provvede il giudice competente, al quale gli atti sono immediatamente trasmessi. 4. Il giudice dell'esecuzione provvede in ogni caso senza formalità con ordinanza comunicata al pubblico ministero e notificata all'interessato. Contro l'ordinanza possono proporre opposizione davanti allo stesso giudice il pubblico ministero, l'interessato e il difensore; in tal caso si procede a norma dell'articolo 666. L'opposizione e proposta, a pena di decadenza, entro quindici giorni dalla comunicazione o dalla notificazione dell'ordinanza. 5. Se la persona detenuta deve essere giudicata per altri reati, l'ordinanza è comunicata all'autorita giudiziaria procedente.

Questioni interpretative

- Cassazione penale sez. VI 12 febbraio 2014 n. 13445

In tema di confisca, avverso il provvedimento del giudice dell'esecuzione - sia che questi abbia deciso "de plano" ai sensi dell'art. 667 comma 4 c.p.p. sia che abbia provveduto irritualmente nelle forme dell'udienza camerale ex art. 666 c.p.p. - è prevista solo la facoltà di proporre opposizione, sicché come tale deve essere riqualificato l'eventuale ricorso per cassazione proposto avverso il suddetto provvedimento, nel rispetto del principio generale della conservazione degli atti giuridici e del "favor impugnationis", con conseguente trasmissione degli atti al giudice competente. (Ordina trasmiss. atti, Trib. Santa Maria Capua Vetere, 01/10/2012).

- Cassazione penale sez. I 28 febbraio 2012 n. 11770

Qualora il giudice dell'esecuzione, in materie nelle quali, per il combinato disposto degli art. 676, comma 1, e 667, comma 4, c.p.p., è previsto che si provveda "de plano", provveda invece all'esito di procedura camerale partecipata, deve escludersi che avverso tale provvedimento possa direttamente proporsi ricorso per cassazione, dovendosi invece ritenere proponibile l'opposizione ai sensi del comma 4 del citato art. 667 c.p.p..

ART. 668 C.P.P. PERSONA CONDANNATA PER ERRORE DI NOME.

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1. Se una persona è stata condannata in luogo di un'altra per errore di nome, il giudice dell'esecuzione provvede alla correzione nelle forme previste dall'articolo 130 soltanto se la persona contro cui si doveva procedere è stata citata come imputato anche sotto altro nome per il giudizio; altrimenti si provvede a norma dell'articolo 630 comma 1 lettera c). In ogni caso l'esecuzione contro la persona erroneamente condannata e sospesa

Questioni interpretative

- Cassazione penale sez. I 15 novembre 2012 n. 48349

È legittima l'instaurazione della procedura di incidente di esecuzione per la correzione dell'errore materiale della sentenza di condanna contenente l'erronea indicazione delle generalità del condannato, a condizione che sia stato regolarmente citato come imputato nel giudizio di merito, anche se con altro nome. Rigetta, Trib. Novara, 25/01/2012

- Cassazione penale sez. I 22 gennaio 2009 n. 13564

Qualora la persona condannata con sentenza irrevocabile lamenti sia l'erronea indicazione delle generalità nella sentenza stessa, sia la propria estraneità al fatto, adducendone le prove, sono configurabili due distinte questioni: la prima, riconducibile alla previsione dell'art. 668 c.p.p. e concernente l'errore di nome del condannato, al quale deve ovviare il giudice dell'esecuzione nelle forme previste dall'art. 130 stesso codice, se la persona contro cui si doveva procedere è stata citata come imputato anche sotto altro nome per il giudizio; la seconda, meramente eventuale e successiva, rientrante nella previsione dell'art. 630, comma 1, lett. c) del codice e finalizzata alla revisione del processo, di competenza della corte d'appello. Annulla in parte con rinvio, Trib. Brescia, 12 Maggio 2008

- Cassazione penale sez. I 10 luglio 2000 n. 4943

Qualora la persona condannata con sentenza irrevocabile lamenti sia l'erronea indicazione delle generalità nella sentenza stessa, sia la propria estraneità al fatto, adducendone le prove, sono configurabili due distinte questioni: la prima, riconducibile alla previsione dell'art. 668 c.p.p. e concernente l'errore di nome del condannato, al quale deve ovviare il giudice dell'esecuzione nelle forme previste dall'art. 130 stesso codice, se la persona contro cui si doveva procedere è stata citata come imputato anche sotto altro nome per il giudizio; la seconda, meramente eventuale e successiva, rientrante nella previsione dell'art. 630, comma 1, lett. c)- del codice e finalizzata alla revisione del processo, di competenza della corte d'appello. Ne consegue che, in via prioritaria, spetta al giudice dell'esecuzione verificare se l'imputato - nella sua fisica identità e indipendentemente dal nome attribuitogli - sia stato citato in giudizio e, in caso di esito positivo dell'accertamento, stabilire se le generalità risultanti dal titolo esecutivo siano esatte, provvedendo, in caso di generalità indicate erroneamente, ad eventuale rettifica con la procedura di cui al citato art. 130. In caso di esito negativo del predetto accertamento, il giudice dell'esecuzione deve trasmettere gli atti al giudice competente per la revisione, in quanto, ove sia mancata la citazione in giudizio della persona fisica, comunque denominata, alla quale il fatto è stato attribuito, opera l'espressa previsione dell'art. 668 c.p.p., mentre qualora la citazione sia regolarmente avvenuta, ancorché con generalità errate, e sia riferibile alla persona condannata, devono comunque essere prese in autonoma considerazione le nuove prove da questa dedotte a dimostrazione della propria estraneità al fatto. (Fattispecie in tema di conflitto negativo di competenza, relativamente alla quale il giudice dell'esecuzione, investito, dopo una prima rettificazione delle generalità del condannato,

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di un'ulteriore istanza di correzione delle generalità stesse basata su nuovi elementi di prova, aveva declinato la propria competenza in favore del giudice della revisione sul rilievo, ritenuto erroneo dalla S.C., dell'immodificabilità della sentenza già oggetto di correzione dell'errore materiale).

Art. 669 c.p.p. Pluralita di sentenze per il medesimo fatto contro la stessa persona.

1. Se più sentenze di condanna divenute irrevocabili sono state pronunciate contro la stessa persona per il medesimo fatto, il giudice ordina l'esecuzione della sentenza con cui si pronuncio la condanna meno grave, revocando le altre. 2. Quando le pene irrogate sono diverse, l'interessato può indicare la sentenza che deve essere eseguita. Se l'interessato non si avvale di tale facolta prima della decisione del giudice dell'esecuzione, si applicano le disposizioni dei commi 3 e 4. 3. Se si tratta di pena pecuniaria e pena detentiva, si esegue la pena pecuniaria. Se si tratta di pene detentive o pecuniarie di specie diversa, si esegue la pena di minore entita, se le pene sono di uguale entita, si esegue rispettivamente l'arresto o l'ammenda. Se si tratta di pena detentiva o pecuniaria e della sanzione sostitutiva della semidetenzione o della libertà controllata, si esegue, in caso di pena detentiva, la sanzione sostitutiva e, in caso di pena pecuniaria, quest'ultima. 4. Quando le pene principali sono uguali, si tiene conto della eventuale applicazione di pene accessorie o di misure di sicurezza e degli altri effetti penali. Quando le condanne sono identiche, si esegue la sentenza divenuta irrevocabile per prima. 5. Se la sentenza revocata era stata in tutto o in parte eseguita, l'esecuzione si considera come conseguente alla sentenza rimasta in vigore. 6. Le stesse disposizioni si applicano se si tratta di piu decreti penali o di sentenze e di decreti ovvero se il fatto è stato giudicato in concorso formale con altri fatti o quale episodio di un reato continuato, premessa, ove necessaria, la determinazione della pena corrispondente. 7. Se piu sentenze di non luogo a procedere o piu sentenze di proscioglimento sono state pronunciate nei confronti della stessa persona per il medesimo fatto, il giudice, se l'interessato entro il termine previsto dal comma 2 non indica la sentenza che deve essere eseguita, ordina l'esecuzione della sentenza piu favorevole, revocando le altre. 8. Salvo quanto previsto dagli articoli 69 comma 2 e 345, se si tratta di una sentenza di proscioglimento e di una sentenza di condanna o di un decreto penale, il giudice ordina l'esecuzione della sentenza di proscioglimento revocando la decisione di condanna. Tuttavia, se il proscioglimento e stato pronunciato per estinzione del reato verificatasi successivamente alla data in cui è divenuta irrevocabile la decisione di condanna, si esegue quest'ultima. 9. Se si tratta di una sentenza di non luogo a procedere e di una sentenza pronunciata in giudizio o di un decreto penale, il giudice ordina l'esecuzione della sentenza pronunciata in giudizio o del decreto.

