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I SASSI

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I SASSI

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LE REMORE E IL TITANICVITE PRECARIE A SCUOLA

Prefazionedi Tullio De Mauro

LUCA ANTOCCIA

ALBERTO GAFFI EDITORE IN ROMA

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Est parvus admodum piscis adsuetuspetris, echeneis appellatus.Hoc carinis adhaerentenaves tardius ire credentur…

C’è un pesce oltremodo piccolo, abituatoa vivere fra le pietre, chiamato remora.Si crede che, stando attaccato alle carenedelle navi, le faccia procedere più lentamente…

Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, II, 9, 79

Gebenedeit sei das Vorläufige!Vorläufig ist noch genug frisches Wasser da,vorläufig atmet und lauscht die Haut,deine Haut, meine, – sogar die eure,ihr holzigen Medizinmänner, atmet noch,ungeachtet der Bleibeverhandlungen,der Fußnoten und des Stellenkegels –vorläufig ist das Ende (“eine unaufhörliche,feinverteilte Naturkatastrophe”)noch nicht endgültig – das ist angenehm!

Benedetto sia il precario!Temporaneamente c’è ancora dell’acqua potabile,temporaneamente la pelle respira e ascolta,la tua pelle, la mia, – come la vostra –voi legnosi negromanti, respira ancora,noncurante del concorso di ruolo,delle note a piè di pagina e della piramide degli impieghitemporanea è la fine (“un’incessantecatastrofe naturale minutamente disseminata”)non è ancora definitiva – È un fatto confortante!

Hans Magnus Enzensberger, La fine del Titanic

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PREFAZIONE

Resoconti di esperienze individuali, frammenti di cronache, documenti,tranches de vie, riflessioni, poesie, sceneggiati: Luca Antoccia ha messo in-sieme con pazienza un vero zibaldone. Nell’insieme, diciamolo subito, è undocumento prezioso.

Anche chi è meno estraneo alla vita concreta delle nostre scuole ne rica-va qualche sorpresa. Per esempio non tutti sappiamo che, a passare in ras-segna le diverse specie o caste in cui è frantumato l’insieme di quelli che in-segnano, bisogna dire, con un crudo proverbio romanesco, Peggio mai nunmorse o, in miglior toscano, il peggio non è mai morto. Se i precari sonospesso considerati la casta dei paria o i prioni, meno dei virus nella scalabiologica, tuttavia, come risulta da qualcuna delle testimonianze, c’è qual-cosa di ancor più primordiale: i fluttuanti, quelli che insegnano ma non so-no ancora ammessi all’onore del precariato con relative graduatorie e nonhanno nemmeno l’onore di una menzione, magari generica, nei dizionari.Peggio che Lumpenproletarier dell’insegnamento.

Ma l’elenco delle specie non è finito. C’è da prendere in carico la distin-zione in caste anche all’interno di chi insegna essendo di ruolo, maestre emaestri delle scuole dell’infanzia e delle elementari da un lato e poi su su,fino agli insegnanti delle superiori, per non parlare delle divinità dell’O-limpo universitario, anch’esse, del resto, assai articolate e con i loro bravifluttuanti, senza i quali molte facoltà chiuderebbero i battenti, come ricor-da qui la “dottoressa in nulla” Nora Precisa.

Ci sono anche categorie non formali e burocratiche, ma psicosociologi-che, tipi se volete scomodare Jung. C’è chi resiste e insiste nell’insegnare estringe i denti e lo fa al meglio, ed è l’immensa maggioranza. Per questi par-lano certamente le straordinarie testimonianze di chi ha rendicontato il suoinsegnamento, da Albino Bernardini o Mario Lodi a Marco Rossi Doria oSilvano Bert o Alberto Alberti. Ma ci sono anche casi non meno illuminan-

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ti, da ricostruire con pazienza di storici, di chi, come i giudici dovrebberoparlare per sentenze, ha parlato per verbali, nitidi, lucidi, esemplari, comequelli della professoressa Maria Musumeci che altrove ho cercato di contri-buire a ricordare (Dalla parte della scuola, in “Insegnare ”, 2005, fasc. 1, gen-naio). Tutti sono casi che gettano luce su quanto la scuola ha saputo fare perlimitare i danni dell’analfabetismo secolare e della attenzione perversa, mu-tatasi poi in disattenzione per l’istruzione nel nostro paese. E tutti i casi get-tano luce su quanto resta da fare, precari o no, insegnanti e no, per creare nelpaese un livello decente di formazione e cultura attraverso la scuola e nellascuola.

È un compito che coinvolge tutti, certo anche i precari, perfino i flut-tuanti: per l’esperienza che hanno accumulato, per l’intelligenza didatticacui la loro stessa condizione li ha costretti e costringe. Penso alla lezione dibuone pratiche educative che viene da tante pagine, come quelle, per citar-ne almeno alcune, di Luca Antoccia, al quale vorrei permettermi di espri-mere un consenso particolare per quello che dice su ciò che si impara, ai fi-ni dell’imparare a insegnare, facendo prima altri mestieri, per esempio, nelcaso, l’allenatore di squadre di pallamano.

Ma non tutti ce la fanno e c’è invece chi, a un certo punto, entra in crisi,fluttuante, precario o di ruolo che sia, e dalla depressione passa alla sindro-me che gli psichiatri chiamano burnout, alla lettera “spegnimento”, comehanno documentato Vittorio Lodolo D’Oria e altri (Scuola di follia, Ar-mando editore, Roma, 2005). Il burnout può cogliere tutti, ma certamente(anche se tecnicamente non è documentabile come per il personale di ruo-lo, e anche qui con difficoltà) a esso sono per necessità esposti in prima li-nea i precari, come quella insegnante siciliana che, dopo avere stretto i den-ti per tredici anni, crolla nel pianto il giorno in cui è nominata.

Su questa varia e vasta fenomenologia si è retto il cammino della nostrascuola per percorrere in quarant’anni il cammino che in altri paesi europeiè stato percorso in alcuni secoli: il cammino per trasformare un paese disenza scuola (il 59,2% della popolazione negli anni Cinquanta) in un pae-

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se in cui i senza scuola adulti sono assai meno del 10% e figli e figlie dei sen-za scuola di ieri e di oggi sono stati portati (erano stati?) per il 75% al di-ploma di scuola secondaria superiore. E su di loro anzitutto poggiano lesperanze che l’intero apparato pubblico dell’istruzione non sia disfatto sot-to i colpi del presente governo. Ma il libro va tenuto da parte o, magari, re-galato in anticipo anche a eventuali futuri nostri governanti di orienta-mento diverso dagli attuali. Perché tra loro e i loro consiglieri non è dettoche siano molti a conoscere le concrete condizioni di chi insegna e, per usa-re un linguaggio diplomatico, non sono molti a intendere che gli stanzia-menti per la scuola e per l’educazione permanente non sono spese ma in-vestimenti, investimenti vitali come per l’acqua, la luce, le vie di comunica-zione.

Mi dispiace non avere ricette migliori per fluttuanti, precari e sissini chenon siano quella di lavorare tutte e tutti, loro e altre e altri, perché ci sia que-sta presa di coscienza dell’intera classe dirigente e dell’intera popolazione:la presa di coscienza della necessità d’un elevamento dei nostri livelli diistruzione e cultura. Economisti come Marcello De Cecco o Luigi Spaventaspiegano bene che questa è una necessità economica, che ne va del presen-te e del futuro del nostro sistema produttivo. Qualcuno, accusato di vederetroppo nero, aggiunge che ne va della nostra effettiva vita democratica.

Meditiamo e facciamo meditare su questo zibaldone. E cerchiamo insie-me di preparare per noi tutti un presente e futuro migliori.

Tullio De MauroRoma, giugno 2005

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Aureliana Scotti*

ORGANISMO E NON MECCANISMO

La scuola e il precariato: una partita da non perdere

In questi ultimi anni vi è stata una precisa ed evidente non volontà diprogrammare e gestire l’attuale sistema di reclutamento degli insegnanti,gettato anzi in un assurdo caos; l’articolo 5 della riforma prevede ora il pas-saggio a un nuovo sistema, che esclude gli attuali precari e non contemplaalcuna norma transitoria a loro tutela. Che ne sarà dunque di questo eser-cito di professionisti che hanno investito la propria vita lavorativa nell’in-segnamento e che, operando in contesti spesso non facili, hanno permessoil funzionamento della scuola pubblica italiana?

In effetti nessun governo ha mai voluto affrontare organicamente laquestione del precariato, sempre gestita sul filo dell’emergenza quasi costi-tuisse una zona d’ombra, per quanto possibile da eludere; ora sembra la sivoglia semplicemente rimuovere, sacrificando gran parte delle risorseumane che in modo significativo in questa realtà si sono espresse.

Abbiamo letto, in questi ultimi tempi, dichiarazioni dal tono quasi minac-cioso,contraddittorie e paradossali: “Non si facciano più illusione i precari… Il30% del personale di ruolo è in più rispetto alle esigenze della scuola. E in futuro,almeno per i prossimi dieci anni, non ci saranno più assunzioni di massa”. Equando non si potrà fare a meno di assumere, “…Allora lo faremo attraversocorsi universitari di specializzazione calibrati sulle effettive esigenze delle scuole,come prevede la riforma… Con il nuovo sistema non ci saranno più precari”,poiché “abiliteremo solo i docenti che effettivamente servono” (Sen. FrancoAsciutti, Presidente della VII Commissione,“Italia Oggi”, 6 aprile 2004).

Si chiede allora: ma gli oltre centomila precari che attualmente ricopro-no incarichi annuali o fino al termine delle attività didattiche e quelli che

* A nome del direttivo del Miip (Movimento interregionale insegnanti precari).

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sostituiscono i colleghi di ruolo attraverso le supplenze brevi, non hannoforse fino ad ora soddisfatto proprio le effettive necessità della scuola? Ilministro promette che il nuovo sistema di reclutamento garantirà la certez-za del posto di lavoro grazie a una attenta programmazione. Il luogo depu-tato alla soluzione dei problemi è dunque il futuro. Ma quale credibilitàpuò avere un ministro che fornisce del proprio operato una falsa immagi-ne mediatica di efficientismo, raccontando di una scuola che non c’è? Qua-li garanzie può offrire per il futuro un ministro che ha ampiamente dimo-strato la propria inaffidabilità a pianificare e gestire il presente, consenten-do ad esempio, attraverso appositi decreti, che migliaia di nuovi docentiogni anno si abilitino mediante le Scuole di specializzazione anche su clas-si di concorso in esubero (non dovrebbero essere per legge programmate inbase alle necessità effettive?) E cosa intende fare del presente il ministro –che ha regalato ai precari anni di buio, un’odissea di provvedimenti iniquie irragionevoli, di ricorsi, di circolari contraddittorie, di stipendi in peren-ne ritardo, un’estate intera trascorsa a far file nelle bolge dei Csa – con un si-stema impazzito, tra balletti di graduatorie fatte e disfatte, scavalcamentiselvaggi, sistemi informatici in tilt? La sua è stata pura e demagogica propa-ganda politica, quando ha sbandierato le irrisorie cifre delle immissioni inruolo (12.500 su tutto il territorio nazionale dopo due anni di blocco, in-sufficienti a coprire anche il solo turn over); mentre affermava di aver ri-dotto il precariato del 30% era vero il contrario: i docenti precari con inca-richi annuali o fino al termine delle attività didattiche sono passati da111.176 dell’anno scolastico 2003/04 a 133.840 dell’anno scolastico2004/05 (fonte Mef).

Non è certamente questo il modo di affrontare il problema, attraversosporadiche manciate di immissioni in ruolo in un caos generale: il nododella questione, schivato un po’ da tutti, richiede, anzitutto, una autentica,originaria e imprescindibile volontà di risolverlo, quindi la capacità di de-finire pensieri strutturati e organizzati sulla base di principi e volontà chedevono essere organicamente ritradotti in operativa concretezza. E invece,

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dopo tentativi di campagne denigratorie e quasi intimidatorie nei con-fronti della categoria, da un lato si è presentato astrattamente un nuovo si-stema di reclutamento, dall’altro si sono improvvisamente tirate fuori dacappelli a cilindro soluzioni improbabili e comunque parziali e raffazzona-te per il cosiddetto precariato storico, tra congelamenti di scatti di anzia-nità e promesse di immissioni in ruolo lanciate in un clima da “si salvi chipuò”, alimentando solo la confusione e l’incertezza. Necessari sono una se-ria e certa programmazione, basata sui dati reali dell’effettiva consistenzadel precariato, dei pensionamenti futuri, degli organici; ci vuole avvedutez-za e lungimiranza nelle scelte, la giusta e dovuta valorizzazione di un patri-monio professionale, unico per formazione, costituito da docenti regolar-mente abilitati, altamente qualificati, formati “a tutto tondo”, spesso conun’esperienza più che decennale di insegnamento alle spalle, i quali neltempo hanno accumulato una mole di titoli, fra altre abilitazioni, corsi diaggiornamento, seconde lauree, dottorati di ricerca, corsi di perfeziona-mento, master, e così via.

Avere alle spalle anni e anni di insegnamento precario vuol dire aver ac-quisito la capacità di adeguarsi velocemente ad ambienti e situazioni lepiù diverse, spesso “di frontiera”, dove la percentuale dei docenti precariraggiunge punte molto elevate; aver sviluppato un alto grado di flessibilitànella strategia didattica; conoscere davvero il variegato mondo della scuo-la italiana; possedere la capacità di pensare secondo categorie che rappre-sentano, nell’attuale panorama, una vera punta di eccellenza: se il mini-stro avesse bisogno di un’analisi dettagliata e reale del sistema scuola intutta la sua complessa realtà, dovrebbe rivolgersi ai precari, che ne hannoscienza e conoscenza diretta, piuttosto che a “pseudo-esperti” che dellascuola hanno un’astratta rappresentazione, molto distante dalla concre-tezza delle cose.

L’opposizione alla riforma Moratti non può ricondursi a una semplicedifesa dell’esistente: deve attuarsi attraverso controproposte concrete econdivise che, partendo da un’attenta valutazione, sappiano dar corpo a

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nuove idee sulla base di principi precisi e condivisi, nella valorizzazionedelle risorse e delle esperienze attuali: questo il distinguo fondamentale traciò che può offrire un vero futuro all’istruzione pubblica e al paese, e ciòche può ulteriormente mortificare e azzerare il suo valore e il suo ruolo. Adoggi non possiamo che registrare, proprio attraverso la tanto emblematicaquestione del precariato scolastico, il fallimento della politica, ridotta avuote dichiarazioni demagogiche.

Il sistema istruzione richiede stabilità e valorizzazione del personale, in-vestimenti, capacità di ascolto e di elaborazione, affinché possa essere mes-so in grado di svolgere appieno la propria funzione di luogo dialetticamen-te capace di costituirsi per le generazioni di questo paese come centro emi-nente della formazione; di certo non ha bisogno di demagogiche sovrap-posizioni di schemi calati dall’alto. Continuamente si cita un adeguamentoagli standard europei, ma i riferimenti, peraltro di carattere eminentemen-te economico, sono vuoti di senso e l’Europa viene menzionata a suggella-re l’incapacità di cogliere e affermare l’originalità del nostro percorso in ta-le contesto, contribuendo così, di fatto, al fallimento della costituzione diun vero modello europeo. L’impostazione aziendalistica, in particolare, co-stituisce una dichiarata rinuncia a promuovere cultura, evidenzia una sor-ta di terrore per le idee, contiene in sé l’aberrante tentativo di costruire ar-tificiosamente, schedare e quantificare capacità e competenze, secondouna logica frammentaria e particolaristica dell’istruzione, trasformata inuna sorta di pacchetto. Se mediaticamente la riforma viene propagandatacome una rivoluzione copernicana che porrebbe al centro della scuola l’a-lunno, è esattamente il contrario ciò che si prospetta: egli diviene oggetto diun processo meccanicistico nel quale impera la categoria della quantità –che si traduce in frammentazione – e non della qualità, tra il proliferare diun vacuo e sterile “didattichese”.

Un conto sono gli aspetti economici della società, ben altra cosa quellieducativi, culturali o quelli concernenti il diritto degli individui: subordi-nare questi ultimi ai primi, necessariamente determinerà una pesante in-

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voluzione dell’intero paese. Saper investire nella cultura significa investirecon quello spregiudicato coraggio di chi conosce il valore propulsivo delleidee senza la necessità di dimostrarne l’immediato ritorno economico.L’intelligenza, le idee e la cultura si lasciano quantificare solo dopo chehanno svolto il proprio autonomo percorso qualitativo. Chi non investe inquesto processo, o non ha il coraggio di attuarlo per come dovrebbe essere,priva il paese e le future generazioni di ogni autentica prospettiva.

La nostra storia ci pone necessariamente al centro di questo nodo. Ci sia-mo costituiti in difesa di diritti che si volevano cancellare, si è resa necessa-ria una valutazione a tutto tondo della realtà di cui siamo parte consisten-te, poiché nella scuola – che a noi piace concepire come un organismo enon come un meccanismo di cui è possibile smontare le parti in manieraindenne – ciò che si pensa per una parte ha riflessi significativamente im-portanti per tutti.

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STORIE E TESTIMONIANZE

DI INSEGNANTI PRECARI

RACCONTI

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Luca Antoccia

IL PRECARIATORACCONTATO AL MIO GATTO

Una storia da The Dark Side of the School

Mi conoscete? Be’, mi presento. Sono il vicino di casa dell’autrice de Lascuola raccontata al mio cane. Veramente, a dirla tutta, il cane a cui è stataraccontata la scuola sarebbe il mio, anzi era mio. È andata così: un giornosquilla il telefono: è una supplenza di sedici giorni, per meno non ti chia-mano, in un paese a un centinaio di chilometri. Ci sono stato, anni fa. Ac-cetto? È un po’ che non lavoro: con le assenze fino a due settimane “coper-te” da colleghi di ruolo, le supplenze si sono assai ridotte. Accetto. Ma poi,abbassata la cornetta, il rimorso: e il cane? Già il cane. Gli voglio bene, manon posso portarlo con me: alloggerò da un’affittacamere: niente cani. Achi lasciarlo? Suono il campanello della mia gentilissima vicina: è una pro-fessoressa, mi capirà. Ricordo ancora lo sguardo interrogativo del cane ca-tapultato all’improvviso in una casa tra odori sconosciuti e tappeti sui pa-vimenti (io non ho tappeti, sicché quei prati multicolori dovevano farglieffetto). Vecchio mio, ricordo che gli dissi, chi ha la sventura di essere uncongiunto di precario, deve accettare di essere un po’ precario anche lui.Questa è la prima legge del precariato: madri, mogli, mariti, figli (e cani)sono precari anche loro, per quanto affettivamente ed economicamentecondividono le sorti del precario. La vicina fu comprensiva, fece traspariresolo un po’ di preoccupazione per il cane. Lei di cani ne aveva avuti, nonc’era problema. Ma si sarebbe abituato, lui? Le dissi che era un cane giova-ne, con la flessibilità nel sangue, e poi era già stato tre giorni da un amico,ora purtroppo sposato, ed era andata benone. Si prova, via. Fu la conclusio-ne. Ci scambiammo numeri telefonici e… “Se non mi senti, tutto bene”, midisse. Non la sentii. Il mio cane mi mancava. Quando tornai, lo trovai cam-biato. La collega gli aveva tenuto una sorta di Tutta la scuola minuto per mi-

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nuto, e insieme avevano scritto un libro (a sei zampe, a sei mani?). Mi con-fessò che aveva dato al mio cane anche un nom de plume: Perry, come PerryMason. Era appassionata dei telefilm con Raymond Burr, lei. Nel frattempoil suo Perry aveva fatto la bocca a un’alimentazione di ruolo e non più daprecario (io gli passavo quello che mangiavo io; lei, immagino anche persostenerne le fatiche letterarie, lo rimpinzava di manicaretti canini). In-somma, per farla breve, lui mi sembrò un po’ tiepido circa l’ipotesi di tor-nare alle vecchie abitudini, compresa l’attesa vicino al telefono. Eh sì, per-ché una cosa fondamentale dei precari è stare all’erta vicino al telefono inattesa che squilli e che una scuola ne reclami la disponibilità. E allora il pre-cario deve farsi trovare pronto, prontissimo. Solo che io certe volte ho ilsonno a prova di telefono (quando non ho di meglio, e non insegno, certenotti faccio un po’ di palestra ai mercati generali, funziona, e ti pagano pu-re). Be’, insomma, visto il sonno duro, quando il telefono squillava, avevoaddestrato il cane a venirmi ad abbaiare direttamente nelle orecchie. Inquesto modo sono riuscito a prendere al volo parecchie supplenze (primacioè del quinto o sesto squillo, perché a quel punto le segreterie passano alnominativo successivo, e ti saluto). Insomma il mio cane, lo dico con orgo-glio, contribuiva al ménage familiare. Sta di fatto che adesso era un altro, eavrebbe forse preferito continuare a fare il cane da salotto. Le colleghe del-la mia vicina gli avevano offerto pasticcini che avrebbero corrotto ancheme, anzi se c’è qualcuno tra chi legge che ha desiderio di un cane speciale,tipo Perry, che sappia ascoltare e anche rispondere, eccomi: sono disponi-bile. Così, tra una supplenza e l’altra, per arrotondare, potrei fare anche ilcane. E poi ci sono ancora istituzioni che meritano di essere raccontate fa-cendo ricorso a un punto di vista canino. E poi perché limitarsi ai cani? Al-l’occorrenza posso immedesimarmi in altri animali. Ho lavorato per qual-che mese in un negozio di animali: non avrei difficoltà. Immaginatevelo acaratteri di stampa: “La confindustria raccontata al mio camaleonte”, o “IlVaticano raccontato alla mia mantide”, “La televisione raccontata alla miatalpa”, “Le riforme in Italia raccontate alla mia lumaca” (non è meglio

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“gambero”? Meglio mi fermi, va’). Intanto, ancora in piedi sull’uscio, la miavicina e io avemmo la stessa idea: il cane era meglio lo tenesse lei. Sarei tor-nato a fargli visita, ovvio. Ma forse era il caso di trovarmi un altro animale.E magari avrei raccontato qualcosa anch’io. Il tema era pronto: il precaria-to, naturalmente. Pensai subito a un gatto: non sono un estimatore di que-sto animale, ma dato che si doveva cambiare, meglio farlo in modo netto. Epoi un gatto sta al precariato come un cane sta al ruolo. Questione di status:comodità, sicurezza, versus avventura, nomadismo. Gatto: non c’era piùdubbio: gatto! Mentre rimuginavo, la mia vicina mi disse: “Ma lo sai che lanostra vicina – ho un’altra vicina sul pianerottolo, ma con lei comunicomeno – ha un gattino da collocare?”. Mi inteneriva che qualcuno trovassecollocamento da me. Da non crederci: io che con l’ufficio di collocamentoavevo ormai rapporti stretti, quasi intimi, adesso offrivo lavoro a qualcuno!Eh sì, una specie di lavoro: ascoltarmi. Mostrai entusiasmo, ma in realtà do-vevo ancora riprendermi dalla perdita di Perry, o com’altro si chiamava,tanto è Perry: ormai non si discute. La cara collega (concedetemi la paren-tesi: quando chiamo così una prof. di ruolo, mi pare di usurpare un titolo, eche lei possa offendersi, come le mancassi di rispetto: io, un precario, unaspecie di Lumpenproletariat. Qualcuno deve avermi guardato così una vol-ta, perché non uso mai la parola senza esitazione). Dunque la cara collega,aveva il cane? E il precario aveva il gatto.

Ora potevo cominciare a indottrinarlo. Eh sì, va detto: Perry, al mio ri-torno mi era sembrato un po’, come dire… intronato. Quando ho letto il li-bro della collega ho capito perché. Povero cane! Mica che non avesse ragio-ne la collega, tutt’altro. Ma il fatto è che a un cane, come a un bambino, valasciata qualche illusione, almeno sulla scuola, sennò poi ti cresce male. Se-condo me, la collega che si lamenta degli alunni che l’ascoltano sempre me-no, si era fatta un po’ prendere la mano col cane. E ora il classico: “Non miascolta neanche un cane” – sfogo preferito di ogni insegnante – acquisivasulla sua bocca esattezza letterale. Io avrei scelto un’altra via con il mio gat-to. Già dal nome.

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Ci dividono pochissimi anni, ma apparteniamo lo stesso a due genera-zioni diverse. Lei ha i suoi telefilm anni Sessanta, io la musica dei Settanta.Il mio gatto si sarebbe chiamato Mason anche lui: non Perry, ma Nick, co-me Nick Mason, il batterista dei Pink Floyd, il mio gruppo preferito. Altroche avvocato, un percussionista! Del resto è giusto, lei è di ruolo e io preca-rio. La differenza ci sta tutta. Come tra un’arringa e un’aringa. Il propellen-te del mio gatto a percussione sarebbe stato il più economico dei pesci. Saràprosaico: ma nel cambio ci guadagnavo pure.

Restava un inconveniente: insegnargli ad abbaiare quando squillasse il te-lefono per destarmi dalla catalessi. Ma avremmo studiato un sistema. Se nonproprio a suonare la batteria, potevo insegnargli a saltare su un bongo, no?

Cominciammo la prima lezione. Per coinvolgerlo bisognava partire daibisogni e dal linguaggio del discente. Non è questo che insegna giustamen-te la più recente pedagogia? Ogni mini-lezione (era un cucciolo) avrebbeavuto forma di pesce. Dieci lezioni in tutto e poi via: libero di fare ciò chevoleva. Nick si accucciò curioso: era davvero un cucciolo e mi fece tenerez-za, come quella che m’ispirano i miei alunni, specie in prima media. Ma co-minciamo. Tra un po’ è ora di pranzo.

Uno: l’aringa, appunto: è nutriente ma costa poco. Anche il precario ènutriente e costa poco. Mi spiego. Il precario viene generalmente da perio-di di inattività ed è desideroso di mostrare che vale. Di solito contribuisce aidestini di una scuola quanto i docenti di ruolo. E poi costa poco: supplenzeannuali a parte (su un posto vacante, retribuite tutto l’anno), la gran partedelle supplenze a tempo determinato sono in sostituzione di colleghi inaspettativa, maternità, missione; oppure sono spezzoni di ore: non paganoi mesi estivi. A luglio e agosto, aringhe tutt’e due, caro Nick. Se va bene.

Due: l’acciuga: è salata e sta sott’olio. Come i corsi che i precari sono co-stretti a frequentare da un paio di anni per non vedersi scavalcare da altri

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precari. Costano anche 1.500 euro, quasi uno stipendio e mezzo, e danno lamiseria di tre punti in graduatoria. Stanno sott’olio perché altrimenti an-drebbero presto a male, il sapere che vi si apprende è, infatti, di facile depe-ribilità.

Tre: qui Nick mi fa gentilmente segno che vuole interagire. Io gli vado aprendere il bongo ma lui salta sul frigo: capito! Apro il frigo e… ci mangia-mo tutt’e due il…

…tonno: terza lezione (mangereccia, si può fare lezione mangiando in-sieme? Penso di sì). Il tonno è un pesce di qualità ma viene svilito, perchéinscatolato, pressato, conservato affogato in oliacci. Bene, il precario avolte ha esperienze incredibili da raccontare: ex assistenti universitari, ar-chitetti e arredatori, compositori, cantanti premiati, artisti di chiara fa-ma, giornalisti iscritti all’albo con centinaia di pubblicazioni all’attivo,restauratori, viaggiatori alla Chatwin, sognatori e poeti, pedagoghi sulcampo. Da una scuola che dice di voler ampliare e innovare l’offerta for-mativa, ti aspetteresti di vederli valorizzati. Macché: questa ricchezza vie-ne tenuta sott’olio ad ammuffire nelle solite scatolette delle discipline (eci sono pure meno ore di italiano, inglese, tecnica). Allora pazienza, nien-te di tutto ciò? Eh no! quelle attività sono essenziali a una scuola moder-na, vengono tuttavia preferiti ai precari i cosiddetti “esperti esterni”. Mavuoi mettere? “Precario” sa di stantio, questi invece possono essere spac-ciati per “freschi”. L’etichetta fa il prodotto. Ma sempre tonni sono. Anzi,questi costano di più e spesso, davanti a dei ragazzi, non sanno che pescipigliare.

Quattro: antipasto di pesce misto. L’avrei dovuta mettere prima, vera-mente: l’avrai capito che a essere precari si diventa un po’disorganici; io poilo sono anche di mio.

Dunque, si tratta di un piattino – te lo farò una volta – in cui si trova unpo’ di tutto: polipetti, seppioline, altre cose non facilmente identificabili.

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Come noi precari: siamo oltre duecentomila in Italia, con una varietà di sot-tospecie impressionante; i precari storici (cosa significhi nessuno sa esatta-mente, eppure è uno dei termini più in voga, vedrai che arriverà il giorno incui qualcuno, il più esasperato, andrà dal ministro di turno e reclamerà, da-vanti al suo sguardo allibito, la patente, sissignore, la patente di precario sto-rico.Chissà se avremo un Pirandello a raccontarlo).Poi ci sono i sissini (que-ste due fazioni sono in lotta tra di loro per annose questioni di punteggi da-ti, tolti, ridati; dissidi esacerbati e a volte imperscrutabili, come quelli che di-laniavano il mondo barbarico alla vigilia della caduta dell’impero. Ammia-no Marcellino ci si perderebbe a raccontare scorrerie di provveditori, aggua-ti di ministri, controffensive del Tar, manovre diversive, alleanze e tradi-menti improvvisi). Poi ci sono gli ordinaristi che, avendo superato regolareconcorso per esami, si richiamano di continuo alla Costituzione (fai contoche la Costituzione sia il mare in cui nuotano i pesci delle leggi, Nick). Sonouna specie austera e guardinga: temono di finire vittime sacrificali del nuo-vo che avanza. Allora hanno mandato a memoria, e ripetono a tutti, interipassi della Costituzione che li tutela; temono finisca come i libri di Fah-renheit 451: sono uomini-libro. Infine ci sono i fluttuanti, abilitati ma conpunteggio insufficiente a prendere una supplenza annuale dall’ex Provvedi-torato (ora Csa) e devono aspettare le chiamate, spesso telefoniche, dei prè-sidi. Come me. Li chiamo anche cordless. Sai, quel telefonino appeso al collocon cui giro per casa? Ma cordless anche in senso anglo-latino, perché co-stretti a fare a meno (less) del cuore (cord): le supplenze da sedici giorni a unmese impongono ferree diete emotive, mai affezionarsi troppo agli alunni.Sennò si soffre. Quasi nessuno ci riesce, naturalmente. Il tuo predecessoremi ha visto piangere, con te non risuccederà. Almeno spero.

Cinque: (sei stanco? palletta? ah sì, palletta, ecco!) il pesce pilota (naucra-tes ductor, te lo dico in latino affinché tu non creda che stia inventandoqualcosa). Come dici, non esiste? Esiste esiste! Certo, non guida veicoli: hal’abitudine di precedere le navi; non so se sia commestibile, ma cerca di in-

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teressarti lo stesso. I precari sono spesso pesci-pilota: nelle gite scolastiche,nelle attività pomeridiane, nelle visite guidate, il precario è quasi semprecooptato, forse perché è giovane, inesperto, senza famiglia, figli, coniuge. Semancano le predette condizioni, hanno almeno l’aria ammansita, effettoindesiderato di anni di deluse attese per la cattedra. Non è sottomissione,diciamo che è una rassegnata “disponibilità”.

Sei: lo scaro (lo so, non lo hai mai sentito: sei giovane, e poi è bello impa-rare). Allora, lo scaro è un pesce di piccole dimensioni; quando entra nellaNassa, cioè nella gabbietta predisposta dal pescatore e si accorge di essere intrappola, comincia a muoversi all’indietro e, agitando a destra e a sinistrala pinna caudale, riesce ad aprirsi un varco tra le asticelle della gabbia. Spes-so in questa operazione gli è d’aiuto uno scaro-collega di passaggio che lotira dalla coda e gli permette di uscire. Tra marzo e maggio, i precari si mu-tano tutti in scari: è il periodo in cui li vedi smarriti davanti a mille carte, imoduli per l’aggiornamento delle graduatorie. Sono scritti con arditi co-strutti di una tale enigmatica, bizantina bellezza, da rimanere abbacinati.Accorrono in aiuto le interpretazioni, le chiose, vengono pubblicati com-mentari, a volte ancora più ardui. Si insinua perfino il sospetto, ma sonosolo i più spudorati a denunciarlo, che siano così complicati a bella posta,che quella è la nassa in cui si rischia di rimanere intrappolati. Se commettianche un solo errore, ti dimentichi ad esempio di apporre la firma in unodei dieci e più fogli di cui si compongono le domande, puoi restare fermoun giro, cioè un anno, senza lavorare, due dal duemilasei. Non è il giocodell’oca, ma ci siamo quasi. Allora accade che uno scaro più anziano, o so-lo più navigato, accorra in tuo aiuto, prendendoti per la coda e illustrando-ti il modo di uscirne. Il periodo in cui gettano queste nasse di carta è un pe-riodo di grande stress; può durare tre mesi o più: da marzo ad agosto,com’è successo nell’epica estate del duemilaquattro. Se quando vengonoaffisse le provvisorie ci sei, e magari col punteggio giusto, puoi ritenertifortunato ma non ancora cantar vittoria. Ci sono da aspettare le definitive!

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Le vacanze vengono scavate in una piccola nicchia, che si spera sicura, pro-prio in mezzo tra le due uscite delle graduatorie; calcolando le possibili da-te di pubblicazione con la stessa probabilità di riuscita che se si divinasserocol volo degli uccelli o con le interiora di pecora. Almeno l’operazione è inquesto caso più asettica (forse anche troppo): si va in processione dall’u-sciere (unico essere non dico animato, ma semovente, nel provveditoratoestivo, se vogliamo escludere gli ascensori) che invariabilmente dirà di nonsapere. E allora tu scruterai le minime sfumature, i tratti che in linguisticasi chiamano “soprasegmentali” (grazie professor De Mauro: mi sembrache a riuscire a dare un nome alle cose sia già un po’difendersi). Si diceva diquesti tratti: ad esempio, “presenza di alzata di sopracciglio”: gran bruttosegno; “risolutezza nella risposta”: buon segno; “inespressività totale”: in-certezza totale. Si vive appesi a questi uscieri nel più tipico dei copionikafkiani (mi sorge un dubbio: non è che Kafka fosse un precario anchelui?), uscieri consci dell’improvviso ed estivo loro potere, ben decisi a in-carnarlo nel modo più impersonale, come fossero emanazioni del Giudi-zio e del Destino e noi fossimo tanti K. Il provveditorato è il Castello, ma uncastello senza Klamm. (Scusa ho divagato, Nick. Ti metto su Money deiPink Floyd, così ci tiriamo su). Mi dispiace, Nick, ma questa è la vita di chista vicino a un precario.

Sette: il ghiozzo: alcune sottospecie hanno aculei pericolosi. I ghiozzi sa-rebbero stavolta gli studenti dei precari. Si tratta di fantasie persecutoriedei precari stessi, solo in rari casi confermate dalla realtà. Il fatto è questo:noi si lavora con bambini, ti piaceranno i bambini, Nick, vedrai, sono inte-ressanti, come i gatti e i cani. (Non posso dire di più, se no mi si offende). Ilfatto è che quando entri in una classe e dici: “Salve sono il supplente, staròcon voi per un paio di settimane di supplenza”, parte in simultanea nelle lo-ro teste la traduzione: “due settimane di vacanza”. Ma supplenza non fa ri-ma con vacanza. Almeno noi proviamo a spiegarglielo. Tutti i precari, spe-cie quelli di supplenze brevi, temono di essere trattati con insofferenza,

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quando va bene con sufficienza. Insomma, gli aculei del ghiozzo. Ma quasisempre i ragazzi, almeno all’inizio, sono incuriositi.Anche i ghiozzi, in fon-do, basta saperli prendere, poi però sono buoni.

Otto: la seppia: ne abbiamo già parlato; qui veniamo a un altro aspetto diquesto pesce fantastico, non solo in senso culinario. Pensa che la seppia,quando viene aggredita, spruzza sul malcapitato un getto d’inchiostro co-me usiamo noi professori, nelle penne. I precari, specie quelli di una sotto-specie particolare, i laureati in lettere, categoria cui appartengo, si indu-striano infatti sovente per reagire allo stato di penuria di soddisfazioni ma-teriali e morali. Scrivono, o cercano di pubblicare, articoli, saggi, interviste,perfino libri. Introiti a volte simbolici, o aleatori, o molto differiti nel tem-po. Questo gettito di inchiostro, nato da necessità, ma più spesso da passio-ne, viene visto con diffidenza da certi colleghi (quasi nella scuola ci si aspet-tasse una dedizione proporzionata alla precarietà) e dalla stessa ammini-strazione. La stessa produzione di inchiostro accredita poi, però, esperti“esterni”, che con il nero di seppia di corsi di cinema, fotografia, giornali-smo, daranno colore e gradevolezza alla pasta, ormai impresentabile da so-la, delle varie materie curricolari. Ma allora perché non mettere nelle do-mande delle graduatorie, oltre le abilitazioni conseguite, i campi in cui sisono raggiunti traguardi professionali? Un precario iscritto all’ordine deigiornalisti saprà insegnare giornalismo quanto un esperto esterno che in-vece costa all’istituzione, e a volte anche ai genitori. Ma come fa la pubblicaamministrazione a sapere che ho conseguito questa qualifica se in decine dipagine nessuno spazio lo prevede?

Nove: il polpo: devi sapere,Nick,che è uno dei pesci più saporiti e teneri, seben cucinato. Quando viene cacciato, ha l’abitudine di attaccarsi agli scogli,con le mille piccole ventose sotto i tentacoli. Il precario, nonostante gli sforzi,dopo che ha superato la fase della domanda-nassa, superata anche la fase bal-neare (per gli altri) dell’affissione delle graduatorie, superata anche la fase

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ansiogena della telefonata-che-non-arriva, avuta finalmente la supplenza,vede pian piano vacillare i suoi propositi di distacco,e proprio quando sta peressere cacciato, lo trovi aggrappato allo scoglio della sua classe, (bada bene:non ho detto allo scoglio della sua cattedra, c’è una bella differenza). Que-st’anno è capitata anche questa: alcuni avevano cominciato a settembre a la-vorare, quando poi il provveditorato a novembre ha proceduto alle nominein molti casi è arrivato un “avente diritto”, nel gergo astruso della scuola “unoche in graduatoria ti sta sopra”.Be’,normale,però non è normale che il primodebba apprendere la notizia del sollevamento dall’incarico dal suo successo-re, durante la lezione e davanti ai ragazzi. Non son cose da fare agli umani, eneanche ai gatti. Il tatto l’avete sviluppato voi felini, noi…

Dieci: sarai stanco, perciò non ti parlerò di aragoste, mazzancolle e altripesci pregiati che tanto in questa casa difficilmente vedrai. Per finire –semplice semplice – ti parlerò del glauco: il glauco è un pesce così così, nonparticolarmente bello, né buono: sembra la descrizione della maggiorparte di noi precari; lui si nasconde nei fondali, specie quando viene la ca-nicola. Se ci va bene, da settembre a giugno abbiamo uno straccio di statussociale da inalberare. Ma da giugno a settembre, chi incontriamo per laprima volta (e quanti incontri si fanno d’estate, mannaggia!), preghiamosempre non ci chieda cosa facciamo di lavoro. Abbiamo messo a puntostrategie atte a mimetizzarci, e ci siamo quasi riusciti, quando, zac, la fati-dica domanda cala con spietata innocenza sul precario: “E tu che lavorofai?”. Dovresti rispondere, se sei sincero, beckettianamente: “Aspetto”. O“Sono in attesa di graduatoria.” Non va: sembri un server in avaria.“Chiu-sura per ferie?”, come soluzione potrebbe andare. Ma è troppo spavalda. Epoi “Chiusura per ferie”… ci vuole un senso dell’ironia ben autolesioni-sta, proprio a noi che le ferie non ce le pagano! “Insegnante?”: si fa presto adire insegnante. In teoria sarebbe la risposta giusta. Ma poi, all’immanca-bile corollario: “Dove insegni?”, cosa si risponde: “Che ne so io dove inse-gnerò, se insegnerò”. E allora “insegnante” la scarti, troppo disinvolta, per-

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fino superba e vagamente autoiettatoria. “Precario” è parola troppo inti-ma. Lo si ammette tra famigliari e colleghi. Con un estraneo ci fa sentirevulnerabili. Ci espone alla commiserazione. E poi, non so, richiama im-magini di crolli, annunciati o temuti: un edificio in precarie condizioni vainfatti restaurato; oppure evoca difficili convalescenze: precarie condizionidi salute. Mentre inseguiamo la formula che ci tolga dall’imbarazzo, eccoche il tipo o la tipa è già passato al vicino di sedia, che non ha avuto diffi-coltà a rispondere: programmatore, geometra, operatore ecologico, perfi-no “co.co.co”. Professioni che hanno tutte il vantaggio di non richiederespiegazioni. Ma precario! Meglio “Glauco”… o “Ghiozzo”. Sì, risponderòcosì, se mi incontrate in estate. Non dite che non ve lo avevo detto.

Sai, ora che ho finito, e ti sei addormentato e sembri, come tutti i cuccio-li, così adorabile, te lo dico piano piano. Ho una remora, cioè temo di averdimenticato un pesce che guarda caso si chiama proprio remora. Sai, gli an-tichi dicevano che avesse il potere di fermare le navi. È un pesce di piccolataglia, se ne sono interessati dei grandi come Lucano, Ovidio, Plinio. Io hola remora che questo corso non sarebbe completo se non ti confidassi lapiccola speranza di essere un po’ una remora, capace di convincere la gran-de nave dell’istruzione pubblica a cambiare un po’ la sua rotta. Magari è so-lo una fantasia degli antichi, cui piaceva sognare. Ma i sogni non costano emi piace pensare che sarebbe bastato fermarsi davanti a una remora e il Ti-tanic non sarebbe andato incontro alla sua fine.

Ciao Nick, buon riposo e dorati sogni gatteschi. Grazie per avermi ascol-tato con la pazienza dei cuccioli. Agli altri miei cuccioli adorati, e in parti-colare a quelli di Osteria Nuova, e di Anguillara, e agli altri, che nel frattem-po hanno varcato la trentina, è dedicato questo racconto, nella speranzache, se lo leggeranno, li possa divertire e, come si diceva una volta, magariun po’ istruire. O che serva a consolarli dell’incolpevole andirivieni dei lo-ro precari prof.

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Nick, mi hanno chiesto di pubblicarla questa lezioncina. Il titolo, lo sai,non può che essere Il precariato raccontato al mio gatto, il sottotitolo vorreiche fosse:“Storie da The Dark Side of The School”, come The Dark Side of theMoon, il buon vecchio disco dei Pink Floyd. Perché vedi, noi siamo la partein ombra della scuola – che a volte la scuola ci sembra proprio la luna: di-stante, immota – ed è ora, Nick, che qualcuno accenda per bene i riflettorisu tutta quest’ombra. Ehi, Nick, in quel disco ci davi dentro proprio bene,lo sai?

P.S. Un grazie doveroso alla collega – posso chiamarla così? – Paola Ma-strocola, che col suo “La scuola raccontata al mio cane” ha indirettamenteispirato questa modesta variatio. Una precisazione, che sa di ovvio ma va fat-ta, specie se il libro dovesse finire in mano a bambini: io non sono il suo vicinodi casa e lei non mi ha “scippato” il cane, la storia del cane nasce da esigenzenarrative. Anzi: io lei nemmeno la conosco, e spero che se leggerà queste pagi-ne sia con divertimento. Il cane, se esiste, e tanto più se non esiste, è propriosuo. E mi piacerebbe farmi spiegare da questo Perry, che sicuramente le avràdigerite meglio di me, alcune cosette sulla scuola che non mi vanno giù. Ungrazie va anche a Ovidio, e al suo libro forse meno conosciuto, gli “Halieutica”(o “Halieuticon Liber”) a cui si devono alcune delle preziose informazioni suipesci. L’ha scritto quand’era in esilio a Tomi, mandatovi da Augusto: una lun-ga supplenza in un luogo disagiato e senza neanche il doppio punteggio. Vimorirà da precario. Speriamo di essere più fortunati, noi. Ciao, Nasone!