Sul punto si vedano:

- Cassazione penale sez. I 01 marzo 2013 n. 27834

Il principio del "ne bis in idem", finalizzato ad evitare che per lo stesso fatto si svolgano più procedimenti e si adottino più provvedimenti anche non irrevocabili, l'uno indipendentemente dall'altro, assume portata generale nel vigente diritto processuale penale, trovando espressione nelle norme sui conflitti positivi di competenza (art. 28 e ss. c.p.p.), nel divieto di un secondo giudizio (art. 649 c.p.p.) e nell'ipotesi di una pluralità di sentenze per il medesimo fatto (art. 669 c.p.p.). Rigetta, Trib. lib. Catanzaro, 16/08/2012

- Cassazione penale sez. I 16 maggio 2014 n. 34048

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Il divieto di pluralità di sentenze contro la medesima persona per il medesimo fatto, non viene meno solo perché, insieme a tale fatto, le diverse sentenze riguardano anche altri fatti concorrenti con quello ripetutamente giudicato, atteso il disposto dell'art. 669, comma 6, c.p.p., il quale prevede la revoca parziale del giudicato, limitatamente alla porzione di pena inflitta per lo stesso fatto da più provvedimenti. (Annulla in parte con rinvio, Trib. Firenze, 09/08/2013 )

- Cassazione penale sez. V 06 maggio 2010 n. 21943

Una volta che per l'imputato sia divenuta irrevocabile la sentenza di patteggiamento, l'assoluzione definitiva successivamente intervenuta nei confronti del coimputato del medesimo reato non gli può essere estesa ove egli, non avendo proposto tempestivo ricorso per cassazione per violazione dell'art. 129 c.p.p., ne proponga uno tardivo per dedurre l'inconciliabilità dei giudicati a norma dell'art. 669, comma 8, stesso codice, mentre gli è consentita la possibilità di conseguire la revisione della sentenza, qualora ne ricorrano i presupposti.

- Cass. n. 39337/2002

La regola, stabilita dall'art. 669, comma 8, prima parte c.p.p., per cui, se nei confronti della stessa persona sono state pronunciate per il medesimo fatto una sentenza di proscioglimento e una decisione di condanna, il giudice ordina l'esecuzione della prima, non trova applicazione qualora la prima si identifichi in una sentenza di non luogo a procedere, prevalendo, in tal caso, il disposto del comma 9 dello stesso articolo che privilegia, anziché la decisione più favorevole, quella dotata del carattere dell'irrevocabilità.

- Cass. n. 2455/1999

La sentenza con cui il Gip dichiara l'estinzione del reato per oblazione non è una decisione di non luogo a procedere, ma va considerata come sentenza di proscioglimento dell'imputato e, come tale, deve essere eseguita in luogo della sentenza di condanna, in applicazione della regola dettata dall'art. 669, comma 8, c.p.p. Infatti tale tipo di decisione non è revocabile in quanto emessa non per ragioni attinenti al merito dell'imputazione, ma per una accertata causa di estinzione del reato. (Nella specie la Corte ha revocato il decreto penale di condanna emesso, per lo stesso fatto, successivamente a sentenza di non doversi procedere per intervenuta oblazione).

ART. 670 C.P.P. QUESTIONI SUL TITOLO ESECUTIVO.

1. Quando il giudice dell'esecuzione accerta che il provvedimento manca o non è divenuto esecutivo, valutata anche nel merito l'osservanza delle garanzie previste nel caso di irreperibilita del condannato, lo dichiara con ordinanza e sospende l'esecuzione, disponendo, se occorre, la liberazione dell'interessato e la rinnovazione della notificazione non validamente eseguita. In tal caso decorre nuovamente il termine per l'impugnazione.

2. Quando e proposta impugnazione od opposizione, il giudice dell'esecuzione, dopo aver provveduto sulla richiesta dell'interessato, trasmette gli atti al giudice di cognizione competente. La decisione del giudice dell'esecuzione non pregiudica quella del giudice dell'impugnazione o dell'opposizione, il quale, se ritiene ammissibile il gravame, sospende con ordinanza l'esecuzione che non sia gia stata sospesa.

3. Se l'interessato, nel proporre richiesta perche sia dichiarata la non esecutivita del provvedimento, eccepisce che comunque sussistono i presupposti e le condizioni per la

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restituzione nel termine a norma dell'articolo 175, e la relativa richiesta non e gia stata proposta al giudice dell'impugnazione, il giudice dell'esecuzione, se non deve dichiarare la non esecutivita del provvedimento, decide sulla restituzione. In tal caso, la richiesta di restituzione nel termine non puo essere riproposta al giudice dell'impugnazione. Si applicano le disposizioni dell'articolo 175 commi 7 e 8.

Questioni interpretative.

- L’ipotesi della sentenza di patteggiamento divenuta irrevocabile prima della sent. 32/2014 della Corte Cost. – il problema dell’illegalità della pena in materia di stupefacenti- lo strumento processuale per rideterminazione della pena

Il quesito risolto dalle Sezioni Unite.

Se la pena applicata su richiesta delle parti per i delitti previsti dall'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 in relazione alle droghe leggere con pronuncia divenuta irrevocabile prima della sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 debba essere necessariamente rideterminata in sede di esecuzione e, in caso di risposta affermativa, se debba essere rideterminata secondo un criterio aritmetico-proporzionale di adeguamento alla mutata e più favorevole cornice edittale - o se, invece, il giudice dell'esecuzione possa rivalutare la congruità e la correttezza della sanzione irrogata dal giudice della cognizione rispetto alla disciplina oggetto di reviviscenza avvalendosi dei criteri discrezionali di cui gli artt. 132 e 133 cod. pen.".

- Sezioni Unite - Sentenza 15 settembre 2015, n.37107

La pena applicata con la sentenza di patteggiamento avente ad oggetto uno o più delitti previsti dall'art. 73 d.P.R. 309 del 1990, relativi alle droghe c.d. leggere, divenuta irrevocabile prima della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, può essere rideterminata in sede di esecuzione in quanto pena illegale. La rideterminazione avviene ad iniziativa della parti, con le modalità di cui al procedimento previsto dall'art. 188 disp. att. cod. proc. pen., sottoponendo al giudice dell'esecuzione una nuova pena su cui è stato raggiunto l'accordo. In caso di mancato accordo o di pena concordata ritenuta non congrua il giudice dell'esecuzione provvede autonomamente alla rideterminazione della pena ai sensi degli artt. 132 e 133 cod. pen.

Nella sentenza in esame le SS.UU. affrontano il complesso problema della

illegalità sopravvenuta della pena nella sentenza di patteggiamento irrevocabile.

Nell’occasione la Suprema Corte afferma che, se può ritenersi acquisito sulla base

dei principi affermati dalla sentenza costituzionale n. 210 del 2013 nonché dalle decisioni

delle Sezioni Unite che la legalità della pena deve essere sempre costantemente

assicurata, anche nella fase dell'esecuzione - almeno fino a quando non sia stata

interamente eseguita -, perché uno Stato di diritto non può tollerare che si faccia luogo

all'esecuzione di una pena incostituzionale ovvero contrastante con la CEDU, rimettendo

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al giudice dell'esecuzione di impedire che una tale sanzione sia sofferta, non altrettanto

pacifico in giurisprudenza il procedimento in base al quale perseguire tale risultato.

Primo orientamento: prevede che la rideterminazione della pena avvenga con un

criterio oggettivo di tipo matematico-proporzionale. Si sostiene che la pena, contenuta in

una sentenza di patteggiamento irrevocabile, ineseguibile, perché derivata da parametri

costituzionalmente illegittimi, deve essere rideterminata, in sede di esecuzione, secondo

un criterio proporzionale che la trasponga all'interno della nuova cornice edittale

determinatasi in seguito alla reviviscenza della normativa previgente alla dichiarazione di

incostituzionalità di cui alla sentenza n. 32 del 2014.

Secondo orientamento: a differenza del primo, opera una dequotazione del

contenuto pattizio e propugna la tesi della libera determinazione della pena da parte del

giudice dell’esecuzione. Si afferma che in sede di esecuzione il giudice deve

rideterminare la pena in rapporto ai nuovi e diversi parametri edittali, dando conto, ai

sensi degli art. 132 e 133 cod. pen., delle modalità di esercizio del potere commisurativo e

tenendo conto dei principi generali del sistema sanzionatorio, tra i quali quello per cui

non può essere aumentata l'afflittività della pena stabilita in sentenza.

Secondo questo indirizzo, in sostanza, si attribuisce alla fase esecutiva la necessità

di «una valutazione globale del fatto», che viene rimessa al giudice dell'esecuzione, «non

essendo più discutibile la forma dell'accertamento e restando a questo punto da reiterare,

in termini ormai sottratti alla dinamica negoziale, la valutazione officiosa di congruità del

trattamento sanzionatorio».

La decisione delle Sezioni Unite.