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Gelindo Petri

IL MARATONETA

Sabato 12 gennaio 2002. Ore 12.30. Squilla il telefono.

– Pronto? Qui è la Scuola Media “Baccelli” di Tivoli, è lei il prof. Petri? Èconvocato per il giorno 14 gennaio corrente mese, ore 8.30 per un eventua-le incarico annuale fino al 31 agosto su posto di sostegno per 18 ore setti-manali, salvo il diritto di chi la precede.

Dopo quattro mesi dall’inizio del nuovo anno scolastico, finalmenteerano state fatte le nuove graduatorie di istituto e si potevano conferire lesupplenze annuali. Quattro mesi di attesa: tutti i giorni uguali, sempre adaspettare che squillasse il telefono per un eventuale incarico.

La telefonata era arrivata,l’attesa era finita,solo un particolare nella mia testa:salvo il diritto di chi la precede. Questo dubbio mi avrebbe fatto compagnia finoal lunedì mattina; altre quaranta ore di attesa: quattro mesi non erano bastati.

Salvo il diritto di chi la precede, ma come, dopo questa estenuante attesaancora il dubbio di chi mi precede? C’era qualcuno che mi precedeva?

E io precedevo qualcun altro che aveva ricevuto la telefonata di convoca-zione?

Ci tenevo tanto a quest’incarico per un paio di motivi: uno perché avevoinsegnato in questa scuola l’anno precedente, quindi per continuità didat-tica avrei preferito continuare il lavoro già iniziato, due perché era impor-tante per vivere, tanti mesi senza stipendio e con un mutuo da pagare…

Domenica 13 gennaio 2002

Fu lunghissima quella domenica fredda di gennaio, quasi interminabile.L’Italia era tutta imbiancata di neve; anche le zone intorno a Roma, forseanche Tivoli!

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Lunedì 14 gennaio 2002

Non avevo chiuso occhio durante la notte, alle cinque di mattina ero giàalzato. Per arrivare a Tivoli da casa mia dovevo prendere un bel po’ di mezzipubblici: si iniziava con il treno della FM3 dalla stazione di Monte Mario,poi si scendeva a Valle Aurelia per prendere la Metro A fino alla stazione Ter-mini e lì proseguire con la Metro B fino a Ponte Mammolo, dopo si dovevacontinuare il viaggio con il pullman fino a Tivoli (due ore di viaggio circa).

Alle ore sette ero già a Ponte Mammolo, salii sul pullman e via lungo lafamigerata via Tiburtina sempre intasata dal traffico; comunque ero inperfetto orario, tutto bene salvo il diritto di chi mi precedeva.

Era pieno il pullman, gente addormentata come me, assorta con i propripensieri, i propri problemi, sogni, desideri. Il mio sguardo andava oltre i fi-nestrini, si perdeva in quel paesaggio bianco. Chissà se su quell’autobusc’era qualcuno che mi precedeva! E io avrei preceduto qualcuno? Quantevolte avevo vissuto quest’ansia; quante altre volte era andata bene e altrevolte era andata male.

Sopra Tivoli si vedevano le montagne tutte imbiancate di neve, un belpaesaggio, tutto era bianco, come la notte che avevo passato io. Arrivati allecave di travertino di Guidonia il pullman si fermò. Pensai che la fermatafosse stata causata dal traffico. Dall’altro lato della strada non passavano némacchine né altri tipi di mezzi. Sarà successo un incidente? Dopo dieci mi-nuti le prime notizie: la strada per Tivoli era chiusa al traffico per la neve eil ghiaccio che si era formato sull’asfalto; tutto bloccato! Di sicuro quelgiorno non avrei preceduto nessuno.

Brevi pensieri bruciati in un attimo; mi ricordai della gioia nel cammina-re, nel correre; ore e ore passate nei campi e nei boschi, quanti chilometri.

Scesi dal pullman e iniziai a incamminarmi. I chilometri da fare eranotanti e anche in salita, il rischio di scivolare era forte, il desiderio di non ri-nunciare più forte ancora.

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I primi due chilometri furono molto veloci, avevo attraversato le cave ditravertino ed ero arrivato a ponte Lucano vicino Villa Adriana, da lì inizia-vano i tornanti per Tivoli, la strada era deserta, solo ghiaccio e neve.

Pensavo alla telefonata e a quel salvo il diritto di chi la precede: ne sarebbevalsa la pena di fare quei chilometri a piedi?

Con molte difficoltà iniziò il mio cammino in salita: attento qua, un passolì, ora adagio, ora più spedito; uno sguardo all’orologio (quasi le otto), ero inperfetto orario.L’essere partito da casa con largo anticipo mi era stato d’aiuto.

Anche se con difficoltà, i chilometri già percorsi aumentavano; il miosguardo era rivolto un po’ alla strada e un po’ all’orologio; le lancette gira-vano così veloci che mi sembravano eliche di un ventilatore. Il tempo cor-reva inesorabilmente e molto più veloce di me.

La salita finalmente stava terminando, e dopo una curva, finalmente leprime case di Tivoli; naturalmente la scuola era dall’altra parte della città;in ogni caso, bene lo stesso: c’ero quasi.

La strada era bloccata da due macchine della polizia messe di traversoper bloccare il transito in uscita da Tivoli, tutto intorno altre macchine fer-me e un gruppo di persone che mi guardarono stupite vedendomi arrivare;io proseguii senza fermarmi. Erano le ore 8.25, dovevo accelerare il passo,anche se ero stanco dovevo arrivare a scuola in orario di convocazione e poisempre salvo il diritto di chi mi precedeva.

Quanta fatica, ne sarebbe valsa la pena? Ero sfinito quando vidi la co-struzione della scuola! Erano le ore 8.35. Ero arrivato in ritardo, comunqueprima di dare un incarico di solito si aspetta sempre cinque minuti; questomi confortava…

Davanti la porta della scuola incontrai il preside. Si stupì nel vedermi ar-rivare e, conoscendomi, mi disse:

– Caro professore, come ha fatto ad arrivare a Tivoli da Roma con questaneve?

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Mi vergognai a dirgli che ero venuto a piedi dalle cave di travertino; esi-tai un attimo e poi gli risposi:

– Sono venuto a piedi da ponte Lucano (due chilometri di meno) perchéla strada è chiusa al traffico.

E il preside:– Sette chilometri! si è fatto sette chilometri… Professore, ma lei è il no-

stro maratoneta!

Corsi in segreteria, c’erano solo due impiegati e nessun professore. Subi-to dopo sopraggiunse la segretaria, anche lei si meravigliò nel vedermi e poimi disse:

– Professore dobbiamo aspettare un altro quarto d’ora, con questi pro-blemi di neve può darsi che sopraggiunga qualcun altro che la precede!

Dopo nove chilometri, ancora l’attesa di questo qualcuno che mi volevaprecedere. Possibile che per forza dovevo essere preceduto da qualcuno?

Non si presentò nessun altro, così firmai il contratto di incarico e mi re-cai subito nella classe dove avevo insegnato l’anno precedente. Bussai allaporta, non rispose nessuno, riprovai e la aprii; l’aula era vuota, i ragazzinon erano entrati a scuola causa la neve.

In sala professori rincontrai il preside, vedendomi esclamò:– Professore, sono proprio pochi i maratoneti!

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Cyrano de Bergerac

20 02 2002

Un mercoledì da precari

Eccolo qui il mio mercoledì mattina… Come tutti i mercoledì dal 17 set-tembre 2001. Due ore di latino e una di storia in una seconda liceo scienti-fico, un’ora di lezione di italiano agli alunni stranieri, più un’altra ora di la-tino in una quarta liceo linguistico.

Ore 8.05 (dopo essermi svegliata alle 6.05 ed aver percorso un meravi-glioso tratto di strada pieno di curve – 35 chilometri per essere esatti – pergiungere al mio luogo di lavoro):

– Profe, non ho fatto il commento della poesia.– Baracchi, perché non l’hai fatto?– Non me lo sono ricordato.– Insomma, esiste un registro di classe sul quale io segno i compiti che

dovete fare. Non potete venire a dirmi che ve li siete dimenticati! Non neposso più di questa storia. Quattro, questo è un quattro… mi dispiace manon posso fare altrimenti. Dovete prendervi le vostre responsabilità!

– Profe, ma un quattro a tutti? Io l’ho fatto il commento! È la prima vol-ta che faccio i compiti, l’hanno scorso non facevo niente!

– Tinozzi, cosa c’entri tu! Sempre nel mezzo, stavo parlando con Baracchi!– No… è che ha detto “dovete” e io ho pensato…– Non pensare niente e taci.Alberici, leggici il tuo commento della poesia.Mentre una serie di parole altisonanti accompagnava la voce melodio-

sa dell’alunna Alberici (la più brava della classe) la mia mente vagavasempre più lontana da lei e da Montale con il suo male di vivere. Pensavoa quei ragazzi e ai loro perché. Cosa gli stavamo dando? Cosa gli stavodando… Dopo così tanti anni di incertezze lavorative non sapevo neppu-re io se ero più la stessa giovane insegnante motivata che aveva spronato isuoi tanti alunni a credere in loro stessi e nelle loro capacità, quando que-

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sti non erano neanche in grado di guardarsi dentro. Certo, tanto giovanenon lo ero più. Neppure vecchia però. Non certo da mettermi in pensio-ne… ma quale pensione? Se non ero ancora di ruolo! Dodici anni di pre-cariato. Tre concorsi superati. Uno ordinario e due riservati. Alcune libe-re docenze all’università. Laurea in lettere classiche. Archeologia greca.Perfezionamento in archeologia. Pubblicazione della tesi. Ed eccomi qui.In un liceo scientifico, incluso in una modernissima scuola-polo, nel cuiedificio compaiono i più disparati indirizzi di studio, sperduto nellacampagna. Con davanti un cimitero.

Memento mori. Ma morirò precaria? Gli ultimi sondaggi in materia fan-no propendere per il sì. Se avessi dei figli cosa mangerebbero oltre al panedella cultura? Fortunatamente, ho soltanto un gatto. Grasso però. Chemangia tre volte al giorno (compresa la merenda).

Ed eccolo lì che ritorna lo spettro della collega Martinelli che è entrata diruolo alla tenera età di sessantatré anni… Finirò così. Forse dovrei cambia-re lavoro. Ma cosa faccio? Ecco… la scuola privata. La scuola di qualità.Quella dove non ci sono gli alunni come Tinozzi ma solo Alberici, tanti Al-berici puntuali nei compiti, con voti altissimi e non vestiti come i figli deifiori. Sento che gli occhi mi brillano al solo pensiero. Poi mi sembra di sen-tire urlare nelle orecchie la voce squillante della collega Patassi che, dopo 12anni di privata, è passata alla pubblica.“Sì, scuola di qualità… È uno schifo,lotte per farli passare anche se sono tutti ciuchi. E poi dormono, non glienefrega niente. Tanto pagano e passano. E a noi ci danno due lire. Col cavoloche mi ci rivedono alla scuola di qualità!”

Vedo gli occhi tondi dell’alunna Alberici guardarmi con impazienza.– Brava, ottime riflessioni.Il suono della campanella.Stavo perdendo colpi. Questo non mi piaceva affatto. L’Alberici poteva

non avere il dono della simpatia ma aveva il diritto di farsi ascoltare. E ionon riuscivo a staccarmi dai miei problemi che diventavano come il caneche si morde la coda. La scuola era il mio problema e il mio problema era la

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scuola. Il cerchio si chiudeva sempre lì. Su quei registri rossi che ogni annosi aprivano con il nome di una scuola diversa.

Ore 10.45. La ricreazione. Mi dirigo attraverso il chilometrico corridoioverso l’aula insegnanti.

– Enrica, dobbiamo fare qualcosa: stasera c’è una riunione per organiz-zare un comitato precari. Ci vieni?

– Loretta, ho una pila di compiti da correggere e poi dovrei preparare al-cune cose per la lezione di domani.

– Ma è importantissimo, ne va del nostro futuro. Dobbiamo lottare, quici stanno passando davanti tutti, quelli delle private, quelli delle scuole dispecializzazione… e noi? Dopo tutti questi anni di servizio dove ci posizio-nano? La nostra esperienza sul campo dove la vogliono buttare? Che cosa tisuccede Enrica, non ti ho mai vista così…

Cosa rispondere a lei, che aveva i miei stessi problemi… Di lasciarmi sta-re… E invece dovevamo lottare per i nostri diritti e per quelli dei ragazzi, chemeritavano tutta la mia attenzione. Quella che gli avevo sempre tributato indodici anni di onorato servizio come supplente nella scuola pubblica.

– Enrica, ti occupi tu del ragazzino egiziano, vero?Già il ragazzino egiziano… Avevo fatto come il Baracchi. Mi ero dimen-

ticata del mio compito.Avevo dato il mio consenso per insegnare l’italiano,nelle mie ore a disposizione, a un alunno egiziano che non spiccicava unaparola nella nostra lingua. Dovevo controllare l’agenda per riguardarmi igiorni delle lezioni.Accanto al suo nome figuravano, il pomeriggio seguen-te, quello di altri tre (italiani) che sarebbero venuti a ripetizione. Mi sareisparata. Mi sarei sparata perché non potevo dire di no agli alunni pomeri-diani che mi invadevano casa. Non potevo dire di no perché il 30 giugno,data fatidica del licenziamento, si avvicinava a grandi passi. E io dovevo pa-gare l’affitto anche nei mesi di luglio e agosto (perché lo Stato non si occu-pava di me in quel periodo, ero una profe stagionale, modello autunno, in-verno, primavera, ma non estate!).

Ore 11.05. Fine della ricreazione. Corridoio centrale.

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– Professoressa senta, io ci voglio bene a questi ragazzi ma non ne posso più!Mi stava davanti, con la sua faccia rubiconda, in tutto il suo metro e cin-

quanta, Nello, il custode dello scientifico.– Mi dica Nello, cosa è successo?– Senta, quell’alunno, Tinozzi, ha rovesciato il cestino della carta dalla fi-

nestra. Io glielo faccio pulire a lui il piazzale!– Mi sembra giusto. Adesso vado in classe, ci penso io, stia tranquillo.Come capivo in quel momento l’alunno Tinozzi e tutta la sua energia

esplosiva! Avrei preso volentieri anche io il cestino della carta, anzi non so-lo quello, tutti i cestini di tutte le classi, e i banchi e le sedie e li avrei scara-ventati dalla finestra. Mi sentivo come uno straccio usato (ma tanto usato)e poi gettato via. Avrei preso volentieri anche quella cattedra che tanto ago-gnavo e con lei mi sarei innalzata in volo come su di un magico tappeto.Perché era quella che io volevo. Più di ogni altra cosa.Volevo poter dare cer-tezze ai miei ragazzi di una continuità didattica, di un percorso insieme chedoveva durare molto di più di un solo anno scolastico.“Gliela compriamonoi una cattedra, profe! ”, mi hanno detto un giorno. E io mi sono com-mossa perché, come dice l’alunno Tinozzi, sono una sentimentale e vorreipoterli salutare almeno una volta con la precisa consapevolezza di vederciancora l’anno successivo.

Ore 12.45. Ripercorro il lungo corridoio con la testa piena delle doman-de dei ragazzi, dei loro interrogativi, delle risposte che ho saputo e non hosaputo dare loro. E con quest’inquietudine che mi accompagna, e mi ac-compagnerà per gli altri 35 chilometri, che devo fare per tornare a casa…

Il resto della giornata è scandito dai volti stanchi e annoiati degli alunnidella ripetizione che, appena seduti davanti alla traduzione da fare, giàguardano l’orologio…

“Quo usque tandem abutere,[Moratti], patientia nostra?…”

[N.d.A.] Sono passati tre anni… E nulla è cambiato!

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Filippo Roberwin

PRECARIUS PRECARI LUPUS

Da La distruzione di una specie di Charles Darwin

… Quando il mio brigantino si è fermato sulle coste dell’Italia mi sonosoffermato a studiare uno strano animale che ho battezzato precarius insa-piens. L’ho visto aggirarsi per lo più in edifici popolati da ragazzi e bambi-ni, è un animale che vive da solo o in piccoli branchi accontentandosi dipoco cibo e ricevendo molte botte.

Quando nella foresta la gran divinità Moratti redige le leggi, che ne rego-leranno la vita futura, il precarius insapiens al più ulula alla luna (qualcuno,un piccolo branco, lo fa sotto la residenza della divinità suddetta), ma perlo più si raduna a guaire in piccoli gruppetti nei corridoi dei succitati edifi-ci o, il più delle volte, da solo. Quando gli sono state tolte le ferie l’ho vistoper terra in silenzio leccarsi le ferite guaendo tra sé; ma per lo più il preca-rius insapiens è dinamico e si aggira a testa bassa alla ricerca del cibo di cui,per ordine divino, si deve nutrire, ovvero: località montane dove il preca-rius insapiens trova cibo prezioso, oppure è alla ricerca affannosa di certifi-cati. L’ho osservato ricercare certificati da solo o in piccoli branchi per pro-teggere la propria eventuale preda dagli altri simili, volendo “nutrirsene”dasolo e magari trovarne di più, in barba agli altri. Posso constatare davveroche la divinità che voleva dominare il precarius ha creato regole adatte per-ché l’uno sbrani l’altro e perché Ella domini sul precarius insapiens.

Curioso il destino di questa specie avviata all’estinzione: infatti, oramaila divinità ha deciso che i piccoli animaletti (con il grazioso nome di sup-plenze) di cui il precarius si nutriva, quando non trovava una predagrossa, sono dati in pasto alla categoria dei buoi di ruolo (un’altra specie si-mile a quella del precarius insapiens, ma che vive pacifica dentro un recintoprotetto e alimentata tutto l’anno dalla divinità) così, se non troverà predepiù grosse, il precarius sarà destinato, tra i soliti solitari guaiti, a morire di

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stenti oppure a non aggirarsi più in quegli edifici popolati di ragazzi e acambiare luogo dove nutrirsi (soprattutto il precarius storicus che, vecchiocom’è, difficilmente troverà un nuovo luogo dove sfamarsi).

Non credo che le caratteristiche di questa curiosa specie (passività, com-petizione, mancanza di coscienza sindacale) le permetteranno di sopravvi-vere alle vicende future vista la manifesta incapacità di reagire alle avversitàcui va incontro, dovremo quindi dire addio al precarius insapiens, speciedestinata a estinguersi senza lasciare traccia.

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FRONTIERE

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Giulia Beluino

DALLE SECONDARIE AI PRIMARI

In ospedale, a scuola di precarietà

Voglio iniziare dal principio, dal perché e per come ho fatto questa scelta.Fino allo scorso anno ho insegnato alle superiori, ma, con i vari cambia-

menti avvenuti nelle graduatorie, e trovandomi in una posizione più tute-lata alle medie (sono, per gli addetti ai lavori, in seconda fascia), ho decisodi compiere il grande passo e di prendere la supplenza nella classe di con-corso A043 (materie letterarie nella scuola secondaria di primo grado). Ilgiorno prima delle “chiamate”scorro le disponibilità e, come se ci fosse unacalamita, il mio sguardo continua a cadere sulla cattedra della scuola inospedale. Passo il pomeriggio a fare telefonate, in particolare chiamo unamia collega, anche lei precaria, che ha fatto questa esperienza qualche annofa. Il giorno dopo, alle convocazioni, faccio la mia scelta: per quest’annosarò l’insegnante di materie letterarie di una sezione ospedaliera. Ovvia-mente ci sono dei motivi, che qui non starò a spiegare, ma che i miei cari e imiei amici conoscono bene, che mi hanno spinto verso questa scelta, maquando l’ho fatta, tutto mi aspettavo tranne quello che poi ho provato.

Mi chiedevo se avrei sopportato l’impatto col dolore, se sarei stata ingrado di affrontare alcune situazioni particolarmente impressionanti…ma in realtà non è questo il problema della scuola in ospedale.

Arrivo il primo giorno, e capisco che devo “riconfigurare” tutto il miocervello: non ci sono classi, non ci sono singole aule, non esiste un orarioprestabilito.

Io, insegnante, abituata a sapere che quell’ora la passerò in quella deter-minata classe, che farò quel determinato programma, che mi troverò difronte agli stessi alunni del giorno prima, della settimana prima, del meseprima, devo imparare a relazionarmi con le terapie, le visite del primario, igenitori preoccupati, non proprio perché il figlio è insufficiente, ma perché

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forse non tornerà più come prima… e, in questa situazione, si diventa se-condari, ma assolutamente indispensabili. Cercherò di spiegare perché.

La mia relazione di quest’anno recita, parafrasando in parte le direttiveministeriali: “Si dovrà infatti considerare che l’attività didattica, svolta du-rante i periodi in cui il fanciullo è ricoverato, contribuisce al mantenimentoo al recupero dell’equilibrio psicofisico, introducendo all’interno del mon-do ospedaliero, un elemento di normalità”. Quindi, all’interno di un mondoin cui la normalità è l’eccezione, il nostro ruolo diventa quello di rappresen-tare quello che il ragazzo faceva tutti i giorni nella sua vita, prima di esserericoverato. Diventiamo un simbolo, e per questo estremamente terapeutici.

Mi riesce abbastanza facile fare questo discorso oggi, dopo sei mesi di vi-ta nei reparti, ma all’inizio non è stato così ovvio. Il reputare che sia impor-tante studiare, quando i problemi sono ben altri e sicuramente più gravi,può sembrare un controsenso, e invece, se per un momento il ragazzo nonpenserà alla malattia, non vuol dire che guarirà più tardi, ma che guariràcon meno dolore. Avreste mai pensato che lo “studio matto e disperato”potesse diventare un diversivo e un motivo di speranza? Che il far pensareal ragazzo che quella normalità di prima non è persa, può essere recupera-ta, può anzi diventare essa stessa una via verso la guarigione?

Infatti, continuare a studiare in ospedale vuol dire anche non perderel’anno e, una volta finita la degenza, tornare a condividere la propria vitacon i vecchi compagni e amici.

Questa presa di coscienza non è immediata, anzi, all’inizio, noi docentisiamo spesso considerati come elementi di disturbo, in una situazione giàdi per sé difficile. Anche da parte dei genitori è frequente il timore che lostudio possa affaticare il ragazzo, già provato e, si sa, non è regola dei ragaz-zi desiderare follemente studiare. A ciò si aggiunga il fatto di doversi rap-portare con degli sconosciuti, e per di più professori! La miscela esplosiva èfatta e la diffidenza è d’obbligo.

Il primo problema diventa quello di farsi accettare: non si è più il profes-sore che “sale in cattedra”, che ogni tanto si può anche permettere di ri-

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prendere con fare severo l’alunno svogliato. Tutto si svolge in modo moltopiù delicato, con mezze parole e mezzi sorrisi, quasi come fosse un ritualeantico, tanto più lento, quanto il mondo di oggi è frenetico.

Capita, quando si entra in un reparto, di incontrare alunni con glisguardi diffidenti, per non dire ostili; allo stesso tempo, però, ce ne sonoalcuni che hanno una gran voglia di studiare. In genere si inizia a lavora-re con loro e di colpo, voltandosi, ci si accorge che gli altri giovani degen-ti, con fare certo ancora sospettoso ma incuriositi dalla situazione, sistanno lentamente avvicinando per partecipare a quell’insolita lezione.Ascoltano per un po’ in piedi, poi a un invito si siedono e, senza neancherendersene conto, per il desiderio di aggregazione tipico dei ragazzi, co-minciano ad ascoltare, a ripetere, a incuriosirsi, a far domande, insommaa imparare.

Capita, a volte, di uscire sconfitti da questi primi incontri, convinti dinon riuscire mai a instaurare un rapporto con quel ragazzino già così pro-vato dalla vita; ma sinceramente, ad oggi, questa prima sensazione è sem-pre stata smentita in seguito.

Avviene un giorno, sembra senza un motivo, e senza un perché: di colpoil piccolo malato diventa alunno. Cosa è cambiato? Credo che in quel mo-mento ci sia stata la presa di coscienza che si può e si vuole tornare alla nor-malità. L’insegnante non ha fatto altro che tendere la mano, ma la forza ètutta nel ragazzo e in quella voglia di vivere che è propria della gioventù. Daallora il rapporto diventa realmente giornaliero, il piccolo paziente fre-quenta in maniera continuativa la scuola, un giorno studia con un profes-sore, un giorno con l’altro e all’apprendimento si affianca, quasi piccolomiracolo, un lento miglioramento.

La mole di lavoro che si affronta giornalmente aumenta, in modo im-percettibile ma costante; cresce la capacità di percezione degli argomenti,appare lentamente un certo entusiasmo nell’approfondirne alcuni. Nellostesso tempo, con sguardo “distratto” ti accorgi che la mano del ragazzo simuove più veloce sul foglio, che è lui che riesce a piegarsi per raccogliere la

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gomma caduta per terra, che di colpo scoppia a ridere, facendo una battu-ta, sempre, s’intende, su “un argomento oggetto di studio”.

E quello che vorresti scrivere sul registro di classe, alla voce “argomentisvolti”è “oggi X è riuscito a camminare senza l’aiuto dei tutori”, oppure “ie-ri Y ha ripreso a mangiare e oggi gli hanno tolto la flebo”, oppure, semplice-mente “oggi, per la prima volta, ho sentito Z ridere” e, invece, sul registroapparirà:“storia: il feudalesimo; grammatica: il predicato verbale e il predi-cato nominale; geografia: la Spagna”; perché comunque tu sei e rimani uninsegnante ed è questo il tuo ruolo.

Cosa mi ha insegnato questa esperienza in ospedale? La precarietà dellavita. E oggi, ogni giorno, quando mi alzo, quando cammino per strada, mistupisco di vedere le mie gambe che si muovono, le mie mani che possonoprendere una penna e scrivere, la mia testa che può voltarsi a un richiamo,e penso che tutto questo è veramente un miracolo.

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Farah Carrieri

SCUOLA ELEMENTARE SAN PRECARIO

Il caso Corviale: una scuola tutta di precari

Ore 7.35 del 14 settembre 2004. Sono stata convocata presso l’IstitutoComprensivo di via Casetta Mattei a Roma per un’eventuale stipula di con-tratto a tempo determinato come insegnante di scuola elementare.

La graduatoria degli aspiranti scorre veloce e si arriva presto alla mia po-sizione. Senza tergiversare troppo scelgo una classe quinta, la cui ubicazioneè in un plesso distaccato dalla sede centrale. A posti assegnati, ci ritroviamoin otto ad aver optato per questa scuola e tutto sommato sembriamo soddi-sfatte. Io lo sono davvero perché è una sede più vicina a casa rispetto al pas-sato e perché ricomincio a lavorare dopo la pausa incerta dell’estate, movi-mentata da numerosi ricorsi contro gli errori apparsi in graduatorie provvi-sorie, parzialmente definitive, definitive rettificate, definitive finali…

Ecco, sta per cominciare il mio nuovo anno scolastico e io mi trovo nellaormai consolidata vecchia etichetta di insegnante supplente.

La realtà mi si materializza tutta insieme, davanti agli occhi, quando ar-rivo in via Mazzacurati 90, nel cuore del quartiere Corviale. Il serpentinonel serpentone. Un progetto firmato negli anni Settanta dall’architetto Ma-rio Fiorentino, suicida poco tempo dopo l’inaugurazione. Un contenitoreumano lungo più di un chilometro, 9 piani, 1200 appartamenti, più di16.000 residenti. Una creatura bestiale.

Ripercorro queste tappe oggi, 10 marzo 2005, in questo scritto. Quello èstato il mio primo giorno al “Corviale” e di acqua ne è passata sotto i ponti.

A novembre ho preso l’incarico al Csa, confermando la scuola Ater (exIacp, Istituto autonomo case popolari). Nel mio plesso lavoriamo in otto suquattro classi: tutte su posto vacante. Siamo tutte insegnanti precarie. Manon le stesse dall’inizio dell’anno. Molte hanno abbandonato per altrescuole, sperando in nuove e più amene realtà. La classe in cui lavoro ha

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cambiato 17 insegnanti dalla prima elementare e il primo sorriso sulle lab-bra mi è apparso in dicembre.

Ci sono due collaboratrici scolastiche nel plesso: anch’esse sono precarie.Dentro la scuola praticamente c’è tutto: l’aula multimediale, l’aula di in-

glese, la palestra, la mensa, la biblioteca, il giardino. Manca però una cosasola: un cuore. Mancano gli insegnanti: quelli “di ruolo” non ci voglionovenire perché è “la scuola di Corviale”; i supplenti non vogliono rimanerciperché le classi sono – diciamo così – “vivaci”.

Nessuno si è mai accorto che a questi bambini sarebbe bastata solo unapresenza fissa e costante e non un vespaio di mille supplenti spaurite chetoccano fugacemente le mura di questa scuola per poi sparire, lasciandosidietro solo il vuoto.

Da un’indagine condotta su un campione di sessanta bambine ebambini dalla seconda alla quinta elementare di Corviale è emersoche la scuola è al secondo posto tra i posti più belli del quartiere e alsecondo posto anche tra i più brutti. Segno contraddittorio di unarealtà sentita comunque come centrale per l’identità sociale di que-sti bambini [Ndr.].

(Fonte: Mauro Martini, Anna Parasacchi, Intervista a Corviale,Comune di Roma, 2004).

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Attila Eleiden

CODICE A SBARRE: COMUNICARE IN CARCERE

Didattica dell’azione contemplativa: è forse possibile sintetizzare il sen-so complesso dell’esperienza scolastica nell’istituto penitenziario minori-le di “Casal del Marmo”, a Roma, solo con un ossimoro. Soltanto esso puòinfatti definire il particolare amalgama di due spinte, per natura antiteti-che, come strategia pedagogica all’interno di una struttura caratterizzatada dinamiche assai diverse da quelle del tradizionale mondo della scuola.Il dato culturale, in un universo che sembra sfuggire quasi completamen-te al respiro della conoscenza, deve confrontarsi in continuazione con lapraticità se vuole essere in qualche modo incisivo. Qui tutte quelle relazio-ni disfunzionali, che affliggono il rapporto docente-discente, si presenta-no infatti ad un livello macroscopico. È ovvio: le regole, che costituisconoun filtro importante nella scuola e che ammortizzano decisamente leasperità relazionali, sono nettamente alterate, se non addirittura sovverti-te, dalla natura stessa dell’ambiente penitenziario e dalle scarsissime mo-tivazioni alla frequentazione scolare da parte dei discenti. Inoltre quei li-miti relativi alla personalità (decisivi nella strutturazione dei rapporti in-terpersonali, dovuti a messaggi genitoriali assimilati nell’infanzia e inte-riorizzati come obblighi limitanti la libertà e la spontaneità della perso-na), e che costituiscono la normalità in condizioni di normalità, sono nelcarcere amplificati dalla presenza di due fattori che rappresentano unamiscela esplosiva: la storia personale di ciascun ragazzo e l’ambiente car-cerario che ne esaspera i meccanismi interiori.

Per quanto riguarda la storia personale, bisogna anzitutto considerareche le relazioni conflittuali con i genitori, nei giovani detenuti, sono dovu-te a problematiche particolarmente acute, connesse cioè alle varie prove-nienze etniche: gruppi di rom, di albanesi, rumeni, sudamericani e arabinordafricani nonché dei pochissimi italiani ormai presenti nell’istituto pe-

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nale minorile. Il rapporto con i genitori, in questi casi, non solo è afflitto dameccanismi degenerativi di particolare intensità, ma è spessissimo la causadiretta, sia a livello materiale che psicologico, della condizione di disagio incui i giovani si vengono a trovare. Situazioni quindi di miseria e ignoranza,laddove addirittura non ci sia la presenza di elementi psicopatologici, mo-tivano un’assoluta mancanza di autocontrollo su mille atteggiamenti allabase di relazioni disfunzionali. Su questo terreno si innesta poi l’ambientecarcerario come luogo di esasperazione dei risultati psichici delle suddetteproblematiche. Il carcere, per sua natura costrittivo e frustrante, sospinge ilimiti personali all’estremo, determinando tutta una serie di situazioni po-co controllabili e gestibili. Gli atteggiamenti, ad esempio, impliciti ai cosid-detti giochi di potere, possono in questa sede raggiungere eccessi tali da nonpermettere al docente di dominarli senza ricorrere a una collaborazioneesterna col personale addetto, magari proprio per far capire la necessità diquelle regole che il gioco vuole appunto infrangere. E al contrario, in altrecircostanze, la formula risolutiva sta in un atteggiamento di sovrabbon-dante comprensione che superi il momento acuto della provocazione econsenta al giovane di rientrare.

Per questo è indispensabile il ricorso a strategie preventive che impedi-scano o limitino l’insorgere delle manifestazioni compensative di ribellio-ne: esse sono intimamente connesse alla pressione che l’ambiente proponee che le stesse lezioni scolastiche inducono, se non improntate alla massimaleggerezza e fruibilità. La situazione poi è ulteriormente complicata dallavariazione continua del gruppo-classe dovuta all’inserimento sistematico,nel corso dell’anno, di alunni stranieri spesso senza alcuna padronanzadella lingua italiana. A maggior ragione, allora, è fondamentale un percor-so capace di condurre la classe alla scolarizzazione attraverso due obiettivi:la maturazione di comportamenti responsabili, di rispetto nei confrontidegli altri, degli ambienti e dei materiali, e la determinazione di atteggia-menti collaborativi e attivi nei confronti della scuola. Tutto ciò costituisceuna base essenziale per l’attività didattica, riducendo al minimo i momen-

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ti di lezione frontale e quelli dedicati allo svolgimento di unità didattiche,per andare incontro all’esigenza di un impegno molto pratico e dinamicodi ragazzi così poco scolarizzati. Continuo ricorso all’immagine (diapositi-ve, film, lucidi), riferimenti al vissuto degli alunni, individualizzazione deipercorsi, ove possibile, lavoro per piccoli gruppi, compresenze sistemati-che: ecco le strategie più capaci di mediare le esigenze degli alunni conquelle didattiche dei docenti.

Ma è stato forse il campo da gioco la vera aula scolastica. Esso ha infattipermesso l’assimilazione di principi discussi soltanto teoricamente a lezio-ne: impegno, generosità, educazione e lealtà sono stati perseguiti e com-plessivamente raggiunti attraverso un addestramento sistematico ad agirecollaborando ed eliminando egoismi e individualismi. Non solo. Il campoha offerto la possibilità di scavalcare i residui ostacoli allo sviluppo della re-lazione docente-discenti e tra ragazzi. L’insistenza su alcuni concetti e l’im-mediata verifica della loro efficacia, nonché la loro applicazione da partedegli stessi insegnanti – con la relativa forza trascinante dell’esempio – ve-ramente alla fine sono stati capaci di produrre effetti sorprendenti sui gio-vani, anche là dove la base di partenza era chiaramente disastrosa.

Da tutto ciò si evince chiaramente la necessità, riguardo agli operatoriculturali, di una preparazione remota e di una continuità che, sole, garanti-scono il costituirsi di una sorta di bussola umana e psicologica attraverso laquale orientarsi rapidamente nelle molteplici situazioni intellettuali e pra-tiche della vita carceraria. E tale bussola punta diritta alla didattica dellaazione contemplativa quale forma educativa più atta a cogliere i migliori ri-sultati. In essa devono convivere due atteggiamenti per così dire opposti: lamassima elasticità e il massimo rigore. Rigore nel metodo, che deve essereesplicitato in modo persistente e sistematico, nel rispetto di norme peren-torie e vincolanti; elasticità psicologica nel comprendere che il mondo chesi ha davanti si sostanzia di strutture mentali estreme, le quali, a loro volta,danno vita a situazioni-limite. Se già la scuola di per se stessa richiede d’es-sere fermi e dolci, la struttura carceraria necessita della massima espansione

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di queste strategie nella fortezza e nella tenerezza quali modi di attuare unaintelligenza pedagogica in grado di attingere i risultati più soddisfacenti:una fortezza forte come quelle sbarre che, per così dire, difendono il mondoesterno dal carcere, e una tenerezza capace di ricondurre il carcere al mon-do esterno, abbattendo quelle stesse sbarre con le armi più potenti che l’uo-mo abbia mai usato sul pianeta terra: la comprensione e la comunicazione.

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Tania Genferos

TUTOR NEI CORSI DI FORMAZIONE*

Un’esperienza pilota?

Dopo alcune esperienze di docenza come supplente, attualmente lavo-ro in Puglia come tutor presso un corso di sperimentazione. Si tratta di uncorso di formazione triennale originato dalla legge 53/2003. La formazio-ne prevede sia competenze di base che competenze tecnico-professionali.Gli allievi di tali corsi avranno diritto a crediti nelle materie di base checonsentiranno il reinserimento, per coloro che lo volessero, nel percorsoscolastico tradizionale. Le conoscenze acquisite in campo professionalesaranno di tale rilievo da consentire l’immediato inserimento nel mondodel lavoro, dal momento che sono previsti stage in azienda e misure di ac-compagnamento che consentiranno un reale collegamento tra mondodella scuola e mondo del lavoro. La misura formativa è particolarmenteinteressante soprattutto se si pensa che il corso prevede anche una Ufc inmodalità e-learning e quindi risulta innovativo anche sul piano della qua-lità comunicativa.

Questa scelta formativa, positiva e stimolante sotto ogni profilo, tuttavia– occorre ricordarlo – è essenzialmente rivolta al recupero di allievi chehanno abbandonato la formazione tradizionale. I docenti, e ancora di più iltutor, incontrano reali difficoltà soprattutto nel motivare gli allievi all’ap-prendimento: spesso la motivazione è assolutamente assente. Come farlo?L’impegno è sostanziale e continuo e le strade percorribili sono molteplicipoiché si deve cercare di realizzare un approccio didattico sperimentale, in-novativo, mediante l’utilizzo di metodologie didattiche che siano stimo-lanti e allettanti per gli allievi.

Il tutor, in particolare, deve seguire ciascun allievo non solo dal punto divista conoscitivo ma anche e soprattutto umano. Questa esperienza mi staportando a comprendere quanto conti la qualità della relazione personale

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con gli allievi. Talvolta nei loro comportamenti eccessivi riscontro il biso-gno implicito di attenzioni. Questi ragazzi spesso usano il dialetto e talvol-ta già dal loro gergo emerge la frequentazione con un certo tipo di ambien-ti. Una volta un ragazzo si è espresso così: “Professoressa guarda cosa ti hocommesso!”.Voleva semplicemente dire che aveva fatto qualcosa, di positi-vo; ma il suo lapsus rivelava una preoccupante maggiore confidenza con ilverbo commettere – che si usa per i reati – piuttosto che con il generico fare.Nel corso di questi mesi ho assistito anche a episodi di aggressione fisica trai ragazzi. E io, in qualità di tutor sono dovuta intervenire a porre un argine.

È necessario far comprendere agli allievi l’importanza della formazione,coinvolgerli e tirare fuori il meglio da loro, dalle loro emozioni. Sono ra-gazzi la cui età oscilla tra i 14 e i 18 anni, fasce di età diverse e soprattuttomomenti di crescita particolari. Puntualmente rilevo che hanno grandiemozioni, ma come intrappolate in loro stessi: spesso infatti non sono abi-tuati a riflettere su stessi o a elaborare situazioni. Il compito da svolgere èquindi di grande importanza perché si tratta di condurli per mano in uncammino che non è solo culturale o formativo, ma anche umano.

L’aspetto più importante è l’allegria, determinata dall’effervescenza del-la loro età, e in questa allegria è necessario essere capaci di farsi coinvolge-re. È necessario entrare nella loro visione delle cose per comprenderli e po-ter di conseguenza guidarli nel processo di conoscenza.

Credo che in un tale rapporto sia determinante da parte del tutor unaconoscenza anche psicologica, poiché sicuramente la comprensione di de-terminati atteggiamenti e le motivazioni che sottostanno a particolari rea-zioni degli allievi possono aiutare nello svolgimento del lavoro quotidiano.

La figura del tutor è nuova rispetto al passato e soprattutto rispecchiaun grande cambiamento dello stile scolastico attuale rispetto a quello tra-dizionale.

Nel momento in cui ho accettato l’incarico mi sono chiesta anche qualisarebbero state le difficoltà che avrei potuto incontrare, o come i ragazziavrebbero concepito la mia figura, come avrei dovuto rapportarmi a loro e

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ai docenti nel modo migliore. Il tutor, infatti, rappresenta un trait d’uniontra il gruppo classe, i docenti e il resto dell’istituto. Nel mio caso, il corso sisvolge in un istituto professionale e non è stato facile far capire anche aglialtri ragazzi dell’istituto il nostro ruolo all’interno della scuola; in qualchecaso nei primi giorni ho riscontrato diffidenza. Si è trattato insomma disaper costruire una serie di relazioni basate sulla fiducia reciproca a tutti ilivelli.

Il tutor non deve necessariamente essere presente cinque ore in classe,sebbene la sua presenza debba essere garantita all’interno dell’istituto; mala mia esperienza mi ha insegnato che l’assiduità nel compito di affianca-mento dei docenti è fondamentale.

Spesso il mio lavoro risulta faticoso ma la fatica è meglio non traspaia:occorre continuamente dimostrare di essere presenti con grande energia.

I ragazzi si rivolgono a me come riferimento per ogni materia e quindichiedono chiarimenti, delucidazioni sui vari argomenti. Il mio aiuto puòessere richiesto dagli allievi anche durante lo svolgimento di prove inclasse.

Gli allievi ritengono adesso fondamentale la mia presenza, ricorrono ame anche nel caso abbiano bisogno di fare qualche confidenza personale.Ma per arrivare a questo grado di fiducia ho dovuto avvicinarmi a loro conpazienza, con cura e senza dare mai alcun risultato per definitivamente ac-quisito. È necessario continuare giorno per giorno a lavorare per produrrenegli allievi il desiderio di conoscenza e il senso di responsabilità verso sestessi, gli altri e il proprio futuro.

*La figura del tutor nei corsi di formazione ridisegnati dalla legge 53/2003 rap-presenta un esempio della nuova scuola immaginata dalla riforma, e della integra-zione tra scuola e azienda in essa prefigurata. I tutor come i docenti sono infatti se-lezionati tramite book di accreditamento di enti di formazione e possono esserenominati in parte dalla scuola dove si svolge il corso, in parte dall’ente di forma-zione che gestisce il corso stesso. Entrambe le figure sono riconosciute e accredita-

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te al ruolo professionale da svolgere. Sicuramente questo sistema differisce daquello tradizionale [N.d.A.].

Ci sembrava interessante pubblicare questa testimonianza come elemento di ri-flessione: rappresenta infatti una nuova frontiera per la scuola pubblica e, in uncerto senso, anche per il mondo del precariato. [N.d.C.].

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Antonella Sdaleris

LA SCUOLA ANCHE DI NOTTE

Un’esperienza nei convitti

La mia storia di precariato nella scuola è abbastanza limitata e circoscrit-ta nel tempo, infatti le uniche supplenze per cui sono stata chiamata ri-guardano un settore particolare della scuola, quello dei convitti.

Prima di fare il concorso per personale educativo non sapevo che cosafossero esattamente i convitti e mai avrei pensato che, essendo laureata inLettere e avendo studiato anni per la laurea, sarei stata invece chiamata perfare supplenze in un settore in cui ho fatto il solo sforzo (sebbene ingente)di prepararmi al concorso.

I convitti sono regolamentati da leggi risalenti al 1929 e quindi hannotuttora una struttura abbastanza rigida, che li suddivide ancora in sezionimaschili e femminili e, sebbene siano stati presi degli accordi nel 1996 perrenderli più moderni e sia stata anche approvata una bozza di regolamentoin cui i convitti vengono denominati “istituzioni educative”, con tutta unaserie di provvedimenti più attuali, in realtà tali accordi non sono mai di-ventati legge.

Il mio lavoro di supplente si è svolto in una sezione femminile e preva-lentemente in orario notturno. Pur avendo svolto il mio lavoro per pocheore, e per brevi periodi di tempo, e non avendo una conoscenza esaustivadel settore, mi sembra che la mia prima supplenza sia stata comunqueun’esperienza particolare.

Il mio turno era dalle ventidue e trenta alle otto e trenta. Il convitto na-zionale di Roma è un vecchio edificio, che di notte sembra ancora più au-stero e imponente. Immaginatemi per i lunghi corridoi umbertini del con-vitto. Tetri di giorno, figurarsi la notte.

Appena varcata la soglia mi trovo davanti un lungo corridoio, con le lucial neon accese, varco la prima porta a sinistra ed entro nella mia stanzetta,

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abbastanza piccola e spoglia. C’è un tavolo appoggiato al muro. Sopra ci so-no registri, fogli, penne, ci sono poi un paio di sedie e, dall’altro lato, un let-tino. La cosa mi rincuora, vuol dire che posso anche riposare un po’. Inoltrec’è anche un piccolo bagnetto, al cui interno però non c’è davvero un buonodore… “La scuola anche di notte”. Se un giorno scrivo un racconto, lo vo-glio intitolare così. Ché non tutti sanno che di notte c’è pure chi ci lavora ascuola. Non ne avevo mai sentito parlare, prima: prima che capitasse a me.Non è contemplata tra le professioni notturne. Ma c’è. Io ne sono una testi-monianza, e soprattutto l’insonnia di quella prima sera ne fa fede. Educa-tore. Chissà cosa educhi, e chi, dalle ventitré alle sette.

La collega a cui ho dato il cambio se ne va, rimango sola, un po’ intimo-rita. In effetti c’è silenzio, si sente solo un po’ di musica provenire da qual-che stanza, due ragazze si affacciano alla porta, mi salutano e mi chiedonose possono andare a telefonare a casa, dal telefono fisso al piano sottostan-te. Non so che fare, sarà consentito? Non penso sia il caso di essere tropposeveri: acconsento. Passa un quarto d’ora e non tornano, sono preoccupa-ta, ma perché poi mi devo preoccupare: c’è un enorme cancello chiuso conportiere annesso, figuriamoci se riescono a uscire da lì! Infatti entro brevetempo le ragazze rientrano; tiro un sospiro di sollievo, intanto inseriscol’allarme, sento ancora una musica: devo fare il mio dovere, entro nellastanza della ragazza e le dico che è ora di dormire. La musica continua. Fac-cio uno sforzo e mi arrabbio un po’ con la ragazza. Fine della musica. Silen-zio.Verso mezzanotte, il luogo si fa ancora più spettrale, il buio si popola dipresenze, tipo le voci che il professore de L’attimo fuggente sembra riesca afar sentire ai suoi alunni. Non ho sonno. È quasi l’una quando decido di co-ricarmi, rimanendo sempre vigile: del resto la collega mi aveva detto cheavrei potuto dormire.

Sono le sette di mattina, devo svegliare le ragazze. Sono un po’ agitataperché non so chi mi troverò davanti, saranno brave ragazze? Sarannopersone indisponenti o arroganti? Le stanze delle ragazze sono più o me-no simili alla mia, e fuori dalla porta c’è un foglietto con scritto il loro no-

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me e cognome. Suono il campanello (molto simile alla campana dei con-venti…), passo in ogni camera per rinnovare l’invito a svegliarsi… Èquasi ora di scendere e ancora nessuna ragazza esce dalla porta, ripasso abussare, qualcuna è quasi pronta, qualcun’altra brontola un po’… Allesette e mezza sono uscite quasi tutte. Due ragazze non vogliono fare cola-zione. Scendiamo nella sala mensa, mi sento in un certo imbarazzo per-ché sono tutte grandi e parlano tra loro, io le seguo e cerco di scambiaredue parole con qualcuna. Però mi rendo subito conto che hanno il loromondo e non si sognano nemmeno di parlare con me. Io sono una tra letante “sorveglianti” che vedono ogni giorno, e chissà se mi rivedrannopiù. Noto indifferenza nei miei confronti, ma del resto cosa mi aspettavo?E poi, in fondo, che cosa dovrebbero condividere con me? La cosa mi rat-trista un po’, forse speravo di trovare un’allegria e un’accoglienza diverse,ma in fondo è normale così.

Le ragazze della mia “squadra” (così viene chiamato un gruppo di con-vittrici) hanno tutte un’età compresa tra i diciassette e i diciannove anni, efrequentano l’Accademia Nazionale di Danza: al convitto si fermano solo iltempo necessario per mangiare e dormire. Queste ragazze mi hanno colpi-to per maturità e serietà, ma anche per la loro fragilità: sembra, infatti, dinotare un velo di tristezza nei loro sguardi, forse perché sono tutte ragazzeche hanno dovuto abbandonare le loro famiglie di origine ancora adole-scenti, per andare a studiare in una città sconosciuta. Magari per seguire unsogno. O per trovarsi una sistemazione.

Le ragazze fanno colazione, io mi siedo accanto all’altra educatrice e fac-ciamo colazione insieme. C’è un certo imbarazzo, in fondo non so nulla dilei, né lei di me. Mi sembra tutto vagamente surreale, mi sembra un po’ distare in uno dei tanti film ambientati nei college. Alle otto rientriamo nellestanze, le ragazze raccolgono le loro cose prima di uscire… Ed ecco: è arri-vata la collega che mi deve sostituire, l’esperienza è terminata. Non è anda-ta poi così male, anche se rimane un po’ di amarezza, qualcosa di incom-pleto, di incompiuto.

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Questa esperienza, e le successive, mi hanno fatto conoscere una realtàdiversa della scuola, in cui la precarietà consiste proprio nella difficoltà ainstaurare delle relazioni umane sia a causa del tempo limitato (ogni turnodura cinque ore, a parte la notte), sia in quanto l’educatrice viene vistaspesso come una semplice sorvegliante; ciò comporta l’impossibilità di en-trare in contatto con i ragazzi, non dico per sostituire momentaneamente ilgenitore, ma perlomeno per dargli un sostegno morale e psicologico. Im-possibile cercare di dare un apporto diverso: il proprio desiderio di svolge-re una funzione anche educativa viene quasi completamente disatteso.Questo perché il convitto è strutturato in maniera rigida, a causa di scelteistituzionali arretrate e di vecchie leggi mai aggiornate per renderle piùadatte alla realtà odierna.

In alcuni istituti, invece, dove sono presenti le scuole annesse, gli educa-tori aiutano i ragazzi a fare i compiti e li seguono dopo le lezioni, oppurefanno dei giochi con loro, ma sono casi abbastanza rari, e comunque la fi-gura dell’educatore non è ancora considerata come portatrice di valori e dicompetenze, ma viene vista soprattutto come figura di controllo e ispezio-ne. È auspicabile che in futuro possano avvenire dei cambiamenti sostan-ziali e che anche questa figura educativa, importante per la formazione e lacrescita del ragazzo, possa ottenere il giusto riconoscimento all’internodella scuola.

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Gerardo Sasso Allini

RIESCO ANCORA A SOGNARE

Alla conquista della scuola di montagna

Sono precario relativamente da poco, otto anni, trascorsi nella totaleprecarietà in Emilia Romagna, nonostante sia originario del Salento, confamiglia in provincia di Viterbo.

Sì, ancora ho voglia di sognare!Insegnare è una malattia come il mal d’Africa, che alla fine non se ne può

più fare a meno.Proprio quello che è successo a me.Insegno educazione musicale nella scuola secondaria di primo grado e,

tramite le graduatorie incrociate, ho fatto anche l’insegnante di sostegno.Assaporare l’ebbrezza del precariato è stato inconsapevolmente sem-

plice, quasi quasi mi chiedo se sarei più capace di farne a meno, perchéquella di “precario” è una condizione ormai entrata nella mia imposta-zione mentale, anche se in fondo nutro una timida speranza che prima opoi qualcosa cambierà. Però passano gli anni e non si riesce a intravede-re alcuna certezza, anzi, mi pare, sempre più si brancola nel buio legisla-tivo e, fra deleghe, leggi e leggine, siamo sempre lì a fare il nostro lavorocon immutate modalità.

L’inizio dell’anno scolastico è davvero una lotteria, non sai mai dov’è di-slocata la tua fortunata sede e aspetti sempre che qualcuno estragga per te ilbiglietto vincente. Facciamo l’esempio della faccenda, a molti – ma forsenon a tutti – nota, del doppio punteggio per le sedi più disagiate, per la qua-le ho scoperto che ogni docente cova in sé una vena di masochismo: pareche oggi tutti ambiscano, e ci si scanna per questo, a quelle sedi il più possi-bile irraggiungibili! Un esempio? Preferiamo di gran lunga quei luoghi iso-lati e fuori dal mondo, lontani anni luce da pericolosi stimoli culturali (cherischierebbero di giovare troppo alla nostra categoria!); se poi la sfiga ti

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perseguita ulteriormente, be’! in quel caso si accetta quello che viene e sibacia comunque per terra.

I corsi di sopravvivenza, per noi, hanno ormai ben pochi segreti!Il senso dell’avventura lievita di anno in anno, facendo della nostra cate-

goria una specie di umanità avvezza ad affrontare qualsivoglia imprevisto oincongruenza.

Siamo camaleontici, ci mimetizziamo con grazia e discrezione in ogniecosistema conosciuto e sconosciuto, allacciando relazioni nuove in menche non si dica, imparando velocemente l’idioma locale e facendo nostrecon rapidità felina le usanze di genti da noi il giorno prima ignorate.

Ogni nuovo anno scolastico attendiamo con ansia di sapere dove ci por-terà il vento della Conoscenza e del Sapere e, nel giro di ventiquattr’ore, lanostra valigetta viene riempita di quel necessario che serve a sopravviverelontano da casa fino al prossimo giorno libero (per chi lo ha ottenuto),mentre, ormai rotti a tutte le esperienze, una volta sul luogo che il destinoci riserva, comincia l’affannosa ricerca della tana in cui dormire quella not-te stessa. A questo proposito, vorrei ricordare con dolce nostalgia una “pri-ma” notte trascorsa in macchina, sotto gli abeti centenari di una minuscolalocalità montana dell’Appennino tosco-emiliano che difettava persino diuna qualche modesta pensioncina per pellegrini quali siamo. Tant’è! Ciòche un tempo consideravo con apprensione, oggi mi vede totalmente indif-ferente e mi limito a organizzarmi con tutto l’occorrente per i soggiorni al-l’addiaccio. Spesso vagheggio che un giorno anche il ministro della nostranon più pubblica istruzione possa assaporare il senso di libertà e il godi-mento che solo queste fortunate esperienze possono indurre.

Quest’anno scolastico insegno in due sedi diverse che presentano l’uni-co inconveniente di distare soli cinquanta chilometri di tornanti di monta-gna l’una dall’altra, ma ho accettato con piacere e prontamente perché ciòmi consentirà di accedere al probabile doppio punteggio per sede di mon-tagna, in barba a tutti gli altri pellegrini-colleghi che (stolti) non hannopreso sul serio questa nuova trovata dei nostri vertici al ministero. Pensare

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che non sopporto l’altitudine e (innamorato del mare) la visione costantedei ghiacci e delle nevi perenni comincia a darmi qualche vertigine.

Ma ecco giungere il sabato pomeriggio: le nostre valigie si riaprono e cia-scuno torna all’affetto della famiglia distante da sé, per tutto il corso dellasettimana, anche parecchie centinaia di chilometri. Ecco il docente-pelle-grino-precario trasformarsi in docente-pellegrino-precario-pendolare al-le prese con l’altro mondo, quello dei trasporti pubblici che ormai per ilNostro non ha più segreti.

Per la cronaca, raggiungere la mia famiglia nei pressi di Roma mi com-porta la seguente sequenza di spostamenti (quando tutto va bene):

1 – la mattina dell’ultimo giorno lavorativo, mi reco a scuola già fornitodi valigetta week-end cosicché all’uscita prendo al volo un passaggio inmacchina con il collega (pendolare) che mi deposita a qualche chilometrodi distanza, dove c’è un’unica corsa di autobus che, da lì a due ore, passerà emi porterà sino alla città più vicina; nelle due ore d’attesa faccio un mini-corso di autoaggiornamento leggendo materiali diversi utili alla disciplinache mi compete;

2 – arrivato alla stazione ferroviaria, mi precipito a prendere il treno cheparte in coincidenza con il mio arrivo, in caso contrario, mi dispongo adun’ulteriore attesa;

3 – arrivo ad una stazione intermedia dopo un breve viaggio, scendo easpetto un’altra coincidenza utile per raggiungere la città, dove attendo unintercity che mi porterà alla mia destinazione finale;

4 – una volta giunto a Roma, salgo sulla metropolitana e raggiungo unastazioncina dove attenderò la coincidenza di un mezzo pubblico con il qualefinalmente,dopo un percorso di circa un’ora (ormai sera tardi), salgo i gradi-ni di casa mia e mi dispongo mentalmente e fisicamente a godermi la mia fa-miglia full-time consecutivamente per circa un giorno e mezzo, per poi effet-tuare il tragitto in senso contrario e tornare alle mie “amate”montagne.

Ho amato la musica sin da quando posso ricordarmi, avevo circa diecianni e già immaginavo che avrei dedicato me stesso al suo studio; ho tra-

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scorso dieci anni nelle aule del conservatorio studiando Composizione enon c’era giorno che non mi sedessi al pianoforte per ore, perché quel tipodi studio, come sanno gli addetti ai lavori, non termina mai: oggi mi risultacomplicato trascinarmi dietro il mio strumento musicale e pian piano misono risolto ad abbandonare i miei sogni di gloria! Adesso faccio l’inventa-rio della dotazione didattica-tipo per il mio insegnamento, che la scuolamediamente mi fornisce: un triangolo, qualche maracas, alcuni tamburelliecc., ma mai darsi per vinti: si proceda col progetto di costruzione di unostrumentario didattico con materiali di recupero!

Però bisogna dirlo, a un certo punto ci si sente svuotati dentro e suben-tra un senso d’impotenza e di rassegnazione perché, in fondo, nulla cambianel panorama quotidiano, se non le facce dei colleghi e quelle dei ragazziche siedono nei banchi; e certo allora si deve avere dentro una tale forza,che sfido molti ad averne in modo così abbondante, per poter ancora, no-nostante tutto, continuare a sognare.

Il Vostro Docente-precario-pellegrino-camaleontico-pendolare-sognatore

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SASSI E MACIGNI

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Kati Soldaini

IMPRECARIANDO*

Il ministro ha proclamato solennemente la necessità di immissioni inruolo. Quando? Come? In quale numero? Sono domande sostanziali. Lalegge 143 conteneva la volontà di pensare a un piano triennale di immissio-ni in ruolo: passato il termine del 31 gennaio 2005 da appena un mese, situona che le immissioni ci saranno in numero di 200.000. Suona strano an-che ai non addetti ai lavori. Le parole non sono fatti e fin qui di parole ce nesono state fin troppe e sempre smentite dai fatti, che qualche volta sono an-dati addirittura nel verso contrario alla risoluzione dei problemi. La rifor-ma del reclutamento dei docenti (50% alle graduatorie permanenti e 50%ai nuovi abilitati) va proprio nel verso contrario. Tale riforma contiene illo-gicità di fondo. La prima è che nessuno è in grado di garantire che i nuoviabilitati saranno migliori dei “vecchi” (persone di 35-40 anni dovrebbero,secondo questa classe dirigente, essere considerate vecchie?!): da quando inqua sulla carta, aprioristicamente, si fa un’affermazione del genere? Inoltremolti docenti precari possono vantare, perlomeno nelle discipline lettera-rie e scientifiche, prima di tutto titoli culturali, talora diverse abilitazioni esolo da ultimo svariati anni di servizio (molti nella sola scuola pubblica):questi sarebbero i docenti poco formati, culturalmente poco preparati,“vecchi”?! In un paese accorto in cui c’è ancora chi pensa, ci si accorgereb-be subito che è una bestialità buttare tout court il vecchio per fare spazio alnuovo. C’è un tale scollamento tra paese reale e classe dirigente, trasversal-mente intesa, che sembra impossibile leggere articoli di giornale e ascoltareservizi in televisione sull’età dei docenti italiani, senza alzarsi dalla sedia einsultare chi ci propina queste baggianate che sembrano più minacce cheuna lettura del reale. Dopo anni si sono accorti che assumere noi costa tan-to perché abbiamo anni di servizio alle spalle e la ricostruzione della nostracarriera scolastica costerebbe: potevano pensarci prima, prima di mante-

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nerci in un cantuccio per darci qualche ossetto di supplenza, prima di chie-derci di versare l’obolo per corsi di perfezionamento o master in cambio dipunticini. L’avrebbero dovuto dire prima. Adesso la soluzione è solo una enon altre: assumerci.

Il senso logico della gestione di un problema è completamente assente,come sono assenti equità ed equilibrio nel pensare ad eliminare ope legis inostri nomi, quindi la nostra vita, dalle graduatorie nelle quali per anni loStato ci ha tenuti buoni con la supplenza. Non c’è progetto se non quello didarci il benservito: questa è la “soluzione finale”, da lager, non da società ci-vile. Siamo solo numeri. L’equità è caduta, ahimè, in disuso e sembra, incerti ambienti, un po’ rétro. Noi precari, invece, crediamo ancora nell’e-quità, non perché ci conviene, ma perché questo testimoniamo ai ragazzi.

L’aria è cambiata. Qualcuno pare essersene accorto: aspettiamo gli altri.Il cerchio si stringe su chi ha deciso per noi in modo abominevole (ci han-no provato con il servizio militare, poi con le scuole di montagna e adessoguardano solo alle scuole dei penitenziari). Siamo stati sempre a osservaremosse e contromosse ma non abbiamo mai smesso di pensare.

All’inconsistenza di coloro che ne sono portatori insani la fine che meri-tano. Un ironico amen.

* Questo testo prende spunto da un articolo pubblicato su “ScuolaOggi.org” afirma di Pippo Frisone. Queste sono le mie riflessioni di precaria.

Riproduzione gratuita, per gentile concessione di: “ScuolaOggi – Il giornaledelle Scuole” diretto da Augusto Pozzoli, 7.3.2005.

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Paul Agnellicidi*

I PRECARI E L’AZIENDA SCUOLA

La tendenza della politica per il reclutamento del personale docente,consacrata nuovamente nell’articolo 5 della legge 53, è quella di far valeremaggiormente i titoli conseguibili attraverso una sempre più lunga succes-sione di nuovi percorsi propedeutici alla professione: perfezionamento,master, Ssis, laurea specialistica. Ciascuno di essi ci è stato presentato comepiù esauriente del precedente a giustifica della sua maggiore onerosità. Al-l’opposto, però, la medesima tendenza ha come obiettivo manifesto quellodi svalutare l’esperienza maturata, sia del neo abilitato, sia di quello storico.Questo lavoro è messo a disposizione quotidianamente dai docenti precari,così come da quelli di ruolo, al nostro paese, ai nostri allievi e alle loro fami-glie che chiedono agli insegnanti continue rassicurazioni alle loro appren-sioni circa la possibilità che i loro figli ricevano un’adeguata istruzione,spendibile nella ricerca di un lavoro. Chi ha insegnato in una scuola sa beneche tali risposte non possono venir fuori da un’asettica preparazione post-universitaria, ma dalla capacità del docente di saper comprendere le parti-colari esigenze dei propri allievi e dalla capacità di saper interagire con loro.Certo è fondamentale la sua preparazione culturale, sia generale che specifi-ca alla disciplina che insegna, che è il risultato non solo del livello dei suoistudi attestato dall’abilitazione ma anche, e soprattutto, di tutta la sua espe-rienza. L’abilitazione all’insegnamento, pur essendo indispensabile all’eser-cizio della professione, non può garantire tutta la preparazione necessaria albuon docente, se non altro perché nessuna procedura per conseguirla assi-cura sull’effettivo valore di questo certificato. Non dimentichiamoci, tral’altro, che alcune di queste procedure sono state addirittura oggetto di de-nunce per manifeste violazioni del diritto, come corruzione e favoritismo.

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* Testo a cura del Comitato Precari di Bari.

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Per questo non conviene, come fanno taluni, appellarsi al peso di questi di-plomi per garantire virtù che devono essere dimostrate sul campo. In unpaese in cui le procedure per abilitarsi all’insegnamento diventano obsoletepiù velocemente dei sistemi operativi dei computer, basta, come si è visto,solo un decreto per far sentire improvvisamente invecchiati, inadattiall’“azienda scuola”, tutti i docenti precari.

Se il principio, secondo il quale le nuove procedure abilitanti, solo per-ché nuove, sono più qualificanti delle precedenti, continuerà a tener testanella politica per la formazione del corpo insegnante, basterà attendere po-co affinché un’altra riforma provveda a gettare in un pensionato anche inuovi colleghi assunti con contratto di formazione lavoro, sfruttati per unanno, sviliti nella libertà d’insegnamento.

Non è tollerabile che sia sottratto il diritto al lavoro a dei cittadini, che sesono invecchiati è per addestrarsi nella scuola, acquisendovi professiona-lità e aggiornandosi, specializzandosi, perfezionandosi, giorno per giorno,nella continua interazione con tutti i membri del variegato mondo dellascuola. Non è nemmeno ammissibile che quello che dovrebbe rappresen-tare il corpo docente a cui il paese affida principalmente la propria forma-zione culturale sia costretto, alla fine, a svalutare ciò che ha costruito neltempo e a comprarsi l’accesso a sempre più dubbi percorsi formativi. Per-corsi sempre meno capaci di garantire effettivi meriti culturali e semprepiù invece rappresentativi di lobby divenute dominanti, politicamente edeconomicamente, che rasentano in molti casi l’illegalità.

La quasi totalità dei docenti precari, a fronte di tanta insicurezza indottada questa clientelare politica occupazionale, si è abilitata in più discipline,proprio per poter così sperare, qualora la congiuntura lo richieda, d’esserericonvertita, ricollocata, come avviene per i colleghi di ruolo. Ciò si sarebbepotuto pur considerare lungimirante, soprattutto alla luce della riformamorattiana, che è caratterizzata da una contrazione d’organici senza prece-denti. Ma nella tabella di valutazione delle graduatorie permanenti la valu-tazione degli anni di servizio complessivamente svolto è parziale. Si do-

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vrebbe invece valutare per metà il servizio specifico nelle altre classi di con-corso in cui si è abilitati, e altresì tutto il servizio specifico svolto, anchequando è sovrapponibile nello stesso arco di tempo fino ad un massimo,già contemplato, di 12 punti per anno scolastico, in ciascuna classe di con-corso in cui si è abilitati. Si valorizzerebbe così finalmente il lavoro svolto.Se è vero che in questo modo si rischia di far avanzare o retrocedere ina-spettatamente ciascuno di noi in modo imprevedibile, essa rimane la solascelta strategicamente valida, poiché comunque fornisce a tutti gli stru-menti necessari per rispondere alla ineluttabile condizione di mobilità chenon è solo frutto degli scarsi investimenti nell’istruzione pubblica, ma an-che linea tendenziale di tutto l’odierno mercato del lavoro. Bisogna che ilneologismo “azienda scuola” non vada inteso solamente nel suo ammic-cante significato d’efficienza gestionale ma, anche e soprattutto, in quelloindicativo di un’istituzione non più garantista. Le promesse di comodod’imponenti assunzioni fatte dal governo di turno al solo fine, in realtà,d’incoraggiare il clientelismo occupazionale, ormai ben radicato nel no-stro ordinamento sociale, non devono, perciò, assolutamente rassicurarecirca un sicuro passaggio di ruolo automatico nella graduatoria in cui si èmeglio posizionati.

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Ferdinando il cattolico

DA PRECARIUS A PRECARIO, STORIA DI UN NOME

Nel vocabolario della lingua italiana, l’etimologia della parola “precario”viene fatta risalire al latino precarius, termine derivato da prex, precis, ossia‘preghiera’. Significa letteralmente ‘ottenuto con preghiere’ o ‘concesso pergrazia’. Il significato del termine latino determina il significato di “preca-rio” o “precaria” nel diritto romano: indica la concessione gratuita di unbene di cui tuttavia il concedente può sempre, in qualsiasi momento e a suoarbitrio, richiedere la restituzione. Nello specifico la “precaria ecclesiastica”è una concessione fatta dalla Chiesa. Si distingue in “precaria data”, nel casoin cui venga concessa semplicemente in seguito a una preghiera, o in “pre-caria oblata”, cioè accordata a coloro che, avendo donato i propri beni allaChiesa, li avessero riavuti in uso, ma senza poter pretendere su di essi alcundiritto di proprietà.

La questione sembrerebbe avere valore di semplice curiosità, nel mo-mento in cui è facile concludere che il significato corrente dell’aggettivo“precario” estende e generalizza il significato del termine latino, mante-nendo tuttavia solamente una parte del suo significato: scompare la deriva-zione da “preghiera” e rimane solamente l’incertezza e l’insicurezza delpossesso di qualcosa, nel momento in cui l’effettivo proprietario ne puòsempre chiedere la restituzione. Quindi, un’ulteriore estensione genericadel termine fa sì che precario divenga semplicemente un sinonimo di “in-certo”,“insicuro”,“traballante” ecc., attribuibile tanto a una qualità quantoa un possesso, o a un oggetto materiale. Tuttavia, l’accezione più recente delnome, nei dibattiti e nei conflitti relativi alla flessibilità del lavoro, intesanello specifico senso di flessibilità delle tipologie contrattuali del rapportodi lavoro, sembra aver fatto un lunghissimo giro per riacquisire almenouna parte del significato originario del termine latino. Il concetto di “pre-cario” o “precarietà” del lavoro, si associa sempre, nell’uso corrente, a una

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dipendenza dell’individuo da entità esterne: le imprese, i datori di lavoro, leistituzioni. La dipendenza, o “ricattabilità”, nel caso dei contratti di lavorotemporaneo, sta nel fatto che il licenziamento è già implicito all’atto dellastipulazione del contratto, condizione che ovviamente pesa nel restringerei margini del potere contrattuale del lavoratore per ciò che riguarda l’ora-rio, il trattamento salariale, le tutele, e il rispetto effettivo da parte del dato-re di lavoro dei termini stessi del contratto di lavoro. La parentela fra l’at-tuale uso della parola “precario”e l’uso antico nell’ambito del diritto roma-no consiste anche nel fatto che un rapporto di lavoro precario riguardasempre l’individuo nella sua singolarità e non una “classe”o un “collettivo”di individui. Il singolo, nella stipulazione di un contratto di lavoro preca-rio, si trova sempre da solo nei confronti dell’istituzione o dell’impresa, co-sì come chi “pregava” per ottenere la concessione si trovava da solo di fron-te all’istituzione ecclesiastica. Una parte debole verso una parte forte. La“preghiera” o “supplica” torna di moda, nel momento in cui il sistema del-la flessibilità contrattuale tende a infondere nella mente stessa dell’indivi-duo l’idea che istituti come le “ferie”, il “trattamento di maternità”, la “con-tribuzione previdenziale” siano “concessioni” del datore di lavoro inveceche “diritti” del lavoratore.

Il lungo giro compiuto dalla parola “precario” ha a che vedere senz’altrocon un ciclo storico che recupera, nel seno del “postmoderno”, aspetti rile-vanti ed essenziali delle relazioni sociali “premoderne”, ricreando le condi-zioni sociali tipiche della “servitù”e del “servilismo”. La subordinazione dellavoratore atipico si configura non più come sottomissione a un sistemaimpersonale di regole e doveri inscritte nella divisione del lavoro o nellasua organizzazione burocratica, bensì come “relazione personale” con il“capo”. Il ritorno del feudalesimo, nella dinamica effettiva dei rapporti dilavoro è, senza dubbio, il prodotto dell’incrocio perverso tra un crescentesquilibrio di potere da un lato e, dall’altro, modalità di produzione e orga-nizzazione del lavoro che, proprio perché flessibili, si allontanano sempredi più da modelli di “standardizzazione” e “burocratizzazione”. È evidente

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che, nel momento in cui la produzione tende a generare beni e servizi sem-pre più “personalizzati” e, per produrli, deve ricorrere a un processo conti-nuo di problem solving e “reinterpretazione”dei propri moduli organizzati-vi, vengano anche crescendo d’importanza l’essere “faccia a faccia”, le capa-cità linguistiche e relazionali, e la fiducia ad esse connessa, tutte caratteri-stiche che implicano relazioni di tipo personale. Il modello sociale vigente,tuttavia, trasforma questo potenziale “disalienante” in una nuova forma diasservimento generalizzato.

Credo sia interessante notare come il termine “precario”, nella sua acce-zione corrente, finisca per evocare il significato del precarius romano mol-to più di quando incominciò a essere utilizzato, qui in Italia, nel linguag-gio politico e sociologico. Correva l’anno 1977, e le università di Roma eBologna erano in rivolta, per merito di uno “strano movimento di stranistudenti” – come lo definirono allora Luigi Manconi e Marino Sinibaldi:in bilico tra un lavoro industriale che si presentava come negazione di li-bertà e uno studio che appariva scollegato dal vissuto sociale, menopreoccupati di pianificare il futuro che di costruire – collettivamente – unpresente felice. Allora la parola “precario”, nel momento della sua compar-sa moderna, appariva come campo di battaglia tra definizioni alternative:Alberto Asor Rosa, ne Le due società (libro che ha il merito di aver rappre-sentato per la prima volta la conflittualità endogena tra garantiti e non ga-rantiti nella società postmoderna), ne dà una definizione negativa, asso-ciando la parola “precarietà” alle parole “penuria, indigenza, incertezza”.Nel movimento del ‘77, invece, la parola “precario” iniziava a essere pro-nunciata con orgoglio, poiché alludeva alla liberazione dalla disciplina edal conformismo del sistema industriale e al rifiuto di identificare vita ecarriera, cittadinanza e integrazione negli ingranaggi della macchina pro-duttiva. Come accadde in passato per altre parole della storia sociale euro-pea, rovesciare il significato denigratorio e avvilente di un nome, conver-tendolo in qualcosa di positivo, diviene un modo per prendere posizionedi fronte al reale tanto sfuggente e paradossale, che spinge a coniare sim-

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boli che indicano proprio il contrario della loro lettera: “san Precario”, peresempio, evoca la presenza di numi tutelari, unica protezione possibile difronte alle prepotenze terrene, mentre significa esattamente il contrario,un’identità assolutamente terrena che dia un nome collettivo a condizionidi vita e storie frammentarie e invisibili.

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dott.ssa Nora Precisa*

PRECARI ALL’UNIVERSITÀ. UN’ANALISI**

Spesso si ritiene che il “pezzo di carta” metta al riparo da vessazioni eprecarietà nel mondo del lavoro. E fino a qualche anno fa, probabilmenteera anche vero. Ma una disincantata analisi delle attuali condizioni lavora-tive nelle università dimostra ormai il contrario. Le aule accademiche e i la-boratori di ricerca sono allo stesso tempo luoghi di lavoro ad alta qualifica-zione e ricettacoli di precarietà spesso oltre i limiti consentiti dalle leggi. Undato su tutti: secondo le statistiche, gli atenei sono i luoghi da cui provieneil maggior numero di denunce per mobbing, quel fenomeno di umiliazio-ne e di sfruttamento utilizzato soprattutto dalle grandi aziende per indurrea dimissioni “spontanee” i lavoratori in esubero.

L’università italiana è tuttora dominata dai cosiddetti “baroni”, cattedra-tici a capo di una piramide di sottoposti che devono le loro fortune agliumori del professore (di solito maschio). Ma ciò che negli ultimi anni hareso insopportabili le condizioni dei ricercatori è la dilagante precarietà, inaltre parole la mancanza di garanzie, diritti e prospettive di lavoro sul lun-go periodo.

Oggi, la metà del personale che lavora nelle università è impiegata a tem-po determinato sotto mille forme contrattuali, dai famigerati co.co.co. alleborse di studio. Sempre più spesso, nemmeno a quarant’anni di età un ri-cercatore ha una posizione permanente, ovvero un contratto a tempo inde-terminato presso l’università o l’ente di ricerca in cui svolge la sua attività:circa cinquantamila persone si trovano in queste condizioni oggi in Italia,nonostante i lunghi anni di formazione. E a queste, andrebbero aggiunti al-tri venticinquemila dottorandi, ovvero neolaureati apprendisti ricercatori,i quali troppo spesso, però, vengono utilizzati nei dipartimenti universitariper ricoprire incarichi che non competono loro: attività seminariali, tuto-raggio, didattica, trasformando anche il dottorato in un bacino di presta-

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zioni non selezionate a basso costo.A dimostrazione del fatto che un perio-do di sola ricerca non è più concepibile nell’università odierna.

L’esplosione del fenomeno della precarietà è avvenuta negli ultimi diecianni, in seguito all’avvento dell’autonomia universitaria e all’introduzionedel lavoro interinale e atipico. La possibilità di appaltare corsi o di prenderericercatori per singoli progetti e periodi brevi si è molto ben accompagnatacon la situazione di stasi delle assunzioni in cui versava l’università dopoun’ondata di reclutamento straordinario all’inizio degli anni Ottanta.

Questa combinazione letale ha portato in pochi anni a una crescita dellavoro precario e a un suo sfruttamento oltre ogni ragionevolezza.

I concorsi sono diventati rarissimi, e le università hanno preferito inve-stire denaro nell’avanzamento di carriera dei docenti piuttosto che nell’as-sunzione di nuovi ricercatori. D’altronde, sono proprio professori associa-ti e ordinari a dirigere, nei vari organi di amministrazione, le politiche uni-versitarie, e non può stupire che abbiano fatto i loro interessi piuttosto cheprivilegiare quelli dell’accademia.

Inoltre il contesto politico ed economico ha contribuito ad aggravare lasituazione. Negli stessi anni Ottanta, infatti, terminava l’epoca del fordi-smo, di una società fondata su un compromesso tra grandi imprese, stato elavoratori, in cui il governo investiva soldi pubblici per garantire potered’acquisto ai lavoratori e soddisfare così l’offerta delle aziende. L’Italia, chein questo modo ha accumulato un debito pubblico esorbitante rispetto aquasi tutto il resto del mondo, ha sofferto più di altri la fine di quest’era: lepolitiche monetariste volte a ridurre tassi d’interesse e deficit, in vigore da-gli anni Ottanta e sancite nel trattato di Maastricht su cui si regge l’UnioneEuropea, hanno obbligato i governi a ridurre il proprio intervento econo-mico, a privatizzare gran parte dei settori pubblici lasciando così in manoall’iniziativa imprenditoriale comparti come la previdenza sociale e la for-mazione, prima monopolizzati dallo Stato.

Per l’università, il passaggio non è stato indolore. Una serie di riforme hascatenato periodiche proteste tra gli studenti, timorosi dell’ingresso della

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legge del profitto nell’università. Ma chi protestava era fin troppo ottimi-sta: i privati all’università non ci hanno mai messo piede. Da un lato lamancanza di controlli negli atenei, governati, di fatto, dal baronato univer-sitario, ha confermato una storica diffidenza verso le grandi imprese, piùpropense a creare in proprio istituti di alta formazione, le corporate univer-sity. D’altro canto, il sistema imprenditoriale italiano prospera su settoricaratterizzati da scarsa innovazione, basati piuttosto sul basso costo del la-voro e la valorizzazione delle tradizioni (il famigerato made in Italy). Un’e-conomia fondata sull’esportazione di scarpe e prosciutto difficilmente po-teva investire in ricerca e sostituire uno stato che batteva in ritirata. Tantopiù che l’imprenditoria italiana raramente ha lasciato trasparire una qual-che propensione al finanziamento di ricerche lontane dal mondo dei bre-vetti, dimostrandosi allergica alle scienze sociali e a progetti culturali intesiin senso più ampio.

A ciò si aggiunga la recente riforma – disegnata dal ministro Berlinguer– dell’ordinamento didattico universitario, che ha introdotto l’inedito ruo-lo del “professore a contratto”. Attualmente, la maggior parte dei corsi uni-versitari è tenuta da giovani ricercatori pagati pochissimo o non pagati af-fatto. Secondo i dati ministeriali del 2003, tali docenti sarebbero ben tren-taduemila. Un’attività didattica così improvvisata e discontinua è uno deglielementi di peggioramento qualitativo dell’università dalla riforma Berlin-guer in poi; ciò è evidente a chiunque abbia vissuto la transizione, e pergiunta all’entrata in vigore del nuovo ordinamento non è corrisposto un si-gnificativo aumento del tasso d’iscrizione. L’università e la ricerca sono co-sì rimaste in mezzo al guado: dequalificazione, scarsi finanziamenti e pro-spettive assenti hanno favorito il moltiplicarsi di figure precarie negli orga-nigrammi.

E proprio alla mancanza di garanzie per il futuro è dovuto il fenomenotipicamente italiano della “fuga dei cervelli”, cioè dell’emigrazione dei ri-cercatori verso stati esteri, in cui le possibilità di lavoro scientifico sono de-cisamente maggiori. Dato che la “fuga” avviene spesso verso istituti di ri-

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cerca anglosassoni, Usa in testa, il fenomeno è stato spesso utilizzato pro-prio per giustificare riforme che rendessero gli atenei italiani (ed europei ingenerale) più simili ai campus statunitensi. Nel far ciò, non si è tenuto con-to di differenze di fondo tra diversi sistemi: infatti, i ricercatori che si in-contrano nei laboratori americani provengono in grande maggioranza dapaesi poveri ma con sistemi educativi di alto livello, come i paesi ex-sociali-sti, la Cina o l’India. Pochi americani, dopo la laurea, intraprendono unacarriera di ricerca, e tra didattica e ricerca c’è scarsa correlazione.

Perciò, imitare la formazione universitaria anglosassone (scadente) nongarantisce in alcun modo di riprodurre l’eccellenza nel campo della ricercadi quegli stessi paesi. Per altro, una conoscenza superficiale di quel model-lo ha diffuso l’idea che negli Stati Uniti gli investimenti a scopo di ricercaprovengano soprattutto dal settore privato. In realtà, una parte molto im-portante dell’attività di ricerca in campi ad alto tasso applicativo, comel’informatica, l’elettronica, la fisica o la biotecnologia, è dovuta a investi-menti statali, spesso a scopo militare. Guerre e strategie difensive, soprat-tutto negli Usa, sono state utilizzate per giustificare forti investimenti intecnologie avanzate che, in ultima analisi, rilanciassero l’economia conl’intervento pubblico. Fortunatamente, l’apparato militare italiano ha unimpatto ben inferiore. Resta però il fatto che l’Italia è fra gli ultimi tra i pae-si industrializzati in quanto a finanziamento pubblico della ricerca.

Gli esiti della mancata lettura e interpretazione di queste differenze han-no finito per ricadere sugli stessi “cervelli in fuga”, che si sono trovati all’e-stero mentre in patria l’università veniva dequalificata dalla scarsità di fi-nanziamenti e da riforme sbagliate, diminuendo ulteriormente la loro pro-babilità di venire riassorbiti una volta emigrati.

Le conseguenze del disagio ormai diffuso nelle università e negli entipubblici di ricerca italiani sono evidenti: l’attività di ogni ricercatore neces-sita di pause di studio, di pianificazione a lungo termine che mal si accor-dano con i ritmi scadenzati dei contratti. In altre parole, per dimostrare abreve termine il proprio valore e ottenere così un nuovo contratto, i ricer-

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catori precari sono costretti a rinunciare a linee di ricerca promettenti masu tempi più lunghi, e sono costretti a privilegiare risultati insignificanti, aprivatizzare attraverso i brevetti le proprie ricerche pur di dimostrare unapresunta utilità economica e a rinunciare a necessari approfondimenti, chepotrebbero essere interpretati come periodi di scarsa efficienza da chi deci-de l’erogazione dei fondi, fondata su misure quantitative dell’attività scien-tifica individuale decisamente inadeguate.

L’attività di ricerca, infatti, non è la somma di contributi individuali indi-pendenti, ma un delicato “gioco collettivo”in cui la competizione tra rivali èaccompagnata da uno spirito di cooperazione e di condivisione: la scopertanon è mai riconducibile esclusivamente alla prestazione individuale, mapiuttosto è il risultato di discussioni, correzioni successive, perfezionamentidi lavoro altrui e imitazione. Sembra impossibile, dunque, far dipenderereddito e garanzie dei ricercatori dalla loro produttività individuale, penal’impoverimento e la rottura degli esili meccanismi su cui si regge la comu-nità scientifica. E nella società attuale, fondata sulla produzione immateria-le, sulla flessibilità e l’innovazione, queste caratteristiche un tempo ristretteal lavoro di ricerca sembrano estendersi all’intero spettro professionale. Lalotta alla precarietà nel campo della ricerca, dunque, può diventare un for-midabile laboratorio in cui sperimentare diritti e garanzie nuove di uno sta-to sociale futuro, più adatto a tutelare il lavoro precario.

* Anagramma di san PrecarioDottoressa in nulla è una delle molteplici forme in cui si materializza lo spirito

di san Precario. Nora Precisa siamo noi: precari/e della ricerca che prestiamo la no-stra forza lavoro intellettuale permanentemente e veniamo retribuite/i a intermit-tenza.

Nora Precisa è il tempo di riflessione, di scrittura, di preparazione, di composi-zione, di apprendistato, di discussione, di scambio, di comunanza; questo temponecessario a ogni prospettiva di creazione non è stato mai retribuito dal datore di

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lavoro ed è tuttavia in quel tempo che l’essenziale si costituisce. Nora Precisa è lanostra esigenza di farla finita con l’esistente dell’Accademia. Nora Precisa è spazioimmaginario dove riappropriarsi delle ricchezze che produciamo, luogo di condi-visione, di apertura pubblica dei “codici”, di liberazione e messa in rete di compe-tenze e intelligenze. Nora Precisa è l’incontro produttivo tra precarietà e creatività.

Nora Precisa siamo noi.**Testo a cura della Rete nazionale ricercatori precari.

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Maria De Rica

PROBLEMI APERTI

Una serie di problemi preoccupano oggi i precari. Vediamo di fare ilpunto della situazione.

1. I nuovi meccanismi per la formazione e il reclutamento dei docenti.2. La modifica del quadro orario delle varie discipline prevista dalla rifor-

ma Moratti.3. Le cattedre assegnate a insegnanti di ruolo che chiedono il passaggio ad

altro ruolo o ad altra cattedra.4. Presenza nelle graduatorie permanenti dei docenti di ruolo.5. Il doppio punteggio attribuito per l’insegnamento in zone di montagna,

piccole isole e penitenziari.6. I punti già attribuiti e attribuibili ai corsi di perfezionamento.7. Presenza nelle graduatorie permanenti dei docenti di ruolo.8. Corsi abilitanti riservati.

1. Formazione e reclutamento dei docenti. Gravissima preoccupazione ge-nera nei precari il decreto attuativo dell’articolo 5 della legge n. 53/2003.Esso riserva il 50% dei posti disponibili ai docenti che si formeranno se-condo le nuove regole.

2. Modifica quadro orario. La riforma della scuola secondaria superioreprevede una radicale modifica del quadro orario, con una riduzionecomplessiva delle ore curricolari, cui si deve aggiungere il passaggio da 5a 4 anni dell’istruzione professionale. Parte delle ore di insegnamento,inoltre, diventeranno opzionali obbligatorie o opzionali facoltative, e sa-ranno forse affidate a esperti esterni assunti con contratti a progetto. Peralcune materie, in particolare, vi sarà un drastico ridimensionamento. Sicalcola che la perdita di organico potrebbe aggirarsi intorno alle 100.000unità. I tagli saranno pagati anzitutto dagli utenti, alunni e genitori, che

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si vedranno ridurre la qualità complessiva dell’offerta formativa, e poidai docenti precari, i quali, privi di qualsiasi tipo di tutela, semplicemen-te non saranno più assunti.

3. Passaggi di ruolo e di cattedra. Il 60% delle cattedre disponibili viene ri-servato alla mobilità per gli insegnanti con contratto a tempo indeter-minato (passaggi di cattedra e di ruolo). I passaggi di ruolo riguardanosoprattutto docenti che dalle scuole primarie o secondarie di primo gra-do passano a quelle secondarie di secondo grado. Docenti precari, chemagari da oltre un decennio insegnano una determinata materia, posso-no trovarsi senza posto di lavoro, assegnato a un collega che mai l’avevaprima insegnata. Si chiede una modifica di tale percentuale o provvedi-menti che riducano i passaggi di ruolo.