Ad avviso delle Sezioni Unite, nessuno dei due orientamenti sopra riportati appare

condivisibile. Per quanto concerne il primo, si osserva che il criterio matematico di

riduzione non prende in considerazione il fatto che l'originaria valutazione di congruità

della pena irrogata, sia nella commisurazione della sanzione effettuata in sede di giudizio

di colpevolezza, sia nel giudizio di congruità rimesso al giudice in caso di

patteggiamento, è intimamente connessa alla diversa forbice edittale, all'epoca unica per

tutti i tipi di sostanze stupefacenti, sicché un criterio automatico di riduzione

proporzionale finisce per non tenere conto della concreta gravità dei fatti e della

personalità del reo in rapporto alla nuova cornice edittale. Il limite dell’altro orientamento

è costituito, invece, dal fatto che esso prescinde totalmente dall’accordo delle parti,

conferendo al giudice dell'esecuzione il potere, integro, di rideterminazione della pena,

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oggetto del patteggiamento, divenuta illegale. Il rischio sembra essere quello di applicare

al condannato una pena ex art. 444 cod. proc. pen. di fatto non concordata. Pertanto,

secondo le SS.UU. la soluzione va trovata nell’art. 188 disp. att. cod. proc. pen. quale

strumento per rimodellare la pena, oggetto di sentenza di patteggiamento irrevocabile,

divenuta illegale a seguito della successiva dichiarazione di incostituzionalità. L’art. 188

cit. consente di intervenire in fase esecutiva sulla pena patteggiata, riconoscendo la

continuazione tra più reati oggetto di distinte sentenze irrevocabili ex art. 444 c.p.p. e può

considerarsi una disposizione speciale rispetto a quella generale prevista dall’art. 671

c.p.p., che disciplina anch’essa l’applicazione della continuazione nella fase esecutiva in

relazione a sentenze irrevocabili, ma diverse da quelle di patteggiamento. Identica la

ratio: assicurare l'applicazione della pena "giusta" per l'imputato fino alla fase esecutiva,

nel senso che fin quando è in atto il rapporto esecutivo, che si esaurisce solo con la

consumazione o l'estinzione della pena, l'ordinamento pretende che si possa agire sulla

pena, quindi ammettendo che il giudice dell'esecuzione, su istanza della parte interessata,

intervenga sul giudicato, rideterminando la pena nella misura in cui riconosca l'esistenza

del concorso formale o del reato continuato, situazioni cui si riferiscono gli artt. 671 cod.

proc. pen. e 188 disp. att. cod. proc. pen. In entrambi i casi la pena determinata in sede di

cognizione e applicata nella sentenza irrevocabile, anche in quella di patteggiamento,

viene modificata dal giudice dell'esecuzione, che in questo modo interviene sul giudicato

seppur limitandosi alla sola rideterminazione della pena a norma dell'art. 81 cod. pen.,

non potendo rimettere in discussione né l'esistenza del fatto, né la sua illiceità e

tantomeno la responsabilità del condannato. Anche nel caso in esame si tratta di

rideterminare una pena oggetto di una sentenza di patteggiamento irrevocabile, non

perché si è riconosciuta l'esistenza della continuazione, ma in quanto deve essere

eliminata una pena illegale, divenuta tale a seguito della dichiarazione di

incostituzionalità dei criteri edittali in base ai quali le parti sono addivenute all'accordo. Il

ricorso analogico alla disposizione in esame non solo consente di intervenire sulla pena

illegale della sentenza di patteggiamento irrevocabile, ma assicura alle parti la possibilità

di rinnovare l'accordo, rispettando l'essenza stessa dell'istituto dell'applicazione della pena

su richiesta.

Infatti, seguendo le regole procedurali dell'art. 188 disp. att. cod. proc. pen. - in

quanto compatibili - il condannato e il pubblico ministero possono sottoporre al giudice

dell'esecuzione un nuovo accordo sulla pena, quantificata in base ai criteri edittali

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operanti a seguito della sentenza costituzionale n. 32 del 2014; la rideterminazione della

pena presuppone necessariamente una richiesta, proposta, normalmente, dal condannato e

a cui il pubblico ministero può o meno aderire, ma non è escluso che l'iniziativa parta dal

pubblico ministero, anch'egli interessato all'eliminazione di una pena illegale in ragione

delle sue funzioni. Peraltro, in caso di mancato accordo per dissenso del pubblico

ministero, l'art. 188 cit. prevede che il giudice dell'esecuzione possa comunque accogliere

la richiesta, qualora ritenga il dissenso ingiustificato; allo stesso modo, se il pubblico

ministero resta inerte, deve ritenersi che il giudice possa ugualmente accogliere la

proposta del condannato, potendo valutarsi la sua inerzia come un implicito dissenso.

Sulla base di quanto affermato le SS.UU. affermano i seguenti principi di diritto:

1. La pena applicata con la sentenza di patteggiamento avente ad oggetto uno o più delitti

previsti dall'art. 73 d.P.R. 309 del 1990, relativi alle droghe c.d. leggere, divenuta

irrevocabile prima della sentenza n. 32 del 2014 della Corte costituzionale, può essere

rideterminata in sede di esecuzione in quanto pena illegale;

2. La rideterminazione avviene ad iniziativa della parti, con le modalità di cui al

procedimento previsto dall'art. 188 disp. att. cod. proc. pen., sottoponendo al giudice

dell'esecuzione una nuova pena su cui è stato raggiunto l'accordo.

In caso di mancato accordo o di pena concordata ritenuta non congrua il giudice

dell'esecuzione provvede autonomamente alla rideterminazione della pena ai sensi degli

artt. 132 e 133 cod. pen..

- Lo “strumento processuale” per la rideterminazione della pena eseguibile.

L’ultimo profilo interpretativo da affrontare concerne lo strumento processuale da adottare

per la “rideterminazione” della pena eseguibile. Questione non meramente speculativa, ma con

significativi riflessi applicativi, da essa dipendendo, tra l’altro, il tenore dei provvedimenti, ed i

poteri del giudice dell’esecuzione di riconoscere eventuali benefici.

Primo orientamento: sostiene che lo strumento processuale per la rideterminazione sia

costituito dall’art. 673 c.p.p.; l’applicazione, “estensiva” o “analogica”, della norma processuale,

viene sostenuta sulla base della natura di norma non eccezionale, della lacuna normativa esistente

nei casi di dichiarazione di incostituzionalità di norma penale diversa da quella incriminatrice, e

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dell’eadem ratio rispetto all’incostituzionalità della “norma incriminatrice”. La conseguenza di tale

opzione ermeneutica risiede essenzialmente nella possibilità di concedere, in sede di esecuzione, la

sospensione condizionale della pena; potere previsto espressamente dal solo art. 671 c.p.p., e,

implicitamente, dall’art. 673 c.p.p. (“adotta i provvedimenti conseguenti”), secondo

l’interpretazione patrocinata dalle Sezioni Unite. La giurisprudenza di legittimità, formatasi sia

sull’aggravante della clandestinità che sulla “saga Scoppola”, nonché, infine, le Sezioni Unite

“Gatto”, hanno escluso l’applicabilità dell’art. 673 c.p.p., per la ritenuta natura di norma

eccezionale, insuscettibile di applicazione analogica, e sostenendo che il giudice dell’esecuzione

non deve procedere ad alcuna revoca (neppure parziale) del giudicato di condanna, ma soltanto

limitarsi ad individuare la porzione di pena non eseguibile, perché illegale.

In merito allo strumento processuale, dunque, la giurisprudenza ha oscillato tra:

1. l’individuazione di un potere atipico, fondato sulla diretta applicabilità dell’art. 30

comma 4 L. 87/53 e sui generali poteri del giudice dell’esecuzione (artt. 666 ss. c.p.p.);

2. l’individuazione dello “strumento” disciplinato dall’art. 670 c.p.p. .

In tale ultimo senso si sono pronunciate le Sezioni Unite “Ercolano”, che, nell’escludere

l’applicabilità dell’art. 673 c.p.p., hanno affermato che lo strumento processuale da attivare vada

individuato nell’art. 670 c.p.p.: “l’incidente di esecuzione disciplinato dall’art. 670 cod. proc. pen.,

pur sorto per comporre i rapporti con l’impugnazione tardiva e la restituzione nel termine, implica

necessariamente, al di là del dato letterale, un ampliamento dell’ambito applicativo dell’istituto, che

è un mezzo per far valere tutte le questioni relative non solo alla mancanza o alla non esecutività del

titolo, ma anche quelle che attengono alla eseguibilità e alla concreta attuazione del medesimo”.

La tesi del “potere atipico”, implicito nelle competenze valutative attribuite al giudice

dell’esecuzione dall’art. 665 c.p.p. e dall’insieme delle norme in materia di esecuzione, sembra

invece essere stata sostenuta dalle Sezioni Unite “Gatto”, che, pur richiamando il precedente

“Ercolano”, e sviluppando sul punto un’argomentazione meno stringente, hanno enunciato il

secondo principio di diritto nel senso che “il giudice dell’esecuzione, ai sensi dell’art. 666, comma

1, cod. proc. pen. e in applicazione dell’art. 30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87,

potrà affermare la prevalenza della circostanza attenuante (n.d.r.: di cui all’art. 73 comma 5 DPR

309/90), sempreché una simile valutazione non sia stata esclusa nel merito dal giudice della

cognizione”.

Al riguardo, va osservato che l’art. 673 c.p.p. non appare applicabile, in via analogica o

estensiva, alla “rideterminazione” della pena eseguibile in conseguenza della dichiarazione di

incostituzionalità del mero trattamento sanzionatorio, perché disciplina una situazione processuale

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che, sebbene presenti analogie, resta diversa: nel caso di rideterminazione della pena, il reato

continua ad esistere nell’ordinamento giuridico, e dunque non è possibile ipotizzare una “revoca

della sentenza di condanna”; in tal modo, si giungerebbe ad un mutamento, rectius ad una

“novazione”, del titolo dell’esecuzione, che non sarebbe più costituito dalla sentenza di condanna,

ma dall’ordinanza emessa nel procedimento di esecuzione, in assenza di una norma di disciplina

(analoga a quella dell’art. 673 c.p.p.). Ipotesi, all’evidenza, problematica, ove si consideri che il

giudicato sull’accertamento resta fermo e intangibile, ed è fondato sull’originaria sentenza. Né vale

a superare l’obiezione la replica secondo la quale la revoca può essere solo parziale: lo strumento di

cui all’art. 673 c.p.p. prevede, infatti, che, con la “revoca della sentenza di condanna”, venga altresì

dichiarato “che il fatto non è previsto dalla legge come reato”. Dunque, un rimedio non pertinente,

perché i provvedimenti adottabili con tale strumento sarebbero eccentrici rispetto alla situazione da

regolare.