4. Presenza nelle graduatorie permanenti dei docenti di ruolo. Secondo idati diffusi dal Miur, nell’a.s. 2002/03 il 25% (107.368) degli iscritti nel-le graduatorie permanenti si dichiarava interessato alle sole assunzioniin ruolo. Nella scuola secondaria la percentuale era del 35,46%. Si trattanella stragrande maggioranza dei casi di docenti che hanno già un con-tratto a tempo indeterminato su altro posto o classe di concorso e cheutilizzano le graduatorie per i passaggi di ruolo o di cattedra, in aggiun-ta alla percentuale già assegnata per la mobilità. La loro presenza nelleprime e seconde fasce, blindate, delle graduatorie permanenti determi-na il perverso risultato che le immissioni in ruolo si traducono in undanno o nella perdita del lavoro per i precari, in gran parte collocati nel-le terze fasce.

5. Punteggio per insegnamento in zone di montagna, piccole isole, peni-tenziari. Nelle graduatorie permanenti si attribuisce un punteggio dop-pio per il servizio svolto a partire dall’a.s. 2003/04 nelle scuole ubicate inzone montane, nelle piccole isole, negli istituti penitenziari. Il provvedi-mento, approvato dal Parlamento lo scorso anno, è assolutamente im-motivato, illogico e iniquo, come riconosciuto dallo stesso Miur, da tut-ti i sindacati, dagli stessi uomini politici che lo hanno approvato e che

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non hanno saputo o voluto però rimediare all’“errore”. Il contenziososulla questione è ancora aperto.

6. Punteggio attribuito per i corsi di perfezionamento. La nuova tabella divalutazione dei titoli approvata lo scorso anno ha introdotto la valuta-zione dei corsi di perfezionamento (3 punti, ma da quest’anno 2); nellostesso tempo ha innalzato da 12 a 30 il tetto massimo consentito per ilpunteggio dei titoli culturali. Si è così innescato un meccanismo specu-lativo ai danni di lavoratori già ampiamente penalizzati, a buona ragio-ne definito “supermarket dei titoli”. Il costo di tali corsi si aggira media-mente tra i 700 e i 1000 euro. Il giro di affari che si è creato, con tutte lestorture e le situazioni incontrollabili del caso, è enorme.

7. Controllo delle graduatorie. Le complesse procedure di aggiornamentodelle graduatorie permanenti e del conferimento degli incarichi, le tantedisfunzioni che si verificano a livello centrale e provinciale, l’alto nume-ro di personale precario utilizzato, hanno reso sempre più difficile ilcontrollo delle graduatorie permanenti, i cui iscritti non sono tenuti apresentare alcuna documentazione.Accertare errori e abusi, verificare lacorrettezza delle procedure, far sì che la normativa venga rispettata è di-ventato sempre più complicato e aleatorio.

8. Corsi abilitanti riservati. Se per alcune categorie specifiche era necessa-rio trovare una risposta adeguata a inadempienze pregresse e situazioniparticolari e circoscritte, perplessità suscitano i nuovi corsi abilitanti ri-servati, laddove al momento esiste la possibilità di ottenere l’abilitazioneattraverso un percorso ordinario.

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FRAMMENTI

DI UN’AUTOBIOGRAFIA COLLETTIVA

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Toni Manero

ERO UNA FLUTTUANTE

Ci sono alcune date che fissano i momenti più importanti della vita diognuno di noi: ad esempio, per me, quelle in cui da studentessa sono di-ventata dottoressa, da fidanzata moglie, da donna mamma.

E in questo breve, ma significativo elenco, può ben figurare anche la da-ta del 3 dicembre 2004 quando, dopo anni e anni di supplenze temporaneedei presidi, per la prima volta ho ricevuto un incarico annuale dal Csa.

All’uscita dalla stanza 611, al piano delle supplenze del vetusto edificiodi via Pianciani, un autentico girone infernale, frastornata e ancora emo-zionata, una collega si avvicina e mi dice: “Non sei contenta? Da fluttuantesei diventata precaria!”.

“Fluttuante? E che significa?”. Mi spiega che fluttuanti sono i supplentistipendiati dalla scuola, mentre per i precari provvede la Direzione provin-ciale del Tesoro: tutt’altra importanza, è evidente!

Ero una fluttuante, ma non avevo mai saputo di esserlo. Né mi sentivoora una precaria nel senso letterale, più che amministrativo, del termine.Ho sempre avuto le mie certezze, anche nella precarietà totale e costante deicontratti, delle retribuzioni, dei punteggi; ho sempre avuto e ho tuttora imiei punti fermi, solidi, incrollabili, e primo fra tutti l’amore per gli alunni,di tutte le età e di tutte le scuole, per il loro modo di essere e per tutto ciò chehanno dentro di sé, e che noi non conosciamo. Così, a ogni cambio di clas-se, di sezione, di scuola, comincia una nuova scoperta, e il sentimento, lapartecipazione, l’affetto tornano a scorrere fra i banchi, tra i miei e i lorosorrisi.

Ecco il perché di quell’espressione sul mio viso non proprio felice, evi-dentemente, tanto da suscitare la perplessità dell’ignota collega all’uscitadella stanza 611: va bene, era la mia prima nomina in provveditorato, ma ilpensiero che più di ogni altro mi percorreva la mente non era quello della

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certezza del contratto (pure importante, per carità!) o del passaggio dallafluttuazione alla precarietà, ma era quello della supplenza che avevo in cor-so e che avrei dovuto lasciare, e degli studenti con cui non avrei più potutocondividere le mie giornate. Da qui il magone, e la felicità trattenuta. Dopodue mesi e mezzo di scuola, dover troncare il legame con quei ragazzi, giàsolido e destinato ad approfondirsi reciprocamente: mi sembrava di nonpoter vivere senza!

Il giorno seguente, prendevo servizio nella nuova scuola e al momentodell’ingresso nelle mie nuove classi, ecco la sorpresa che non mi sarei maiaspettata: non mi era mai accaduto infatti, in quindici anni di insegnamen-to, di essere accolta tanto freddamente. I ragazzi rimpiangevano l’inse-gnante che mi aveva preceduto e non celavano in alcun modo questo lorodispiacere, anzi, non esitarono a dichiararmelo espressamente.

Il primo impulso fu di rabbia, la stessa rabbia vana e repressa che pensa-vo di aver smaltito e che invece riaffiorava di fronte a questa assurda prassidi attribuire gli incarichi annuali nel mese di dicembre, senza il minimo ri-spetto per il lavoro del docente e più ancora per le esigenze dell’alunno, perquella centralità dell’alunno tanto decantata ma valida, in realtà, solo sullacarta.

Ma a parte questo, non esito ad ammettere che di fronte a quel genere diaccoglienza mi sentii morire. E ora? Non potevo certo cedere e lasciarmisopraffare dallo sconforto; non avevo alternative: decisi che era per me unanuova sfida, da affrontare con energia e serenità, con fiducia. E così comin-ciai a lavorare, lasciandoli elaborare il cambiamento senza mostrarmi nérisentita né ostile.

Non trascorsero troppi giorni, perché cominciassero a sorridermi congli occhi, e non solo con le labbra, e ad aspettare il mio arrivo sulle scale, araccontarmi le loro vicende. Finché un giorno, un’alunna che più ancora dialtre aveva manifestato apertamente il suo scontento nei miei riguardi, ina-spettatamente si è avvicinata alla cattedra e mi ha detto che ora sì, mi avevaaccettata, che si trovava bene con me e che mi trovava brava e simpatica.

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E ancora mi si chiede perché faccio questo mestiere? Per questo genere digratificazioni, per l’affetto che si instaura con gli alunni, per l’emozione dileggere ad alta voce una poesia e di commentarla con loro, per la gratitudi-ne che dimostrano dopo che tu per giorni hai riempito la lavagna di schemilogici per permettere loro di comprendere che il latino è una lingua logica eaffascinante.

A mio avviso, poi, noi insegnanti di lettere abbiamo un canale preferen-ziale per conoscere gli studenti, attraverso i temi di italiano. E non mi rife-risco solo alla tipologia classica, ma anche alle altre, dall’analisi del testo aisaggi brevi di argomenti vari. Di fronte al tema, o a qualsiasi traccia di com-ponimento, se si sentono liberi di farlo, i ragazzi raccontano se stessi, e i ri-sultati spesso sono emozionanti.

Perché autentica emozione mi hanno suscitato, ad esempio, i temi svoltia casa recentemente dai miei alunni dopo aver letto Il racconto dell’isola sco-nosciuta di Jose Saramago e nei quali dovevano descrivere la loro isola sco-nosciuta, se esisteva e com’era. Alcuni, in particolare, mi hanno fatto veni-re i brividi per la profondità dei loro contenuti: ottimismo, fratellanza, pa-ce, amore, serenità.

È per questo che quando faccio svolgere la verifica di italiano non vedol’ora di arrivare a casa: per il piacere di leggere quello che hanno scritto, cheviene ben prima e va ben al di là dell’incombenza di correggerli!

Questi ragazzi hanno qualcosa da raccontare e la raccontano a se stessi enello stesso tempo anche a me.

E io mi sento privilegiata e appagata, fluttuante o precaria che dir mi sivoglia.

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Livia Giada Tranti

LA MIA PRIMA VOLTA IN CLASSE

o la scoperta del piacere d’insegnare

Era la prima volta che entravo in una classe come insegnante supplentedi educazione tecnica. La classe era una seconda media statale, facevano unchiasso infernale e, dopo neanche dieci minuti, due ragazzi si sono picchia-ti: uno dei due mi ha scaraventato contro la scrivania che è rimbalzata ad-dosso alla lavagna e non su di me solo perché avevo fatto giusto in tempo aspostarmi! È stato uno shock. Ero scossa e mi sentivo responsabile e inade-guata, nonostante non avessi scatenato io la situazione. Per un momentoho pensato di andarmene. Avevo però l’ora seguente in un’altra classe. Co-sì sono rimasta. Per fortuna! Dopo, infatti, è stato tutto molto più facile ecoinvolgente. E ho scoperto che mi piace insegnare!

Io sono un architetto libero professionista. Questa è la mia professione eil principale obiettivo dei miei studi da dopo il liceo. In realtà ho anche af-frontato il concorso abilitante all’insegnamento del 2000. Superai la primaprova scritta, ma durante la seconda ero in attesa della mia prima figlia e,avendo a che fare con una gravidanza non facile, andai ma avevo la testa al-trove. Mi ricordo che m’informai circa la possibilità di rimandare l’esame,previa presentazione di certificato medico, ma l’esito fu negativo (in quelmomento mi resi conto che qualsiasi mia altra gravidanza poteva essered’ostacolo al mio futuro lavorativo).

Allora il tentativo di abilitarmi era dovuto al fatto che lo facevano tutti,visto che era l’ultima possibilità, e non per scelta consapevole, come mi pia-cerebbe ora. Purtroppo però il costo (ma poi perché si deve pagare?), la fre-quenza obbligatoria, la lontananza, sempre che si venga presi ai corsi, sonoinconciliabili con la vita familiare. Così dovrò accontentarmi di qualchesupplenza ogni tanto, essendo iscritta nella terza fascia delle graduatoried’istituto.

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Una volta avevo chiesto informazioni alla segreteria didattica di unascuola di Civitavecchia, la mia città. Mi era stato detto che dovevo iscrivermisolo se dovevo aggiornare la mia posizione in graduatoria e visto che nonavevo niente da aggiornare, non ho rinnovato la domanda… Calcolandoche la prima volta mi hanno chiamata dopo quattro anni che mi ero iscrittain graduatoria, forse se tra un anno ci sarà un nuovo aggiornamento dellegraduatorie, tra cinque-sei anni riuscirò ad avere un’altra supplenza!

Secondo me è un peccato. Mi spiego meglio. È importante per un adole-scente in crescita avere insegnanti preparati, capaci ed esperti, come puòesserlo un insegnante preparato nei corsi abilitanti, ma quest’ultimo nonvale necessariamente più di un non-solo-insegnante, uno cioè che ha a chefare con realtà diverse dalla scuola e che proprio per questo può portarvimodi diversi di affrontare le situazioni.

Gli insegnanti che più hanno contribuito alla mia formazione e da mepiù ammirati, sono stati quelli che trasmettevano nelle loro lezioni unamolteplicità d’interessi e curiosità. O quelli che davano importanza a deimomenti passati insieme a parlare, a giocare a pallone…

L’importante è la consapevolezza da parte di chi insegna di quanto sia im-portante stare a contatto con esseri umani in crescita e di quanto può esseredeterminante, di quanto si possa influenzare, di come puoi incoraggiare, dicome puoi limitare gli eccessi, di come puoi trasmettere la tua esperienza divita di adulto a dei ragazzi che possono essere tuoi figli, minimo.

Un insegnante può essere anche molto preparato, ma a che serve nel-l’ambiente scolastico se non riesci a rapportarti ai ragazzi, e quindi a cattu-rare attenzione, meritare rispetto?

Da queste mie prime esperienze di supplenza sono subito emerse le pro-blematiche tipiche dell’adolescenza. Mi sono resa conto che la maggior par-te dei ragazzi cerca prima un rapporto umano e poi da studente. E ogni ra-gazzo mi sembra diverso dall’altro e ha bisogno d’attenzioni, magari simili,ma pur sempre diverse. Il difficile, infatti, è trovare tempo e modo di rap-portarsi con tutti. Talvolta anche sbagliando, e ammettendolo con umiltà.

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Paul Derain

IL BELLO, E IL BRUTTO, DI ESSERE PRECARI

Premessa: io sono un precario contento. Ad esempio, se a settembre ilsole è ancora estivo e non ho voglia di rimettermi a lavorare, posso tran-quillamente rifiutare supplenze fin quando non cambia il tempo (e finchého il privilegio di potermelo economicamente permettere, ovviamente).Quest’anno il sole a ottobre era così bello che solo quando ha cominciato apiovere, anch’io ho cominciato a rispondere alle chiamate dei presidi. Laprecarietà mi fa piuttosto comodo, sia dal punto di vista psicologico che daquello pratico. Ciononostante, mi lasciano piuttosto perplesso alcuni fe-nomeni legati a questo mondo delle supplenze.

Seconda premessa: con fasce, graduatorie e punteggi ancora non mi ciraccapezzo. Non ho ancora capito i meccanismi che stanno alla base diquesti “balletti”, ma ne noto le conseguenze, spesso negative, a volte assur-de. La scuola consiste, fondamentalmente, nel lavoro dell’insegnante con iragazzi, e in misura molto minore con i colleghi e i genitori; e questo lavo-ro è spesso inficiato dai suddetti meccanismi. Per non parlare del rapportoaffettivo che si instaura rapidamente tra insegnanti e alunni, e quindi deldispiacere che si prova da entrambe le parti quando si lasciano delle classi osi teme di doverlo fare. Immagino che per lo più certe situazioni siano ine-vitabili; ma in parte, forse, si potrebbero invece evitare.

Porto ad esempio la mia esperienza nella prima parte di quest’anno sco-lastico. Comincio a insegnare nella scuola di Trevignano Romano, il 14 ot-tobre, come supplente per malattia. La degenza sembra lunga, ma il con-tratto è rinnovato all’incirca ogni due settimane. Cerco di fingere, con mestesso, di dover restare tutto l’anno: naturalmente si lavora con un’attitudi-ne mentale diversa, sapendo di avere una classe per otto mesi o per quindi-ci giorni. Il 5 dicembre mi comunicano che l’indomani è l’ultimo giorno:non perché torni la titolare, ma perché “si effettuano le nomine sulla base

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delle graduatorie” (??? vedi seconda premessa). Il 6 dicembre, a lezione,non ne faccio cenno ai ragazzi; il 7 vado a scuola senza sapere se fare lezio-ne toccherà a me o a qualcun altro, ma chi è davanti a me in graduatorianon si presenta e posso quindi continuare io. Sospiro di sollievo: nel frat-tempo, naturalmente, mi ero molto affezionato ai ragazzi. Passa poco piùdi una settimana e mi si comunica che la titolare tornerà lunedì 20 dicem-bre, tre giorni prima delle vacanze di fine anno. L’ultimo venerdì, a lezione,nuovamente non ne parlo con i ragazzi; ma questa volta la supplenza è dav-vero terminata. Il 22 torno a salutarli al saggio di musica, mi fanno le feste,mi mostrano il loro affetto. Vado in vacanza non retribuita: per usufruiredello stipendio durante la pausa natalizia, mi hanno spiegato, devi avermantenuto la supplenza nei sette giorni precedenti e nei sette giorni susse-guenti le vacanze. Mi dicono che, nel caso la titolare non torni il 10 gennaioalla riapertura della scuola, potrei essere richiamato se, di nuovo, non sipresentasse chi è davanti a me in graduatoria. Io a quel punto – anche unpo’ per rabbia, lo ammetto – decido di non “stare al gioco”e prenoto un vo-lo aereo per l’11 gennaio, per una vacanza con ritorno il 18. Il 10 mi telefo-na la scuola: la titolare non è rientrata, e toccherebbe a me. Io, pur assalitodai dubbi, preferisco non rinunciare al viaggio e parto; quando torno, na-turalmente, sta già lavorando un altro supplente, che mi segue in graduato-ria e che è stato chiamato dopo di me. Sto male per qualche giorno, nondormo la notte: ho perso le classi con cui ho lavorato più di due mesi (sì, percolpa mia; ma spintovi da fattori esterni), e soprattutto ho la sensazione diaver tradito i ragazzi.

Dopo pochi giorni mi chiama la scuola di Anguillara, dall’altra partedel lago, e comincio una supplenza per maternità, che andrà avanti pre-sumibilmente fino al termine dell’anno scolastico. Dopo un paio di set-timane mi richiama la scuola di Trevignano: per motivi a me ignoti (ve-di ancora seconda premessa) hanno “riaperto le graduatorie”, e quindipotrei riprendere le mie classi. Ma ormai sto lavorando nella secondascuola, dove quindi resto. Nel frattempo il nuovo supplente nella scuola

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di Trevignano continua a non sapere per quanto tempo ancora avràquell’incarico.

In conclusione, i ragazzi di quelle classi hanno avuto, nell’ordine: titola-re, primo supplente, titolare (per pochi giorni), secondo supplente; poihanno rischiato di riavere il primo supplente, e forse prima della fine del-l’anno riavranno la titolare. Con buona pace della continuità del lavoro edell’equilibrio psichico, di insegnanti e allievi.

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Brunilde Prussia

NON SONO ECCELLENTE, SONO ORDINARIA

Si può aver lasciato un marito per devozione alla propria professione? Sefosse stato per fede, nessuno batterebbe ciglio; se fosse stato per infedeltà,qualcuno potrebbe darmi a intendere che il perdono è il vero e genuino se-gno d’amore e di fedeltà.

Niente di tutto questo è capitato a me. Al momento di coronare il sognod’amore con il “progetto figlio”, ho sentito un nodo in gola che non si è maipiù sciolto.

O il progetto “figlio” o il progetto “professione docente”.Dovevo scegliere.Una laurea in filosofia, tormentata, negli inquietanti anni della Pantera,

il ’92-93. Il sogno di un padre in pensione, giunto alla laurea della terza e ul-tima figlia. Una speranza: quella di riuscire comunque ad abilitarmi all’in-segnamento con il concorso che, in Italia, da sempre avveniva con cadenzatriennale. Poi, lavorare a scuola con gli adolescenti e, possibilmente, fuggi-re via da Roma.

Questo era il mio sogno… rivelatosi un’infernale maledizione!

Nei lunghissimi anni di attesa (nove in tutto) per il sospirato concorso acattedre (ma a cattedre zero,per cui mi ritengo potenzialmente una vincitri-ce!), centinaia le domande ai presidi di scuole parificate, andate cestinate.

Nel frattempo: un matrimonio in frantumi, otto attività senza senso,senza autostima, senza soldi, vale a dire senza autonomia. Una sola espe-rienza altamente formativa: quattro anni con studenti-lavoratori, senza di-plomificio però, costretti poi ad affrontare l’esame di maturità con com-missioni pubbliche, che non raramente attestavano per loro valutazionimaggiori rispetto ai frequentanti. Erano gli anni dell’“affare-privatisti”, as-sai remunerativo per le scuole pubbliche.

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Qualche corso di perfezionamento, noioso, costoso e allora inutile al fi-ne della valutazione in graduatoria che non si è mai riaperta, per me, se nonnel 2002, vale a dire ancora un anno dopo aver conseguito quella disgrazia-ta abilitazione. Avevo 38 anni e ancora nessun figlio.

Perché poi quell’ulteriore anno di attesa? Non me lo hanno mai saputospiegare.

In quella scala di valori della III fascia (che va dal n. 750 circa al n. 5.000,nelle materie letterarie per le scuole superiori), ero in fondo ai precari sto-rici e ai 150 sissini, neo abilitati con percorsi di “alta eccellenza” presso leuniversità dislocate su tutto il territorio nazionale. Perché in fondo proprioio? E perché veniva inserito improvvisamente con tanta fretta, sia pure conriserva, anche chi non aveva ancora conseguito il titolo di abilitazione? Co-sa avevo di così spregevole se non un titolo di idoneità conseguito con unpubblico concorso ordinario e, per giunta, anche a cattedre? Seppi pure cheera costato moltissimo, miliardi e miliardi di spesa pubblica, con oneri acarico dello Stato, per selezionare e pagare commissioni di esperti, funzio-nari della Sovrintendenza regionale, materiali, senza contare i corsi di pre-parazione e le tasse a carico dei candidati.

Se avessi sfruttato qualche conoscenza, come i miei colleghi del riserva-to, sarei stata più in alto, poiché mi sarei valsa di un servizio in strutture pri-vate e di un corso-concorso; i neo-abilitati Ssis, ovviamente più giovani dime, e moltissimi senza aver messo piede in una scuola pubblica, mi aveva-no scavalcato grazie a un semplice decreto interministeriale del 2001, e conun altro direttoriale l’anno seguente, le Ssis – scuole di specializzazione al-l’insegnamento – ottenevano il riconoscimento di un bonus di 30 punti conil quale, paradossalmente, il concorso ordinario, e pubblico, perdeva com-pletamente il suo valore quale canale di accesso preferenziale, se non unico,alla pubblica amministrazione. A meno di non mettere in discussione, co-me oggi sta drammaticamente accadendo, il dettato costituzionale.

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Era il 2002 e, senza che una legge dello Stato lo disponesse, mi sono tro-vata, assieme alle migliaia di idonei del concorso (tutti presumibilmentevincitori, se fossero state messe a disposizione le cattedre, quelle in parteuscite fuori l’estate scorsa e in parte date in mano ai sissini), estromessa an-che dalla possibilità di ricevere una supplenza annuale, poiché inserita ingraduatoria sì, ma “sorpassata” da centinaia di posizioni, anche di quelli ri-sultati non idonei al concorso.

Nel 2000, con una legge dello Stato, assurda iniziativa del precedentegoverno di centro sinistra, il valore di esclusività del concorso, relativo almerito, aveva già subito il primo duro colpo: per la prima volta un per-corso di specializzazione, naturale anticamera del concorso (come acca-de ai medici specializzati, alla fine del cui corso di specializzazione co-munque sono costretti a misurarsi con un criterio di selezione pubblica,trasparente e selettiva), fu trasformato in una vera e propria proceduraconcorsuale.

I grandi costituzionalisti rimangono ancora oggi inebetiti. Da lì, allaconversione di quei decreti sui trenta punti in legge 143, nel 2004, il salto fubreve e così il “sorpasso” ha potuto finalmente ricevere la sua legittimazio-ne politica e giuridica,“blindata”di fronte a qualsiasi iniziativa di contesta-zione persino davanti ai giudici amministrativi.

A dare l’addio alla mia giovinezza è stata poi l’annuale angosciosa attesadelle chiamate dei presidi, poiché l’ex provveditorato si è disinteressato deldestino degli ordinaristi. Non risponde più neanche a reclami e diffide,perché, a Roma, nessuno riesce più a controllarlo: avvocati, giudici, finan-za, carabinieri. La mia preoccupazione si associa a quella dei ragazzi, coltisempre di sorpresa a cambiare insegnante due o tre, persino quattro voltein un anno, su materie fondamentali come quella che, si presume, dovreiinsegnare: l’educazione civica e la storia sono solo due esempi.

Qualcuno, oltre noi insegnanti e i ragazzi, si preoccupa più se i nostri figlinon possono essere messi nelle condizioni di studiare con continuità? Ci so-no genitori coscienti che il problema non si risolve con il ritiro dei loro figli

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dalle scuole pubbliche e la loro iscrizione nelle private? Ma, soprattutto, c’èancora qualcuno che crede che le cose non dovrebbero andare così?

Quest’anno, dopo gli ultimi ritocchi normativi parlamentari dell’ultimaora, a graduatorie già riaperte e con i moduli di domanda già compilati, ilvero colpo di scena da maestro: praticamente a nulla sono servite le senten-ze dei giudici dei vari Tar, se non a peggiorare le cose; ma politicamente ilgioco di botta e risposta, di testa o croce, di braccio di ferro ha dato fruttipiù inquietanti: la riduzione del punteggio di abilitazione per tutti. Colpitii più meritevoli del concorso e, ovviamente i sissini, la maggior parte deiquali abilitati con il massimo dei voti, a testimonianza del fatto che, purbocciati a un concorso per abilitarsi all’insegnamento, dopo la laurea, l’u-niversità li avesse improvvisamente resi tutti “geni”. A ciò si sono aggiuntealtre “chicche”: la riduzione della valutazione del loro servizio prestato,compensato però da una moltiplicazione ad infinitum dei titoli, per i qualile università si precipitano a rilasciare documentazione per l’avvenutoconseguimento di questa o quella discussione o tesina = abilitazione; unraddoppio immediato (e retroattivo, ovviamente) nella valutazione delservizio svolto (da qualcuno… chissà) presso gli istituti in montagna ad al-titudini superiori a 600 metri, presso le piccole isole e per gli istituti peni-tenziari. Due tra le conseguenze più grottesche: a) il via libera per la corsaall’accaparramento dei titoli post lauream, in quanto oggi finalmente valu-tabili, rende assai più grande il bacino delle ulteriori entrate nelle casse del-le università; b) l’accettazione di cattedre presso sedi di montagna, così, sudue piedi, da parte dei precari della scuola, per l’ovvio guadagno in terminidi punteggio, e un ennesimo “sorpasso”.

Ho 41 anni. Ancora senza figli.Che gioia ho provato però quando ho ricevuto il primo incarico dal Csa.

Subiaco, corso serale di un tecnico commerciale, a 75 km da casa. 150 algiorno. Preside comprensiva: mi sistema le dieci ore su tre giorni. Di nuovostudenti lavoratori. Altissima motivazione, tenerezza provata e grande di-

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sponibilità di ascolto. Era l’ultima cattedra, rifiutata da tutti e ne scopro ilmotivo poco dopo essere entrata nell’inquietante stanza di lettere, per fir-mare: è solo uno spezzone di 10 ore (mezzo stipendio); consta di due orecirca di viaggio da Cinecittà a scuola, prevedendo maltempo e ghiaccio disera. Ma il pullman per il rientro non c’è. L’ultimo parte da Subiaco alle ore20.30. L’ultima ora del serale è alle ore 21.40.

Non c’è bonus per quel viaggio mancato, solo la foresteria dei benedetti-ni a pagamento, ovviamente. Non c’è rimborso spese su nulla. Il servizionon è valutabile in maniera raddoppiata perché la località non supera i 500metri di altezza. Il freddo è polare. Alla stazione di Ponte Mammolo, la seradopo le ore 19 si rischia il borseggiamento, quando va bene e riesci a ri-prendere possesso della macchina, se ce l’hai e se rimane nel parcheggio(anche quello a pagamento) fino al tuo rientro. Ma Subiaco non è “sede di-sagiata”. Il completamento cattedra può anche avvenire, anche questo lon-tano da casa! E a caro prezzo: quello della nevrosi e di un altro divorzio.

I più giovani, oggi, passano avanti. È lo slogan del momento, di maggio-ranza e di opposizione. Le cattedre, i giovani di oggi, neo abilitati con leSsis, le scelgono sotto casa. Ieri non era così.

Le chiamano “eccellenze”. Noi, “privilegi”, ma siamo rimasti in pochi aconsiderarli tali. E sono chiamati così anche quelli che la legge 53 sforneràdalle università italiane con la formula del tre più due. Così, con questa leg-ge, sparirò definitivamente. Io e gli altri del concorso. Una graduatoria fan-toccio, che deve essere servita più a tranquillizzare l’animo di chi governa-va allora, che a creare nuovi posti di lavoro effettivi e promessi.

Perché a quarant’anni siamo vecchi. Perché in Italia il lavoro si deve pa-gare. Non è vero che non c’è. Come in Moldavia o in Albania: devi pagarloa chi te lo deve dare. Altrimenti sei tagliato fuori dal sistema.

Lì, si rischia quotidianamente l’attentato a te o alla tua famiglia. Si chia-ma mafia e non è assente neanche da noi. Qui, sei condannato a una mortelenta, logorante, mortificante i tuoi sogni, le promesse mancate.

È la morte intellettuale e passionale.

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Paola B., studentessa lavoratrice della scuola dove andavo a lavorare nel‘97, quando ero ancora “giovane” e credevo ancora nelle istituzioni, miscrisse un biglietto che porto sempre con me. C’è scritto: “Grazie per avermostrato sempre fiducia in me”.

Lavorava come portantina in uno dei grandi ospedali romani, sbattutanello squallido ambiente di astanteria.A casa: un padre padrone e un mari-to che non la deve mai avere amata. Mi pagavano 14.000 lire lorde l’ora. Leripetizioni private costavano mediamente trentamila.

Chi sono io?

Una donna testarda in lotta contro i soprusi nel mondo.

Un’insegnante che crede ancora nella Costituzione italiana, nella me-moria storica, nel valore della poesia, nello sguardo degli offesi, nella difesadei diritti civili e politici di chi non si può difendere da solo e nel rispettodei diritti acquisiti dei lavoratori.

Dedicato a tutti i ragazzi senza famiglia.

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Christie Poun

QUESTA SCUOLA VA RESTAURATA

Se dovessi dare una definizione di “precario” non riuscirei a trovare ag-gettivi ben definiti, in quanto la parola stessa varia di significato e intensitàin base all’attività professionale svolta; il denominatore comune è sicura-mente l’instabilità (che si ripercuote sia sul piano emozionale che finanzia-rio).

Ho la doppia nazionalità francese e italiana e, in base alla mia istruzione(maturità francese, Accademia delle Belle Arti, qualifica professionale didecoratore d’interni e restauratrice), avrei potuto aspirare alla libera pro-fessione ma, avendo due figli, a una strada lunga e incerta ho preferito lostipendio fisso. E così il mercato del lavoro mi ha offerto finora le seguentiopportunità: operatore di call center, data entry, archivista, lavori di segre-teria, traduzioni, insegnamento della lingua francese in scuole private, e la-vori autonomi di decorazioni d’interni nei periodi “bui”.

Ho sempre compilato ogni modulo e ogni sorta di domanda per l’im-piego. Così qualche mese fa per la prima volta mi ha chiamato l’ufficio dicollocamento per un posto vacante di collaboratore scolastico. Ho accetta-to subito, visto che mi dava la possibilità di lavorare ovviamente, ma ancheper la vicinanza a casa, uno stipendio “fisso”(lato negativo: posticipato ditre mesi!), e visti gli orari di lavoro, la possibilità di frequentare un corso diqualifica professionale pomeridiano.

Questo lavoro mi ha fatto prendere coscienza dell’andamento dellascuola statale e di quanto sia lontana ed errata l’idea di quello che un tem-po si chiamava“bidello”. Per il collaboratore scolastico sembra non vi sianomansioni ben definite: egli pulisce aule, bagni, fa da sostituto agli inse-gnanti che, vuoi per malattia, vuoi per “piccoli impegni personali improv-visi”, usufruiscono della “collaborazione”. Altre mansioni sono di aiuto-se-greteria, sorveglianza, apertura e chiusura della struttura scolastica.

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Il compito del collaboratore scolastico sarebbe più gratificante se, at-traverso la guida dei docenti, i ragazzi fossero educati al rispetto del ma-teriale scolastico, dei docenti stessi e del personale Ata, i quali contribui-scono alla loro educazione e cultura. Purtroppo non è così. Sembra si diaper scontato che il collaboratore debba in ogni caso pulire aule che arri-vano sovente a livelli di igiene impensabili, a causa di modi di sporcareperfino machiavellici. Ci si chiede a volte come tutto ciò possa accaderedurante una lezione…

Non si può richiedere al collaboratore di fare “appostamenti”nei bagniper trovare i colpevoli. Non può infatti rimanere sempre allo stesso postoe ha altre mansioni da svolgere (a proposito, a me come ad altri collabo-ratori scolastici vengono rivolte richieste come quella di fare il caffè, cheesulano del tutto dalle nostre mansioni). Il collaboratore non è un “cara-biniere”.

Il collaboratore scolastico non è un collaboratore domestico o un tutto-fare; non è retribuito per pulire ma per collaborare, e contribuire all’anda-mento della struttura scolastica unitamente al personale della segreteria eal personale docente e fra le sue mansioni vi sono anche le pulizie: nuancemolto sottile ma fondamentale.

Inoltre il collaboratore scolastico precario non è tutelato neanche a livel-lo economico: viene retribuito tre, quattro mesi dopo, e le nuove normati-ve sul rinnovo dei contratti a termine fanno sì che sabati e domeniche (fe-rie) non vengano retribuiti. Mi spiego meglio: se il mio contratto scade divenerdì, verrà rinnovato solo dal lunedì, così da far risparmiare allo Stato idue giorni festivi. No comment…

Siamo nel 2005: il terzo mondo ha i suoi problemi, e lo dobbiamo aiutare;il Medio Oriente ha bisogno del nostro intervento per stabilire regimi de-mocratici, ma noi,“economicamente all’avanguardia” ed “evoluti”, soffria-mo della sindrome del granchio: torniamo sempre più indietro.

Il 31 Marzo 2005 scadrà il mio contratto. La mia nuova meta è in tutt’al-tro campo: in un primo tempo passare un ulteriore esame di qualifica pro-

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fessionale (web designer) per rimanere sul mercato del lavoro. E poi unostage in un’azienda che si occupa di informatica. Mettiamola così: il veromestiere del “precario”, in senso generale, è quello di rimanere sempre ag-giornato, pur sapendo quello che si vale, essere sempre alla ricerca di sicu-rezza e stabilità… e non perdersi mai d’animo!

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Fiorenza Mattina

CALVARIO DI UN PRECARIO

Mi laureo perfettamente in corso: quarto anno, sessione estiva, 110 e lo-de. Coltivo rosee speranze per il futuro. Un futuro nell’insegnamento è lamia sola aspirazione. Nemmeno prendo in considerazione altre strade.L’insegnamento è il mio sogno esclusivo.

Mi inserisco nelle graduatorie delle supplenze. Ma di supplenze nem-meno l’ombra. Nelle graduatorie provinciali, a parità di punteggio di lau-rea, non avendo io altri titoli e valendo allora il principio dell’anzianità diservizio, sono dietro un migliaio di persone.

Mi adatto a insegnare – e mi ritengo fortunata – nella scuola non statale.Tuttavia il servizio mi vale la metà di quello prestato dai miei colleghi nellastatale.

Passano quattro anni. Ho notizia di graduatorie esaurite in una pro-vincia del nord. Mi dicono che c’è un grande afflusso di aspiranti dal sud.Non sono mai stata lontana da casa. Nella scuola non statale ho un con-tratto a tempo indeterminato: mi trovo bene e sono apprezzata. Eppurenon esito. Per la prima volta ho la possibilità di un incarico nella scuolastatale. Potrò raggiungere i 360 giorni di servizio nello Stato che mi per-metteranno di essere inclusa in una fascia superiore e di guadagnare mol-te posizioni, secondo la normativa vigente. Ricevo l’incarico. Lontananzada casa, mancanza di tante comode abitudini, alto costo dell’albergo-pensione, privazione della quotidiana frequentazione degli amici. Pa-zienza, tutto si sopporta. Sono nella scuola statale, domani lo sarò defini-tivamente, e vicino casa…

No. Ho fatto i conti senza l’oste. Ho pensato che la normativa vigente inquel momento lo sarebbe stata anche nel periodo successivo. Nient’affat-to. Nel periodo successivo dovrò imparare a mie spese che non c’è certez-za del diritto, che la normativa cambia continuamente: “… che fai tanto

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sottili / provedimenti, ch’a mezzo novembre / non giugne quel che tu d’ot-tobre fili…”.

L’anno successivo, infatti, una nuova disposizione permette il passaggiodegli insegnanti delle scuole medie inferiori alle superiori. Il posto nell’isti-tuto tecnico in cui ho insegnato non sarà perciò più disponibile.

Torno a casa, a Roma. Conseguo l’abilitazione. Entro nelle graduatoriepermanenti in buona posizione.

Ma di nuovo ho fatto i conti senza l’oste. La normativa cambia conti-nuamente, ancora.

La terza fascia, che include gli insegnanti che hanno prestato almeno 360giorni di servizio nella scuola statale, e la quarta, che comprende quellisprovvisti di tale requisito e che per esempio lavorano nelle parificate, ven-gono accorpate.

Io, che per diventare di terza fascia ero andata nell’Italia del nord, sonomolto danneggiata dalla novità e perdo centinaia di posizioni. Si potrebbediscutere se sia giusta o no l’unificazione delle due fasce. Ma mi limito a os-servare che cambiare le carte in tavola, dando alle norme carattere retroat-tivo per giunta, non consente agli interessati di programmare adeguata-mente la propria vita. Scelte e sacrifici possono essere resi vani.

Che fare? Mi si affaccia l’idea di chiedere l’insegnamento nelle scuole ita-liane all’estero. Danno un punteggio doppio: è conveniente. Nient’affatto.La normativa cambia anche in questo caso. Cambia, cambia continuamen-te. E con valore retroattivo.

La nuova normativa prevede ora un punteggio pari alle scuole in Italia.Penso a quei poveracci che si sono fatti un periodo all’estero confidando nelpunteggio doppio. Io almeno sono ancora in tempo per scampare al danno.

Niente estero, dunque. Si rimane in Italia. Ma che fare? C’è un’altra no-vità: la Ssis. Serve essenzialmente per conseguire un’abilitazione. Io sonogià abilitata. Però la Ssis dà un bonus di trenta punti. 30 punti? Una manna.Corro a iscrivermi. Frequento il primo anno di Ssis e intanto continuo a in-segnare. Ormai posso avere incarichi annuali.

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Nell’estate però entrano in graduatoria i sissini del primo ciclo e del se-condo (il mio è il terzo) con voti e punteggi molto alti. Quando mai si sonovisti voti simili in un concorso ordinario? Alla Ssis avere il massimo è la re-gola. Certo con le eccezioni. C’è anche chi viene “bocciato”… Oltre al votoconseguito i sissini possono far valere il bonus di 30 punti non previsto perle altre forme di abilitazione.

Ho l’abilitazione precedente, ho 8 anni di servizio, ma ho per ora fre-quentato solo il primo anno della Ssis. Vengo così superata in graduatoriada centinaia di persone, anche più giovani, senza servizio, fornite del solotitolo Ssis. Addio incarico annuale. Si ricomincia da capo ad aspettare lechiamate per le supplenze dei presidi, dei dirigenti scolastici.

Ma penso: mi rifarò il prossimo anno… Nient’affatto. Ho fatto i contisenza il solito oste. Sì, perché nuove norme stabiliscono che i 30 punti ven-gano assegnati a chi frequenta le Ssis ma senza contemporaneamente inse-gnare. Io ho insegnato. Dunque ho diritto a 24 punti, dodici per anno: chesono il frutto dei due anni di insegnamento contemporanei alla Ssis. E sa ilCielo quanta fatica, quante ore perdute di sonno mi ha costretto ad affron-tare la contemporaneità dell’insegnamento e la frequenza. Roba da esauri-mento nervoso. Cancellati in un attimo.

All’aggiornamento delle graduatorie mi rimarranno, della Ssis, 6 punti:30-24=6. I conti tornano. Ma non per me, che mi ero ingenuamente illusadi raggranellarne molti di più con la Ssis. L’anno successivo perderò anchequei 6 punti superstiti, come vedremo.

Intanto, un nuovo cambiamento della normativa (la normativa cambia,cambia continuamente…) fa sì che valga solo il servizio prestato nella solaclasse di concorso che si sceglie e il servizio precedentemente prestato in al-tre classi non è utile. Uno che sceglie italiano e latino nei licei, non può farvalere il servizio prestato per le materie letterarie nelle medie. Quel serviziova perduto. La normativa precedente stabiliva che valesse la metà.

I precari scavalcati dai sissini procedono intanto a una serie di azioni le-gali che portano al riconoscimento di 18 punti alle abilitazioni diverse dal-

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la Ssis. Ma la disposizione non regge, non essendo fondata su solide basinormative. Le superiori autorità, di conseguenza, se la rimangiano. I pove-ri precari abilitati non con le Ssis rimangono a bocca asciutta.

Il contenzioso nell’ambito del precariato continua a crescere. Ormai cisono divisioni, crepe, spaccature. Precari Ssis e precari non Ssis, gli uni con-tro gli altri armati: avvocati, soldi, insonnia, fatica. L’insegnamento ne ri-sente? Ne risentono i poveri nostri cari, dolci, alunni?

Le divisioni favoriscono il rinvio delle immissioni in ruolo, permettonoalle superiori autorità di rimandarle alla soluzione del contenzioso. Divide etimpera. Viene stabilito intanto che si assegni un bonus di 6 punti per qualsia-si tipo di abilitazione, comunque conseguita (concorsi ordinari, riservati,Ssis). Io, che già avevo un’abilitazione prima della Ssis, avrò dunque 6 punticome tutti gli altri, punti che avrei avuti anche senza questa specializzazione.

I due faticosissimi anni della contemporaneità dell’insegnamento e del-la frequenza Ssis si rivelano ora una crudele beffa. Aver frequentato la Ssisrisulta del tutto inutile sotto il profilo del punteggio. Il calvario del precariocontinua.

L’ultima estate, quella del 2004, è stata allucinante.L’estate per il precario è sempre faticosa. Per molti, innanzitutto, è sino-

nimo di disoccupazione. Beato chi ha l’incarico fino al 31 agosto.Per molti non c’è vacanza. Le difficoltà economiche non lo consentono. Si

cerca qualche lavoretto che produca soldi.Chi pure qualche soldo lo avrebbe,una permanenza in un luogo diverso da quello abituale non se la può conce-dere: escono le graduatorie non si sa mai in che data precisa e occorre essereall’erta. Ci si deve preparare a possibili errori e a inevitabili ricorsi.

Ma anche rispetto a tutto ciò l’estate del 2004 rimarrà memorabile. Undisastro.

Maggio.Si presentano le domande per l’aggiornamento delle graduatorie.Giugno. Ancora una volta la normativa cambia. Viene introdotto un

punteggio doppio per le scuole ad altitudini superiori ai 600 metri, nelle

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piccole isole e nelle carceri. E per giunta con valore retroattivo. Conseguen-za: si deve procedere per ben due volte all’integrazione delle domande.

Luglio: alla fine del mese si svolgono in Parlamento le ultime votazionisugli emendamenti. Il provvedimento viene convertito in legge, la retroat-tività no.

Agosto. Limitiamoci a Roma. Pubblicazione delle graduatorie provviso-rie prevista per l’11 agosto. Solo una decina di giorni per i poveri impiegatidel Csa per ricalcolare la posizione di circa 30.000 insegnanti. Personale inbuona parte in ferie. Il risultato è prevedibile, anzi è addirittura previsto daun alto dirigente: ci sarà una percentuale di errori intorno al 90%. Così mi-gliaia di persone si ritrovano (non solo a Roma ma anche altrove) nei gior-ni intorno a ferragosto a presentare reclamo. Il reclamo si deve presentareper legge entro 5 giorni, improrogabilmente. Tra l’11 e il 16 agosto c’è inmezzo ferragosto, appunto. Allegria. A me non sono stati riconosciuti 60punti. Il che significa retrocessione in graduatoria di centinaia di posizioni.Un ferragosto allucinante.

L’ex provveditorato si trova a dover far fronte a migliaia di ricorsi. Unasituazione disastrosa, senza precedenti. Il calvario del precario prosegue.

Fine agosto. Il ministro rassicura alunni, famiglie e insegnanti. L’annoscolastico comincerà regolarmente. Docenti in cattedra fin dal primo gior-no. Sì. Ma molti sono supplenti chiamati all’ultimo minuto o a scuola giàiniziata dai presidi in base alle vecchie graduatorie. A Roma le nomine delCsa arriveranno solo a metà novembre. E ci sarà la solita girandola di inse-gnanti. Con quale costo, per parlare solo di denaro, in termini di telefonate,telegrammi, per le singole scuole? E il costo umano?