Maggiormente duttile appare lo strumento di cui all’art. 670 c.p.p., pure accreditato dalla

giurisprudenza di legittimità, sebbene l’applicazione analogica della norma appaia fondata

essenzialmente più sul tenore generale ed onnicomprensivo della rubrica (“questioni sul titolo

esecutivo”), che non sul tenore delle disposizioni contenute nella norma.

Tale soluzione, fondata sul potere generale del giudice dell’esecuzione di “conoscere

dell’esecuzione di un provvedimento” (art. 665 comma 1 c.p.p.), limita, peraltro, il potere del

giudice ad una mera “rideterminazione della pena eseguibile”, con dichiarazione della porzione di

pena “illegalmente” inflitta da non eseguire.

Il riflesso applicativo di tale tesi traluce nella conseguente impossibilità di concedere, pur

ove ne ricorrano i limiti ed i presupposti, la sospensione condizionale della pena; beneficio che può

essere riconosciuto solo in fase di cognizione, ovvero, nei casi tassativamente indicati, in fase di

esecuzione (artt. 671 e 673 c.p.p.), richiedendo una prognosi, e dunque una valutazione di merito

del fatto e della personalità del reo che, salvo diversa disposizione di legge, non può essere rimessa

al giudice dell’esecuzione, anche per l’assenza di elementi a tal fine rilevanti. Allorquando non lo

preveda espressamente una norma, infatti, il giudice dell’esecuzione resta “cieco” rispetto al fatto

ed al reo, potendo “vedere”, ormai, soltanto la pena. L’affermarsi di tale tesi, che appare preferibile

rispetto a quella del “potere atipico”, che delinea una informe potestà priva di limiti e di regole, non

sarebbe, peraltro, di ostacolo alla proposizione di una questione di legittimità costituzionale, con lo

scopo di ottenere, in via “additiva”, la possibilità di concedere la sospensione condizionale della

pena in sede esecutiva anche nei casi di rideterminazione di pena illegale; ovvero ad una modifica

normativa che introduca espressamente una norma processuale di disciplina della

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“rideterminazione” in executivis, con delimitazione dei poteri e delle valutazioni rimesse al giudice

dell’esecuzione.

Ciò che sembra pronosticabile, in generale, è un processo di ulteriore valorizzazione e

giurisdizionalizzazione della fase dell’esecuzione, sempre più momento centrale

dell’individualizzazione della pena, e di ampliamento dei poteri del giudice dell’esecuzione, al

quale, in prospettiva, riconoscere maggiori possibilità di “vedere” anche il fatto e il reo. Viceversa,

è auspicabile che la “flessibilizzazione” del giudicato non diventi un utile grimaldello per

scardinare, in un sistema giudiziale lacerato dalla esasperata conflittualità politica, i pilastri

dell’accertamento penale, magari per soddisfare occulti ed inconfessabili interessi di parte.

Questioni interpretative sul titolo esecutivo.

Sul punto si vedano:

- Cassazione penale sez. un. 24 ottobre 2013 n. 18821

Il giudice dell'esecuzione, investito della richiesta di sostituzione della pena dell'ergastolo inflitta con sentenza irrevocabile in applicazione dell'art. 7, comma 1 d.l. n. 341 del 2000, dichiarato costituzionalmente illegittimo per violazione dell'art. 117 cost. in riferimento all'art. 7, par. 1, Cedu, con quella temporanea di anni trenta di reclusione, ove riconosca il diritto del condannato a beneficiare di tale trattamento più favorevole, previsto dall'art. 30, comma 1, lett. b), l. n. 479 del 1999, deve provvedere, incidendo sul giudicato, alla sollecitata sostituzione, avvalendosi dei poteri previsti dagli art. 665, 666 e 670 c.p.p.

- Cassazione penale sez. IV 26 ottobre 2011 n. 39766

La previsione di cui all'art. 670 cod. proc. pen. - che disciplina la competenza del giudice dell'esecuzione in ordine all'esistenza ed alla corretta formazione del titolo esecutivo - si distingue dall'istituto della remissione in termini, ex art. 175 cod. proc. pen., il quale presuppone, invece, la rituale formazione del titolo esecutivo e la sua mancata conoscenza da parte dell'interessato. Ne consegue che qualora, come nella specie, l'interessato deduca la non corretta formazione del titolo esecutivo per mancata notifica dell'avviso di deposito della sentenza, ex art. 548, comma secondo, cod. proc. pen., non sussistono i presupposti per la restituzione in termini ma quelli di cui all'art. 670 cod. proc. pen. - concernenti la formazione del titolo esecutivo - di guisa che il giudice dell'esecuzione, in tal caso, non solo deve dichiarare l'omessa formazione del titolo esecutivo ed assumere i provvedimenti conseguenti ma deve anche disporre contestualmente, ex art. 670, comma primo, II parte, la esecuzione della notificazione non eseguita, ex art. 548 cod. proc. pen., per consentire la ricorrenza del termine per l'impugnazione. (In applicazione del principio di cui in massima la S.C. ha annullato senza rinvio il provvedimento del giudice di appello, che - previa declaratoria di nullità, dell'ordine di esecuzione, ha trasmesso al giudice di legittimità l'istanza di restituzione nel termine, ex art. 175, comma quarto, cod. proc. pen. - ed ha disposto la trasmissione degli atti al giudice dell'esecuzione). Annulla senza rinvio, App. Milano, 13/06/2011

- Cassazione penale sez. III 24 febbraio 2011 n. 11510

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La competenza a decidere sulla richiesta di restituzione nel termine per l'opposizione al decreto penale di condanna spetta al giudice per le indagini preliminari che ha emesso il decreto opposto. (In motivazione la Corte ha precisato che la competenza spetta al giudice dell'esecuzione, a norma dell'art. 670 c.p.p., soltanto se la richiesta di restituzione nel termine sia subordinata alla richiesta di declaratoria di non esecutività del titolo per l'invalidità della notificazione).

- Cassazione penale sez. I 18 gennaio 2011 n. 6559

La sentenza della Cassazione, allorché assuma le forme del rigetto ovvero dell'inammissibilità del ricorso, esaurisce il procedimento ed è sottratta, per evidenti esigenze di certezza dei rapporti giuridici, a qualsivoglia sistema ordinario di rivalutazione decisionale, a eccezione dei rimedi straordinari della revisione e del ricorso straordinario per errore di fatto. Ne discende l'inammissibilità, per abnormità, dell'istanza difensiva volta a rendere inefficace il pronunciato della Corte di cassazione proposta al giudice dell'esecuzione. L'unica eccezione riguarda l'ipotesi in cui la Corte europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali abbia accertato che la condanna sia stata pronunciata in violazione delle regole sul processo equo sancite dall'art. 6 della Convenzione europea e abbia riconosciuto il diritto del condannato alla rinnovazione del giudizio: solo in tale caso, anche se il legislatore ha omesso di introdurre nell'ordinamento interno il mezzo idoneo a instaurare il nuovo processo, il giudice dell'esecuzione deve dichiarare, a norma dell'art. 670 c.p.p., l'ineseguibilità del giudicato (si veda Sez. I, 1 dicembre 2006, D.).

ART. 671 C.P.P. APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA DEL CONCORSO FORMALE E DEL REATO CONTINUATO.

1. Nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa persona, il condannato o il pubblico ministero possono chiedere al giudice dell'esecuzione l'applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato, sempre che la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione. Fra gli elementi che incidono sull'applicazione della disciplina del reato continuato vi e la consumazione di piu reati in relazione allo stato di tossicodipendenza. 2. Il giudice dell'esecuzione provvede determinando la pena in misura non superiore alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza o ciascun decreto. 2-bis. Si applicano le disposizioni di cui all'articolo 81, quarto comma, del codice penale. 3. Il giudice dell'esecuzione puo concedere altresı la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, quando ciò consegue al riconoscimento del concorso formale o della continuazione. Adotta infine ogni altro provvedimento conseguente.

Questioni interpretative.

Il quesito risolto dalle Sez. Un. sent. 24 novembre 2016 (dep. 10 febbraio 2017), n. 6296.

"Se il giudice della esecuzione nella rideterminazione della pena complessiva finale in dipendenza del riconoscimento della continuazione - una volta individuata la violazione più grave e fatto salvo il contenimento del trattamento sanzionatorio entro il limite della somma delle pene inflitte con ciascuna condanna, come stabilito dall'art. 671, comma 2, cod. proc. pen. -

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possa quantificare l'aumento per un determinato reato satellite in misura superiore all'aumento originariamente applicato per quel reato dal giudice della cognizione".

PRIMO E MAGGIORITARIO INDIRIZZO: il giudice dell’esecuzione ben poteva quantificare la pena relativa ai reati-satellite in misura maggiore di quella determinata originariamente, incontrando il solo limite previsto testualmente dall’art. 671, comma 2, c.p.p., secondo cui la pena non può “essere superiore alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza o ciascun decreto”. In altri termini, dall’espressa volontà del legislatore di circoscrivere il limite dell’aumento al solo risultato sanzionatorio finale, si traeva, ragionando a contrario, l’assenza di vincoli nella quantificazione della pena per le fattispecie minori.