A me, alla fine, è andata bene. Il giusto ordine in graduatoria è ristabili-to. In seguito al reclamo presentato in fretta e furia a ferragosto. Sono incattedra nella stessa scuola, nelle stesse classi dall’inizio dell’anno scolasti-co. Ho accettato una supplenza che si è poi trasformata in un incarico an-nuale del Csa fino al 31 agosto. Sono ancora fuori Roma, devo viaggiare.Pazienza.

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È andata bene. Ma il ruolo? Sono all’undicesimo anno di insegnamentoe le prospettive non sono per niente rosee. Eppure in ruolo ci sarei già, senon fossi stata colpita da cambiamenti di normativa a me sempre sostan-zialmente sfavorevoli. Ho continuato a perdere posizioni, pur avendo sem-pre lavorato. Mi hanno danneggiata: l’unificazione delle fasce degli inse-gnanti di scuola statale e non statale; l’inutilità della frequenza della Ssis; ilpassaggio di ruolo e di cattedra di insegnanti di scuola materna, elementa-re e media alle superiori; la massiccia immissione in ruolo di “riservisti”.

Per il futuro temo ulteriori danni legati ai nuovi meccanismi di recluta-mento dei docenti e alla modifica del quadro orario delle materie di inse-gnamento. Il timore è che i precari storici passeranno dagli incarichi an-nuali (ruolo addio!) alle supplenze brevi. Il calvario del precario…

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Mira Avosella

UNA QUESTIONE PRIVATA

A quarantacinque anni è normale fermarsi qualche volta a guardare in-dietro e fare un bilancio della propria vita. A me capita spesso di chieder-mi se le scelte che ho fatto siano state le più giuste, o se a volte avrei potutorischiare di più: sentirsi precari alla mia età non fa piacere. Le occasionidella vita mi hanno portato a lavorare in una scuola paritaria e spesso michiedo se ho fatto bene, o se avrei fatto meglio a tentare l’esperienza dellaStatale. La scuola paritaria, infatti, non ti permette mai di essere del tuttotranquilla: da un momento all’altro potrebbe chiudere, facendoti rimane-re senza lavoro. Chi non vive questa realtà non se ne rende conto. Ma l’in-certezza di supplenze ancora più precarie nello Stato mi ha spinto a rima-nere lì dove ero. Lo Stato, emanando decreti e leggi, dovrebbe ricordarsiche la continua incertezza del proprio futuro lavorativo non facilita gli in-segnanti, che sono uomini con esigenze e sentimenti, e non è giusto farlivivere nella precarietà.

In fondo la mia scelta non mi dispiace, ma rimango male quando sento idiscorsi sulle scuole paritarie: mi ferisce il luogo comune che in questo tipodi istituti si regalano le promozioni. Mi ferisce perché lavoriamo con mol-to impegno e perché spesso i nostri ragazzi hanno una preparazione mi-gliore di quella di tanti altri. Mi ferisce perché non ci sono concesse molteagevolazioni che toccano alle scuole statali e perché il nostro stipendio ètalmente misero che non ti permette nemmeno di mantenerti in modo di-gnitoso. Mi ferisce infine, soprattutto, perché spesso siamo considerati de-gli insegnanti di serie B. Ma rispetto a chi, e a cosa?

La persona vale per quello che è, e non per ciò che rappresenta: il metrodi giudizio non deve essere tarato sulle opzioni statale o non statale, ma sul-la preparazione, sull’amore per lo studio e sull’umanità che riesco a tra-smettere ai miei alunni. Abbiamo uno stipendio inferiore e, almeno fino a

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tre anni fa, punti dimezzati rispetto agli altri: in questo, e solo in questo,siamo insegnanti di serie B. Ma perché lo Stato non ha organizzato prima iconcorsi abilitanti, evitando così di far arrivare tanti, come me, alle sogliedei quaranta per avere un’abilitazione che, con tutta evidenza, mi ero giàguadagnata sul campo, con oltre quindici anni di esperienza e di fatica? Perottenere finalmente il tanto sospirato pezzo di carta ho dovuto sottopormial giudizio di insegnanti meno competenti di me, che non avevano la piùpallida idea del corso che dovevano tenere e di ciò che mi dovevano inse-gnare. Eppure sono docenti di scuola statale.

Anche la scuola paritaria ha pregi e difetti, ma ciò che m’interessa non èil mio gestore bensì il rapporto con i ragazzi. Infatti, al di là di tutti i luoghicomuni, ciò che rende una persona un bravo insegnante è il saper trasmet-tere i propri sentimenti, le proprie emozioni a chi ha davanti e il saper crea-re un vero rapporto umano con gli alunni. Che non sono oggetti, né pezzidi carta, ma persone.

Qualcuno talvolta mi chiede: “E se ti arrivasse la convocazione per pas-sare di ruolo nello Stato?”. Devo confessare che in realtà l’idea mi spaventa.Rifiutare un posto sicuro, e ricominciare alla mia età tutto da capo, in unambiente nuovo, con colleghi nuovi, rinunciando alla posizione raggiunta?Non so cosa farei.

Forse nella mia vita ho sbagliato a fare alcune scelte, ma alla mia scuola,anche se paritaria, sono affezionata e, a parte lo stipendio, non vedo diffe-renze.

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Ramona Sbigotti

TiPi (TEACHER PRIDE)

Da figlia e nipote di due maestre non volevo fare questo mestiere; nei ma-gici anni Ottanta mi sembrava fosse riduttivo, per di più dipendente statale:la massima onta! Poi, le vie della vita sono infinite e alla tenera età di ventiseianni (le maestrine iniziavano a diciannove) mi sono trovata a fare la primasupplenza. Premetto che fino ad allora rifiutavo tutte le chiamate anche per-ché ero impegnata in altri lavori e non vincevo i concorsi perché non studia-vo. Comunque, in quel giorno del 1992 mi si aprì un mondo: molto megliolavorare a scuola a contatto con i bambini piuttosto che stare otto ore in unufficio con un lavoro a TD (tempo determinato) a lavorare per altri! Chebeffa però… precaria prima e precaria tuttora, dopo tredici anni di onoratoservizio. Eppure ho vinto un concorso e ho svolto lo stesso identico lavorodelle mie colleghe di ruolo – ma come è possibile? – dico io! Eh sì, perché iprecari storici (per chi non lo sapesse) svolgono esattamente le stesse man-sioni dei colleghi di ruolo, senza scatti di anzianità, e ogni anno rischiano dicambiare classe, disciplina, scuola, colleghi…: le combinazioni sono infini-te, ma non sono quelle fortunate del Super Enalotto! Non dimentichiamopoi l’estate, quando si apre la stagione del toto-domande- esistenziali da far-si sotto l’ombrellone:“Cosa farò? dove andrò? quando chiamano?”.Ma sonoproprio queste lamentele che creano quella rara complicità, sconosciuta al-le altre categorie di lavoratori, che culmina nel Giorno delle Nomine per poiterminare quando ognuno “arraffa” la propria Nomina. Ogni precario sache quel giorno sarà lungooo e che il provveditorato, in tutta la lucentezzadel suo squallore, si tramuterà in un grande bivacco dove i pochi uomini(mariti o padri muniti di delega) ammessi a beneficiare di tanto strazio e in-creduli nello scoprire che in un paese tecnologico si usino gomma, matita emegafono per assegnare un posto di lavoro, vorrebbero fare a botte con ilpersonale per la scarsa educazione e la tanta ottusità burocratica.

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Passato questo squallido “quarto d’ora”che si ripete ogni anno – sempremeglio che essere buttata giù dal letto dalla telefonata delle 7.30 come aivecchi tempi – si ricomincia, però tutte le volte io non vedo l’ora. Forse avròscarsa autostima, ma dentro di me mi sento importante e chissenefrega se“socialmente” o “economicamente” non ho riconoscimenti. Il riconosci-mento lo trovo nel rapporto umano, fondamento del nostro lavoro, ed èquesto che rende la nostra professione più “arricchente” e più motivante ditante altre, a volte anche pericolosa, lo ammetto!

Aver “girato” tante scuole (pubbliche, private a metodo pedagogico, “arischio”, di campagna, di città) mi ha insegnato a non aver paura di even-tuali difficoltà professionali. Anche quando le cose vanno male e a fine an-no tiro le somme, scopro sempre di aver imparato qualcosa su di me e suglialtri e a volte i “premi” sono le belle amicizie che nascono, non solo con al-cune colleghe, ma anche con alunni e genitori.

La nostra è una categoria di “lamentini”e ne abbiamo tutte le sacrosanteragioni, ma pensate che quando entreremo di ruolo tutto sarà finito? Illusi!Però se svolgiamo il nostro lavoro con maggior consapevolezza e orgoglioriusciremo a ottenere più attenzione e rispetto da chi ci considera… lavati-vi, rubastipendio, quattro mesi di ferie l’anno, statali… e allooora? Non TD,ma T.P. ovvero “Teacher Pride!”.

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Barbara Fetonte*

PUNTI? NO, GRAZIE!

– No, grazie! Non faccio la raccolta punti!E lo dico al benzinaio, alla cassiera dell’ipermercato, al lattaio.– Basta! Io con i punti non ci voglio più avere nulla a che fare!– Ma perché? Ci sono tante offerte!– No, ho detto di no.– Ma perché, scusi, se non sono insolente…– Per il lavoro che faccio. Perché vorrei essere un’insegnante e ne ho già

abbastanza dei miei di punti da raccogliere, ché da qualche anno se nonraccogli punti, non insegni. Quindi i vostri, di punti, non mi servono, a me-no che non cambi la legge.

“Ciao, Teaschà!”, è quello che mi aspetta la mattina, quando scendo dal-la macchina.

La collega di inglese (insegno, quest’anno, in un liceo scientifico) rima-ne sempre un po’ perplessa, perché io, docente di lettere, sono salutata così,in un inglese un po’ maccheronico.

Però mi fa bene, e rispondo subito con un sorriso.

Maggio 1997.Sono in un fumoso, polveroso ufficio che collabora con il Tribunale penale

di Roma, circondata da tante cicche di sigarette, pile di fascicoli che racchiu-dono polvere e tante storie tristi, di gente comune. Abbiamo i contratti an-nuali con il tribunale per informatizzare le udienze. Siamo una cooperativa eio sono socia, da due anni faccio parte del consiglio di amministrazione.

Mi telefona mia madre:– Ero in casa, per fortuna. Ti ha cercato la segretaria del liceo scientifico

di Monterotondo, quello statale, perché hanno una supplenza. Devi richia-mare subito, questo è il numero, sennò passano a quella sotto…

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– Ma una supplenza per me? Ma hai capito bene? Sei sicura?– E senti, no?Sono laureata da tre anni e qualche giorno, non ho ancora vent’otto an-

ni; ho fatto gli esami universitari in tre anni (il corso di laurea non ancorariformato, quello di venti esami orali e sette esami scritti) e ne ho “buttati”tre per redigere una tesi di laurea che mi ha aiutato per il 110 e lode, ma chepoi non era servita più a niente. Sono finita a essere perito trascrittore, pra-ticamente una consulente del tribunale. I soldi li fai a seconda del numerodi pagine che trascrivi: siamo dei cottimisti; ti pagano ogni tre, quattro me-si se tutto va bene.

– E che gli racconto io agli studenti?Comunque mi presento: si tratta di una breve malattia, sedici giorni, che

condivido con quella che è “in graduatoria più in alto di me”, perché lei “stagià su un altro spezzone”, in una scuola a trenta chilometri dal liceo dovesiamo ora, quindi mi lascia la metà della “cattedra”: otto ore per sedici gior-ni. Apprendo subito così quello che è un gergo scolastico del tutto nuovo,precariale direi, quello di “stare su degli spezzoni, perché più lavori, più ac-cumuli punti”…

Al Provveditorato agli Studi mi ero inscritta in graduatoria subito dopola laurea, per una botta di fortuna unica (se credessi al destino direi che tut-to è scritto…), in quanto era stata data l’ultima possibilità di iscrizione nelmaggio del 1994, dopo più nulla, e poi era un passo dovuto: il mio sogno dibambina (quei giochi che si fanno a sette-otto anni, o almeno si facevano: ibambini di oggi – o i genitori di oggi, quelli nati a pane e riviste, o trattati dipsicologia infantile, e soprattutto TELEVISIONE, non giocano con i pro-pri figli – a volte reputano cretini quei giochi) il sogno di bambina, si dice-va, era di insegnare; quello di adolescente essere giornalista; poi invece piùdel sogno poté la necessità di essere indipendente dalla famiglia sin davent’anni, ma con la ferma volontà di laurearmi (perché io credevo e anco-ra credo nello studio, nel sapere, nel dover conoscere per essere un indivi-duo e non un pupazzo). Insomma nel mio piccolo, ma molto piccolo, gra-

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zie anche a papà che è un artigiano e a mamma che andava al mercato e miha insegnato a comprare le mele più economiche, sono una self-made wo-man, che nel maggio del 1994 aveva timidamente riempito un sempliceelenco in cui si chiedeva in cosa era laureata, quali esami aveva sostenuto, ilvoto finale, se avesse prestato servizio presso un’istituzione scolastica. Poiavevo ricevuto a casa la conferma di essere iscritta in graduatoria per even-tuali supplenze con 39 punti. Seguirono trenta raccomandate mandate atrenta, allora, presidi di scuole medie inferiori e superiori del Lazio. Quin-di il silenzio assoluto fino a oggi: alle supplenze non ci penso proprio più,tanto meno alla scuola.

Chiedo scusa quindi a quei ragazzi di quarta liceo, che sono stati le mieprime “cavie”: ricordo ancora di essere entrata in classe col terrore. “Checosa dico? Che faccio?”. È stato l’esame più difficile della mia vita: cinquan-ta occhi addosso che aspettano… Nei manuali, nei vari testi non ci sono leistruzioni per l’uso, non esiste nessuno che ti dice: “Fa’ così”. Ho preso co-raggio, ho preso il loro manuale di letteratura italiana e il mio vecchio ma-nuale del liceo, ho preso il numero di telefono della collega e l’ho chiamata:in sedici giorni puoi sentire telefonicamente la collega che supplisci una so-la volta; lei, un po’ scocciata, ti potrà dire: “Segui questo, approfondisciquest’altro… Ma, mi raccomando! Non andare avanti!”. E così abbiamo ri-passato, abbiamo approfondito insieme e i sedici giorni sono volati via. A28 anni mi sono trovata gomito a gomito a studiare, non a insegnare, ma adapprendere accanto a quei diciassettenni. Vi chiedo dunque scusa, non ri-cordo neanche bene il vostro nome, ma siete stati unici e fondamentali.

Poi sono tornata a essere trascrittrice. Per un’estate intera e un mese.Alla fine di ottobre altra telefonata: una scuola a cinquanta chilometri da

casa; una “cattedra” non più per soli sedici giorni, ma una sostituzione permalattia. La prima settimana la mattina andavo a scuola e il pomeriggio,difilato, in ufficio, fino a tarda sera. La notte in bianco, per studiare, prepa-rare le lezioni: ma così non poteva andare. Questa volta erano in ventisette,una seconda liceo, e il biennio è fondamentale per la formazione del ragaz-

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zo: è qui che deve capire che cosa fare della sua vita, visto che non lo com-prende a tredici anni. Che senso aveva entrare in classe e non sapere cosa fa-re? Oppure fare tutto tanto per farlo, ovvero farlo male. I ragazzi non sonoscemi: non ti stanno a sentire se capiscono che non hai niente da dire. At-tenzione, però: non ti stanno a sentire anche se sanno che hai tanto da dire,ma non ci riesci. Non riesci cioè a instaurare con loro un rapporto di “em-patia”, un feeling. Infatti di una cosa sono certa: la scuola non è improvvisa-zione; il lavoro del docente non è equiparabile a quello di una baby-sitter(con tutto il rispetto, non voglio offendere nessuno, dopo il liceo per qual-che tempo anch’io sono stata baby-sitter); quando si entra in classe queicinquantaquattro occhi sono dei giudici severi, non criticano tanto la tualezione, quanto chi sei, che cosa ti autorizza a essere “loro insegnante”, checosa hai da insegnare tu.

Insomma, moralmente il mio senso del dovere mi imponeva una scelta:o la “carriera” scolastica o quella del trascrittore. Sono state notti in bianco,perché sapevo che da una parte c’era un lavoro, quello del trascrittore, che,sebbene “di collaborazione”, tuttavia era quasi certo (i miei ex colleghi, ca-rissimi, sono ancora là) ed economicamente soddisfacente (mi piace que-sto lessico social-burocratico). Se poi entri nel meccanismo dei quattromesi, il compenso alla fine arriva e, valendo la proporzione: numero dellepagine = stipendio, erano sempre belle cifre “tonde”. Dall’altra parte si trat-tava invece di intraprendere il mestiere del “prof”, stavolta veramente pre-cario, perché legato a una telefonata che a volte non arriva mai, coltivandola speranza crudele di qualche malattia (mai troppo lunga, per il collega,però!) che colpisca chi “è più sopra di te”o gli eletti “in ruolo”(meglio sem-mai una maternità, almeno stanno bene tutti e la società cresce!). E con unostipendio – quando arriva e se arriva – che ti permette di vivere decente-mente, non in maniera soddisfacente; ti permette giusto di pagare un mu-tuo; di comprarti i libri per auto-aggiornarti (e poi abbelliscono la casa, edè snob farsi ritrarre davanti a una bella libreria); uno stipendio che puòconcederti ogni tanto una breve vacanza nei mari tropicali, ovviamente

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con il sacco a pelo. Sennò puoi sempre spacciarti per guida, mettere così afrutto gli studi artistici fatti e le due lingue straniere: conoscendo un’agen-zia che ti incarica di accompagnare un gruppo, è possibile avere perfinosoggiorni gratuiti nelle principali capitali europee, e nei migliori alberghi.

Ma sì, si poteva fare, e così ho scelto la scuola. Nonostante le leggi checambiano continuamente, nonostante le regole vengano stabilite, eluse, ri-spettate o ingannate, sono contenta di questa mia scelta. Non avrò più tan-te borse griffate, ma ringrazio tutti i “miei” ragazzi, le “mie classi” perchéancora oggi, a distanza di anni, mi scrivono, mi mandano un’e-mail o un“messaggino”e mi ricordano che ho insegnato loro, al di là di tante altre co-se, a portare del rispetto. E questi sono stati gli alunni della supplente, diquella che arrivava in sostituzione di Tizio e di Caio, che a volte non venivaneanche salutata in sala professori, che i bidelli qualche volta sgridavanoperché pensavano che fosse un’alunna in sala professori, quella che non eraneanche “precaria”, ma solo in sostituzione di…

L’anno della grande svolta: novembre 1999.L’ho detto, lo credo e lo ribadisco: sono fortunata. Il mio percorso di

supplente è stato relativamente breve: solo due anni appesa al telefono econ la fortuna di ricevere, lo stesso giorno in cui finivo la supplenza in unistituto, la telefonata per un nuovo incarico in un’altra scuola. Ho comun-que, in diciotto mesi, viaggiato per tutta la provincia di Roma: le mie cono-scenze in geografia si sono potenziate notevolmente. Meglio così.

Poi la grande svolta: durante un incarico del preside in una scuola mediaa 800 m (ma non è comune di montagna, in quanto sede succursale o di-staccata della centrale, che invece è a soli 500 m: perché anche i comuniadesso danno punti in base all’altitudine), apprendo che sono convocata inprovveditorato per il conferimento di un incarico a tempo determinato,ma annuale: in un lessico meno “burocratese”, insomma, per una supplen-za annuale. Che frenesia! Che timore! Che paura! Che orgoglio! E forse an-che che presunzione! Avere l’incarico del provveditorato significa passare

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dal gradino supplenti al gradino precari! Significa avere delle “classi” tuttemie! Nel caso specifico una prima, una quarta e una quinta. Il 15 novembre1999, alle 16.30 circa del pomeriggio, dopo un’attesa di quasi sette ore inpiedi in un corridoio labirintico, la funzionaria mi faceva firmare il mioprimo contratto a tempo determinato con il ministero dell’allora Pubblicaistruzione. Destinazione: 70 Km da casa, ma il contratto era fino al 31 ago-sto. È stato il primo anno in cui ho sentito tutta la responsabilità di avere ilpeso di una programmazione, di dover gestire le classi, di essere tenuta apreparare in modo dovuto la classe d’esame.

Il 1999 è stato poi, diciamo, un anno di fuoco.In ordine: i primi di settembre avevo sostenuto l’esame di selezione per

la neonata Ssis (che non è l’abbreviazione di Schützen Italianischer Staffeln,ma l’abbreviazione di Scuola di specializzazione all’insegnamento secon-dario). L’ordine delle SS non lo ricordo con sicurezza, ma gli addetti ai la-vori sanno di cosa sto parlando. Il corso era a numero limitato: all’univer-sità Roma Tre i posti erano trentacinque per italiano e latino, concorreva-mo solamente in settecentocinquanta. L’esame si tenne nelle aule di letterealla Sapienza. La prova era degna dei quiz televisivi: dietro i fogli si celavaun sig. Scotti oppure un sig.Amadeus che ci somministravano le domande.Comunque riesco a essere ammessa tra i primi trentacinque. A novembreprendo l’incarico, le lezioni ancora non si tenevano: anche lì erano uscitesolo le graduatorie. Ora che ci penso, la mia vita è una perenne graduatoria,fatta di punti e punti e punti… In contemporanea, alla fine di ottobre, il fuministero della Pubblica istruzione emana l’ordinanza ministeriale per icorsi abilitanti riservati a coloro che avevano 365 giorni di servizio a parti-re da una determinata data. Da lì a pochi giorni viene indetto anche il con-corso a cattedre ordinario (lo si aspettava dal 1990, l’anno dei famosi mon-diali). Che faccio? Non sono una e trina (nonostante a volte me lo dimenti-chi): devo decidere. Iniziano richieste e domande a provveditorato, segre-teria scolastica, associazioni, sindacati (tutti, di tutte le bandiere e colori),

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per avere un’indicazione su cosa convenisse fare. La risposta era sempre lastessa e perentoria: la legge parla chiaro, prima entreranno in ruolo coloroche hanno l’abilitazione per concorso, quindi in un’equa percentuale, colo-ro che si abilitano per corso, e dopo, solo dopo, i sissini.

Nell’anno scolastico 1999-2000 mi sono beccata una gastrite con i fioc-chi. Su consiglio dei sopraccitati organi avevo deciso di abbandonare la Ssisper dedicarmi completamente al corso abilitante e al concorso.

Da gennaio la mia vita è stata la seguente:ore 5.00: sveglia. Ore 5.40: uscita di casa (lo so, sono lenta a prepararmi).

Ore 5.45: trenino fino a Tiburtina, poi metro fino a Termini; ore 7.00: treno“finale”. Ore 8.05 circa arrivo a destinazione, un chilometro e mezzo a pie-di fino a scuola: non esistono navette. Però risparmio in palestre e centriestetici: la mia linea e la mia schiena ne guadagnano, nonché ho raggiuntobuoni record di marcia, però non cammino come le modelle. Ore 8.20: inclasse. Al rientro: 13.10: uscita da scuola; 13.35: treno di ritorno (possoprenderla comoda e mangiare un panino); 14.45: arrivo a Termini, autobusche mi porta al liceo classico dove seguo il corso abilitante fino alle 19.00. Ilmercoledì è da nababbi perché non devo andare a scuola: ho il giorno libe-ro. Sempre lo stesso ritmo, dal lunedì al venerdì, da gennaio a maggio. Iltreno è diventato la mia casa. Però è stato bello, edificante: sul treno che ar-rivava a scuola eravamo “una carrozza” di precari, tutti impegnati con icorsi abilitanti seguiti nei vari istituti di Roma, tutti impegnati con il con-corso, tutti che studiavano, preparavano lezioni, moduli didattici, esercizi ecorreggevano compiti. Eravamo una scuola: nel senso che c’erano inse-gnanti precari dalle elementari alle medie, fino ai diversi gradi delle supe-riori, di tutte le discipline, che poi si scambiavano notizie, informazioni,leggi e quant’altro. Il pomeriggio invece si era insieme ad altri insegnantiprecari, questa volta della stessa disciplina ma provenienti da istituti diver-si. Nel gruppo ero la più piccola, quella che quando parlava aveva semprepaura, perché i “grandi” (e c’erano colleghi dell’età di mia madre) mi guar-davano con occhio benevolo e compassionevole. Sotto sotto si leggeva:

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“Povera scema, ancora ci credi!”. La famiglia, la vita privata, per cinque me-si non è più esistita: il sabato pomeriggio e la domenica si studiava, si face-vano i compiti del corso, si preparavano le lezioni, si correggevano i compi-ti degli alunni. Ma è stata un’esperienza, oltre che didattica, soprattuttoumana irripetibile: ho imparato a confrontarmi con gli altri; ho imparatoche la lezione è qualcosa che va continuamente ritoccata, rivista, migliora-ta, adeguata alle aspettative (in gergo ai prerequisiti) dei ragazzi, che perònon sono mai nostri clienti, sebbene abbiano un ruolo centrale nell’inse-gnamento. Dal 1999 ho avuto ben cinque classi quinte, ancora oggi insegnoa ragazzi di quinta liceo, ma nessuna programmazione è stata mai adegua-ta e “riciclata” interamente di classe in classe. Dall’esperienza del 1999 sononati vincoli di amicizia, non di semplice colleganza, indissolubili. Ho capi-to che, a differenza di altri lavori, nel mestiere di insegnante non c’è spazioper stupide ed egoistiche rivalità: in primo luogo, queste danneggiano soloed esclusivamente i ragazzi (e secondo me, il nostro è un lavoro che può fa-re tantissimi danni, al pari di un chirurgo che compie un’artroscopia al me-nisco sinistro anziché destro); in secondo luogo perché non si può pensaredi creare una scuola con alcuni superprofessori e il resto amebe (alcuni dinoi potranno essere più dinamici, altri più stimolanti, altri più dotti ma ti-midi). Se i colleghi collaborano, costruiscono insieme, spalancano le portedelle aule, nascono progetti superbi, stimolanti per gli alunni ma anche pernoi insegnanti, che così, alla faccia di ogni età cronologica e biologica, noninvecchiamo mai.

Contemporaneamente alla frequentazione del corso, al termine del qua-le ho sostenuto un esame scritto e un esame orale, studiavo per il concorsoa cattedre. Il giorno di Capodanno del 2000, l’inizio del Millennio, l’ho tra-scorso a riguardare Pascoli: lo so, è da folle, ma le “follie”di piazza notturnenon mi avevano distolto dai miei doveri; così mentre gli altri dormivano, ioho “tirato su” il libro di letteratura italiana. Ma non sono stata la sola: tor-nata a scuola dopo le vacanze di Natale, una collega, la più carina, simpati-ca ed elegante del corpo docenti, quella sempre “perfetta”col capello in pie-

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ga, le scarpe e la borsa abbinate, mi ha confessato che il giorno dell’Epifaniaera scoppiata a piangere davanti a una pila di panni da stirare, il figlio chereclamava il “suo” giorno della Befana, e lei che non ricordava più nulla diGalileo Galilei. L’urlo fu:“Questo significa avere quarant’anni?”.

Comunque anche il concorso ordinario è un ricordo, sterile,negativo,masuperato. Ormai, dunque, i benpensanti direbbero:“Si è arrivati alla meta!”.

La calda estate del 2002.E invece no. Forse perché tutti noi siamo mossi da un’instancabile neces-

sità di dover cambiare, forse perché anche noi insegnanti diciamo sempreai nostri alunni che non è bello ripetere le storie con lo stesso schema, forseperché i nostri politici sono stati influenzati abbondantemente dal gioconazional-popolare del calcio, comunque nel luglio del 2002 tutte le regolein corso vengono sovvertite.

Innanzitutto, sono state unite tutte le famose fasce che prima ci mar-chiavano; poi ai sissini sono stati dati dei punti, anzi, siccome avevano fattola Ssis, dovevano passare davanti a tutti; poi sono stati dati dei bonus deipunti; quindi chi aveva superato il concorso ordinario era come se non loavesse fatto… Dal 23 giugno, pubblicazione delle prime graduatorie, è ini-ziato un calvario di punti, contropunti, bonus, contentini e punizioni che cihanno completamente tolto l’identità. Perfetto, si tratta di un’azione per ri-mettere a posto le carte. D’accordo, intanto però i primi a subirne le conse-guenze sono stati i ragazzi. Ad esempio, la sottoscritta che, pur di assicura-re la continuità didattica, era pronta a sobbarcarsi tutti i giorni i famosi 70Km da casa (amo le sane abitudini, e poi, l’ho già detto, sono folle per natu-ra), si è vista “soffiare” le sue classi da una sissina, risultata in seguito perso-na deliziosa e rispettabilissima (anche loro sono esseri umani), più giovanedi me (a trentatre anni ormai si è vecchi!). Così questi ragazzi, che dal pri-mo liceo al terzo avevano avuto una stessa insegnante di italiano e latino,adesso cambiavano. Il primo giorno di scuola penso che la mia collega ab-bia avuto vita difficile. E io? L’ho già detto che sono fortunata. Dunque, in

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primis ero l’ultima della convocazione dell’ormai Csa (sembra l’abbrevia-zione anagrammata della parola Castello, di kafkiana memoria, invece è lasigla che indica il Centro servizi amministrativi, già provveditorato, chesulla carta non esiste più, ma personaggi e luoghi, vi giuro, sono gli stessi!Insomma, mi firmano il contratto per uno spezzone di orario, l’ultimo adisposizione ma, mentre sto per far scorrere la penna sul foglio, la funzio-naria mi strappa il contratto perché è stata ritrovata la delega di una colle-ga prima di me in graduatoria, che aveva un punto in più! Sfido chiunque aprovare una simile sensazione: vedere il proprio contratto fatto a pezzi e sa-pere che non ci sono più cattedre né spezzoni di orario. Ringrazio ancoraAndrea, che mi ha offerto un caffè unico al mondo: forse tu non te ne rendiconto, ma in quel momento era la mia ombra quella che camminava e tumi hai richiamata in vita. Ho iniziato per un mese, quindi, a risponderenuovamente alle chiamate dei dirigenti scolastici (fu presidi): poi la stessafunzionaria del Csa mi ha convocato per una cattedra intera (ho detto chesono fortunata) lasciata libera da una collega di ruolo in Calabria che, nel-lo stesso anno, aveva chiesto il trasferimento dalla Calabria al Lazio, quindidalle medie alle superiori, dalle superiori all’Inps. E lo aveva ottenuto il die-ci ottobre. E io avevo quella cattedra, secondo me miracolata, in una scuo-la a dieci minuti da casa.

Quindi per un anno scolastico ho avuto tutto il tempo di saziare la miainstancabile voglia di adattare, trasformare, ricreare tutto quanto già fatto,di sperimentare nuovi metodi didattici, di guardarmi intorno per ap-profondire. Da lontano sono però rimasta in contatto con i “vecchi” colle-ghi lasciati nella “mia” scuola. La lontananza è stata edificante: ci siamomessi a tavolino e abbiamo pianificato un progetto grandioso, superbo, an-che se stancante, cioè quello di costruire un nostro manuale di letteraturaitaliana, usando il magnifico potenziale di Internet. All’inizio è stata unascommessa anche con noi stessi: abbiamo sistemato i nostri appunti, ab-biamo riordinato e scambiato quanto pronto per le classi e abbiamo reso il

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tutto fruibile per i ragazzi perché pubblicato su un sito completamente gra-tuito, il dominio è nostro, della rete. È cominciata così una collaborazionestimolante, vivace, frizzante e viva con due colleghi, uno di ruolo e l’altroprecario, che sono dei “mastini” (è un complimento!) e che insegnano tan-to. Il “capo”, poi, è veramente“uno tosto”, come direbbero i ragazzi. Nel pro-getto avevo comunque investito tutto l’ottimismo che ho nei confronti de-gli altri colleghi: ma pochissimi hanno risposto all’iniziativa, forse per pi-grizia, forse per paura. Noi però continuiamo, anche se, come dice il “capo”,dovessimo metterci trent’anni. Anche se questo non dà punti.

Febbraio 2005.Sono passati otto anni. Mi sembra ieri che ho iniziato a insegnare, cioè

ad apprendere. Perché, non so se si è capito, io a scuola ci vado soprattuttoper apprendere, al massimo trasmetto dei contenuti. È appena stato vara-to il decreto sullo stato giuridico degli insegnanti, si è appena detto che iprecari storici passeranno tutti di ruolo. Rileggendo la bozza del decreto,mi rendo conto, però, che forse non avevo letto attentamente: pare che ionon vada bene, ho trentasei anni, sono laureata da oltre dieci, abilitata concorso e concorso, sto perfino facendo un corso per acquisire punti a miespese (e non è rimborsabile. In più, a tutto gennaio 2005, il ministero nonmi ha ancora pagato gli stipendi da settembre in avanti, non so perché: ascuola ci sono andata). È vero: non ho fatto la Ssis, non mi sono laureatacon il sistema dei 3+2 (che non è il coro di Nora Orlandi, ma le lauree delnuovo ordinamento universitario). Quindi appartengo a una categoria arischio, di quelle che (me lo ha sussurrato un sottosegretario del Palazzo,incontrato per sbaglio in uno dei tanti corridoi) sarebbe meglio non esi-stessero, e siccome ci sono, andrebbero eliminate. Un altro onorevole, in-contrato fuori Montecitorio in occasione dei numerosi sit-in, mi ha detto:“Ma perché non andate all’estero? C’è più spazio per i giovani”. Ma l’Italiaè la mia Patria. Così, probabilmente il prossimo anno mi iscriverò nuova-mente all’università. Dopo laurea, abilitazione, concorso ordinario, altri

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due anni universitari. Vi sembra giusto? Per non scomparire, per accapar-rare altri punti.

Alcuni dei miei amici, a quasi quarant’anni, sono professionisti afferma-ti e a volte mi chiedono:“Ma perché non cambi?”. Perché sono comoda? Vi-gliacca? Abitudinaria? No, perché fin quando ancora mi saluteranno dicen-do:“Ciao, Teachà!”e qualche ragazzo mi dirà che Matrix, il primo, è un filmintelligente in quanto viene citato ma anche rielaborato il sistema classicodei personaggi; fin quando qualcuno mi dirà che ha letto Il circolo di Dantee ci ha trovato un sacco di anacronismi, baggianate ecc.; fin quando uno so-lo mi dirà che ha capito in cosa si differenzia ne da né e come si usa, io misentirò felice e realizzata. Alla faccia di tutti quelli che pensano che la scuo-la sia solo un’officina di frustrati e depressi: io a scuola mi diverto, anche sela stanno trasformando in un supermercato dove si devono raccoglierepunti. Mi aspetto da un momento all’altro la scheda magnetica che neinformatizzi la raccolta.

E spero sempre che qualcuno ci ripensi, che capisca che non è scatenan-do lotte tra poveri, spaccando un sistema, che la soluzione migliore viene agalla. Tacito ci ha insegnato che è giusto confrontarci con gli altri popoli,per mettere in luce le nostre debolezze; lo studio dei costumi dei “barbari”può rivelare i segni della nostra decadenza: ma questa stessa analisi è l’im-plicita ammissione della forza di una cultura.

Per anni, il nostro sistema è stato vincente: non è un caso che l’Italia ab-bia esportato “menti”. Ripartiamo dunque dai nostri punti di forza e noncopiamo semplicemente modelli che ci vendono come vincenti.

E per favore, basta con queste raccolte punti!

* Barbara Fetonte, perché credo che nomina consequentia rerum sunt. Mi chia-mo Barbara di secondo nome, e amo profondamente Tacito. Fetonte, in quanto è ilcognome di tutti noi precari. Il poverino, in crisi d’identità, ambisce al potere delpadre, a volare in alto, a sovvertire il corso naturale delle cose. Noi invece siamo co-

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stretti a subire i cambiamenti di corso del carro solare, che qualcuno dispone pernoi, con tutti i disastri che ne derivano. Adesso dovremo solo vedere se il buonGiove ci fulminerà o ci grazierà!

A tutti i miei ragazzi: da quelli senza nome a quelli che non dimenticherò maiper le grandi lezioni di vita che mi hanno sempre dato e che ho incontrato a:

Archimede,Aristofane, a Ciampino, a Colleferro, a Monteflavio, a Monteroton-do, a Morlupo, al Nomentano, a Pomezia, all’Orazio, a Ostia, a Tivoli e a Velletri.

Grazie ancora al prof. Ciro Oliviero Gravier, che tante cose mi ha insegnato, no-nostante il suo burbero cipiglio.

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Licia Iuorio

ANGELI SU ROMA

Vedevo il mio volto riflesso nel vetro del treno che viaggiava veloce versola capitale. Il volto appariva nitido per la splendida giornata illuminata dalsole nonostante fosse inverno. Le campagne erano illuminate, il cielo eraterso, ma i miei occhi in realtà non focalizzavano quanto vedevano. La miamente andava oltre e pensava che presto sarei giunta a Roma dove miaspettava una cara collega, con la quale da tempo condividevo lunghe te-lefonate e un fitto scambio di posta. Se qualcuno mi avesse detto solo unanno prima cosa mi aspettava, non gli avrei creduto. Eppure era propriocosì, la mia vita era profondamente cambiata. Tutto è cominciato dallamorte di mio padre che se n’era andato con un profondo dolore, sapevo checon la sua morte mi sarei trovata in difficoltà in quanto non avevo lavorostabile. Prima di morire ricordo che mi aveva indicato un cassetto della suacamera. Non capivo cosa volesse dirmi, ma con le sue deboli forze mi face-va segno di aprirlo e di prendere una vecchia busta gialla. C’erano dei ri-sparmi, ricordo che mi disse: “Prendili, ti serviranno”. Di lì a poco se neandò con un sorriso sulle labbra. Mio padre era stato per lunghi anni al ser-vizio del ministero della Pubblica istruzione, mi aveva spinto a prendereuna laurea in lettere perché credeva nella scuola e nel sistema, era convintoche con la preparazione che mi aveva offerto, pagandola caramente, sareiriuscita ad avere un lavoro decoroso e soprattutto a sistemarmi. Purtropponon è andata così. Tutto precipitò l’estate del 2001, quando il ministro, ap-pena insediato a viale Trastevere, fece precise scelte che di lì a poco avreb-bero connotato il suo dicastero come uno dei peggiori della storia dellapubblica istruzione. Da quell’estate del 2001 i docenti precari hanno co-minciato a subire ingiustizie a catena che nel giro di pochi anni ci hannogettato in uno stato di totale incertezza e assoluta precarietà. Ogni leggestravolta, calpestati e lesi i diritti acquisiti. Sono in un certo senso contenta

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che mio padre non sia qui a vedere quanto sta succedendo a danno mio e dimigliaia di colleghi nella mia stessa situazione. Nel contempo, cambiata to-talmente la mia situazione, e riavutami in parte dalla disgrazia che mi ave-va colpito come un fulmine a ciel sereno, capii che dovevo fare qualche co-sa. Non potevo più stare in un angolo ad aspettare che la Fortuna mi pio-vesse dal cielo. Cominciai a leggere e a informarmi, cominciai a prenderedei primi contatti via Internet con altri colleghi della mia stessa provincia.Fu così che un giorno, non ricordo più esattamente quando, perché misembra di conoscerla da sempre, conobbi credo telefonicamente la collegaAngela, la chiamerò così, della provincia di Roma. Parlava con precisione elucidità, aveva ben in mente le cose, sapeva nomi e faceva riferimento a do-cumenti legislativi. Ne sapeva ovviamente molto più di me e di molti altricolleghi che si definivano esperti. Cercai di seguire con attenzione quantomi diceva e, messa giù la cornetta, cominciai a fare mente locale sulla situa-zione e su quanto mi aveva suggerito. Cominciai a leggere, a studiare le leg-gi e a capire a poco poco in quale grave situazione noi docenti precari citrovassimo. Da allora il rapporto con Angela si è rafforzato sempre più. Te-lefonate e scambi di mail quasi quotidiani fino a quando, anche su suo in-vito, non cominciai a viaggiare da Milano a Roma con una certa frequenza,aiutata anche economicamente da un gruppo di colleghi di Milano che,unitisi e me nella lotta contro le ingiustizie perpetrate a danno dei precari,mi aiutano affinché io possa muovermi con una certa facilità. “Scusi, si-gnora, sa quanto manca per arrivare a Termini?”. Una signora sulla cin-quantina mi distolse dai miei pensieri. Le risposi che non eravamo moltolontani. Cominciai a guardare fuori dal finestrino, eh sì, eravamo in prossi-mità. Cominciai a pensare alla manifestazione organizzata nella capitalesulla pubblica amministrazione. Ebbi un dolore al petto. Mi capita spessoquando sono preoccupata e agitata. Era un giorno importante, scendeva-mo tutti in piazza per difendere i nostri diritti. Ma ecco che il treno comin-ciò a rallentare la corsa, stavamo per entrare nella stazione. Presto mi sareiunita ad Angela e a tutti gli altri colleghi, tutti insieme per difendere il no-

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stro lavoro, per difendere una scuola pubblica dagli attacchi di coloro che lavogliono smantellare a favore della privatizzazione, dagli attacchi di coloroche non vogliono difendere una scuola di qualità, dagli attacchi di coloroche non vogliono garantire alle prossime generazioni una preparazioneadeguata.

So che quello che sto facendo è giusto, e serve per difendere la nostra di-gnità di lavoratori corretti e onesti.

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Marat Liniri

NODO ALLA GOLA

Oggi sono tornata a casa da scuola con una gran voglia di piangere perchéuna mia alunna ha lasciato la scuola. Era probabilmente una delle peggioridal punto di vista della disciplina, una che mi sfidava sempre fra bigliettiniall’amica, maquillage, cellulare e lettore cd portatile. Una ragazzina piccola egracile ma dai nervi d’acciaio. Si è iscritta a una specie di diplomificio inuti-le e costoso, dove sarà parcheggiata per i prossimi quattro anni, probabil-mente ottenendo buoni voti con grande soddisfazione della sua famiglia.

Oggi sono tornata a casa da scuola con una gran voglia di piangere per-ché sempre di più mi sento inadeguata, e questo senso di inadeguatezzanon mi fa rendere al massimo. Perché penso che appena riesco a farmi ca-pire dagli studenti, appena io riesco a capire loro, me ne devo andare, versoaltri studenti, diffidenti e seccati per il continuo cambio di insegnante, perl’incessante scorrere delle facce e dei metodi.

Oggi sono tornata a casa da scuola con una gran voglia di piangere, per-ché capire di non poter svolgere al meglio il mio lavoro mi fa stare male fi-sicamente. Perché vedo generazioni di ragazzi lasciati crescere fra una tele-novela e un reality show, senza una figura di riferimento forte che si pongaanche contro e oltre questi falsi miti. Quando provo a essere anche questoper i miei studenti faccio la figura di Don Chisciotte. Un ridicolo e penosoeroe di altri tempi, che forse rimane nel cuore, ma che presto si dimentica.

Oggi sono tornata a casa da scuola con una gran voglia di piangere per-ché spesso vedo che la loro maleducazione è una difesa che però mi ferisce.Perché spesso, quando poi conosco i genitori, penso che sono anche troppoeducati e intelligenti questi figli lasciati a sé stessi in un contesto deprivatodi stimoli e di originalità.

Oggi sono tornata a casa da scuola con una gran voglia di piangere per-ché spesso perdo di vista le persone, nello sforzo di fare del mio meglio in

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condizioni disagiate, smarrisco l’individualità che poi mi si ripropone peròcon violenza: chi è orfano; chi ha in famiglia situazioni al limite dell’indi-genza; chi è maltrattato; chi è trascurato; chi soffre per il suo corpo checambia; chi è svantaggiato. E questi vissuti a un certo punto mi investono,mi colpiscono, e non posso evitarli né tanto meno porvi rimedio e devoquindi subirli, con tutto il carico di dolore che comportano.

Oggi sono tornata a casa da scuola con una gran voglia di piangere per-ché l’indifferenza dei colleghi mi fa male ma nello stesso tempo la capisco.Persone con trent’anni di servizio che non anelano altro che alla pensioneperché si sentono frustrati, bistrattati e offesi.