SECONDO ORIENTAMENTO GIURISPRUDENZIALE: negava categoricamente l’esistenza di un tale potere in capo al giudice dell’esecuzione, valorizzando, in mancanza di esplicite indicazioni normative, il principio del favor rei sotteso all’istituto e il conseguente divieto di reformatio in peius, valido anche – se non soprattutto – in fase esecutiva.

Sconfessando l’orientamento maggioritario seguito dalla giurisprudenza, e accolto anche nell’ordinanza di rimessione, le Sezioni Unite hanno aderito all’opposto indirizzo ermeneutico affermando il seguente principio:

“Il giudice dell’esecuzione, in sede di applicazione della disciplina del reato continuato, non può quantificare gli aumenti di pena per i reati-satellite in misura superiore a quelli fissati dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile di condanna” – Sez. Un. sent. 24 novembre 2016 (dep. 10 febbraio 2017), n. 6296

Le argomentazioni delle Sezioni Unite:

Il primo criterio che le Sezioni Unite hanno ritenuto d’ausilio nella risoluzione del quesito è quello storico. Viene ricordato, infatti, che la disciplina dettata dall’art. 671 c.p.p. è stata introdotta nell’attuale codice di rito al fine di evitare sperequazioni tra chi viene giudicato in un unico processo per diversi episodi riuniti in continuazione o in concorso formale e chi invece – come spesso auspicato per esigenze di economia processuale – per analoghi episodi subisce più processi. Con la norma in esame, pertanto, “è stata rimessa alla sede esecutiva la possibilità di recuperare, in favor rei, l’operatività del vincolo della continuazione, consentendo l’applicazione di una più mite disciplina rispetto al cumulo materiale in ipotesi di più condotte passate in giudicato ma separatamente giudicate”. La chiara finalità di favor rei sottesa all’art. 671 c.p.p. cozzerebbe apertamente, pertanto, con qualunque aumento sanzionatorio disposto in sede esecutiva.

In secondo luogo, le Sezioni Unite osservano che è la stessa natura del giudizio di esecuzione a deporre in senso contrario alla possibilità, per il giudice, di applicare un trattamento sanzionatorio più grave, seppur limitativamente ai reati-satellite. Infatti, “il carattere sommario del processo esecutivo, il limitato contraddittorio che lo caratterizza, i limiti istruttori riconosciuti dall'ordinamento al giudice della esecuzione, il quale non può recepire i profili di conoscenza del fatto e della colpevolezza propri del processo ordinario” rendono “incongrua una valutazione di maggiore gravità dei fatti portati in continuazione (tanto presuppone l‘aumento delle relative sanzioni) rispetto a quella del giudice della cognizione”.

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Segue, poi, un’acuta riflessione della Corte sul superamento del dogma dell’intangibilità del giudicato, di cui l’art. 671 c.p.p. costituisce una testuale riprova. Si osserva come tutti gli interventi di modificazione della res iudicata – sia quelli consentiti dal codice di rito sia quelli autorizzati in via interpretativa dalla giurisprudenza – siano sempre e solo pro reo, “di guisa che l’opzione favorevole alla possibilità di una decisione in peius del giudice dell’esecuzione, chiamato a determinare la sanzione del reato-satellite nella situazione data dal ricorso in esame,” si appaleserebbe “contraria all’attuale fase evolutiva del diritto penale e processuale”. Ebbene, essendo lo stesso principio di autorità della cosa giudicata destinato a soddisfare un’esigenza di garanzia del condannato, la possibilità di derogarvi può solo essere funzionale a far beneficiare il condannato di un trattamento più favorevole, giammai deteriore.

Ancora, le Sezioni Unite evidenziano che quando - come nel caso di specie - è il solo condannato ad adire il giudice dell’esecuzione, l’ambito di conoscenza di quest’ultimo è, in virtù del principio devolutivo, inevitabilmente delimitato dal contenuto della domanda, sicché non sono ammessi esiti peggiorativi della posizione dell’istante.

Da ultimo, la Corte nega decisamente la possibilità – sostenuta invece con vigore dalla Sezione remittente – di poter estendere al caso del qua le conclusioni cui sono giunte le Sezioni Unite del 2014, per cui “non viola il divieto di reformatio in peius previsto dall’art. 597 cod. proc. pen. il giudice dell’impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato (come avviene se la regiudicanda satellite diventa quella più grave o cambia la qualificazione giuridica di quest’ultima), apporta per uno dei fatti unificati dall’identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore”. A detta della Corte, trattasi di due situazione affatto assimilabili, se solo si considera che, in un caso, vengono in rilievo le funzioni e i poteri del giudice di secondo grado, che è - e resta- un giudice della cognizione, mentre, nel caso di specie, si discute dei poteri del giudice dell’esecuzione, il quale non ha la piena cognizione del fatto e della colpevolezza proprie del processo ordinario.

ART. 672 C.P.P. APPLICAZIONE DELL'AMNISTIA E DELL'INDULTO.

1. Per l'applicazione dell'amnistia o dell'indulto il giudice dell'esecuzione procede a norma dell'articolo 667 comma 4. 2. Quando, in conseguenza dell'applicazione dell'amnistia o dell'indulto, occorre applicare o modificare una misura di sicurezza a norma dell'articolo 210 del codice penale, il giudice dell'esecuzione dispone la trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza. 3. Il pubblico ministero che cura l'esecuzione della sentenza di condanna puo disporre provvisoriamente la liberazione del condannato detenuto ovvero la cessazione delle sanzioni sostitutive e delle misure alternative, prima che essa sia definitivamente ordinata con il provvedimento che applica l'amnistia o l'indulto. 4. L'amnistia e l'indulto devono essere applicati, qualora il condannato ne faccia richiesta, anche se e terminata l'esecuzione della pena. 5. L'amnistia e l'indulto condizionati hanno per effetto di sospendere l'esecuzione della sentenza o del decreto penale fino alla scadenza del termine stabilito nel decreto di concessione o, se non fu

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stabilito termine, fino alla scadenza del quarto mese dal giorno della pubblicazione del decreto. L'amnistia e l'indulto condizionati si applicano definitivamente se, alla scadenza del termine, e dimostrato l'adempimento delle condizioni o degli obblighi ai quali la concessione del beneficio e subordinata.

Sul punto si vedano:

- Cassazione penale sez. I 04 aprile 2013 n. 20011

In tema di indulto, in caso di reati uniti nel vincolo della continuazione, solo una parte dei quali commessi entro il termine fissato per la fruizione del beneficio, se la sentenza non ha fornito specifica indicazione in proposito, spetta al giudice dell'esecuzione interpretare i titoli di condanna e delibare quanto della condotta in esame sia collocabile oltre il termine di entrata in vigore della disciplina indulgenziale e, conseguentemente, quale frazione sanzionatoria determinata dal giudice della cognizione sia riferibile ad esse. (Fattispecie in cui il giudice dell'esecuzione, adito dal p.m. ai fini della revoca dell'indulto, ha ritenuto non precisamente identificabili le parti di condotta consumate oltre il termine di efficacia della misura clemenziale, ed ha conseguentemente adottato la decisione più conforme al principio del favor rei).

ART. 673 C.P.P. REVOCA DELLA SENTENZA PER ABOLIZIONE DEL REATO.

1. Nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimita costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti. 2. Allo stesso modo provvede quando e stata emessa sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere per estinzione del reato o per mancanza di imputabilita.

Questioni interpretative

- Il revirement giurisprudenziale sancito dalle Sezioni unite e cedevolezza del giudicato

Le Sezioni unite della Corte di cassazione con sent. 26259/2016, risolvendo un contrasto giurisprudenziale insorto in ordine alla possibilità, per il giudice dell’esecuzione, di revocare per abolitio criminis una sentenza di condanna emessa nei confronti di uno straniero irregolare per il reato di cui all’art. 6, terzo comma, T.U. Imm., dopo le modifiche apportate a tale articolo dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, ed interpretate dalle Sezioni Unite nel senso che soggetto attivo del reato può ormai essere il solo straniero regolarmente soggiornante (cfr. Sez. U, n. 16453 del 24/02/2011, Alacev), hanno affermato il seguente principio di diritto: «Il giudice dell’esecuzione può revocare, ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., una sentenza di condanna pronunciata dopo l’entrata in vigore della legge che ha abrogato la norma incriminatrice, allorchè l’evenienza di abolitio criminis non sia stata rilevata dal giudice della cognizione».

Il contrasto giurisprudenziale.

Da un lato vi è l’ovvia preoccupazione di scongiurare – ricorrendo alla revoca ex art. 673

cod. proc. pen. – le criticità correlate all’esecuzione di una pena per un fatto la cui rilevanza penale

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era già stata espunta dall’ordinamento, al momento della sua commissione: criticità che vanno

ovviamente correlate all’evoluzione interpretativa, già ricordata in premessa, da cui emerge – alla

luce dei rilevanti principi affermati a più riprese dalle Sezioni unite sul tema della legalità della

pena – una progressiva “cedevolezza” del giudicato, qualora sia messo a repentaglio l’effettivo

rispetto dei diritti fondamentali di una persona condannata con sentenza ormai irrevocabile.

D’altro lato, viene in rilievo il più che consolidato principio, secondo cui deve comunque

escludersi che, in sede esecutiva, si possa rimediare ad errori di diritto in cui sia incorso il giudice

della cognizione, trattandosi di questioni coperte dal giudicato.