Oggi sono tornata a casa da scuola con una gran voglia di piangere per-ché i dirigenti sono “più realisti del re” e fanno della scuola un ufficio pub-blico. Perché non cercano di creare un ambiente stimolante che aiuti tutti acrescere, ma ci sommergono di carte e di quelle carte si fanno scudo.

Oggi sono tornata a casa da scuola con una gran voglia di piangere.E ho pianto.

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Tanita Sonetto

CIAO CLAUDIA

Eravamo in tanti, quella mattina, a piazza Montecitorio. E faceva tantocaldo alla fine di luglio. Qualcuno di noi era vestito di bianco, perché si erasparsa la voce che dovevamo presentarci vestiti di bianco per lastricare lapiazza e farci “moralmente” calpestare da chi faceva le leggi.

Eravamo in tanti che ci conoscevamo, che ci salutavamo mossi da unafrenesia mai provata, da una paura forse del tutto nuova, poiché eravamoveramente tanti e non ci eravamo mai contati.

Alcuni si erano riuniti in piccoli gruppi, altri erano muniti di fischietti,qualcuno aveva portato un megafono.

E poi c’erano i giornalisti e tutti che raccontavano, raccontavano… sem-bravamo gli italiani all’indomani della seconda guerra mondiale, quelli cheCalvino ci dice che volevano raccontare perché un’esperienza così non l’a-vevano mai fatta. Noi invece volevamo raccontare la nostra esperienza quo-tidiana, quella che tutte le estati facciamo al Csa per le convocazioni; quellache tutto l’anno, da settembre a maggio, facciamo davanti al telefono; quel-la dei punteggi, delle domande perdute; volevamo urlare soprattutto, affin-ché tutti sapessero la nostra paura di venir cancellati, di venir spazzati via, lanostra disperazione di vedere buttati al vento anni di studio e di lavoro.

Non eravamo solo insegnanti: c’erano anche bambini, i nostri figli; c’e-rano padri e madri, che ci hanno sostenuto e continuano, con la loro pen-sione, a contribuire al reddito che non c’è dei propri figli, laureati sì, ma conun lavoro precario; c’erano tanti stranieri, che volevano fare la foto con noi,come souvenir, ricordo di questa strana Italia.

Poi improvvisamente all’angolo, accanto all’entrata del negozio di abbi-gliamento, sei apparsa tu.Vestita di nero, alta, bionda, bella. Ma sola. Parla-vi poco. Gli occhiali neri proteggevano il tuo sguardo. Qualcuno, non co-noscendoti, si chiedeva se non fossi una poliziotta mescolata tra i gruppi.

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Ma noi non siamo capaci di far male neanche a una mosca, anche se erava-mo (e ancora lo siamo) tanto arrabbiati. Noi crediamo nelle istituzioni,crediamo ancora in quel Palazzo presso il quale eravamo a dimostrare.

Comunque tu eri là, un po’ in disparte, come presa da tuoi pensieri unpo’ malinconici.

Poi era iniziata la colletta per comperare la giacca a un collega che indos-sava una semplice T-shirt: a Montecitorio non si può entrare in maglietta.Veniva da Bari lui, con il sussidio della disoccupazione si era comprato il bi-glietto del treno, aveva portato anche il figlio: una giacca a piazza Monteci-torio non costa pochissimo. Comunque avevamo raccolto tutti i soldi, cir-ca centocinquanta euro, e anche tu ti sei avvicinata e hai versato il tuo con-tributo. Scusandoti, dispiaciuta, perché di più non potevi. Hai iniziato aparlare. L’accento era marcatamente toscano: da poco trasferita a Roma,anche tu eri un’insegnante, ma, parlando, quasi te ne vergognavi. Perchéavevi ormai quarant’anni e i maledetti tagli di cattedre avevano ridottodrasticamente i posti vacanti; perché non eri ancora riuscita a ottenere unincarico per quell’anno. Ed eri lì, per dimostrare di persona che avevi unadignità, che non eri, come non lo è nessuno di noi, una fallita, ma solo unadocente che voleva, tentava, di mantenere il proprio posto di lavoro. Perchéa quarant’anni è umiliante non essere indipendente economicamente. Per-ché eri un’insegnante di lingua inglese, e cambiare lavoro a quarant’anni èdifficile.

La sera ci siamo fatti tutti coraggio: lo spazio dato da giornali e telegior-nali che ci avevano mandato in apertura, ci aveva inebriato. Eravamo tuttiubriachi di felicità, perché almeno, anche se la gente era al mare, comunqueaveva capito che c’eravamo, e che a settembre potevamo non esserci più.

E ce ne siamo andati: chi ha ripreso il treno per il Sud, chi è salito su unpullman per il Nord, chi ha dormito in casa di amici, colleghi di piazza. Chiancora imperterrito scattava foto davanti agli ultimi striscioni attaccati al-le transenne, temporeggiando con i poliziotti affinché ci lasciassero qual-che minuto in più.

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Alla fine te ne sei andata anche tu.Poi a settembre, in una delle infinite riunioni per capire se avevamo an-

cora speranze, ti ho rivista: soliti abiti scuri, soliti lunghi capelli biondi, so-liti occhiali neri, ma sempre più preoccupata. Cercavi qualche certezza trachi aveva l’unica certezza di voler essere insegnante.

Infine quella telefonata: pochi giorni dopo, ancora una calda mattina difine settembre. La voce di Mara, glaciale: “Claudia, sai, la toscana… è mor-ta. Forse per un aneurisma cerebrale. Non so altro. Ma bisogna far girare lanotizia sul sito. Puoi farlo tu?”.

Non ricordo quello che ho scritto. Ricordo solo che dopo qualcuno miha detto che ti hanno trovato all’alba distesa sul ciglio della strada, nei pres-si del portone della tua casa, uccisa forse da un pirata della strada.

Ogni tanto riappare il tuo ricordo e il tuo nome. Il tuo cognome non l’homai saputo. E riappare anche il tuo timido sorriso in quella calda mattinadi fine luglio a piazza Montecitorio. E anche se ciò che so di te è solo un pic-colo frammento, anche così ho pensato che la tua piccola storia, in questolibro, doveva esserci, doveva essere raccontata. Io ci ho provato.

Ciao Claudia.

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Luca Antoccia

BLOWING UP*

Brevissima premessa. Chi si prende sul serio mi ispira istintiva diffidenza. Sembra

gli manchi la cosa più importante: il senso del relativo e del ridicolo, autoironia in-

somma. Ma oggi un’intera categoria – quella degli insegnanti non di ruolo – non vie-

ne presa sul serio. Oltre che un istinto di sopravvivenza, prendersi per una volta sul se-

rio è allora un preciso dovere etico. Per farci prendere sul serio.

Per caso o per scelta, per necessità o per destino (e una cosa non escludenecessariamente l’altra) ci si trova un giorno davanti a una classe di stu-denti. Il mio primo giorno me lo ricordo ancora. Andai istintivamente aoccupare lo spazio tra la cattedra e i banchi. Senza saperlo, era già fatta lamia scelta di campo. Vedermi come un intermediario tra i ragazzi e il sape-re. Noi non siamo ciò che insegniamo, non siamo il sapere. Insegnare non èun rapporto a due, docente-discente, ma a tre.

Ma se si tratta di destino forse era cominciato una sera del 1972. Avevoundici anni quando vidi in tv Diario di un maestro, con l’indimenticabileBruno Cirino. L’esperienza di frontiera di un maestro a Pietralata. Questomaestro, che portava la classe nei campi a scoprire ciò che i libri descriveva-no, mi affascinò. Era avventura più che un mestiere. Un’utopia concreta.Nulla sapevo allora della scuola di Barbiana e di Don Milani.

Estate del 1977: mi trovo in una borgata romana, Grottarossa, a fare l’a-nimatore in un centro ricreativo estivo. Di quella esperienza ricordo cheinventammo insieme una bellissima storia. E che i bambini mi chiamavanomaestro. Curioso: avevo appena sedici anni, soltanto sei più di alcuni di lo-ro. La parola mi faceva effetto. Mi sembrava troppo grande per me. Conte-neva una responsabilità. E forse un destino.

Come è un destino che mi fece imbattere in quel motto cinese che diceva:“Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco”. Sarà stato supper-

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giù il 1978. Anch’io, da settembre a giugno almeno, ero uno studente, stavodietro i banchi, al liceo. E quel motto mi illuminò: ecco quel che mancavanella scuola italiana: si parlava, o meglio i prof. parlavano, e troppo. La lezio-ne per molti era entrare in classe e parlare fino alla campanella.Poi magari lavolta dopo si interrogava. Tra le due cose c’era solo da stare attenti: impara-re era solo ascoltare, nel senso più passivo del termine; mica vedere, scopri-re, fare, sperimentare. Per fortuna non per tutti era così. E li ricordo e li rin-grazio proprio per questo. Qualcuno semplicemente dimostrava la sua ca-pacità di educatore vagliando e indirizzando meglio le nostre proposte. Adesempio ricordo un concorso di poesie, uno di genere stilnovista, l’altro sur-realista, per far contente le due anime della classe: i secchioni e i trasgressivi.Sulla carta una cosa bislacca, e invece finì con il preside, uomo intelligente edi spirito, che stette al gioco e perfino premiò le migliori.

Sembrerà stia divagando. Ma è grazie alla mia esperienza di allora se oggicredo che il miglior modo di far capire la poesia sia quello di riuscire a farscrivere una poesia. Come il miglior modo di insegnare il linguaggio giorna-listico sia di far scrivere un articolo. Ma con le regole del mestiere. Da artigia-no, quasi in una bottega, col rapporto che c’è tra capomastro e apprendista.

Allora, anche in quel caso, la posizione conta, e la migliore è sempre a la-to, non davanti l’alunno.

Insegnare non è un rapporto a due, docente-discente, ma a tre: docente-discente-contenuto o metodo da insegnare. Ma anche nei casi in cui chi in-segna riesce a non appiattirsi su ciò che insegna, molto dipende da dove siposiziona in questo triangolo. A volte anche l’equidistanza non paga. Comeil buon recensore dovrebbe sempre guardare l’opera dal punto di vista dellettore, così l’insegnante, come l’intendo io almeno, può anche essere equi-distante, ma in realtà adotta un punto di vista che il più delle volte è, e deveessere, quello del discente. È un po’ la questione dell’empatia, in fondo.

Prima di insegnare regolarmente ho fatto a lungo l’allenatore della Fede-razione italiana gioco handball e attività psicomotoria di base. Credo mi sia

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servito. Credo che fare l’insegnante sia un po’ come fare da allenatore agliallievi. Fai vedere il percorso, affronti per primo gli ostacoli. Poi ti metti daparte e osservi. Lasci che facciano il loro percorso. Soffri se sbagliano, gioi-sci se riescono. Più tardi, molto più tardi, avrei scoperto che questa cosa sichiama, appunto, empatia.

A volte chiedo loro se sono stanchi. Se è il caso di smettere la spiegazio-ne. Quasi mai dicono di sì. Perché? Non credo sia soggezione. Si sentonoforse sfidati, o forse si sentono presi in considerazione come persone e, co-me tali, reagiscono facendo appello al senso del dovere.

A volte sono loro però a chiederlo: “Oggi siamo stanchi. Abbiamo avutotre ore di compito. Possiamo non fare lezione?”Puoi dire di sì o di no. Biso-gna valutare caso per caso, classe per classe. In linea di massima però dico disì, perché in fondo capita di rado. E non me ne sono mai pentito. Te ne sa-ranno grati e qualche volta capita anche a noi di dover chiedere aiuto.

Molte volte credo che la nostra capacità di provare empatia non sia alle-nabile, né acquisibile con corsi di aggiornamento e formazione, ma dipendaunicamente da una cosa, oltre alla sensibilità, che varia da individuo a indi-viduo. Dipende cioè dalla nostra capacità di tenerci in contatto con le nostreesperienze scolastiche fatte da alunni. Ricordarci cos’è che ci dava piacere,fastidio, che provocava rabbia o malumore o soltanto indifferenza. Questo avolte ci salva. Certe volte in effetti può servire allo scopo anche un corso diaggiornamento.Sceglietene però uno di quelli noiosissimi, in cui cerchiamodi dissimulare la nostra distrazione, o nascondere gli elaborati scarabocchi.Quando usciamo ci sembra di essere più ricchi: “Quantomeno domani ca-pirò meglio i miei alunni”, ci diciamo. Credo che non sia poco.

Certe volte la complicità gioca un ruolo decisivo. Non so, magari qual-cuno lo troverà poco ortodosso. Però a volte si tratta soprattutto di creareun linguaggio che sia comune, un terreno di incontro. Una volta ero in unadelle mie prime supplenze, forse addirittura la prima, in una seconda me-dia. Mi sono accorto improvvisamente che per far arrivare la classe all’o-biettivo che avevo in mente, proprio come accade certe volte in montagna,

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era necessario lasciare il sentiero principale e compiere un detour. Certe di-gressioni servono. Sono a volte la vera ragion d’essere di certi romanzi, dicerti grandi film. E forse della vita.

Be’ quella volta – non ricordo assolutamente di cosa stessi parlando, maricordo che avevo l’attenzione della classe – mi resi conto che ci eravamo tal-mente allontanati dal sentiero principale, che per loro da soli sarebbe statodifficile ritrovarlo senza uno stratagemma.Venne spontaneo: fu di conside-rare la parentesi come una cosa tangibile. “Ecco, tutto quello che abbiamodetto, dal tale punto al tal altro, è stata solo una parentesi” devo aver detto, eaver fatto il gesto con le due mani come chi sostiene un invisibile palloncinoad altezza del viso.“Adesso apriamo la finestra e la facciamo volare via”. Conmia sorpresa, e con serietà, la persona a cui avevo rivolto l’invito si alzò, aprìla finestra e poi la richiuse. La classe riprese come rinfrancata il filo. Mi ave-va aiutato un film che avevo amato da adolescente: Blow-up di Antonioni. Ein particolare la sequenza finale in cui il protagonista vede dei ragazzi gioca-re a tennis, senza che si veda alcuna pallina (ma se ne sente il suono). A uncerto punto la pallina, o la presunta tale, esce oltre la rete di recinzione delcampo e il protagonista si sente spinto dagli sguardi di richiesta dei ragazziad andare a recuperarla a pochi metri da lui. È un momento delicato, infattii ragazzi potrebbero starsi facendo beffe di lui. Ma il protagonista, dopo unattimo di esitazione, va, si china, raccatta la presunta pallina, la lancia. Ed es-sa, o meglio il suo suono, rimbalza sul campo. I ragazzi, con la faccia coper-ta dal cerone dei mimi, lo guardano con gratitudine.

Be’, mi è venuto in mente di cosa stavamo parlando: era Pascoli, una poe-sia che si intitola Nebbia, e che parla di ciò che si vede, di ciò che non si vede,e di ciò che si può credere di vedere. Credo che la parentesi non fosse perniente peregrina. Forse la parentesi era costituita proprio dal racconto dellasequenza di Blow-up che a un certo punto della spiegazione della poesia erarisultata necessaria,per amplificare la portata del messaggio poetico. In quelmomento ho rischiato. Come il protagonista del film. Se infatti i ragazzi miavessero guardato con scherno o magari solo con imbarazzo, e nessuno si

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fosse mosso ad aprire quella finestra, sarebbe stato un bel guaio. Come pro-seguire, infatti: la parentesi sarebbe rimasta penzoloni, nella classe: poco omal digerita, avrebbe finito per proiettare un’ombra sulla lezione. Inveceadesso si poteva tornare a questo grande poeta. Anche Antonioni è grande,che c’entra. Ma non stavamo parlando di lui. Si parlava di Pascoli.

Il fatto è che le sfide ci stancano, ci snervano, e mano a mano che diven-tiamo più “grandi” ovvero più anziani, ne faremmo volentieri a meno, eforse a volte ne facciamo a meno. Ci si chiede: ma chi me lo fa fare di ri-schiare quel briciolo di reputazione che mi sono faticosamente guadagna-to per puntarla tutta su un numero che magari non esce. Certo bisogna sa-pere su cosa si punta. Bisogna crederci. Com’è il caso del Boccaccio, del De-cameron e in particolare della novella Federigo degli Alberghi. Una cosa ladevo a due maestri della Sapienza, pur così diversi tra loro per visione delmondo e della letteratura: il compianto Mario Petrucciani e Alberto AsorRosa. Leggere il testo ad alta voce in un certo modo, dandogli aria attraver-so le pause giuste, far sentire la musicalità della prosa, i commenti giusti,parsimoniosi, fatti solo per mantenere il contatto e mai per pedanterie divario genere. Il primo con Dino Campana, il secondo con Boccaccio, ap-punto. Be’, quel tanto o quel poco che so sull’importanza del leggere ad altavoce un testo, molto prima che ce lo venisse a dire Pennac in Come un ro-manzo, lo devo a questi due maestri della parola letta. Molto prima che unseducente giovane maestro come Baricco apparisse all’orizzonte. E poi c’èun altro maestro che mi ha insegnato una cosa importante: la forma fisica,che certe lezioni bisogna farle in piedi, cattedra alle spalle: solo così la gab-bia toracica e la voce si espande: Tullio De Mauro.

Ma si diceva di Boccaccio, fino a qualche anno fa era bandito dalle anto-logie delle medie. Se entrava era per Chichibio o Calandrino. FiguriamociFederigo! Una volta ero in una prima media, di livello – diciamo così – ete-rogeneo, come ce ne sono molte. Non ricordo neanche qui quale fu lo sti-molo di partenza. Forse volevo dimostrare loro che il piacere, il gusto nel

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leggere, non dipendono dalla lunghezza, dal genere, e nemmeno dall’epocae dal linguaggio del testo. Forse avevo citato, ma così, solo per dire, l’espe-rienza della lettura integrale del Decameron fatta all’università e della no-vella di Federigo. Ma mica per leggergliela, no. Loro devono essersi incu-riositi, o magari ero io che morivo dalla voglia di leggergliela e glielo avevocomunicato. Finì che andammo in biblioteca e risultò che tra le varie copiein edizione scolastica, col maldestro italiano dei traduttori, c’era, nel repar-to scuola superiore, una copia del libro col testo originale. Tornammo inclasse che la sfida era già iniziata. Forse chiesi di chiudere gli occhi per se-guire meglio.Alle numerose soste per far riprendere fiato, mi accorgevo chel’attenzione teneva, che era necessario accelerare in certi punti per rallenta-re in altri.Andò bene, al punto che una collega delle superiori incredula, miguardò perplessa, come celassi uno stratagemma che volessi tenere per me.Ho ritentato pochi mesi fa, in tutt’altre condizioni, a una quindicina d’an-ni di distanza. Stavolta la novella era inserita nel libro di testo, poiché da unpo’ di anni i libri di antologia cominciano a riportarla. Federigo, all’inizio,spaventa con il suo cursus. Ma si tratta di rompere il fiato, come sa chiunqueabbia fatto allenamenti. Ché pian piano ci si abitua. E per qualcuno diven-ta un’esperienza. Da trarne orgoglio. Come per le ragazze, in genere le piùattente: quando Monna Giovanna dice ai prosaici fratelli: “Preferisco unuomo che abbia bisogno di ricchezza, piuttosto che ricchezza che abbiso-gni di un uomo”.

Se non ci fosse stata sfida saremmo arrivati a questo passo finale strema-ti e inavvertiti. In vetta ci si arriva faticando. Ma anche faticare è belloquando sei in vetta. Anche la sfida è una forma di complicità.

Postilla. Mi accorgo di non aver mai scritto la parola precario. La scrivoadesso perché altrimenti mi sembrerebbe di essere poco onesto. Sì, sono unprecario. Ma la cosa richiede alcune precisazioni. Da quanto tempo lo so-no, è difficile dirlo. Ho lavorato per diciassette anni in una scuola parifica-ta, poi paritaria. Nelle medie, soprattutto, e nel liceo. Chi lavora in questi

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istituti sa che non deve lamentarsi troppo, che almeno le ferie estive sonopagate. Ma sa anche che, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, ilproprio posto non è affatto garantito. C’è lo spauracchio della diminuzio-ne degli alunni, delle classi. Dei licenziamenti. Se devo calcolarli per intero,i diciassette passati alla privata, più i due ultimi nella pubblica, più gli spez-zoni di supplenza agli inizi, in tutto fanno vent’anni che insegno. Quandolo dico, la reazione nei colleghi di ruolo è di incredulità: “Vent’anni e nonsei ancora di ruolo?!”. E non si capisce mai bene se l’esclamazione nascondaun velato rimprovero all’amministrazione pubblica o a me. O magari ledue cose insieme. Finisco allora per tenermela dentro questa storia deivent’anni, manco fosse un segreto o un’onta. Non mi piace la commisera-zione. Non è questo che chiediamo, credo, e che intendiamo suscitare. Ma èpurtroppo questo che spesso, involontariamente o con l’aiuto dei media,finiamo per suscitare. Se in questa piccola testimonianza la parola precarionon è mai comparsa, se non in questa appendice, ebbene ciò è frutto di unadeliberata scelta. La stessa da cui è nato questo libro. Siamo insegnanti atutti gli effetti. Reggiamo il peso della scuola, privata e statale, per più di unquarto. Tra di noi ci sono, come fra quelli di ruolo, i motivati, gli entusiasti,gli annoiati, gli amareggiati. Chiamateci allora così, insegnanti, parola tre-mante nella notte.

E se proprio l’abitudine vi costringe a ricorrere a un prefisso, per favore,togliete quel pre e lasciate solo cari. Cari insegnanti. Ci piacerebbe. Suonabene. Così abbiamo voluto intitolare infatti l’ultima sezione di questo libroche è dedicata a chi, alunni, genitori, ha voluto scriverci per manifestarci ildisagio anche da loro subito, ma anche solidarietà, rimpianto, affetto. Sen-timenti di cui siamo loro grati e che costituiscono la nostra autentica forzae la ragione profonda di questo mestiere.

* Qualche riga per dar conto del titolo. Detesto gli anglicismi, quando non sono

necessari, e i vezzi alla moda. Avrei volentieri fatto a meno di impiegare un’espres-

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sione inglese. Ma il fatto è che blowing up significa ingrandire. E dico “ingrandire”,non “gonfiare”, altra accezione, ma negativa del termine. Ho sempre trovato questadifficoltà in molti di noi a mettere in rilievo, a prendersi sul serio, insomma a valo-rizzare quello che da giugno a settembre facciamo. Sarà per riservatezza, serietà,pudore o perché, come dice il proverbio, “chi si loda s’imbroda”. Però prendiamoad esempio il film, Blow-up: una fotografia insignificante di un parco, ingranden-do un dettaglio, si rivela essere la scena di un crimine.

Questo testo, come altri in questo libro, credo, non hanno altra velleità che diessere frammenti, l’ingrandimento dei quali, però, si spera possa contribuire a farluce sulla scena, un po’ torbida a dire il vero, di un crimine troppo spesso annun-ciato e che speriamo di scongiurare: l’eliminazione dei precari; l’indebolimentodella scuola pubblica; l’impoverimento di tutti. Blowing up l’ho scelto anche, infi-ne, perché ha a che fare, alla lontana, con growing up, crescere. Che è poi quello percui gli alunni vengono a scuola. Quello per cui lavoriamo. Quello che ci auguriamodi continuare a fare anche noi, magari con maggiore serenità, nei prossimi anni.

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CARI INSEGNANTI

LETTERE E TESTIMONIANZE

DI ALUNNI E GENITORI

A INSEGNANTI PRECARI

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Sylvienovantadue

DAL PIÙ PROFONDO DEL CUORE

Lettera a un professore*

Carissimo Professore,le scrivo perché la voglio ringraziare dal più profondo del cuore per avermi

regalato un anno magico, pieno di scherzi, di risate e anche di momenti seri!Nessuno (e dico nessuno) riuscirà mai a prendere il suo posto, perché come

lei non ce ne sono: è rarissimo trovare professori giocosi, simpatici, dolci ma al-lo stesso tempo anche seri e con tanta voglia di migliorare veramente gli alun-ni, proprio come ha fatto lei.

Se non era per il suo modo di insegnare io non starei a questi buoni livellicon l’italiano e sicuramente non sarei stata capace di scrivere e di esprimermiin maniera giusta, quindi tutto questo lo devo solo che a lei.

Mi sarebbe piaciuto molto averla per tutti e tre gli anni, però è anche veroche “DIO FA SPLENDERE IL SOLE SIA SUL GIUSTO CHE SULL’INGIU-STO”, questa è una vera ingiustizia e si riconosce benissimo, ma bisogna accet-tarla anche nel più peggiore dei modi perché è normale che nella vita non cisaranno solo momenti belli come li vorremmo noi.

Spero che lei nella scuola a Anguillara si trovi bene e che tutti gli alunni acui insegna le portino rispetto.

Cambiando discorso le voglio raccontare cosa ha voluto fare la II media E:ci è venuto in mente di scrivere una domanda alla presidenza con cui diceva sec’era un modo per farla tornare, anche se poi questa domanda è stata “Boccia-ta” perché abbiamo un po’ riflettuto e ci siamo resi conto che è impossibile vi-sto che è lo Stato che comanda giustamente.

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* Le testimonianze citate in questo capitolo sono state riprodotte mantenendone inalte-rate le caratteristiche formali.

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Da quando abbiamo perso un professore come lei, specialmente io ho capi-to il vero significato della parola “INGIUSTIZIA”; mi auguro tanto che questoche è successo a noi ragazzi non capiterà mai a sua figlia perché le assicuro cheè un’esperienza bruttissima e come questa non le ho mai passate: non mi sonomai affezionata a un professore a tal punto da sentirmi veramente offesa e col-pita perché le ripeto che questa esperienza è la prima volta che mi capita ed èstato appunto con lei.

A me piacerebbe molto che ci porti sua figlia, la prossima volta che viene, emi saluti anche sua moglie.

P.S. Tanti auguri di buon Natale a tutta la sua famiglia e un felice annonuovo che sta per arrivare…

Sarei molto contenta se ci ritornasse a trovare;un augurio di rivederla al più presto!ASPETTO UNA SUA RISPOSTA…

…Con grande affetto la sua alunna

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Barbara Fetonte (a cura di)

RICORDANZE

Souvenir d’alunni

Questi sono anche i motivi per cui non si molla: le parole dei ragazzi.

Quando senti che le cose non vanno come vorrestiGuarda il cielo e ti accorgerai che ci saranno sempre

Quelle piccole stelle che ti guardano e sorridonoAlla tua dolce vita anche quando il cielo è plumbeo.

Be’, quelle piccole stelle contengono i nostri sogniE quindi le nostre anime che in molte occasioni

Sono state avvolte e nutrite dalle tue dotte parole.Sii fiera di te, non per quello che fai o dici

ma per la tua essenza.Ci hai dato molto ed è per questo che vogliamo

lasciarti un ricordo tangibile di noi,in modo che anche tu non possa mai scordartidi quelle piccole stelle che ti accompagneranno

sempre nel cammino della vita.

Le tue piccole stelleIV F ColleferroLiceo Scientifico G. Marconi

p.s.Grazie.

Data al termine dell’anno scolastico, con la certezza che non ci saremmorivisti in quinta.

Me l’hanno regalata alla “pizza” di fine anno, a scrutini già fatti, con ri-mandati e bocciati.

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È scritta in carattere corsivo su carta pergamena decorata da loro (Colle-ferro, IV F).

Alla professoressa che non dimenticheremo mai.Firmato: La classe IV C del Liceo Scientifico “B. Pascal”.

Seguono le firme dei ragazzi.La frase accompagna una litografia (Pomezia, IV C).

Alla migliore professoressa che abbiamo mai avuto.Con affetto gli alunni del 3D del Liceo Scientifico B. Pascal.

Seconda litografia.Entrambe mi sono state consegnate alla cena di fine anno. A giochi fatti

(Pomezia, III D).

Quindi iniziano gli anni di Velletri, ma non ritrovo quelli di Tivoli.La classe V M (Velletri, Liceo Landi), che non accompagnavo in visita di

istruzione perché arrivata da poco. Non avevo dato loro l’indirizzo, ma lacartolina è arrivata ugualmente:

La gita è stata una corsa, perciò ci siamo ridotti all’ultimo giorno a scriverequesta cartolina, comunque non potevamo dimenticarci della prof. più “to-sta” che c’è.

Gli alunni di I L, la prima classe che ho avuto con la mia prima nominaannuale e col sistema della verticalizzazione (di cui ringrazio il Grande Pre-side, molto lungimirante), è stata da me accompagnata, con una breve pa-rentesi del quarto anno, fino agli esami di Stato.

Comunque ogni anno ci siamo lasciati sempre con la sola certezza del-l’incertezza di esserci nell’anno seguente.

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Cartoline dalle vacanze:

Ciao Prof! Siamo le tue alunne preferite del I L: Vale e Ale!Qui ci hanno divise. È una tragedia! Però ci ritroviamo sempre! Un bacionealla mejo.Mappa concettuale: Flavia, Alice, Sara – Londra – divertimento assoluto!Le è piaciuta la mappa? Come vede non ci siamo scordate nulla (o quasi)!Ci manca tantissimo e speriamo di rivederla al più presto.Le vogliamo tanto tanto bene. You are the Best.

Pasqua, il biglietto accompagnava un gigantesco uovo.Il foglio è decorato direttamente da loro con campanelle e uovo.

I suoi alunni,ispirati dagli Deie dalle canzoni di Jovanotti,hanno deciso di scriverleun verso:

“Nel mezzo del cammin di nostra vita,incontrammo (segue il mio nome e cognome)che ci insegnò con tanto affettoa portar sempre (o quasi) del rispetto”.

1 Lp.s. Parola di Matrioska.

Alla fine del secondo liceo, si sono presi una nota per l’atto: l’intera clas-se, nascosta in bagno, ha staccato una piastrella e l’ha decorata. Ora l’ho ap-pesa in casa.

Con affetto, dal bagno della scuola Landi, II L.Seguono le firme di tutti i ragazzi.W l’enjambement.

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Sul retro è stato costruito un cruciverba, con soluzione finale: EugenioMontale.

Era un periodo un po’ difficile per tutti, III liceo.

“Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,ripetendo percorsi, chi non cambia la marcia,chi non rischia e cambia colore, non conosce.Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero…”.

Pablo Neruda

L’ha scritta Flavia, a nome di tutti,e me l’ha inviata per e-mail,senza parole di commento.

Poi la “tragedia”dell’anno seguente: a causa delle nuove normative e deiconseguenti aggiornamenti delle graduatorie, purtroppo non ho potutoriconfermare il mio incarico annuale nello stesso istituto.

La cattedra l’aveva presa una collega più giovane, validissima e bravissi-ma, sissina…

Biglietto in carta rosa, inviato per posta. Apro la busta e leggo:

4 settembre 2002“Buoni compagni di viaggio non dovrebbero lasciarsi mai…potranno scegliere imbarchi diversi, saranno sempre marinai.”Sa di essere importante per noi… La Tetrade

Al biglietto avevo risposto con una lettera, nella quale spiegavo i mecca-nismi per cui ero “perdente” del posto, ma soprattutto esortavo loro a stu-diare con passione, evidenziando i vizi dell’uno e dell’altro.

Segue la loro risposta, un’unica lettera composta da tante piccole lettere.

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1 ottobre 2002, lettera(non ho trascritto commenti riferiti a vicende personali):

Ciao Prof,siamo alla 5° ora, ti giuro non ce la faccio +. Mi viene da dormire. ‘Sto

Catullo sdolcinato oggi proprio non mi va di ascoltarlo, con tutto rispettoeh!! Grazie per la risposta, non me l’aspettavo in questa forma… Oggi l’hoportata a scuola e l’ho letta davanti a tutti, scena toccante direi… abbiamo“usufruito” dell’ora di filosofia (Don’t worry, non abbiamo perso tutta l’o-ra!). Ci ha parlato della professoressa di francese, che sta veramente male,non esce + di casa, ha paura di affrontare la scuola, le persone… La profes-soressa di filosofia ci ha chiesto di andarla a trovare, spronarla un po’… cer-to non è facile, come sai bene i rapporti sono sempre stati molto “formali”per cui non è che ci sia una così grande confidenza… personalmente non sa-prei come comportarmi… bò! Vedremo. Abbiamo iniziato chimica (trage-dia! Quella è matematica che si cela sotto lo pseudonimo di “chimica”!!!). Difisica ancora non si sa, non ho capito bene se manca la prof. O c’è… Bò! Peril resto, tutto regolare, solite facce, soliti rapporti (questa volta arricchiti dauna maggiore diplomazia che evita di farci scannare!). Abbiamo eletto irappresentanti di classe. Cricco ha riconquistato lo scettro (Ci teneva tan-to!). Ma come “ vice”. Giusy è l’ufficiale. Mi piace come scelta, è una personache sa farsi rispettare e sicuramente adempierà ai suoi “doveri” nel miglioredei modi. Altre news… Ah, il gemellaggio! E qui tasto dolente pour moi,pourque no puedo ospitar quindi molto probabilmente se il progetto andràin porto me ne starò a casina… Che bellezza! Devi sapere, infatti, che que-st’anno è stato dato ampio spazio ai gemellaggi. Le due classi che non aderi-scono hanno diritto ad una gita di soli due giorni (capirai, la fame!) mah…vedremo come andrà a finire!

Te che dici? Come va con la nuova classe? Carini, intelligenti, simpatici,bravi, perspicaci e soprattutto MODESTI come noi? Ma insegni a Roma? O tihanno assegnato la provincia? Noi non abbiamo organizzato ancora niente,

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ma qualcuno (tranne Walter, incredibile ma vero!) ha proposto di passare in-sieme a te l’ottobrata, sempre ammesso che tu sia d’accordo. Magari potrem-mo venire tutti a Roma e passare un po’ di tempo insieme.[…] Devi venire atrovarci il + presto possibile… crisi di astinenza!!![…]Ciao Peter (meno maleche ci 6!!). Sara.

Carissima, ti scrivo con davanti il compito del test d’ingresso su Petrarca. Èandato bene! La scrittura della nuova prof. somiglia molto alla tua. Mi mettetristezza. […] Le foto dei momenti trascorsi insieme sono sempre lì, attaccatealla porta della mia camera… per non dimenticare… Coraggio, prof! Ti ab-braccio fortissimo. Flavia.

Hola! Come vede, anzi come vedi, la mia scrittura è sempre disordinata!Cavolo che strano darti del “tu”!

Qui la vita procede (nel bene e nel male) e continuo a leggere De Carlo, an-che se a dir la verità l’ultimo libro che ho letto mi ha un po’ deluso. […] Ora tilascio perché la prof. sta spiegando, ma ti prometto che ti scriverò una lungalettera. Baciotti. Claudia.

Rimetto un po’ di ordine dopo il caos portato da Claudia!! Scherzo natu-ralmente. È una strana sensazione scrivere dandoti del “tu”, ma allo stessotempo ci lega di più, trovi? La nuova prof. spiega Ariosto, ma non ce la filia-mo molto… ora posso anche scriverlo, non puoi assolutamente rimprove-rarci!!! Oggi in classe abbiamo letto la tua lettera… scena indescrivibile![…] Ti mando un bacionissimissimo accompagnato da un grosso sorriso.Abbracci, Alice.

Ciao Prof, chi sono? La cosiddetta suocera. Raffy!! Che dirti? Mi manchi,mi manchi, mi manchi.

Mi farò sentire presto. Raffy.

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Ciao Prof,Come va la vita? Come sono le nuove classi? Sicuramente non come la no-

stra (modestia a parte!). A Velletri, come ad Ariccia, la vita è sempre la stessa:per ora a scuola tutto a posto […] La nuova prof. di italiano non è male, manessuno riuscirà mai a prendere il tuo posto (è una strana sensazione dartidel tu!). Puoi anche non crederci, ma tutta la classe accusa la tua mancanza,perfino quelli che non ti sopportavano. Quando Sara ha letto la tua letteramolti si sono commossi, è uscita pure qualche lacrimuccia (compreso me,strano ma vero!).

Spero che riuscirai a dare ai tuoi nuovi alunni tutto quello che hai dato a noi.[…] Come hai detto, da una parte è positivo il fatto che ci abbia lasciati:

d’ora in poi potremo parlarci come amici, non ci dovrai più giudicare (anchese per giudicare me non ci vuole molto, vero?), ma dall’altra parte è un veropeccato perché ti vedremo raramente, capiterà ogni tanto.

In ogni caso, “the show must go on”, ognuno di noi deve vivere la propria vi-ta, giusto? E poi, come hai fatto notare nella lettera, non sei morta, quindi ve-diamo di tenerci in contatto per telefono, via epistolare, per email, per sms,mms, segnali di fumo… qualsiasi mezzo di comunicazione, basta che non ciperdiamo di vista. Ricordarti la promessa: VIENICI A TROVARE! Se non ver-rai io, insieme alla classe, sarò costretto a irrompere a casa tua o nella tua nuo-va scuola (a proposito, qual è il nome della tua scuola?) e combinare qualchedisastro, quindi a tuo rischio e pericolo.

Adesso ti lascio, alla prossima.Christopher.

p.s. diffida dalle imitazionip.p.s. allego una bellissima foto che ritrae me ed Arsenji. Ne faccia buon uso!

E poi sono arrivati, veramente tutti insieme,nell’altro istituto dove insegnavo, il giorno del mio compleanno!A fine anno, però, lo stesso problema si è presentatocon la III C del liceo scientifico Archimede di Roma.

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Alla “pizza” finale, nonostante i debiti, mi hanno consegnato un bigliet-to che rappresenta uno sconcertato Lupo Alberto, il quale dice:

Te ne vai? Davvero??? Dì, giuro!seguono le firme di tutti i ragazzi, poiTanti auguroni (ci mancherai troppo!) Miiiiii!!! Non ci posso credere!

Infine le e-mail e gli sms dei ragazzi dell’“ultimo”, a Velletri. In particolare:

Ciao prof, volevo ringraziarla per tutto quello che mi ha dato in questo an-no scolastico. Lei non mi ha insegnato solamente chi e che cosa hanno fatto Su-meri, Cartaginesi e Romani, ma mi ha insegnato a prendere la scuola, non co-me un luogo di tortura ma come un luogo in cui si sta bene insieme e che nondeve essere per forza un posto dove si studia e basta ma dove si possono espri-mere le proprie opinioni e dove si può dialogare! Vederla tutte, o quasi, le mat-tine con il sorriso sulle labbra mi dava una forza incredibile anche quandomagari non mi andava molto di seguirla!!! Spero con tutto il cuore che ci sia dinuovo lei l’anno prossimo. Marisa.

E poi l’ultima esperienza. L’e-mail è di una ragazza che non è mia alun-na, ma partecipa al gemellaggio organizzato dall’istituto, dove attualmenteinsegno, con una scuola di Cracovia. Il giro è stato: Musei Vaticani, San Pie-tro, Castel Sant’Angelo. L’e-mail è arrivata la sera stessa.

5 febbraio 2005

Ciao, fortunatamente oggi sei venuta tu con noi…mi sono divertita molto,anche i ragazzi polacchi hanno detto che sei molto simpatica!!! grazie a te ab-biamo passato una bellissima giornata!!! ci vediamo presto un bacio. Paty

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Marina Ersili

DI UNA NEVICATA E DI ALTRE COSE

Lettera da una mamma

Carissimo professore,con l’incarico di rappresentante della componente genitori di questo istitu-

to, sento la necessità e soprattutto il desiderio d’informarla quanto sia statodeludente per noi tutti non vederla riconfermato nel suo incarico di docentedelle attuali seconde medie.

Ancora più logorante e sorprendente è stato vedere i nostri ragazzi piangeree invocare il suo ritorno. Lo hanno fatto con tutta la spontaneità e istintivitàtipica degli adolescenti, scrivendo lettere, messaggi, poster e proponendo millepossibili soluzioni, rischiando talvolta di sminuire gli altri insegnanti e in par-ticolar modo colui che l’ha degnamente sostituita.

Ho appreso dal nuovo insegnante le difficoltà iniziali nel farsi apprezzare daglialunni e il notevole impegno per ricostruire il loro passato didattico e disciplinare.

Quest’ultima cosa è stata possibile essenzialmente grazie a lei, che si è resodisponibile a relazionare il lavoro svolto nel primo anno, e al desiderio di nonvanificare il programma di studio pianificato, insieme alla classe, per i succes-sivi due anni scolastici.

Avremmo voluto vedere completato quel suo progetto di studio sul territo-rio che ha permesso agli alunni di acquisire, tramite numerose domande di di-verso carattere rivolte ad alcuni rappresentanti del Comitato di Quartiere, trai quali la sottoscritta, informazioni storiche, geografiche e culturali del luogoin cui vivono. Progetto questo che prevedeva inoltre l’esperienza di realizza-zione di una banca dati, rilevati attraverso un’indagine diretta dagli alunni aicittadini, utile oltretutto agli organi locali, per conoscere le esigenze, in meritoa strutture e servizi, della popolazione residente.

(Non ha idea di quanto i ragazzi l’avrebbero voluta in classe, il giorno cheha nevicato a Roma, per poter vivere di nuovo il piacere di bagnarsi e correre

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in giardino come lei gli ha concesso di fare lo scorso anno, violando persino leregole d’istituto, nella convinzione che quei dieci minuti fossero sicuramentepiù formativi di un’ora di scienze o educazione motoria).

Sono molti i genitori che hanno riconosciuto in lei e nel suo metodo d’inse-gnamento la capacità di promuovere la giusta maturazione d’interessi e atteg-giamenti nei confronti della scuola, creando inoltre le condizioni favorevoliallo sviluppo emotivo, sociale e morale oltre che linguistico, geografico e stori-co, dei nostri ragazzi.

È per questo motivo che ci auguriamo che lei possa tornare, ancora una vol-ta, a essere maestro di vita di quei ragazzi che una tortuosa macchina buro-cratica, satura di buoni propositi riguardo “il pieno sviluppo della personaumana”, le ha brutalmente tolto!

La cosa che più scongiuriamo è che nessuno di questi stessi alunni riviva l’a-mara esperienza di due anni fa, quando il continuo susseguirsi delle supplen-ti di matematica ha notevolmente compromesso l’attività didattica della clas-se lasciando una profonda lacuna formativa in quella materia.

Ci auspichiamo pertanto che i dirigenti amministrativi e politici assumanoseriamente l’impegno di garantire quello che riteniamo sia un diritto dei geni-tori, degli insegnanti ma soprattutto dei ragazzi, e cioè la continuità didattica.

Grazie. A presto.

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Vega Apràno

GENTILE SIGNORA MINISTRO LETIZIA MORATTI

Epistola di una bambina

Mi chiamo Vega e le scrivo da Acireale, una bella città in provincia di Cata-nia. Io ho otto anni e frequento la terza elementare.

Mia mamma e mio papà sono insegnanti, la mamma insegna l’italiano epapà insegna la musica ai ragazzi delle scuole medie.

I miei genitori non sono insegnanti normali, cioè di ruolo mi pare che si di-ce, ma sono precari che vuole dire che non hanno un lavoro sicuro e perciò an-che lo stipendio, dicono loro, è precario.

I miei genitori sono quasi sempre preoccupati che i soldi non ci bastano, equando io chiedo di comprarmi alcune cose, certe volte mi dicono che non pos-sono perché non hanno i soldi, cioè gli euri.

Quando arriva l’estate noi siamo disoccupati e perciò le vacanze, io mia sorelli-na la mamma e il papà, le passiamo a casa. La mia città è sul mare, solo che men-tre tutti gli altri compagnetti vanno in spiaggia, io e mia sorella Mariantonietta,che ha tre anni, restiamo a casa con i nonni, perché i miei genitori d’estate sonosempre più preoccupati, fanno sempre telefonate e scrivono in continuazione carte.

Io ho chiesto alla mamma di spiegarmi meglio come stanno le cose e perchélei e papà sono sempre seccati, e non sono come i genitori dei miei compagniche portano i figli sempre al mare.

Io ho capito che è per colpa della montagna, che vale due volte tanto, comemai è così bella la montagna?

Poi ho capito che la mamma se vuole lavorare deve fare i corsi di perfezio-namento, solo che costano tanto. E la mamma non ha i soldi per i corsi, perchéspende già tutto per noi e per la casa e per il mangiare, anche se noi non è chepoi mangiamo tanto.

Il papà è preoccupato perché dice che con la legge sua, cioè Moratti, non siinsegnerà la musica come prima e neanche l’italiano perché ci saranno i tagli.