Un principio ribadito di recente anche da alcune pronunce delle Sezioni unite - che pur si

inseriscono nella richiamata evoluzione interpretativa - in relazione a problematiche esecutive

diverse da quelle riguardanti l’art. 673 cod. proc. pen.: in tali decisioni, si è appunto escluso che il

giudice dell’esecuzione possa sostituire – ostandovi l’intangibilità del giudicato – le proprie

valutazioni a quelle espresse in sede di cognizione, e quindi rimediare ad errori di diritto non

eliminati attraverso i mezzi di impugnazione (Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, dep. 2015, B., Rv.

262327-2623328; Sez. U, n. 37345 del 23/04/2015, Longo, Rv. 264381).

Per altro verso, è utile evidenziare che l’elaborazione giurisprudenziale ha visto confrontarsi

approcci interpretativi radicalmente divergenti anche quanto alla preliminare identificazione del

fenomeno giuridico da regolare. Infatti, prima ancora ed oltre che la possibilità, e gli eventuali

limiti, di una revoca per abolitio criminis della sentenza ai sensi dell’art. 673 cod. proc. pen., il

contrasto ha riguardato sia la collocazione sistematica da attribuire ad un revirement

giurisprudenziale sancito dalle Sezioni unite, sia anche l’effettiva riconducibilità della fattispecie,

già in astratto, tra quelle in cui devono trovare applicazione le norme in tema di successione di leggi

nel tempo. Tale riconducibilità viene infatti senz’altro esclusa da chi ritiene che, se il fatto giudicato

è stato commesso dopo l’entrata in vigore della legge abrogativa, si può e si deve parlare non già di

successione di leggi, ma solo di una successione di diverse interpretazioni della medesima legge

(quella in vigore al momento del fatto), qualora – come nella specie: la nuova formulazione dell’art.

6 risale al 2009, il fatto contestato è stato commesso nel 2010, la sentenza Alacev è stata

pronunciata nel 2011 – l’effetto abrogativo venga affermato dalla giurisprudenza a distanza di

tempo dall’entrata in vigore della legge medesima.

- Cassazione penale sez. III 03 giugno 2014 n. 30591

In tema di ricettazione, la provenienza da delitto dell'oggetto materiale del reato è elemento definito da norma esterna alla fattispecie incriminatrice, di talché l'eventuale abrogazione, le successive

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modifiche o la sopravvenuta incompatibilità di tale norma con il diritto comunitario non assumono rilievo ai sensi dell'art. 2 c.p., e la rilevanza del fatto, sotto il profilo in questione, deve essere valutata con esclusivo riferimento al momento in cui è intervenuta la condotta tipica di ricezione della cosa od intromissione affinché altri la ricevano. (Nella fattispecie è stata ritenuta la non revocabilità - ex art. 673 c.p.p. - di una sentenza di condanna per il delitto di ricettazione, sebbene il reato presupposto relativo alla detenzione di supporti privi del contrassegno Siae fosse stato successivamente ritenuto incompatibile con la normativa comunitaria). (Rigetta, Trib. Teramo, 05/10/2013 )

ART. 674 C.P.P. REVOCA DI ALTRI PROVVEDIMENTI.

1. La revoca della sospensione condizionale della pena, della grazia o dell'amnistia o dell'indulto condizionati e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale è disposta dal giudice dell'esecuzione, qualora non sia stata disposta con la sentenza di condanna per altro reato. 1-bis. Il giudice dell'esecuzione provvede altresı alla revoca della sospensione condizionale della pena quando rileva l'esistenza delle condizioni di cui al terzo comma dell'articolo 168 del codice penale.

Questioni interpretative.

1. E’ possibile la revoca in fase esecutiva della sospensione condizionale della pena concessa dal giudice di merito in presenza di cause ostative?

PRIMO ORIENTAMENTO: La revoca della sospensione condizionale della pena illegittimamente concessa dal giudice di merito può essere disposta nel giudizio di cognizione, mediante l’impugnazione della sentenza viziata, ma non anche in sede di esecuzione, stante l’insormontabile ostacolo dell’intangibilità del giudicato. L’illegittimità della concessione della sospensione condizionale della pena che sia ab origine patologica, quindi non determinata dall’accertamento ex post di ulteriori reati, deve essere denunciata, al pari di ogni altra violazione di legge, secondo i principi generali, facendo ricorso all’ordinario strumento dell’impugnazione. Qualora ciò non avvenga, formandosi il giudicato, non può esservi nessun successivo intervento suppletivo da parte del giudice dell’esecuzione, che utilizzi la revoca prevista dall’art. 674, comma 1 bis, cod. proc. pen. come una sorta di impugnazione straordinaria, del tutto estranea al nostro sistema processuale. Alla stregua dei principi generali, invece, l’indicato strumento normativo deve essere interpretato con una modalità tale che consenta di escludere ogni possibile conflitto con il giudicato, riferendo l’applicazione della norma alle sole ipotesi in cui intervengano condanne, o comunque eventi giuridici, successivi alla formazione del giudicato.

Nel solco di tale orientamento interpretativo si sono espresse, in particolare, le decisioni: Sez. II, 5 febbraio 2003, n. 11823, Solerte, Rv. 224021; Sez. I, 28 aprile 2004, n. 22639, Bagozza, Rv. 228912; Sez. I, 28 ottobre 2009, n. 42661, P.M. in proc. Shera, Rv. 245575; Sez. III, 9 luglio 2013, n. 42167, Di Meo, Rv. 257055 e Sez. I, 8 ottobre 2013, n. 19936/2014, Medina Taype, Rv. 262329.

SECONDO ORIENTAMENTO: Il beneficio della sospensione condizionale della pena illegittimamente concesso può essere revocato nella fase esecutiva (art. 674 cod. proc. pen.) limitatamente al caso in cui l'elemento ostativo non sia stato conoscibile dal giudice nella fase della cognizione, dovendo, invece, la revoca essere fatta valere attraverso gli ordinari mezzi di

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impugnazione, laddove il giudice abbia erroneamente concesso il beneficio pur potendo avvedersi della sua non concedibilità. Cfr. Cassazione penale sez. III 06 giugno 2012 n. 33345 che dichiara inammissibile, Trib. Marsala, 10 ottobre 2011.

La soluzione indicata dalle Sezioni Unite con la sentenza 23 aprile 2015, n. 37345, P.M. in proc. Longo, Rv. 264381.

Le Sezioni Unite hanno risolto l’indicato conflitto riconoscendo la sostanziale correttezza

della seconda opzione ermeneutica: le cause ostative preesistenti alla formazione del giudicato, non

note al giudice della cognizione, abilitano senz’altro quello dell’esecuzione alla revoca della

sospensione condizionale della pena.

Il requisito della “non conoscibilità”, pertanto, deve essere inteso nella sua accezione

empirica, riferita alla prassi giudiziaria, in rapporto al servizio di pubblicità dei precedenti penali di

cui dispone il giudice, per mezzo del casellario giudiziale. La “non conoscibilità” equivale, in

sostanza, al mancato inserimento nel sistema del casellario giudiziale del precedente ostativo.

Giova evidenziare la distinzione intercorrente tra il giudicato in senso formale, che di sicuro

investe un provvedimento definitivo qual è la sentenza di concessione della sospensione

condizionale della pena, e la res iudicata sostanziale, che non può riguardare la statuizione

concessoria della sospensione condizionale della pena, in quanto provvedimento che, sebbene

contenuto nella sentenza irrevocabile, ha natura di giudizio solo prognostico, unicamente capace di

produrre effetti giuridici temporanei, provvisori e sottoposti a condizione. Laddove, pertanto, venga

accertata in sede esecutiva l’esistenza di un elemento ostativo alla concessione del beneficio non

considerato da parte del giudice della cognizione – in quanto elemento di valutazione deducibile,

ma non effettivamente dedotto e deciso – non può operare la preclusione propria del giudicato

formale, ma deve essere disposta la revoca del provvedimento concessorio. Esso si giustifica in

ragione dell’intervento dell’elemento di novità costituito dall’individuazione della causa ostativa

che, sebbene già esistente al momento dell’adozione della decisione da parte del giudice della

cognizione, non era stata da costui presa in considerazione, né implicitamente valutata, al momento

dell’adozione della decisione di concessione del beneficio. Perché ciò si verifichi, però, è

assolutamente necessario provare che la causa ostativa alla concessione del beneficio non era stata

minimamente considerata dal giudice della cognizione, in quanto oggettivamente non compresa nel

perimetro del suo scrutinio. Tale riscontro può aversi solo provando che la causa ostativa non

risultava documentata tra gli atti presenti nel fascicolo del giudizio di cognizione.

E’ stato affermato il seguente principio di diritto:

Il giudice dell’esecuzione deve revocare la sospensione condizionale della esecuzione della pena concessa in violazione dell’art. 164, comma 4, cod. proc. pen. in presenza di cause ostative, salvo che tali cause risultassero documentalmente al giudice della cognizione. A tal fine il giudice della

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esecuzione acquisisce, per la doverosa verifica al riguardo, il fascicolo del giudizio (Sez. un., 23 aprile 2015, n. 37345, P.M. in proc. Longo, Rv. 264381).