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Io ho capito che i tagli sono una gran brutta cosa, perché tagliano il lavoroalla mamma e al papà.

Io sono piccola, non capisco bene le cose dei grandi, ma che c’entra lei signo-ra ministro con tutto questo?

Perché non sistema le cose così finalmente i miei genitori possono stare piùtranquilli e io d’estate posso andare al mare come tutti i miei compagnetti?

Grazie,Vega Apràno

29 luglio 2004

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PRECARI EX

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Lella Appian

INCIPIT

Mi sono laureata nel 1991 e ho iniziato subito a insegnare.Ricordo la mia prima supplenza: era il venti ottobre del 1991 e ricevetti

una telefonata dal liceo scientifico di Casteltermini, in provincia di Agri-gento: “È disponibile per una supplenza di italiano e latino per otto gior-ni?”. Io avevo spedito le domande di supplenza, fuori graduatoria in tuttaItalia, lì per lì neanche ricordavo dove fosse Casteltermini e se fosse in Sici-lia. Fu un attimo, risposi di sì. Quel sì cambiò la mia vita.

Lasciai il lavoro in una cooperativa per il riordino dell’archivio storicocomunale e partii subito per Casteltermini. Che avventura! Non sapevoguidare, quindi mi feci accompagnare dal mio caro zio Pippino col suomaggiolone nero, dovevo essere a scuola entro le tredici e mi sembrava dinon arrivare mai. Finalmente vidi Agrigento con i suoi splendidi templi e,dopo un’infinità di curve tra vecchie zolfare abbandonate, ecco Castelter-mini, dove, come mi dissero poi i miei alunni, non c’era un cinema né unospedale e dove neanche si poteva morire in pace, perché mancavano per-fino le pompe funebri!

Ero partita da Acireale con qualche vestitino estivo e uno zainetto, inve-ce altro che otto giorni, vi rimasi quattro mesi, fu l’esperienza più bella del-la mia vita di insegnante. Non ero mai entrata in una classe e mi trovai pre-cipitata in una quarta liceo scientifico, con alunni più alti di me. Il vicepre-side, professor Lo Bue, mi diede un registro in mano e con una pacca sullespalle mi disse:“Non ti preoccupare”. I miei alunni per fortuna non capiro-no che quella era la mia prima esperienza di insegnamento, glielo dissi iodopo qualche tempo. Imparai subito che la teoria, lo studio, le approfondi-te conoscenze letterarie a nulla valevano se non supportate da capacità di-dattiche che solo l’esperienza ti può dare. Avevo ventisei anni, ero la piùgiovane insegnante del liceo; un giorno un mio alunno, alto, occhi scuri e

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folti capelli ricci, salì sul davanzale di una finestra mentre io spiegavo e midisse:“Ora mi butto”. Era una sfida nei miei confronti, un modo per attira-re la mia attenzione, gli dissi:“Puoi buttarti quando vuoi, ma non ora che cisono io, se no tu muori e io passo i guai”. Il ragazzo ritornò al suo posto enon si verificò mai più un simile episodio.

Dopo quattro mesi la supplenza finì e io ritornai ad Acireale e per qual-che anno girai per tutta la provincia di Catania con le cosiddette supplen-ze dei presidi. Sapete cosa vuol dire trascorrere giornate intere aspettandouna chiamata e dopo averla ricevuta precipitarsi, entro l’orario scolastico,in qualunque parte del territorio, con qualsiasi condizione atmosferica esenza conoscere per lo più neanche le strade? È un inferno! Si vive in unacontinua angoscia, la tua vita è legata a una chiamata. Non puoi neanchescegliere le classi di concorso dove insegnare: perché se insegni su classi diconcorso diverse il punteggio ti si spezzetta e tu rimani indietro su tutte legraduatorie! Del resto, non puoi non accettare o selezionare: a ventisei,ventisette o trent’anni non puoi continuare a pesare su una famiglia chemagari tira avanti in ristrettezze economiche; ogni supplenza ti permettedi sopravvivere fino alla successiva. Spezzai così il mio punteggio: oggi in-segnavo italiano alle medie, domani latino e greco al liceo e poi italiano estoria al professionale, commissario d’esami alla maturità e così via fino aiprimi incarichi del provveditore nel 1997, dopo un matrimonio con unprecario di educazione musicale e una figlia. Posso dire che “mi sono fattale ossa”.

Nel 1999 finalmente, dopo quasi dieci anni, furono banditi i concorsi acattedra e i corsi abilitanti. Quanta grazia, anche troppa! Tutti noi inse-gnanti precari ci siamo illusi: “Bene ora ci abiliteremo e poi gradualmenteentreremo di ruolo, come è successo a generazioni di insegnanti prima dinoi”. Invece no, ecco piombare su di noi, per non so quale alchimia o con-giuntura astrale, la più colossale tragedia della storia del precariato: dopo laprima ondata di immissioni nel giugno-agosto del 2001, peraltro già pro-

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grammate e finanziate dal precedente governo, non ci furono più immis-sioni, e per tutti coloro che come me erano sul punto di entrare di ruolo siaprì il baratro infernale. Non ci sono parole a sufficienza per poter descri-vere quello che si abbatté su di me e i miei colleghi precari: scavalcati daineo-abilitati specializzati per un pugno, si fa per dire, di punti. Tutto que-sto si verificava mentre venivano a mancare le cattedre di supplenza perchéoccupate da colleghi di ruolo che grazie alle abilitazioni riservate e alla mo-bilità, dalle materne passavano a insegnare latino e greco nei licei!

Da brava e tranquilla insegnante silenziosa e fiduciosa, mi trasformai,subii una metamorfosi che mi portò a infoltire un nutrito gruppo di amicie colleghi che si sentivano come me umiliati e presi in giro, ma che non vo-levano più stare in un angolo in silenzio a guardarsi scorrere addosso ditutto. A Catania ci organizzammo in un’associazione, l’Aip: Associazioneinsegnanti precari, e iniziammo la nostra lotta. Da quel momento io nonho più avuto una vita normale e con me tutti gli amici colleghi dell’associa-zione. Un giorno eravamo in piazza a Catania davanti al comune, un altrogiorno eravamo davanti la prefettura, poi ancora davanti alla sede del gior-nale La Sicilia, poi un sit-in davanti al Csa, e ancora a Messina, in coordina-mento con i precari storici di tutta la Sicilia, per bloccare simbolicamente loStretto: dovevamo farci sentire, dovevamo far sapere a tutti cosa stava acca-dendo a migliaia di padri e madri di famiglia. Diventammo amici anchecon gli onnipresenti ispettori della Digos che vigilavano durante le nostremanifestazioni e che più di una volta hanno difeso noi e le nostre ragionioltre ovviamente a scortarci negli incontri ufficiali. Le nostre foto eranospesso sui giornali locali, una collega si sentì dire da alcuni parenti: “Manon ti vergogni alla tua età!” e da quel momento si ritirò in disparte: l’ave-vano ridotta al silenzio. Io, invece, iniziai a gridare le mie ragioni senza al-cun timore o vergogna, doveva provare vergogna chi aveva defraudato mee i miei colleghi dei più sacrosanti diritti: il diritto al lavoro, il diritto a unavita dignitosa, il diritto ad aver riconosciuta una professionalità frutto diuna formazione continua e di esperienza.

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Le mie giornate si trasformarono: ero mamma di due figlie, ma ero so-prattutto un essere umano offeso e ferito, e allora via con i comunicatistampa, con le raccolte di firme, con le e-mail inviate a tutti i politici e allepiù alte cariche dello stato. Ho ricevuto risposte anche dalla Presidenza del-la Repubblica.

Nel luglio 2002 eravamo in circa cinquecento a Roma, a piazza Monteci-torio, per chiedere il riconoscimento dei nostri diritti. Sono esperienze chenon potrò dimenticare, insieme a colleghi lombardi, toscani, sardi, cala-bresi, romani ci stendemmo a terra su teli bianchi come dimostrazione checi volevano annientare e gridammo in un’unica voce il nostro “NO”.

Da Catania eravamo cinquanta persone, eravamo partiti con un auto-bus organizzato da noi, non potevamo permetterci biglietti aerei o di tre-ni: i costi erano troppo alti. Avevamo viaggiato tutta la notte con quel cal-do afoso di luglio piegati in due o in tre su scomodi sedili, arrivammo aRoma a pezzi: che viaggio allucinante! Purtroppo non fu l’unico. Semprepiù frequenti i viaggi a Roma, come pellegrinaggi a Lourdes, per chiedereun miracolo al Parlamento italiano, che legiferasse su basi eque e rispetto-se dei diritti costituzionali, ma allora i nostri onorevoli deputati eranopreoccupati soprattutto, se non ricordo male, per il caso Catania-calcio.Chiedevamo provvedimenti di urgenza: ci dissero che non c’erano i tempitecnici; era ormai luglio e il Parlamento andava in ferie, non prima però diavere sparato in calcio d’angolo il decreto salva-calcio, ma non quello sal-va-precari. Poveri noi!

Tutto il resto è storia: diciotto punti dati e tolti in un baleno e, infine, undisegno di legge nuovo di zecca che avrebbe finalmente equilibrato tutti gli“squilibri” e restituito la serenità.

Mai disegno di legge fu più schizofrenico: raddoppi per i servizi svoltiin sedi carcerarie e isole piccole e per le sedi di montagna sopra i 600 m, trepunti per ogni perfezionamento o specializzazione universitaria, il tuttolautamente pagato fino ad arrivare a trenta punti. Non più esseri umani:eravamo diventati materia da sfruttare per tutti gli usi e consumi. Mi chie-

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do a quale deputato mai è venuto in mente tutto questo? A chi? Il perché èscontato.

Di nuovo i pellegrinaggi a Lourdes, di nuovo le audizioni parlamenta-ri, le proteste, gli scioperi della fame: ogni nostra legittima richiesta cade-va nel vuoto. A questo punto il mio sdegno era al massimo; basta, non cela feci più e, davanti al palazzo di Montecitorio, mentre i deputati e sena-tori cercavano di squagliarsela alla chetichella, come se tutto ciò che avve-niva non riguardasse loro, durante un ennesimo sit-in, presi il megafonoe iniziai a gridare tutta la mia rabbia, e le mie parole divennero fiammescagliate contro chi da dietro le finestre del “Palazzo” si faceva beffe dinoi. Quando smisi di gridare vidi le mie stesse lacrime negli occhi di chimi stava attorno. Nessuno può toglierci la nostra dignità e costringerci alsilenzio.

Io sono stata più fortunata di tanti altri e di mio marito, che continua aessere precario nonostante i suoi diciotto anni di servizio svolto tra la Sar-degna e la Sicilia.

Nell’agosto del 2004 ricevetti un telegramma da Palermo, ero convocataper eventuale nomina in ruolo per la classe di concorso A043, cioè italianoalle scuole medie, dalla graduatoria del concorso a cattedra. Mi feci una ri-sata e con scetticismo andai a Palermo, erano così poche le cattedre che nonavevo speranza. Mi ritrovai in una sala del Csa gremita fino all’inverosimi-le, senza aria condizionata, con gente che sveniva e con un insopportabileodore di sudore che come una cappa impediva di respirare, pensavo che al-meno per le immissioni in ruolo non si dovesse ripetere il copione delleconvocazioni delle supplenze, invece era ancora peggio. Improvvisamentesentii il mio nome alla posizione 847 bis, entrai nel sancta sanctorum, lastanza da dove proveniva “la voce”. Inebetita dissi:“Scusate, forse vi sbaglia-te io non sono la 847 bis”, invece ero io, avevano da tempo rettificato il miopunteggio, in seguito a un mio reclamo, solo che io non ne avevo saputopiù nulla. Mi posero sotto gli occhi un foglio e mi chiesero quale sede in-

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tendessi scegliere, e io con le lacrime agli occhi balbettai “Catania…”. Ap-pena uscii dalla stanza mi accolse un lungo applauso.

Il viaggio di ritorno fu un lungo interminabile pianto,come in un flashbackmi venivano in mente le situazioni vissute in quegli anni e i volti dei mieicolleghi più cari divenuti compagni di lotta e amici carissimi. In quel mo-mento decisi comunque che non avrei mollato, avrei continuato a lottareper me, per mio marito, per i miei amici, per un senso di giustizia. Troppoprofonde erano le ferite per cancellarle con una immissione in ruolo arri-vata dopo tredici anni.

Solo chi ha vissuto e purtroppo vive ancora questa drammatica espe-rienza può capirmi.

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Sabrina Palobati

PRECARI SEMPRE

La fluttuazione infinita

Durante una delle periodiche rimpatriate del nostro gruppo di colleghi,al tavolo di una pizzeria, ho ricevuto la proposta di partecipare a questoprogetto: “Veramente, all’inizio si pensava di chiedere contributi solo aprecari, però ci dispiaceva lasciar fuori amici con cui abbiamo condivisotante cose e che, nel frattempo, hanno ottenuto il sospirato ‘ruolo’. Così ab-biamo pensato di chieder loro testimonianze, ricordi, riflessioni di quandoerano precari. Insomma, aprire una sezione degli ex.”

Adesso non trovo il coraggio per dirlo. Il fatto è che dal precariato non siesce mai. Forse si può fare il nostro lavoro senza avere la vocazione all’inse-gnamento. Ma non si può fare senza attitudine al precariato… Il precaria-to è… per sempre.

Dunque sono diventata di ruolo. E lo scorso anno ho fatto per la primavolta domanda di trasferimento per tornare a Roma; è stata una sceltamolto sofferta: da una parte i miei alunni, un lavoro avviato con soddisfa-zione, i miei colleghi, la mia preside (voglio continuare a chiamarla così:Lei, unica e irripetibile, non un qualsiasi “dirigente scolastico”!), dall’altraparte i cinquanta chilometri da fare ogni giorno per arrivare al lavoro, leincognite e i rischi del traffico, la spesa sempre più consistente del carbu-rante, le ore in più fuori casa, lo stress: figli e marito coalizzati contro ilmio “sentimentalismo autolesionista”… Domanda accolta, scuola a unpasso da casa; scuola problematica, addirittura scuola “a rischio”: benone,più le cose sono difficili e più mi piacciono. Ma ecco la sorpresa: la mianuova scuola è una scuola “in contrazione”; quest’altra parola della buro-crazia scolastica mi fa pensare, chissà perché, alle contrazioni del parto: einfatti una logica semantica c’è anche qui, perché la scuola “in contrazio-

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ne”, perdendo alunni, partorisce “soprannumerari”. Certo, non perdono ilposto, ma quella cattedra sì.

È abbastanza probabile che, come ultima arrivata, ricomincerò a… flut-tuare!

Del resto all’inizio ero una fluttuante. E così il cerchio si chiude. Solo do-po sette anni di supplenze temporanee con nomina dei presidi ho guada-gnato i gradi di precario. Firmando il mio primo contratto annuale inprovveditorato mi sono sentita dire: “Complimenti, da oggi lei è precaria atutti gli effetti…”. Dopo un attimo di sbigottito silenzio, ho fatto presente imiei sette anni. Così ho scoperto che i supplenti temporanei non sono nep-pure considerati precari, ma indicati col termine di fluttuanti. Fra tutti itermini burocratici della scuola, forse questo è il più poetico: evoca infattiimmagini di naufraghi abbarbicati a tavole sballottate dai marosi. A me fasempre pensare all’Ulisse dantesco, all’avventura come continua ricerca di“virtute e conoscenza”. Dopo tanti anni, continuo a pensare che è più quel-lo che imparo di quello che insegno. Ho sempre continuato a sentirmi pre-caria, anzi, fluttuante. Per mia fortuna…

La consapevolezza della precarietà può essere molto stimolante, se unoriesce a viverla con lo spirito giusto. Del resto, se è vero, come da ogni partesi afferma, che il prossimo futuro lavorativo sarà appannaggio esclusivo dichi sa essere flessibile, aperto alle esperienze più diverse, eclettico equant’altro, ma dove la trovi una categoria più allenata a questa qualità?Noi, la flessibilità ce l’abbiamo nel Dna.

La scuola, intesa come edificio scolastico, con idonee attrezzature è essastessa una realtà precaria: oggi disponi di un’aula, con lavagna, banchi, se-die per te e gli alunni, a volte addirittura carte geografiche alle pareti; quan-do il lusso è davvero sfrenato, hai a disposizione un tv color con videoregi-stratore (per il Dvd, devi chiedere il trasferimento su Marte!), e un’aulad’informatica con dotazione media di tre computer funzionanti per 816

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alunni; ma domani, probabilmente, ti dovrai arrangiare in un sottoscalariadattato, con sedie sfondate (una volta, in seguito a colletta, ce le siamocomprate da soli: quelle di plastica da giardino che, all’epoca, costavano so-lo 4.000 lire, ma avevano una vita media oscillante intorno alla settimanalavorativa).

Infine una piccola riflessione sul concetto che più ci sta a cuore, quello diinsegnante, che com’è ovvio e scontato, presuppone l’attività di insegnare!Ma che cosa, come e a chi? Ecco il problema dei problemi! Penso a quantevolte, rialzando gli occhi dal testo che tentavo di “spiegare” (“proporre”?“imporre”?) ai miei alunni, ho incrociato nei loro sguardi persi la muta do-manda che, quando viene tradotta in parole, suona più o meno così: “Aprofessò, ma che stai a di’?” (N.d.A.: “professò” è sostantivo di genere neu-tro, utilizzato abitualmente per rivolgersi a un docente la cui disumana te-nacia “didattica”non ha più senso né… sesso!).A questo punto l’insegnan-te può avere tutte le certezze professionali, esistenziali, etiche, personali diquesto mondo, ma la sua posizione in quella classe, in quel momento, è as-solutamente precaria, sia se abbia vent’anni di ruolo alle spalle, sia se contisolo venti giorni di supplenza al suo attivo. Guai a lui/lei, se non riesce apercepire nelle persone che ha di fronte il senso della noia, del disinteresse,della non-comunicazione, del fastidio. Nulla è acquisito per sempre, nellascuola di oggi: meno di tutto il diritto di essere ascoltato, che passa attra-verso faticosissime tappe preliminari (essere accettato, essere rispettato, es-sere stimato, essere amato, incuriosire, catturare attenzione, suscitare inte-resse…) da rinnovare quotidianamente attraverso una serie infinita diprove, sempre diverse e rischiosissime, perché sempre rimettono in gioco iltuo diritto di sedere dall’altra parte della cattedra. Per giunta, si richiedel’onestà di riuscire nell’intento senza barare: non vale il trucco (usato an-che da certi genitori…) di quelli che giocano a fare gli amici dei loro ragaz-zi, di quelli che abbassano l’obiettivo per raggiungerlo più facilmente, diquelli che regalano i voti così tutti sono contenti. Gli alunni avranno tanti

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difetti, ma ci sanno giudicare. E, se il giudizio positivo è rivedibile, quellonegativo è definitivo.

Gli alunni: i bambini, i ragazzi, dalla scuola materna al liceo… Ecco lacategoria più importante, più inafferrabile, più eterogenea, più contraddit-toria, più problematica, più provocatoria, più affascinante del mondo sco-lastico… e del mondo in genere. Ma il loro fascino è quasi sempre accura-tamente nascosto, raramente e parsimoniosamente elargito, sfuggente aqualsiasi definizione. L’equilibrio, nei rapporti con loro, è quanto di piùprecario si possa immaginare e non vi sono che regole vaghe e genericheper cercare di raggiungerlo: la rinuncia all’autoritarismo ma non all’auto-revolezza, la capacità di mantenere il giusto distacco nella più assoluta di-sponibilità, la forza di essere coerenti ma non rigidi, di trasformare gliscontri in dialoghi, di amare i nostri alunni soprattutto nel momento in cuili sbatteresti al muro… Loro ci sfidano di continuo, ci mettono alla prova,ci sfuggono per chiederci di provare a raggiungerli. La certezza di averliraggiunti, catturati, coinvolti, è rarissima e racchiusa in pochi ma preziosi eindimenticabili momenti “di grazia”, in cui ci sentiamo in sintonia totalecon loro: con la testa, con il cuore e con ogni centimetro di pelle. A quelpunto (proprio allora e non prima, quando invece eri sul punto di mollare,quando ti sentivi stanco, frustrato e sfiduciato), quando ti senti gratificatodal tuo lavoro, di solito, il ciclo si conclude; quel gruppo esce dalla tua scuo-la e dalla tua vita (ma qualcuno di loro ritorna: con i “messaggini”, con re-gali tenerissimi, con lettere e bigliettini: alcuni li conservo gelosamente nelportafoglio, tra la foto dei miei figli e la patente); oppure sei tu che te ne vai,volontariamente o no, verso altre precarie avventure scolastiche, precariincontri e scontri che lasciano ricordi permanenti…

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Agata Cloe

PRECARIA-MENTE

I precari visti dalla terraferma

La mia esperienza di precaria è inesistente, poiché sono direttamenteentrata in ruolo (ma dopo sei anni dal superamento del concorso!), senzaaver fatto supplenze degne di questo nome. Le uniche esperienze eranostate quindici giorni in una scuola e una ventina in un’altra. Mi sono ser-vite per assaporare l’atmosfera tutta particolare del lavoro di insegnante,anche se poi l’impatto vero e proprio (la botta, per capirci) l’ho avuta conil primo anno di insegnamento. Comunque, trascorsi a parte, questa pre-messa vuole solo chiarire che il mondo dei precari lo vivo dall’esterno,cioè attraverso i racconti delle esperienze che alcuni miei colleghi, da pre-cari appunto, fanno.

Credo sia piuttosto banale ribadire che il precario non è una categoriadello spirito, o che non ha segni particolari che lo contraddistinguono daun insegnante di ruolo. Ritengo, piuttosto, che l’unica, ma pesante, diffe-renza risieda unicamente nell’intimo di chi vive questa condizione, nellaprecaria-mente, appunto.

Mi spiego. Nella scuola dove insegno, così come in ogni scuola, durantei mesi di ottobre/novembre (se tutto va bene) appaiono volti nuovi, di col-leghi “nominati” – neanche fossimo al “Grande Fratello” – che poi, così co-me succede in quella trasmissione, improvvisamente vediamo sparire.

Nel migliore dei casi riescono a rimanere per tutto l’anno, così che ci siconosce e si stringono amicizie, molto spesso più durature di quelle che sihanno con colleghi della propria scuola. Altre volte, invece, così come sonoapparsi, questi colleghi “svaniscono” e non se ne hanno più notizie.

Quello che intendo dire è che a me può dispiacere non lavorare più conquel collega, ma per lui o lei, oltre a un dispiacere, ci sono problemi ben piùpesanti che solo lui o lei vive: a partire dal dovere abituarsi ad alunni, colle-

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ghi, e presidi nuovi, fino ad affrontare quello che, immagino, sia il nododella questione e cioè l’idea frustrante di dover interrompere un percorsoper intraprenderne un altro, con la stessa voglia di fare e di dare…

D’altra parte, ma mi rendo conto che questo è un pensiero di chi, co-munque, non si trova in questa situazione, ho anche intravisto un aspettopositivo in tutto ciò. Da inguaribile ottimista – e quale insegnante non lo è?– mi sono chiesta se non si possa trovare in questo strapazzo un valore chegli insegnanti di ruolo possono perdere, e cioè il costante allenamentomentale che una situazione di work in progress obbliga a mantenere. È veroche la maggior parte degli insegnanti tiene viva la propria curiosità e la vo-glia costante di sperimentare, ma alcuni danno tutto troppo per scontato.Dai miei contatti con colleghi precari, ho avuto la chiara sensazione di unaforte energia investita in ciò che si fa.

E mi chiedo anche: ma una persona che ogni anno, se non più di fre-quente, è costretta a subire attese estenuanti in condizioni inumane alprovveditorato, nomine al cardiopalma fino a conferma avvenuta, consul-tazione di cartine stradali per la localizzazione delle scuole con relativimezzi di trasporto, e tourbillon di colleghi, alunni e presidi con volti che sisovrappongono a mo’ di effetto speciale, mi chiedo: ma questa persona hapoi davvero una gran voglia di insegnare? E la risposta che mi do è sorpren-dentemente affermativa.

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APPENDICE

MATERIALI CREATIVI

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Vincenzo Valentino

PIÙ PRECARI DI COSÌ

Un documentario in Dvd

Nei quattro anni del ministero Moratti, non c’è stato un solo atto in favo-re dei precari, eccetto le assunzioni del 2001, programmate e approvate dalprecedente governo dell’Ulivo, e le circa dodicimila immissioni in ruolo del2004, un numero irrilevante che non ha coperto nemmeno il turnover deipensionamenti, aggravando ancora di più l’emergenza del precariato. Ep-pure c’è ancora chi spera nelle 200 mila assunzioni promesse.

“Gli insegnanti sono tutti in cattedra”, proclamava il ministro Morattinel Tg1 del 25 agosto 2004. Qualche settimana dopo, alla riapertura del-l’anno scolastico, i giornali di area governativa continuavano sullo stessotono: “I prof tutti al loro posto… La macchina dell’istruzione è partita, ri-solti tutti i problemi organizzativi… I funzionari del ministero dell’istru-zione hanno lavorato tutta l’estate per poter assicurare un normale iniziodell’anno scolastico”.

Forse questi articoli si riferiscono alla scuola danese, finlandese, o svede-se, mi sono chiesto.

No, mi sbagliavo, si riferivano alla scuola italiana. L’undici agosto, ilgiorno dell’uscita delle graduatorie fasulle, avevo incontrato tanti colleghi,i quali, come me, erano preoccupati per la loro sorte lavorativa. Gli elenchiaffissi erano pieni di errori e di omissioni, tanti insegnanti erano sparitidalle graduatorie, mentre ad altri avevano assegnato un punteggio errato.A nessuno di coloro con i quali mi capitò di parlare era stato attribuito unpunteggio corretto.Vista l’enorme mole di ricorsi si era capito che l’Ufficiodoveva ricominciare tutto da capo e rifare le graduatorie ex novo. Ci sareb-bero voluti altri mesi per farle uscire.

Un tale caos e confusione come nell’anno scolastico 2004-2005 negli ul-timi decenni non si era mai verificato. Questo era un dato oggettivo, facil-

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mente dimostrabile, ma la versione ufficiale propagandata dalle alte sfereministeriali, era, come al solito, molto ottimistica e rassicurante.

I genitori dovevano stare tranquilli, quest’anno i loro figli avrebberoavuto tutti gli insegnanti al loro posto, fin dall’inizio. Fatto storico che nonsi era mai verificato nei precedenti governi dell’Ulivo.

Intanto, in quei giorni di settembre mi aggiravo per i corridoi del Centroservizi amministrativi di Roma intasati di colleghi e mi sottoponevo a este-nuanti file chilometriche nel tentativo di far correggere un errore di pun-teggio in graduatoria, prima che fosse troppo tardi visto che il ricorso scrit-to che avevo inviato si era perso per le vie di Internet o tra i faldoni di carta.

La scuola era già iniziata e noi precari eravamo, nonostante la versioneministeriale che ci vedeva tutti a scuola, ancora disoccupati dal 30 giugnotrascorso e tutti lì in fila davanti alle porte numerate del Csa. Perché alloraquei proclami, quelle notizie depistanti da parte del ministero? Per noi erachiaro: si voleva dare un’immagine della scuola che non corrispondeva al-la realtà, come una sorta di Mulino Bianco della didattica.

È stato in quei giorni di settembre che mi è venuta l’idea di fare un docu-mentario che mostrasse quella situazione drammatica ma non seria. Alla finel’operazione si è rivelata più facile del previsto,il film si è fatto quasi da solo,per-ché non ho dovuto inventare niente, ho semplicemente portato la telecameracon me per riprendere le insegnanti in fila nei centri servizi amministrativi, al-cune con bambini e carrozzine al seguito, mentre la scuola era già iniziata, far-mi raccontare la loro odissea, intervistare studenti che bivaccavano nelle aulesenza insegnanti, sindacalisti che denunciavano leggi e provvedimenti sbagliatie il materiale era raccolto.Poi,ho pensato che tutto questo non bastava,manca-va la parte umoristica dell’argomento. L’ho trovata quando ho saputo che laMoratti stava accingendosi a presenziare,nella monumentale cornice del Vitto-riano e per il quarto anno consecutivo,alla cerimonia di inizio della scuola.

Sulla carta già si preannunciava un programma succulento, zeppo di vipe di ospiti importanti, divi televisivi e campioni olimpici chiamati a fare daesempio ai giovani.

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La manifestazione, trasmessa in diretta televisiva, non ha tradito le atte-se, il format era quello del varietà del sabato sera. A presentare l’evento èstato invitato Fabrizio Frizzi, il quale ha condotto da par suo, trascinandoalla ribalta via via, attori, cantanti e campioni dello sport.

E la scuola? Era in platea a fare da pubblico plaudente e rappresentata dacentinaia di studenti rigorosamente in divisa e accompagnati dai loro inse-gnanti. I vip e i campioni olimpici hanno spiegato ai ragazzi presenti e allefamiglie collegate da casa i sacrifici che occorrono per riuscire nella vita eper diventare famosi, nonché l’importanza della competizione, sportiva oscolastica che sia. Lino Banfi ha ricordato al ministro Buttiglione, che pre-senziava in prima fila divertito, la promessa di una laurea ad honorem;mentre il ministro Moratti si è impegnato con il popolare attore pugliese aconsigliare la visione della serie Un medico in famiglia agli studenti di tuttele età. Proprio un bel varietà edificante, offerto agli italiani in orario scola-stico e rivolto soprattutto a quelle persone che della scuola hanno solo unvago e nostalgico ricordo adolescenziale, a dispetto di chi invece nelle auleci lavora e ci studia ogni giorno. Mettere una di fronte all’altra queste duevisioni della scuola, quella governativa e quella lavorativa, così diverse e di-stanti tra loro, non è stato difficile.

È bastato affidarsi alle più elementari regole del montaggio audiovisivo,in particolare alla tecnica del montaggio alternato, per mostrare lo striden-te contrasto tra il mondo della scuola reale, con i suoi problemi reali e ur-genti, e l’immagine illusoria e virtuale, trasmessa da piazza Venezia.

Il documentario nasce dalla – speriamo irripetibile – durissima estatedel 2004, come tentativo di reagire all’impotenza e allo stato di frustrazio-ne che le nuove disposizioni di legge (raddoppio anche retroattivo dei ser-vizi in scuole di montagna, semicancellazione del servizio aspecifico, ritar-do nelle uscite delle graduatorie, con conseguente slittamento nelle nomi-ne) hanno determinato nella maggior parte degli insegnanti precari.

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Più precari di così. Regia, soggetto e sceneggiatura: Vincenzo Valentino;supporto: mini Dv digitale, video Dvd; interpreti: insegnanti precari; durata:20’; anno 2004.

Vincenzo Valentino è nato a Casagiove (Caserta) il 4 marzo 1962.Si è laureato all’Università di Roma “La Sapienza” in Storia e critica del

cinema con Guido Aristarco, con una tesi su Charlie Chaplin.Oltre all’attività di insegnante di lettere nelle scuole secondarie superio-

ri, ha svolto un’intensa attività di corsi di didattica di linguaggi audiovisivicon l’associazione “Luci della città”.

Nell’ambito di questo lavoro ha realizzato cortometraggi.Ha partecipato al piano nazionale per la promozione del linguaggio ci-

nematografico audiovisivo nella scuola promosso da Irre Lazio.Il documentario Più precari di così, autoprodotto, è stato proiettato in

varie città italiane.

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Giampiero Mazzone

IL MARE SOLTANTO

Chissà che a Natalenon ci troveremo coperti di neve.

Sarebbe genialeper noi che viviamo distesi sul mare.

Già immagino fuoricolori diversi, i nuovi rumori:

granita di cedro le lastredi ghiaccio che sembrano vetro.

Dovremmo adattare cosìla maniera di poggiare i piedi,

sperimentareun nuovo modo di camminare;

un incedere lento,quasi riflessivo per non scivolare:

il fiato sospeso,la mente perduta,

lo sguardo confuso.Tutti concentrati

di fronte ad un mondoche cambia i suoi dati,

a cercar di capireragioni e misteri di questo mutare.

Poi gli “intelligenti”fornirebbero dati esatti e importanti,

il mare soltanto resterebbeuguale nel suo movimento.

Chissà che a Natalenon ci troveremo coperti di neve.

Sarebbe geniale per noiche viviamo distesi sul mare.

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Mi accorgo che è un sognoe che il mondo non ha cambiato disegno:

gli stessi pensieripiù o meno annoiati

e pochi desideri.Il mare soltanto, come in sogno,

continua a muoversi lento,gli affido i tormentidi questo pensare,di questi momenti.Col cuore deluso

ritorno nel mondosempre più sorpreso.Stanotte, può darsi,

che torni a sognare eventi diversi.

Il mare soltanto è stato scritto nel 1992 dopo le stragi di mafia di Capaci evia D’Amelio in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Bor-sellino, la moglie di Falcone e gli uomini delle rispettive scorte.

È un brano che descrive un cambiamento dovuto non tanto a una presadi coscienza collettiva in Sicilia contro Cosa Nostra (che in realtà c’è statama è ormai dimenticata, tant’è che oggi la mafia siciliana è più florida chemai, ma più silente), ma a una nuova e straordinaria condizione climatica.

Con questo brano, nel 1998, ho vinto il “Premio città di Recanati”.

CANTOFERMO(Giampiero Mazzone)

Certi giorni sono come lacrimenon si scordano perché bruciano

sanno di sale acqua di marehanno un solo cielo uno solo

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Altri giorni sono senza storiasono strade che non arrivanogiorni senza idee senza rabbia

neanche un tormentoe non passano mainon finiscono mainon finiscono…

Quanti giorni sono senza glorianon hanno ali e non si volasi resta a terra come pietrepesantissime e senz’anima

Così ho deciso di morire un po’per rinascere per rivivereripercorrere la mia storia

respirare ancora la mia aria

Cantofermo il mio rimpiantonon averti dato tanto

rannicchiato nelle mie feriteinvecchiato tra attese infinite

Dentro il tempoil tempo della memoria

non si consuma non si logoraha un suo calendario privo di giorni

niente mesi o annisolo estati e inverni

Certi giorni sono senza musicasolo silenzio senza metricasono rumori fuori temposono bagliori senza lampo

Cantofermo il mio tormentonon averti dato tanto

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aggrappato alle mie ragioniumiliato dalle delusioni

Vento calmo quasi fermoche dal mare va all’interno

porta profumi di altre stagioniporta me dentro antiche passioni

Cantofermo Cantofermo

Giampiero Mazzone, siciliano (nativo di Siracusa), autore e compositore.Ha vinto il premio speciale della critica e della Siae con il brano Il mare

soltanto alla IX edizione (1998) del “Premio Città di Recanati”.Ha vinto il “Premio Fabrizio De André” per due anni consecutivi: nel

2002 e nel 2003.Sempre nel 1998 ha partecipato alla terza edizione del “Salone della Mu-

sica” al Lingotto di Torino, ospite nello stand della Siae.Per anni si è dedicato alla ricerca e riproposta della musica popolare tra-

dizionale facendo parte di diverse formazioni presenti in questo settore co-me la “Taberna Mylaensis” e “Meridiano 15”. Ha fondato egli stesso diverseformazioni siciliane (“Fronne”, “Gruppo di Centonia”, “Ammaruvaja”) incui, accanto alla riproposta di brani della tradizione, incominciava a pro-porre brani di propria composizione.

Contemporaneamente a questa attività si è dedicato alla composizionedi musiche per teatro lavorando in occasione di importanti appuntamentinazionali come le “Manifestazioni verghiane”a Vizzini, il “Teatro di Revivi-scenza” a Caltanissetta a fianco di attori come Giulio Brogi, Arnoldo Foà,Pino Colizzi, Orso Maria Guerrini, Edoardo Siravo e con il “Gruppo MariaCampagna” di Catania in occasione dello spettacolo Il paese di cuccagnarappresentato al Teatro Stabile “Angelo Musco” nella stagione 1983-84.

Il trasferimento a Roma (avvenuto nel 1984) lo vede fondatore e leaderdei “Tuckiena” con i quali realizza – nel 1990 – un disco prodotto dall’eti-chetta indipendente romana “Classico dischi”, distribuito dalla BMG Ario-la. Sempre con i “Tuckiena” ha partecipato a diverse rassegne nazionali di

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musica mediterranea “Né sole né luna” a Benevento, “Dialoghi mediterra-nei” a Ravello e altre).

Si è più volte esibito al “Folk Studio”di Roma nella sede storica di Traste-vere e in altri locali della capitale e di Milano.

Nel 2004 ha suonato all’Auditorium “S. Chiara” del quartiere romanoTorrino nell’ambito della rassegna organizzata dal XII Municipio in colla-borazione con l’Associazione Culturale “Allegro Vivo”.

Brani di sua composizione sono eseguiti da diverse formazioni e alcunidi questi (Dormi e vola e Si li me’ paroli) sono stati inclusi nel cd La casa diIcaro dei catanesi “Lautari”.

Ha scritto testi per il “Canzoniere della Ritta e della Manca” di Beneven-to inseriti poi nel cd Malevento.

Ha partecipato all’antologia di autori siciliani Mastrarua con un brano,Calura,dedicato al giornalista Giuseppe Fava assassinato dalla mafia nel 1984.

Ha collaborato, in qualità di autore dei testi, con Nada, la “Nuova Com-pagnia di Canto Popolare”, Carlo Muratori, Kaballà, Edoardo De Angelis,Mario Salvi.

Nel dicembre del 2002 esce il cd L’avvicinamento prodotto dall’etichettaromana indipendente “Tempi Moderni Edizioni” nella collana “Fuoristile”.

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Vincenzo Valentino

PRECARIOPOLI

Un testo teatrale

La scenografia è costituita da una roulotte posta sul fondo della scena cherappresenta la casa mobile dell’attrice. Davanti alla roulotte c’è una cattedracon una sedia.

Il proscenio è delimitato da una cornice che simula un grande schermo te-levisivo.

Sigla musicale in stile circense.Un’attrice entra in scena cantando.

ANGELA La terra è mobile qual piuma al vento… muta d’aspetto e disentiero… il mio lavoro è mobile, flessibile, snodabile, ruotabile, smonta-bile, mirabile… comprate il mio specifico, per poco io ve lo do.

La musica che accompagna la parte cantata sfuma.

L’attrice recita il monologo sottolineandolo con passi di danza.

ANGELA Flessibilità, mobilità, sviluppo, dinamismo, competitività,concorrenza, chi si sposta è avvantaggiato, chi sta fermo è fregato. Questo èil segreto del successo. E non c’è bisogno di scomodare i sapientoni, bastaaccendere la televisione…

ANGELA (in video). Gentili telespettatori, è questo il momento della le-zione sintetica di economia tenuta dall’insigne opinionista televisivo econsigliere governativo dottor Burletta, uno che ha molti soldi ma denun-cia uno stato in bolletta.

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L’attrice preme il tasto del telecomando e manda in onda un’intervista.Su uno schermo televisivo appare il cavalier Burletta seduto nel salotto di

casa, tutto imbacuccato con una sciarpa rosso-nera al collo.

BURLETTA (in video). Questa sciarpa l’ho comprata quando ho decisodi tifare per la squadra del mio presidente. Quante volte ci siamo abbrac-ciati quando i nostri hanno segnato un goal. È un’emozione indescrivibilesentire il suo cuore e il mio battere all’unisono. Ma lasciamo stare i senti-menti e passiamo al nostro argomento di oggi.

Nel mondo odierno, dominato dal fast, fast food, fast net, fast pay,takeaway, non è utile stare fermi, bisogna muoversi, circolare, un due, undue, sempre in modo trasversale per non essere pescati dal controllo fiscale.

Ci vuole velocità e competitività, per cogliere tutte le opportunità offer-te dalla moderna società. Direi che per avere denaro e successo è necessarioseguire come aquiloni il mercato nelle sue imprevedibili fluttuazioni.

Al mondo d’oggi, tutto è mobile: la palla rotola… gli animali emigrano,il vento muove le foglie. E i cinque continenti? Anche loro vanno alla deri-va, questo ce lo insegna la tettonica. E della terra, che ogni giorno si gira, co-sa vogliamo dire?

Mi piace proprio sentirmi parlare, imparo tante cose da me stesso. Sonoun’enciclopedia vivente… I miei studenti del college privato dei “Santissi-mi Quattro del Paradiso” mi chiamano il Treccani.

Certo, mi fanno anche pena quelle persone che non si adattano alla mo-bilità e continuano ad abitare nella stessa città, in quei palazzi in muraturavecchi e decrepiti; ma cos’aspettano a comprarsi una roulotte e spostarsiogni volta che l’affare li chiama?

Giovani, mi rivolgo a voi che potete capirmi: il segreto del successo è nel-la mobilità. Se non riuscite a intravedere un futuro, andate, andate, cammi-nate e non fermatevi mai, finché non riuscirete a trovarlo. Se voi cercate be-ne, il futuro lo troverete.

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ANGELA (in scena). Sagge parole. Sono anni che ascolto la trasmissionedi Burletta e mi sono arricchita di sapere, ho acquisito un grande culturalbaggage. Lo devo a lui se sono diventata una tuttologa. Ho sempre voglia disapere di più. Mi diletto a spaziare con disinvoltura: dall’italiano alla mate-matica, dalla chimica alla geografia, dalla filosofia all’agricoltura.

Tutto, tutto, ho imparato a insegnar tutto.Non lo dico per vantarmi, ma nelle scuole mi chiamano la Jolly Angel,

niente ruoli fissi, globalità del sapere: passo dalla religione all’astrologia,dalla fisica alla patafisica, dall’informatica alla tombola. Manca chimica:eccomi ragazzi, vi insegnerò degli esperimenti strabilianti.

Ho superato più di mille test, tutti attestati, e per 4 anni consecutivi sonorisultata prima al Grande Quiz del 6 gennaio. So cucinare in tempo reale, inreal time, e recito a memoria i migliori proverbi della tradizione.

Chi tardi arriva male alloggia… Meglio l’uovo oggi e la gallina domani,chi ha tempo non aspetti tempo. Chi dorme non piglia pesci… Chi si fermaè perduto.

Chi si muove è il più astuto.

Sigla che annuncia la pubblicità

ANGELA È il momento di “Mercato-scuola”e dei consigli per gli acquisti.Noi ci vediamo al termine della pubblicità, restate con noi.

Sullo schermo appare un imbonitore, un vecchio marpione delle televenditePrimo spot

VENDITORE (in video). Se sei un docente che crede nel proprio lavo-ro,vieni a trovarci al Pie, Pronto intervento education. Ti garantiamo 12esami in 10 mesi, 30 punti in graduatoria. Per l’iscrizione basta mandare unmms, versare la modica somma di 1000 euro.

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Secondo spot

VENDITORE (in video). Docenti, ascoltatemi bene, sono qui per pro-porvi un vero affare. Avete la possibilità di diventare anche voi proprietaridei vostri strumenti di lavoro; acquistate una lavagna elettronica personalecon il contributo governativo.

Vedete questa cattedra, il primo che alza la cornetta e telefona in tra-smissione se l’aggiudica per 60 euro completa di registro e di sedia conspalliera e rotelle, praticamente un regalo.

Il venditore attende una telefonata per circa trenta secondi, poi sbotta irritatoVisto che non volete approfittare dell’occasione, peggio per voi! Restere-

te dei miserabili…

Sigla

ANGELA Purtroppo il mondo della scuola non è tutto rose e fiori. Ci so-no anche dei casi pietosi. Adesso ve ne mostrerò qualcuno.

STUDENTE Lo scorso anno ci hanno cambiato 5 volte l’insegnante diitaliano… col primo andavo bene, ho preso otto, col secondo un po’ menosette, col terzo sei, col quarto cinque, e col quinto quattro e alla fine m’han-no dato il debito in italiano.

INSEGNANTE ANZIANO Io mi chiamo G., classe A048, punti 96, fac-cio l’insegnante precario da venticinque anni, ho cominciato a lavorare inIrpinia nell’inverno del terremoto con una supplenza lampo di sei giorni,dal lunedì al sabato; da allora sono cambiati 12 governi, quattro presidentidella repubblica, è crollato il muro di Berlino e alcuni tetti di scuole pubbli-che, ma per noi non è cambiato nulla, siamo sempre gli stessi e continuia-mo a lavorare in emergenza.