- Cassazione penale sez. I 05 marzo 2014 n. 27895

La revoca, in sede esecutiva, della sospensione condizionale della pena, ai sensi del combinato disposto dell'art. 168, comma 3, c.p. e dell'art. 674, comma 1 bis, c.p.p. è consentita anche quando il beneficio sia stato concesso con la sentenza di applicazione della pena su richiesta, nulla rilevando che tale richiesta sia stata a suo tempo espressamente subordinata proprio all'applicazione del beneficio medesimo.

ART. 675 C.P.P. FALSITA DI DOCUMENTI.

1. Se la falsita di un atto o di un documento, accertata a norma dell'articolo 537, non è stata dichiarata nel dispositivo della sentenza e non è stata proposta impugnazione per questo capo, ogni interessato può chiedere al giudice dell'esecuzione che la dichiari. 2. La cancellazione totale del documento, disposta dal giudice della cognizione o dell'esecuzione, e eseguita mediante annotazione della sentenza o dell'ordinanza a margine di ciascuna pagina del medesimo e attestazione di tale adempimento nel verbale, con la dichiarazione che il documento non puo avere alcun effetto giuridico. Il documento rimane allegato al verbale e una copia di questo è rilasciata in sostituzione del documento stesso a chi lo possedeva o lo aveva in deposito, quando la copia e stata richiesta per un legittimo interesse. 3. Negli altri casi, il testo del documento, quale risulta in seguito alla cancellazione parziale o alla ripristinazione, rinnovazione o riforma, è inserito per intero nel verbale. Se il documento era in deposito pubblico, e restituito al depositario unitamente a una copia autentica del verbale a cui deve rimanere allegato. Se il documento era posseduto da un privato, la cancelleria lo conserva allegato al verbale e ne rilascia copia quando questa è richiesta per un legittimo interesse. Tale copia vale come originale per ogni effetto giuridico. 4. Per l'osservanza dei predetti adempimenti, il giudice o il presidente del collegio da le disposizioni occorrenti nel relativo verbale.

Sul punto si veda:

- Cass. n. 2671/2002

Il giudice dell'esecuzione può dichiarare, ai sensi dell'art. 675, comma primo, c.p.p., la falsità di atti o di documenti, che non sia stata dichiarata nella sentenza che rilevi l'intervenuta prescrizione di reati di falso, a condizione che l'accertamento della falsità risulti dal testo della stessa sentenza, divenuta irrevocabile, e sia possibile oggetto di riscontro immediato, indipendentemente dal riesame degli atti processuali

ART. 676 C.P.P. ALTRE COMPETENZE.

1. Il giudice dell'esecuzione e competente a decidere in ordine all'estinzione del reato dopo la condanna, all'estinzione della pena quando la stessa non consegue alla liberazione condizionale o all'affidamento in prova al servizio sociale, in ordine alle pene accessorie, alla confisca o alla

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restituzione delle cose sequestrate. In questi casi il giudice dell'esecuzione procede a norma dell'articolo 667 comma 4. 2. Qualora sorga controversia sulla proprieta delle cose confiscate, si applica la disposizione dell'articolo 263 comma 3. 3. Quando accerta l'estinzione del reato o della pena, il giudice dell'esecuzione la dichiara anche di ufficio adottando i provvedimenti conseguenti.

Sul punto si vedano:

- Cassazione penale sez. VI 19 febbraio 2014 n. 10623

È abnorme il provvedimento con cui il giudice della cognizione dispone la confisca in un momento successivo a quello della pronuncia della sentenza, perché alle eventuali omissioni di questa è possibile porre rimedio solo con l'impugnazione, o, in caso di formazione del giudicato, con lo strumento previsto dall'art. 676 c.p.p., specificamente dettato per l'ipotesi di beni oggetto di ablazione obbligatoria. (Annulla senza rinvio, Gip Trib. Monza, 17/04/2013 )

- Cass. n. 41078/2008

È opponibile e non ricorribile per cassazione il provvedimento di confisca ai sensi dell'art. 12-sexies D.L. 8 giugno 1992 n. 306, convertito in L. 8 agosto 1992 n. 356, adottato dal giudice dell'esecuzione a seguito di contraddittorio partecipato tra le parti, sicché il ricorso per cassazione eventualmente proposto deve essere qualificato come opposizione, con la conseguente trasmissione degli atti allo stesso giudice che ha deciso

ART. 677 C.P.P. COMPETENZA PER TERRITORIO.

1. La competenza a conoscere le materie attribuite alla magistratura di sorveglianza appartiene al tribunale o al magistrato di sorveglianza che hanno giurisdizione sull'istituto di prevenzione o di pena in cui si trova l'interessato all'atto della richiesta, della proposta o dell'inizio di ufficio del procedimento. 2. Quando l'interessato non e detenuto o internato, la competenza, se la legge non dispone diversamente, appartiene al tribunale o al magistrato di sorveglianza che ha giurisdizione sul luogo in cui l'interessato ha la residenza o il domicilio. Se la competenza non può essere determinata secondo il criterio sopra indicato, essa appartiene al tribunale o al magistrato di sorveglianza del luogo in cui fu pronunciata la sentenza di condanna, di proscioglimento o di non luogo a procedere, e, nel caso di piu sentenze di condanna o di proscioglimento, al tribunale o al magistrato di sorveglianza del luogo in cui fu pronunciata la sentenza divenuta irrevocabile per ultima. 2-bis. Il condannato, non detenuto, ha l'obbligo, a pena di inammissibilità, di fare la dichiarazione o l'elezione di domicilio con la domanda con la quale chiede una misura alternativa alla detenzione o altro provvedimento attribuito dalla legge alla magistratura di sorveglianza. Il condannato, non detenuto, ha altresì l'obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni previsti dall'articolo 161.

Sul punto si veda:

- Cass. n. 53177/2014

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La competenza in materia di concessione della misura alternativa dell'affidamento in prova, in ipotesi di condannato per il quale è stata disposta sospensione dell'esecuzione, appartiene al Tribunale di sorveglianza del luogo in cui ha sede l'ufficio del P.M. che ha promosso la sospensione e, in applicazione del principio della "perpetuatio jurisdictionis", resta insensibile agli eventuali mutamenti che tale situazione può subire in virtù di altri successivi provvedimenti.

ART. 678 C.P.P. PROCEDIMENTO DI SORVEGLIANZA.

1. Salvo quanto stabilito dal successivo comma 1-bis, il tribunale di sorveglianza nelle materie di sua competenza, e il magistrato di sorveglianza, nelle materie attinenti ai ricoveri previsti dall'articolo 148 del codice penale, alle misure di sicurezza e alla dichiarazione di abitualita o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere procedono, a richiesta del pubblico ministero, dell'interessato, del difensore o di ufficio, a norma dell'articolo 666. Tuttavia, quando vi e motivo di dubitare dell'identita fisica di una persona, procedono a norma dell'articolo 667 comma 4. 1-bis. Il magistrato di sorveglianza, nelle materie attinenti alla rateizzazione e alla conversione delle pene pecuniarie, alla remissione del debito e alla esecuzione della semidetenzione e della liberta controllata, ed il tribunale di sorveglianza, nelle materie relative alle richieste di riabilitazione ed alla valutazione sull'esito dell'affidamento in prova al servizio sociale, anche in casi particolari, procedono a norma dell'articolo 667 comma 4. 2. Quando si procede nei confronti di persona sottoposta a osservazione scientifica della personalità, il giudice acquisisce la relativa documentazione e si avvale, se occorre, della consulenza dei tecnici del trattamento. 3. Le funzioni di pubblico ministero sono esercitate, davanti al tribunale di sorveglianza, dal procuratore generale presso la corte di appello e, davanti al magistrato di sorveglianza, dal procuratore della Repubblica presso il tribunale della sede dell'ufficio di sorveglianza.

Sul punto si vedano:

- Cass. n. 51083/2013

In tema di procedimento di sorveglianza, qualora dopo la presentazione da parte del condannato dell'istanza di accesso ad una misura alternativa alla detenzione, sopraggiungano altre istanze volte ad incidere sulla medesima misura o comunque siano ad essa connesse o collegate, rimane ferma, in virtù del principio della "perpetuatio iurisdictionis", la competenza per territorio del Tribunale di Sorveglianza radicatasi con riferimento alla situazione esistente al momento della prima richiesta di misura alternativa. (Fattispecie in cui dopo il riconoscimento del differimento dell'esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare, avendo richiesto il Procuratore generale di rivalutare le condizioni di salute del condannato, è stato ritenuto competente a decidere il Tribunale di Sorveglianza che aveva concesso il differimento, essendo irrilevante la circostanza che il condannato si trovasse agli arresti domiciliari in un luogo rientrante nella competenza di altro Tribunale).

- Cass. n. 44572/2010

Il decreto con cui il presidente del tribunale di sorveglianza dichiara inammissibile l'istanza di misure alternative (nella specie la misura della detenzione domiciliare) è suscettibile di ricorso per cassazione e non già di opposizione al tribunale, stante l'applicabilità dell'art. 666 c.p.p. come richiamato dall'art. 678 c.p.p. con conseguente abrogazione della procedura prevista dall'art. 71 sexies ord. pen.

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ART. 679 C.P.P. MISURE DI SICUREZZA.

1. Quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca e stata, fuori dei casi previsti nell'articolo 312, ordinata con sentenza, o deve essere ordinata successivamente, il magistrato di sorveglianza, su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta se l'interessato e persona socialmente pericolosa e adotta i provvedimenti conseguenti, premessa, ove occorra, la dichiarazione di abitualita o professionalita nel reato . Provvede altresı, su richiesta del pubblico ministero, dell'interessato, del suo difensore o di ufficio, su ogni questione relativa nonché sulla revoca della dichiarazione di tendenza a delinquere. 2. Il magistrato di sorveglianza sovraintende alla esecuzione delle misure di sicurezza personali .

Sul punto si veda:

- Cass. n. 3082/2015

Quando deve essere applicata una misura di sicurezza personale, successivamente alla pronuncia della sentenza di condanna, la decisione del magistrato di sorveglianza competente, è legittimamente emessa anche se fa seguito a domanda formulata da un Ufficio del Pubblico Ministero sprovvisto di competenza per territorio, posto che il magistrato di sorveglianza, a norma dell'art. 679 cod. proc. pen., procede in tale ipotesi anche "d'ufficio".

ART. 680 C.P.P. IMPUGNAZIONE DI PROVVEDIMENTI RELATIVI ALLE MISURE DI SICUREZZA.

1. Contro i provvedimenti del magistrato di sorveglianza concernenti le misure di sicurezza e la dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere, possono proporre appello al tribunale di sorveglianza il pubblico ministero, l'interessato e il difensore. 2. Fuori dei casi previsti dall'articolo 579 commi 1 e 3, il tribunale di sorveglianza giudica anche sulle impugnazioni contro sentenze di condanna o di proscioglimento concernenti le disposizioni che riguardano le misure di sicurezza. 3. Si osservano le disposizioni generali sulle impugnazioni, ma l'appello non ha effetto sospensivo, salvo che il tribunale disponga altrimenti.

Sul punto si veda:

- Cassazione penale sez. I 09 gennaio 2014 n. 4001

Il principio generale posto dall'art. 568 comma 5 c.p.p., che prevede la conversione "ope legis" dell'impugnazione proposta mediante un mezzo diverso da quello prescritto e la trasmissione di ufficio degli atti al giudice competente, si applica anche nel procedimento di prevenzione, per effetto del combinato disposto dell'art. 4, ultimo comma, l. 27 dicembre 1956 n. 1423, che fa richiamo alla disciplina relativa alle impugnazioni avverso l'applicazione delle misure di sicurezza, e dell'art. 680, comma 3, c.p.p., che, per queste ultime, rimanda alle "disposizioni generali sulle impugnazioni". (Fattispecie in cui la Corte ha riqualificato come appello il ricorso per cassazione proposto contro un provvedimento del tribunale di rigetto di istanza afferente l'esecuzione di una misura di prevenzione personale). Qualifica appello il ricorso, Trib. Reggio Calabria, 10/10/2012

ART. 681 C.P.P. PROVVEDIMENTI RELATIVI ALLA GRAZIA.

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1. La domanda di grazia, diretta al presidente della Repubblica, è sottoscritta dal condannato o da un suo prossimo congiunto o dal convivente o dal tutore o dal curatore ovvero da un avvocato o procuratore legale ed è presentata al ministro di grazia e giustizia. 2. Se il condannato è detenuto o internato, la domanda può essere presentata al magistrato di sorveglianza, il quale, acquisiti tutti gli elementi di giudizio utili e le osservazioni del procuratore generale presso la corte di appello del distretto ove ha sede il giudice indicato nell'articolo 665, la trasmette al ministro con il proprio parere motivato. Se il condannato non e detenuto o internato, la domanda può essere presentata al predetto procuratore generale, il quale, acquisite le opportune informazioni, la trasmette al ministro con le proprie osservazioni. 3. La proposta di grazia e sottoscritta dal presidente del consiglio di disciplina ed è presentata al magistrato di sorveglianza, che procede a norma del comma 2. 4. La grazia può essere concessa anche in assenza di domanda o proposta. Emesso il decreto di grazia, il pubblico ministero presso il giudice indicato nell'articolo 665 ne cura la esecuzione ordinando, quando e il caso, la liberazione del condannato e adottando i provvedimenti conseguenti. 5. In caso di grazia sottoposta a condizioni, si provvede a norma dell'articolo 672 comma 5.

Sul punto si veda:

Cassazione penale sez. I 23 ottobre 2002 n. 39342

Non è configurabile, neanche "sub specie" di caso analogo, un conflitto di competenza tra magistrato di sorveglianza e procuratore generale presso la corte di appello in ordine all'istruzione della domanda di grazia, di cui all'art. 681 comma 2 c.p.p., in quanto nel procedimento di grazia all'autorità giudiziaria non spetta alcun potere decisorio, dovendo soltanto compiere l'attività di acquisizione di elementi di giudizio strumentale alla decisione che deve essere adottata dal Ministro della giustizia nell'esercizio di una funzione non giurisdizionale.

ART. 682 C.P.P. LIBERAZIONE CONDIZIONALE.

1. Il tribunale di sorveglianza decide sulla concessione e sulla revoca della liberazione condizionale. 2. Se la liberazione non è concessa per difetto del requisito del ravvedimento, la richiesta non può essere riproposta prima che siano decorsi sei mesi dal giorno in cui è divenuto irrevocabile il provvedimento di rigetto.

Sul punto si veda:

- Cassazione penale sez. I 18 aprile 2013 n. 35045

In tema di procedimento di sorveglianza, il decreto di inammissibilità per manifesta infondatezza può essere emesso "de plano", ai sensi dell'art. 666 comma 2 c.p.p., soltanto quando la richiesta sia identica, per oggetto e per elementi giustificativi, ad altra già rigettata ovvero difetti delle condizioni poste direttamente dalla legge, e sempre che la relativa statuizione non implichi alcun giudizio di merito e apprezzamento discrezionale. (Fattispecie in cui il presidente del tribunale di sorveglianza aveva dichiarato inammissibile un'istanza di liberazione condizionale proposta ai sensi dell'art. 682 c.p.p.). Annulla senza rinvio, Trib. sorv. Milano, 16/02/2012

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ART. 683 C.P.P. RIABILITAZIONE.

1. Il tribunale di sorveglianza, su richiesta dell'interessato, decide sulla riabilitazione, anche se relativa a condanne pronunciate da giudici speciali, quando la legge non dispone altrimenti. Decide altresı sulla revoca, qualora essa non sia stata disposta con la sentenza di condanna per altro reato.

2. Nella richiesta sono indicati gli elementi dai quali può desumersi la sussistenza delle condizioni previste dall'articolo 179 del codice penale. Il tribunale acquisisce la documentazione necessaria.

3. Se la richiesta è respinta per difetto del requisito della buona condotta, essa non può essere riproposta prima che siano decorsi due anni dal giorno in cui e divenuto irrevocabile il provvedimento di rigetto.

Sul punto si vedano:

- Cassazione penale sez. I 20 aprile 2004 n. 23941

La competenza a disporre la riabilitazione da misura di prevenzione appartiene alla Corte d'appello ai sensi dell'art. 15 l. 3 agosto 1988 n. 327, disposizione tuttora in vigore, atteso che l'art. 683 c.p.p. attribuisce, innovativamente, al tribunale di sorveglianza la competenza a decidere sulle sole richieste di riabilitazione da condanna penale e fa, comunque, salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti.

- Cassazione penale sez. I 05 febbraio 2004 n. 10028

In tema di riabilitazione da sentenza di applicazione della pena su richiesta (c.d. "patteggiamento") è competente a decidere sulla relativa istanza il giudice dell'esecuzione e non il tribunale di sorveglianza, la cui competenza è stabilita dall'art. 683 c.p.p. solo con riguardo alla riabilitazione da precedenti "condanne", mentre l'applicazione della pena su richiesta costituisce una pronuncia sui generis, che non può contenere dichiarazione di colpevolezza nè indicazione di condanna.

ART. 684 C.P.P. RINVIO DELL'ESECUZIONE.

1. Il tribunale di sorveglianza provvede in ordine al differimento dell'esecuzione delle pene detentive e delle sanzioni sostitutive della semidetenzione e della libertà controllata nei casi previsti dagli articoli 146 e 147 del codice penale, salvo quello previsto dall'articolo 147 comma 1 numero 1 del codice penale, nel quale provvede il ministro di grazia e giustizia. Il tribunale ordina, quando occorre, la liberazione del detenuto e adotta gli altri provvedimenti conseguenti. 2. Quando vi è fondato motivo per ritenere che sussistono i presupposti perché il tribunale disponga il rinvio, il magistrato di sorveglianza può ordinare il differimento dell'esecuzione o, se la protrazione della detenzione puo cagionare grave pregiudizio al condannato, la liberazione del detenuto. Il provvedimento conserva effetto fino alla decisione del tribunale, al quale il magistrato di sorveglianza trasmette immediatamente gli atti.

Sul punto si veda:

- Cassazione penale sez. I 24 giugno 2014 n. 32882

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Il provvedimento di rigetto della richiesta di differimento dell'esecuzione della pena per grave infermità fisica è affetto da vizio di motivazione solo se l'omesso riferimento alle necessità di tutela del diritto alla salute e al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità si combina con l'accertata sussistenza di un quadro patologico particolarmente grave, capace "ictu oculi" di essere causa di una sofferenza aggiuntiva proprio per effetto della privazione dello stato di libertà, nonostante il regime di detenzione possa assicurare la prestazione di adeguate cure mediche (Annulla con rinvio, Trib. sorv. Roma, 03/10/2013).