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ANGELA Che gente!… che pena! Ecco cosa succede a chi non si adegua,a chi non sta al passo con i tempi. (Al pubblico) Bisogna che facciate anchevoi attenzione a non diventare così.

Gente che non sa niente di gestione delle risorse umane, di marketing, dimanagement, di debiti e crediti, di entrate e uscite, si lamenta e pretende distare in cattedra. E non è finita, sentite quest’altra testimonianza

INSEGNANTE Io mi chiamo V., classe A050, 86 punti. Noi insegnanti era-vamo flessibili prima che fosse stata introdotta la parola.E certo che siamo mo-bili, flessibili, non abbiamo scelta. Quest’anno ho cambiato cinque scuole nelgiro di cinque mesi, e siamo solo a marzo, altro che valzer, qui siamo alle mon-tagne russe delle cattedre.Gli studenti hanno le vertigini e non ci capiscono piùniente e anche a noi gira la testa. Io sono riuscito a memorizzare i nomi dei ra-gazzi il giorno che mi è scaduto il contratto e così ho dovuto ricominciare dacapo in un’altra scuola.Cucuzzoli,Pizzaballa,Pampinelli,Scarafoni,Moscatel-la non sono neanche cognomi semplici, non mi ricordo più se stavano in 2E,1C o 3B.Del resto bisogna rispettare la classifica e dare la precedenza all’aventediritto.Chi ha più punti lavora di più,chi ha meno punti lavora di meno,chi hapochi punti non lavora per niente.Ma non è così semplice,perché ci sono i rad-doppi, le trasferte e allora il meccanismo diventa complicato.

ANGELA Ora ve lo spiego io il meccanismo. Quel collega era visibil-mente confuso…

Se un insegnante va a lavorare in una scuola di montagna, purché la mon-tagna sia una vera montagna,e non un altipiano, si becca il punteggio doppio.

Chi va in montagna in punteggio ci guadagna:ci sono insegnanti che in due otre anni risalgono la classifica fino ai primi posti.Questa è una buona regola,ha ilpregio di creare dei sani conflitti tra colleghi, fortifica il carattere e anche il fisico,perché spesso nei circoli di insegnanti ultras, la rivalità si trasforma in rissa.

Questa è vera concorrenza. Una corsa epica verso la montagna in cercadi fortuna, come i cercatori d’oro del Klondike. Ci vuole ottimismo, vo-

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lontà, carattere forte e fortuna. La fortuna aiuta gli audaci. È anche impor-tante saper reagire alle avversità.

Quando è entrata in vigore la legge sulla montagna io stavo insegnandoalla Magliana, un quartiere di Roma che si trova sotto il livello del Tevere,una zona piena di zanzare tigri, ci ho fatto sei mesi di supplenza, ma soffri-vo e tenevo duro, però alla fine sono stata premiata, alla fine dell’anno misono guadagnata 64 punti.

L’anno prossimo prenderò ancora più punti. Ho deciso di frequentareun master per entrare nella task force dell’Itp insegnanti temerari precari,mi compro una mimetica, un fucile e me ne vado in missione umanitarianelle zone minate, in quei luoghi nessuno ci vuole andare, ma ci sono pa-recchi infedeli da educare. Così, in un anno scolastico, mi guadagno ben 80punti.

Sigla che annuncia la pubblicità

Un imbonitore televisivo cerca di vendere qualche altro oggetto della scuola.

VENDITORE Signore e signori, quello che sto per proporvi è uno stru-mento di assoluta novità nella scuola italiana. È una macchina importatadirettamente dal Giappone. La Simsang ne ha già venduti 30.000 esempla-ri al ministero dell’istruzione. Si tratta di una cabina di valutazione auto-matica, dall’uso semplicissimo, più semplice di un aspirapolvere, che fa ri-sparmiare un mucchio di tempo all’insegnante.

Invece dell’interrogazione è sufficiente far entrare lo studente nella cabi-na e immediatamente nella parte superiore si accende una luce che segnalail livello di preparazione e il voto, la luce rossa segnala i voti dal cinque ingiù, luce verde dal sei in su. Il tempo di permanenza all’interno della cabinaè di sessanta secondi. Il prezzo base è di 500 euro; completa di accessori, se-dile in pelle, cuffia imbottita e cromatura metallizzata costa 625 euro. Lapotete acquistare, senza un euro d’anticipo, a tasso zero. Provatela nella vo-

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stra scuola e se non funziona me la riprendo indietro. Docenti, non perde-te questa occasione per stare al passo con la moderna e più avanzata tecno-logy in education. Chiamate subito al numero 61 61 61.

Sigla

ANGELA La scienza umana sta facendo dei passi da gigante anche dalpunto di vista anagrafico. Io ho un nome provvisorio, Angela, me lo sonodato due settimane fa, prima mi chiamavo Raffaella, e prima ancora Maria,Carla, Alessandra; ne ho cambiati tanti, che non li ricordo neanche tutti.Da quando è stata introdotta la legge sulla personomastica flessibile tuttipossono cambiare nome quando vogliono, chiunque può dare un calcio alproprio passato e ricominciare da capo. Basta mandare un mms all’anagra-fe e si viene immediatamente registrati col nuovo nome.

È una bella conquista di libertà questa, dobbiamo ammetterlo, senza es-sere faziosi, è stata la più geniale pensata del governo.

Sei ricco? sei povero? hai difficoltà a sopravvivere? Cosa importa, se puoidare una svolta alla tua esistenza, se puoi sceglierti il nome che vuoi?

Hai troppi soldi in banca e non vuoi metterli tutti sullo stesso conto, pernon dare nell’occhio? Allora ti apri dieci, cento, mille altri conti correnticon nominativi diversi e i soldi sono sempre tuoi.

Ma non pensate che il vantaggio sia solo per i ricchi, anche i poveri nebeneficiano.

Tutti quelli che non lavorano o guadagnano pochissimo, quelli che han-no un lavoro insicuro e precario, una volta licenziati dall’azienda avranno ilvantaggio di ripresentarsi alle selezioni con un altro nome e riprovare dinuovo a farsi assumere. Possono percepire la realtà in modo totalmente di-verso e con un diverso punto di vista. Ricordate lo slogan: cambiare il tuonome, ti cambia la vita. Il sogno ora si è avverato.

E ora, gentili telespettatori vogliate ascoltare alcuni utili consigli del no-stro ministro.

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MINISTRO Docenti, mamme, papà, nonni, zii, fratelli più grandi, voiche avete un ruolo cruciale nell’educazione dei ragazzi, ascoltate un mioconsiglio di ministro e di madre, non siate pigri con il vostro sapere, ma fa-te controllare il vostro livello di preparazione totale sottoponendovi alme-no un volta l’anno al check-up educational.

Il ministero ha messo a punto per voi un sistema molto avanzato.Tramite Internet vi saranno inviate domande direttamente dal Palazzo

Vetril, dove un’apposita commissione è incaricata di monitorare la vostraconoscenza, la vostra capacità di trasmettere informazioni senza annoiareparenti e discenti.

Con la nuova scuola, sempre migliore, più attiva, più dinamica, piùcompetitiva, gli insegnanti non saranno più costretti a memorizzare infor-mazioni inutili, come i nomi dei ragazzi, a incontrare i loro genitori, adascoltare i loro problemi, ma possono marciare dritti verso il loro obiettivoprimario, che è quello di insegnare nozioni veramente utili e spendibili nelgrande supermercato della società.

Il nostro metodo è all’avanguardia; lavoriamo con le immagini e con isuoni, ai nostri studenti mostriamo delle foto e dei filmati e gli facciamoascoltare consigli di persone che nella vita hanno avuto successo e poi pas-siamo subito alla verifica attraverso il quiz, per valutare i risultati consegui-ti. I più preparati saranno assunti nelle aziende private. Gli allievi più dina-mici possono diventare perfino dirigenti, manager, creatori di strategie dimarketing, pubblicitari, speaker di commercio, agenti speciali d’azienda, efin anche scienziati dello shopping. Consentitemi una metafora: la nuovascuola non assomiglia a un parcheggio di vecchie automobili arrugginitedal tempo, ma a una superstrada con veicoli sfreccianti. L’unico metro divalore dello studente moderno è il portfolio, il solo strumento valido nelcurriculum.

Termini desueti e intrisi di lassismo come socializzazione, solidarietà,integrazione, senso critico, libertà di pensiero, appartengono al passato esaranno sostituiti con motti brevi e incisivi.

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Più flessibili è possibile!Felici e concorrenti!Fai, fai, senza pensare mai.Non ti fermare, vai…

L’attrice solleva uno alla volta, alcuni fogli da terra e comincia a leggerli.Sono frammenti di articoli della Costituzione italiana:

ANGELA “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione

senza oneri per lo Stato. La scuola è aperta a tutti.I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno il diritto di raggiun-

gere i gradi più alti degli studi.La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Cura

la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori.Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e

qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla fa-miglia un’esistenza libera e dignitosa.

Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite…”.

Ma chi avrà scritto questa roba!… Incredibile che nel 2005 si debbano leg-gere ancora utopie così fuori moda. Non ci posso credere… ma chi le avràscritte! Le ipotesi sono due: o questi concetti sono usciti dalla testa di qualchesovversivo del secolo scorso, oppure sono frammenti mal riusciti di qualchescrittorucolo di fantascienza che non ha trovato un editore e li ha buttati via.

Improvviso blackout, la scena si oscura.Nel buio si sente una voce.

VOCE A vulimmo fa passà ’sta nuttata?

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MATERIALI DI DOCUMENTAZIONE

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* I testi citati in questo capitolo sono stati riprodotti mantenendone inalterate le caratte-ristiche formali.

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Brunella Presbiteri De Lassis

PER UNA RICOSTRUZIONE NORMATIVA

In Italia, la graduale eclissi del valore del Concorso Ordinario, con an-nessa opera di svilimento del relativo titolo di abilitazione, al quale era sta-to attribuito un punteggio aggiuntivo per quasi un secolo, è strettamenteintrecciata con le vicissitudini relative alla storia delle Graduatorie Perma-nenti che qui si vuol riproporre in modo analitico.

IPremessa

Prima della legge 124/99, che istituisce di fatto le graduatorie permanen-ti, il reclutamento dei docenti era rigidamente separato, relativamente allatipologia del contratto cui si concorreva.

Per le immissioni in ruolo (oggi dette “contratti a tempo indetermina-to”) vigeva un regime di doppio binario:a) il 50% dei posti era assegnato agli idonei al concorso a cattedre per titoli

ed esami (la cui posizione in graduatoria è da sempre ordinata per meri-to, ossia è determinata dal risultato delle prove di esame e dai titoli cul-turali posseduti. Ai fini della posizione in graduatoria è irrilevante ilpunteggio di servizio);

b) l’altro 50% del contingente era assegnato ai docenti iscritti nelle gradua-toria del cosiddetto “Doppio Canale”, graduatoria ordinata per possessodi soli titoli.È opportuno sottolineare che avevano diritto all’inclusione nel “Doppio

Canale” esclusivamente i docenti forniti di entrambi i seguenti requisiti:1) superamento delle prove di un precedente concorso ordinario per esa-

me e titoli, anche ai soli fini abilitativi;

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2) servizio di almeno 360 giorni (pari a due anni scolastici) prestato esclu-sivamente nelle istituzioni scolastiche statali a partire da un anno scola-stico prefissato.La graduatoria del concorso per soli titoli era formulata sulla base del-

l’allegato “A” annesso al D.M. di indizione del concorso stesso.Nella sua ultima formulazione (D.M. 29 Marzo 1996 – periodo di vali-

dità: 1996/97; 97/98; 98/99) il concorso per soli titoli determinava il pun-teggio spettante al docente valutando:a) il voto ottenuto nelle prove concorsuali per titoli ed esami, con punti da

12 a 36;b) in maniera preponderante, i titoli di servizio.

Per i titoli cosiddetti culturali era attribuibile un massimo di 12 punti(pari a un solo anno di servizio).

Per il docente già iscritto in graduatoria la partecipazione al concorsoequivaleva a domanda di aggiornamento del punteggio. La logica sottesa auna siffatta normativa era semplicemente quella di prendere atto – e darnecontezza nella graduatoria del “Doppio Canale”– dello stato di anzianità diservizio venutasi a creare fra i docenti – graduando la posizione dei nuoviiscritti e aggiornando la posizione dei già iscritti – in virtù del punteggioderivante dal servizio eventualmente prestato nel periodo intercorrente trauna revisione e l’altra di detta graduatoria. Generalmente la vigenza dellegraduatoria era di tre (3) anni scolastici.

È opportuno ribadire che l’inclusione nel “Doppio Canale” dava dirittoesclusivamente alle immissioni in ruolo per il 50% del contingente e nonagli incarichi annuali o alle supplenze brevi, assegnati con altra procedurae altre graduatorie, formulate in base a un diverso criterio.

A base della graduatoria di “Doppio Canale” erano poste, appunto:• la Graduatoria Provinciale di Incarichi e Supplenze, di competenza del

Provveditore agli Studi della provincia prescelta.• la Graduatoria di Circolo e di Istituto degli aspiranti a supplenze tem-

poranee, di competenza del capo di circolo e di istituto.

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IILa Graduatoria Provinciale di Incarichi e Supplenze

Come recita l’Ordinanza Ministeriale 29 dicembre 1994, n. 371 – “Di-sciplina per il conferimento al personale docente delle supplenze nellescuole materne, elementari e negli istituti di istruzione secondaria e artisti-ca”– “Gli insegnanti non di ruolo sono nominati dal provveditore agli studimediante il conferimento di supplenze annuali, di supplenze temporaneefino al termine delle attività didattiche”.

Dallo stralcio dell’allegato alla O.M. 371/94, nella TABELLA C, tabelladi valutazione dei titoli per il conferimento delle supplenze al personaledocente delle scuole secondarie e dei licei artistici e degli istituti d’arte, frai titoli culturali si evince che “Alla inclusione nella graduatoria degli ido-nei, suppletiva o di merito o all’inclusione nella terna degli idonei in con-corsi a cattedre della stessa classe di concorso per la quale si chiede l’inclu-sione in graduatoria (6) punti 30.”

Il criterio della determinazione del punteggio spettante era fondato,dunque, essenzialmente sui titoli culturali e secondariamente su quelli diservizio. Tra i titoli culturali quello preponderante era l’idoneità al concor-so ordinario nella classe di concorso specifica.

Tale titolo era valutato punti 30, oltre il punteggio da assegnare al votodi abilitazione per incrementi di punti 0.5 per ogni voto superiore a75/100.

Va evidenziato che agli abilitati con Concorso Ordinario i 30 punti, ol-tre che nel 1995 (O.M. 371/94), sono stati attribuiti in tutte le graduatoriedi incarichi annuali dal 1980 al 2002 (ques’ultimo anno applicabili solonelle graduatorie di Istituto).

Più analiticamente:• 1980: D.M. 29/04/1980.• 1988: O.M. 356 del 6 dicembre 1988 (per il biennio 1989/90 – 1990/91)

(Nota 1).

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• 1992: O.M. 331 del 30 ottobre 1991, integrata e modificata con ordinan-za 375 del 30 novembre 1991 (triennio 1992/1995).

• 1994: O.M. 371 del 29 dicembre 1994 (triennio 1995/1998) (Nota 2).• Nel 2000 nessun docente poteva aggiornare i suoi titoli con l’ordinario

perché le procedure concorsuali non erano state ancora completate sulterritorio nazionale. Nel 2000, infatti, era possibile solo aggiornare leposizioni di chi era già inserito, aggiungendo servizio ed eventuale ri-servato.Nota 1: tra il 1980 e il 1988 non sono stati effettuati aggiornamenti di

graduatorie.Nota 2: tra il 1994 e il 1999 non sono stati effettuati aggiornamenti di

graduatorie.Appare evidente che la scelta di assegnare i 30 punti “anche” ai sissini trova

(tra le altre ipotesi formulate) principalmente giustificazione nell’abitudinestorica di riconoscere tale bonus agli idonei al concorso ordinario.

IIILa Graduatoria di Circolo e di Istituto

Fino al Decreto Ministeriale 27 marzo 2000, n. 123 – Regolamento re-cante norme sulle modalità di integrazione e aggiornamento delle gradua-torie permanenti previste dagli articoli 1, 2, 6 e 11, comma 9, della legge 3maggio 1999, n. 124 – per le domande di supplenza nelle scuole materne edelementari e nelle scuole secondarie gli aspiranti all’inclusione nelle Gra-duatorie di Circolo e di Istituto, già “inclusi in graduatoria provinciale deb-bono altresì indicare il punteggio ivi conseguito. La relativa domanda deveessere presentata in carta libera secondo il modello di cui all’allegato n. 21.”(O.M. 371/94; art. 19, punto 7).

Per la determinazione del punteggio e della conseguente posizione del-l’aspirante alle supplenze nella Graduatoria di Circolo e di Istituto vengo-

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no quindi seguiti, pari pari, i criteri della Graduatoria Provinciale di Inca-richi e Supplenze Annuali o fino al termine delle attività didattiche.

Anche per la Graduatoria di Circolo e di Istituto, il criterio della determi-nazione del punteggio spettante era fondato sui titoli culturali e di servizio etra i titoli culturali quello preponderante era l’idoneità al concorso ordinarionella classe di concorso specifica, valutato per la sua stessa natura punti 30.

In altri termini, il docente aspirante alle supplenze provveditoriali an-nuali o fino al termine delle attività didattiche come a quelle temporanee dicompetenza del direttore didattico e del preside vedeva la propria posizio-ne nelle rispettive graduatorie determinata:a) dal punteggio correlato al risultato del voto di diploma o di laurea (lode

compresa), ovvero del titolo di studio prescritto;b) dal punteggio correlato al risultato del voto di abilitazione, se prescritta

per l’inclusione in graduatoria: 12 punti minimo e incremento di 0,20per ogni voto superiore a 60 su 100;

c) dal punteggio derivante dal possesso di titoli di studio non specifici (al-trimenti detti “culturali”), fino a un massimo di 18 punti;

d) dal punteggio accumulato per il servizio svolto;e) dall’attribuzione di ulteriori 30 punti per l’abilitazione conseguita con

concorso ordinario.

IVIl Decreto Ministeriale del 27/03/2000 n. 123

Nel 2000 il Ministero della Pubblica istruzione con il D.M. 27 marzo2000, n. 123, adotta “Il regolamento recante norme sulle modalità di integra-zione e aggiornamento delle graduatorie permanenti previste dagli articoli 1,2, 6 e 11, comma 9, della legge 3 maggio 1999, n. 124”.

Tale D.M. dispone, all’Art. 1 – Trasformazione delle graduatorie provin-ciali dei concorsi per soli titoli in graduatorie permanenti – che “1. Le gra-

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duatorie provinciali dei concorsi per soli titoli del personale docente di scuolamaterna, elementare, media e secondaria superiore, ivi compresi i licei artisti-ci e gli istituti d’arte, e del personale educativo sono trasformate in graduato-rie permanenti, periodicamente integrabili e aggiornabili. […]”.

Nella valutazione dei titoli il D.M. 123/2000 non fece previsione di alcunpunteggio aggiuntivo per il possesso di abilitazioni conseguite con Con-corso Ordinario né con scuola di specializzazione universitaria (Ssis).

Peraltro, agli abilitati con concorso ordinario bandito nel 1999 non fupossibile l’inserimento in dette graduatorie permanenti – ex graduatorieprovinciali dei concorsi per soli titoli del personale docente –, non essen-do completate sul territorio nazionale le procedure concorsuali regionali.Nel 2000, infatti, fu possibile solo aggiornare le posizioni di chi era già in-serito, aggiungendo servizio ed eventuale titolo di abilitazione con corsoriservato.

VIl Decreto Ministeriale del 25/05/2000 n. 201

Con il D.M. del 25/05/2000 n. 201, il Ministero adotta “il regolamento re-cante norme sulle modalità di conferimento delle supplenze al personale do-cente ed educativo ai sensi dell’articolo 4 della legge 3 maggio 1999, n. 124.”

Tale D.M. 201/2000a) all’Articolo 2 (graduatorie permanenti) dispone che “1. Per il conferi-

mento delle supplenze annuali e delle supplenze temporanee fino al termi-ne delle attività didattiche si utilizzano le graduatorie permanenti di cuiall’articolo 401 del decreto legislativo 16 aprile 1994 n. 297, come sostituitodall’articolo 1, comma 6, della legge, integrate e aggiornate secondo le di-sposizioni contenute nel regolamento adottato con decreto ministeriale 27marzo 2000, n. 123, di seguito denominato “regolamento sulle graduatoriepermanenti”;

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b) all’Articolo 5 (Graduatorie di Circolo e di Istituto) dispone che “1. Il di-rigente scolastico, ai fini del conferimento delle supplenze di cui all’articolo7, costituisce, sulla base delle domande prodotte ai sensi del comma 6, ap-posite graduatorie in relazione agli insegnamenti impartiti nella scuola, se-condo i criteri di cui al comma 3”.I titoli di studio e di abilitazione per l’inclusione nelle graduatorie di cir-

colo e di istituto sono quelli stabiliti dal vigente ordinamento per l’accessoai corrispondenti posti di ruolo.

Per ciascun posto di insegnamento viene costituita una graduatoria di-stinta in tre fasce, da utilizzare nell’ordine, composte come segue:

I Fascia: comprende gli aspiranti inseriti in graduatoria permanente peril medesimo posto o classe di concorso cui è riferita la graduatoria di circo-lo e di istituto;

II Fascia: comprende gli aspiranti non inseriti nella corrispondente gra-duatoria permanente forniti di specifica abilitazione o di specifica idoneitàa concorso cui è riferita la graduatoria di circolo e di istituto;

III Fascia: comprende gli aspiranti forniti di titolo di studio valido perl’accesso all’insegnamento richiesto.

Gli aspiranti della I fascia sono inclusi secondo la graduazione derivantedall’automatica trasposizione dell’ordine di scaglione e del punteggio concui figurano nella corrispondente graduatoria permanente. Quelli inclusinella II e nella III fascia sono graduati secondo la tabella di valutazione deititoli annessa al presente regolamento (allegato A).

Relativamente al punto sub a) – costituzione delle graduatorie perma-nenti – il D.M. 201/2000, come già il D.M. 123/2000, non fa previsione diattribuzione del bonus né per gli abilitati con concorso ordinario, né pergli abilitati tramite le Ssis.

La carenza di tale previsione appare fatto “normale”considerando che legraduatorie permanenti siano la trasformazione delle “graduatorie provin-ciali dei concorsi per soli titoli del personale docente di scuola materna, ele-mentare, media e secondaria superiore …”.

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Il D.M. 201/2000 richiama infatti il regolamento adottato con decretoministeriale 27 marzo 2000, n. 123, di seguito denominato “regolamentosulle graduatorie permanenti”, che non prevedeva attribuzioni di bonus néper gli “ordinaristi”, né per i “sissini” nella Graduatoria permanente.

Ma lo stesso D.M. 201/2000 riguardo alla costituzione delle Graduatoriedi Circolo e di Istituto opera una distinzione tra gli aspiranti alle supplen-ze. Vi si legge, infatti, che:1) se già inclusi nelle permanenti, essi saranno immessi nella I Fascia della

Graduatoria di Circolo e di Istituto, con posizione determinata “secondola graduazione derivante dall’automatica trasposizione dell’ordine di sca-glione e del punteggio con cui figurano nella corrispondente graduatoriapermanente”.

2) se non inclusi nelle permanenti, essi saranno immessi nella II Fascia (gliabilitati) e nella III Fascia (i non abilitati) della Graduatoria di Circolo edi Istituto, e “… Graduati secondo la tabella di valutazione dei titoli an-nessa al presente regolamento (allegato A)”.Per la graduazione degli ammessi nella II Fascia della Graduatoria di

Circolo e di Istituto degli abilitati non inclusi nella graduatoria permanen-te, il D.M. 201/2000 si ispira a una “logica di merito”.

Dispone infatti che la posizione dei docenti sia determinata:a) dalla valutazione dei titoli di studio, con punteggio correlato al risultato

del voto di laurea (lode compresa);b) dalla valutazione del voto di abilitazione, da un minimo di 12 punti a un

massimo di 36;c) dalla valutazione di altri titoli di studio (detti “non specifici”);d) dalla valutazione dei titoli culturali (dottorati, borse di studio, ecc.);e) dal punteggio accumulato per il servizio svolto;f) dall’attribuzione di ulteriori punti 30 per le abilitazioni conseguite da

Concorso ordinario e Ssis.Il decreto in questione, al Capo b) “titoli specifici di abilitazione e ido-

neità” – punto 2, stabilisce infatti che:

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“2) … Se l’abilitazione o l’idoneità sono state conseguite tramite il superamen-to delle prove di un concorso per titoli ed esami sono attribuiti ulteriori punti 30”.

Parimenti se l’abilitazione è stata conseguita presso le Scuole di Specia-lizzazione all’Insegnamento Secondario (S.S.I.S.) sono attribuiti ulterioripunti 30.

Il punteggio ulteriore di cui al presente punto è attribuibile una sola voltaanche nel caso in cui il candidato possegga entrambi i titoli sopra elencati.

Il D.M. 201/2000, relativamente alle Graduatorie di Circolo e di Istituto,agli abilitati con Concorso Ordinario attribuisce i 30 punti aggiuntivi, co-me già era previsto dal 1980 al 2000 nelle ex Graduatorie di Incarichi e Sup-plenze e nelle Graduatorie di Circolo e di Istituto. Estende tale beneficio(Parimenti …) agli abilitati con Scuola di Specializzazione universitaria.

Dunque, al 25 maggio 2000 nelle graduatorie permanenti non vi è pre-visione di bonus, né per gli “ordinaristi” né per i “sissini”; previsione alcontrario esistente per ambedue le tipologie di abilitati nelle Graduatoriedi Istituto, che a quella data sono formulate con criteri di merito, affattodiversi da quelli delle Permanenti.

I differenti criteri trovano una spiegazione nella normativa operante al25 maggio del 2000: a quella data possono chiedere l’inclusione nella per-manente esclusivamente i docenti abilitati con procedure concorsuali or-dinarie. È per gli abilitati con i concorsi ordinari a cattedre per titoli ed esa-mi che, infatti, si dispone la riapertura, ovvero l’integrazione delle gradua-torie permanenti.

Tale determinazione trova la sua definizione nella legge 27 ottobre 2000,n. 306, all’articolo 6-bis, che prescrive i requisiti necessari per l’accesso allesessioni riservate di esami di abilitazione e per tali abilitati ammette l’inse-rimento nelle graduatorie permanenti di prossima integrazione a favoredegli abilitati con concorso ordinario.

L’Art. 6-bis della 306/2000, infatti, così recita:6-bis. Sono ammessi alla sessione riservata di esami di cui all’articolo 2,

comma 4, della legge 3 maggio 1999, n. 124, coloro che hanno maturato i re-

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quisiti di servizio previsti dal medesimo comma 4 entro il 27 aprile 2000, datadi scadenza per la presentazione della domanda di partecipazione alla predet-ta sessione di esami fissata dall’ordinanza del Ministero della pubblica istru-zione del 7 febbraio 2000, n. 33, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale – 4a seriespeciale – n. 25 del 28 marzo 2000. Il personale di cui al presente comma è in-serito a domanda previo superamento della sessione riservata di esami, nellegraduatorie permanenti, all’atto dell’integrazione delle medesime in esito al-l’espletamento dei concorsi a cattedre per titoli ed esami nella scuola seconda-ria banditi nel 1999, nel medesimo scaglione di coloro che superano i predetticoncorsi.

Peraltro l’art. 6-bis applica alla lettera quanto disposto dalla L. 124/99,che all’art. 2 (Norme transitorie), comma 4, dispone che “4. Contempora-neamente all’indizione del primo concorso per titoli ed esami dopo l’entrata invigore della presente legge, è indetta, con ordinanza del Ministro della pubbli-ca istruzione, una sessione riservata di esami per il conseguimento dell’abili-tazione o dell’idoneità richiesta per l’insegnamento nella scuola materna, nel-la scuola elementare e negli istituti e scuole di istruzione secondaria ed artisti-ca, che dà titolo all’inserimento nelle graduatorie permanenti, secondo quan-to previsto al comma 1”.

E all’Art. 1. (Accesso ai ruoli del personale docente), comma 6, dispone che“6. L’articolo 401 del testo unico è sostituito dal seguente”:“Art. 401 – (Graduatorie permanenti) – 1. Le graduatorie relative ai con-

corsi per soli titoli del personale docente della scuola materna, elementare e se-condaria, ivi compresi i licei artistici e gli istituti d’arte, sono trasformate ingraduatorie permanenti, da utilizzare per le assunzioni in ruolo di cui all’ar-ticolo 399, comma 1. – 2. Le graduatorie permanenti di cui al comma 1 sonoperiodicamente integrate con l’inserimento dei docenti che hanno superatole prove dell’ultimo concorso regionale per titoli ed esami, per la medesimaclasse di concorso e il medesimo posto, e dei docenti che hanno chiesto il tra-sferimento dalla corrispondente graduatoria permanente di altra provin-cia. Contemporaneamente all’inserimento dei nuovi aspiranti è effettuato

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l’aggiornamento delle posizioni di graduatoria di coloro che sono già compre-si nella graduatoria permanente”.

Ammessi i riservisti nelle Graduatorie Permanenti, da integrare “in esi-to all’espletamento dei concorsi a cattedre per titoli ed esami nella scuolasecondaria banditi nel 1999, nel medesimo scaglione di coloro che supera-no i predetti concorsi, ne restano fuori i cosiddetti “sissini”.

I sissini restano fuori dalle permanenti del 2000 per un fatto fonda-mentale:

La legge 341/90, all’art. 4, comma 2, stabilisce che l’esame finale ha valo-re di esame di stato e abilita all’insegnamento (per una più piena compren-sione: tale titolo è abilitante all’insegnamento come lo è il diploma di ma-turità magistrale. Questo abilita all’insegnamento ma non consente l’im-missione nelle Permanenti, per la quale è prescritto il possesso dell’abilita-zione, di norma conseguibile con il superamento delle prove di un concor-so per titoli e esami).

Il diploma ottenuto con la frequenza della Scuola di Specializzazioneuniversitaria – Ssis (Diploma di abilitazione) – è SOLO condizione neces-saria per l’ammissione ai Concorsi Ordinari e non per l’immissione nellePermanenti, resa possibile esclusivamente dal possesso del requisito del-l’abilitazione conseguita con procedura concorsuale ordinaria.

La legge 341/90 all’art. 4, infatti, così recita:“Art. 4 – Diploma di specializzazione 1. Il diploma di specializzazione si

consegue, successivamente alla laurea, al termine di un corso di studi di dura-ta non inferiore a due anni finalizzato alla formazione di specialisti in settoriprofessionali determinati, presso le scuole di specializzazione di cui al decretodel Presidente della Repubblica 10 marzo 1982, n. 162. 2. Con una specificascuola di specializzazione articolata in indirizzi, cui contribuiscono le facoltàed i dipartimenti interessati, e in particolare le attuali facoltà di magistero, leuniversità provvedono alla formazione, anche attraverso attività di tirociniodidattico, degli insegnanti delle scuole secondarie, prevista dalle norme del re-lativo stato giuridico. L’esame finale per il conseguimento del diploma ha va-

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lore di esame di Stato ed abilita all’insegnamento per le aree disciplinari cui siriferiscono i relativi diplomi di laurea. I diplomi rilasciati dalla scuola dispecializzazione costituiscono titolo di ammissione ai corrispondenti con-corsi a posti di insegnamento nelle scuole secondarie”.

Ancora più chiaro, sempre nella stessa direzione, è il D.M. 460 del24.11.1998:

“Vista la legge 19 novembre 1990, n. 341, art. 4, comma 2, che stabilisce chele università provvedono alla formazione degli insegnanti delle scuole secon-darie con specifiche scuole di specializzazione articolate in indirizzi presso lequali si consegue un diploma di abilitazione all’insegnamento; visto il decretolegislativo 16 aprile 1994, n. 297, art. 400, comma 12, che stabilisce che fino altermine dell’ultimo anno dei corsi di studio universitari per il rilascio dei tito-li previsti dagli articoli 3 e 4 della legge n. 341/1990, i candidati che abbianosuperato le prove dei concorsi a cattedre, per titoli ed esami, conseguono l’a-bilitazione all’insegnamento, qualora questa sia prescritta ed essi ne sianosprovvisti”…

A questa data, dunque, ai possessori di un diploma di abilitazione dacorso universitario (sissini) è preclusa l’immissione nelle Permanenti, sesprovvisti dell’abilitazione conseguita esclusivamente con proceduraconcorsuale (sottintesa ordinaria).

Il requisito previsto fin qui dalla normativa per l’immissione nelle Gra-duatorie Permanenti è abbattuto dall’art. 6-ter della legge 306/2000:

“6-ter. L’esame di Stato che si sostiene al termine del corso svolto dalle scuo-le di specializzazione di cui all’articolo 4 della legge 19 novembre 1990, n. 341,e successive modificazioni, ha valore di prova concorsuale ai fini dell’inseri-mento nelle graduatorie permanenti previste dall’articolo 401 del decreto le-gislativo 16 aprile 1994, n. 297, come sostituito dall’articolo 1, comma 6, dellalegge 3 maggio 1999, n. 124”.

Nello stesso articolo 6-ter si stabilisce, inoltre, che:“[…] Coloro che sostengono con esito positivo l’esame di Stato di cui al pre-

sente comma entro l’anno accademico 2000-2001 sono inseriti a domanda

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nelle graduatorie permanenti nel medesimo scaglione del personale di cui alcomma 6-bis”.

Il personale di cui al comma 6-bis è costituito da docenti che per il pos-sesso del requisito di 360 giorni di servizio sono ammessi alle sessioni ri-servate di abilitazione:

“6-bis. Sono ammessi alla sessione riservata di esami di cui all’articolo 2,comma 4, della legge 3 maggio 1999, n. 124, coloro che hanno maturato i re-quisiti di servizio previsti dal medesimo comma 4 entro il 27 aprile 2000, …”.

Tale articolo rapporta i sissini ai “riservisti” e ne determina lo scaglioneequiparandoli a quest’ultimi, abilitati con procedura non concorsuale, mariservata.

I “sissini” sono così immessi in Permanente nello stesso scaglione dei“riservisti”, inseriti a loro volta “a domanda previo superamento della ses-sione riservata di esami, nelle graduatorie permanenti, all’atto dell’inte-grazione delle medesime in esito all’espletamento dei concorsi a cattedreper titoli ed esami nella scuola secondaria banditi nel 1999, nel medesimoscaglione di coloro che superano i predetti concorsi”.

La legge 306 del 27.10.2000 conferisce all’esame finale delle scuole di spe-cializzazione valore di prova concorsuale. È proprio qui che viene messo inuna situazione di equipollenza “concorsuale”un esame che non ha nessunodei requisiti che regolano la disciplina dei concorsi a cattedre. Ciò perché:1) gli esami conclusivi delle Ssis sono accordati all’interno del corso e non

tramite pubblicazione su Gazzetta Ufficiale. Sono esami di Stato, in ori-gine atti a rilasciare “un diploma di abilitazione all’insegnamento”, a suavolta – sempre in origine – requisito per l’ammissione ai concorsi a cat-tedre, il cui esito positivo consentiva l’ingresso in Permanente.I corsi Ssis, infatti, seguono la normativa delle Scuole di Specializzazione

che è totalmente diversa dai concorsi a cattedre.Nel caso specifico delle Ssis, si può accedere ai corsi solo tramite internet

o tramite gli sportelli appositamente insediati nelle università. Nulla che ri-guardi le Ssis è pubblicizzato sulla Gazzetta Ufficiale.

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2) I concorsi a cattedre, per l’appunto, sono regolati da criteri completa-mente diversi, ovvero si ispirano al principio della selettività, sono apertia tutti (mentre le Ssis sono a numero chiuso), ma soprattutto – in quantoconcorsi pubblici – devono essere banditi tramite Gazzetta Ufficiale.Le Ssis non rispettano nessuno dei summenzionati principi; pertanto lo

stesso valore di prova concorsuale è fittizio sul piano del diritto. L’abilita-zione Ssis non ha i requisiti di legge per essere resa equipollente a un con-corso ordinario.3) Le Ssis rientrano piuttosto nei parametri di una abilitazione riservata (ri-

servata, appunto, a chi supera le prove di ammissione ai corsi stessi, corsi,per di più, a pubblicizzazione limitata, a numero chiuso e a pagamento).Ciò nonostante, l’articolo 6-ter della legge 306 del 27.10.2000 assegna

valore di prova concorsuale all’esame conclusivo della Scuola di Specializ-zazione e consente agli abilitati Ssis l’immissione in permanente.

L’immissione nelle Permanenti degli abilitati tramite le Ssis è accompa-gnata dall’attribuzione del bonus dei 30 punti, come stabilito dall’art. 8del Decreto Interministeriale 268/2001:

“Ai fini dell’inserimento nelle graduatorie permanenti (…), al candidatoabilitato ai sensi delle disposizioni che precedono, viene attribuito un punteg-gio aggiuntivo rispetto a quello spettante per l’abilitazione conseguita, pari atrenta punti”.

Si vuol sottolineare che non fu una Legge dello Stato,ma solo un mero De-creto Interministeriale a far “spostare”, a favore degli abilitati Ssis, il bonus di30 punti, con il quale la procedura ordinaria del concorso è stata completa-mente esautorata dall’essere l’unica meritevole di vantaggio, come si evincedalla Costituzione italiana. Per gli “ordinaristi” il danno fu enorme e ingiu-stamente mai compensato da successivi rivolgimenti normativi, fino ad oggi.

Per gli abilitati con le Ssis il vantaggio è triplice.Come disposto dal Decreto Direttoriale del 12 febbraio 2002, all’art. 7 –

Utilizzazione delle graduatorie permanenti – secondo cui “Le graduatoriepermanenti sono utilizzate per le assunzioni in ruolo sul 50% dei posti a tal

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fine annualmente assegnabili dopo l’esaurimento delle corrispondentigraduatorie di cui al comma 11 dell’art. 401 del D.L.vo 297/94, sostituitodall’art.1, comma 5 della legge 124/99. Le predette graduatorie sono altresìutilizzate per il conferimento delle supplenze annuali e delle supplenzetemporanee sino al termine delle attività didattiche”, il punteggio comples-sivo di graduazione nelle Permanente è utilizzato dal CSA per le immissio-ni in ruolo e l’assegnazione degli incarichi annuali e delle supplenze fino achiusura delle attività didattiche e si trasferisce anche nella graduazionedelle Graduatorie di circolo e di istituto.

È risaputo, infatti, che anche nelle Graduatorie di circolo e di istituto di IFascia il punteggio è quello delle Graduatorie Permanenti, come dimostrala Circolare del 5.9.02 del Ministero dell’istruzione inviata a tutti i CSA.

Ricapitolando, il bonus di 30 punti, così sottratto da meri decreti inter-ministeriali e direttoriali, attribuito ai Sissini, si spalma su tre livelli:1) le immissioni in ruolo dal 50% dei posti disponibili assegnato alle Per-

manenti;2) l’assegnazione dei contratti a tempo determinato (incarichi annuali e

supplenze fino al termine delle attività didattiche);3) l’assegnazione dei contratti a tempo determinato (supplenze brevi e

temporanee, conferite dai direttori didattici e dai presidi scorrendo leGraduatorie di Circolo e di Istituto).All’inverso, gli abilitati con l’ordinario ricevono dalla mancata attribu-

zione del bonus un triplice danno per gli stessi punti sopra riportati.Si estingue così una normativa “di merito” che dal 1980 al 2000 aveva

permesso agli ordinaristi di pervenire a un maggior servizio e di riflesso aun maggior punteggio nelle graduatorie di Istituto e nelle graduatorieProvinciali di incarichi e supplenze e di registrare tale servizio nel DoppioCanale ai fini dell’immissione in ruolo per il 50% del contingente.

Un titolo – l’abilitazione conseguita con concorso a cattedre per titolied esami – ritenuto fino al 2000 principale requisito per l’immissione nel-le Permanenti, perde di dignità.

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Il Diploma di Abilitazione rilasciato dalle scuole di specializzazioneuniversitarie – costituente unicamente “titolo di ammissione ai corri-spondenti concorsi a posti di insegnamento nelle scuole secondarie”per ilconseguimento dell’abilitazione all’insegnamento e del correlato dirittodi inclusione nelle permanenti – diventa percorso privilegiato per ruolo,incarichi e supplenze temporanee.

Tutto ciò benché tale titolo sia stato dichiarato equipollente a quello diabilitazione conseguito con le procedure ordinarie di concorso a cattedreper esami e titoli.

Le recenti ed esigue immissioni in ruolo, effettuate durante l’estate del2004, non hanno rispettato affatto i dettami del D.M. 30/01/98 (G.U. n. 39,marzo ’99) che regolava la procedura dell’ultimo concorso, ove recita:

“Ai sensi delle disposizioni contenute negli articoli 399 e seguenti del decre-to legislativo 16 Aprile 1994, i concorsi sono indetti per la copertura dei postial 50% delle cattedre e dei posti, ivi compresi i posti di sostegno, destinati inciascuna regione alle procedure concorsuali, vacanti e disponibili all’inizio diciascuno degli anni scolastici 1999/2000; 2000/2001; 2001/2002…” (Art.1,comma 4).

Di fatto le assunzioni, per quei tre anni scolastici, non sono MAI avve-nute, se si fa eccezione del primo anno, quando furono assorbite pochecentinaia di vincitori su tutto il territorio nazionale.

Nel 2004, con il governo di centro destra, il piano di assunzioni dovevaessere regolato dalla nuova Legge, la 143, secondo l’Art. 1/bis – Piano plu-riennale di nomine:

“Con decreto del Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, diconcerto con i Ministri per la Funzione Pubblica e dell’Economia e delle Finan-ze, è adottato, entro il 31 gennaio 2005, nel rispetto di quanto previsto dal com-ma 2, un piano pluriennale di nomine a tempo indeterminato che, nel corsodel prossimo triennio, consenta la copertura dei posti disponibili e vacanti”.

Se si fa eccezione anche del numero esiguo di precari della scuola im-messi in ruolo la scorsa estate, il quadro si fa inquietante. Le cattedre messe

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a disposizione per il ruolo sono state attribuite anche ai “sissini”presenti ingraduatoria permanente, in virtù del bonus di 30 punti e di un notevolepacchetto di titoli culturali (3 punti per titolo) che non in tutte le provincesono stati valutati in maniera uniforme. Da un rapporto sindacale (Uil) so-no ancora 174.866 i docenti costretti ad attendere la cattedra da anni e sen-za che una qualsiasi normativa abbia legittimato questa infame attesa. Traquesti, oltre la metà ha superato l’ultimo concorso pubblico ordinario acattedre e una parte considerevole quello del 1990. Certo è che non si spie-gano le ragioni di un’ulteriore discriminazione: quella tra recenti “ordina-risti” e quelli dei precedenti concorsi a cattedre che, una volta immessi inruolo, godevano persino di un bonus di 12 punti nelle graduatorie internedell’Istituto. Il bonus doveva servire a differenziare e sottolineare il meritodel percorso abilitativo concorsuale. Ci si chiede se il criterio del “merito”,considerato tale a livello costituzionale, debba essere suscettibile di varian-ti temporali.

VIIl T.A.R.

Come è noto, il Tar del Lazio, a seguito del ricorso patrocinato dall’Avv.Selvaggi, in data 27 maggio 2002, ha sentenziato la conferma del bonus di30 punti agli abilitati Ssis, di fatto, quantificati per la prima volta nell’art. 8del Decreto Interministeriale 268/2001.

I giudici del Tar hanno esplicitato la ratio delle motivazioni che sono all’o-rigine del bonus di 30 punti, anche se esse restarono suffragate solo in virtù diatti ministeriali e da un decreto direttoriale, non già da una Legge dello Stato.Ciò è confermato dal fatto che solo nel 2004, cioè due anni dopo l’inserimen-to degli abilitati Ssis nelle graduatorie permanenti di ogni provincia, è stataformulata la legge 143. È presumibile sia accaduto ciò, per mettere a tacereogni pregiudiziale e qualsiasi contenzioso una volta per tutte.

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Di fronte alla numerosa mole di ricorsi amministrativi, vediamo di ri-percorrere rapidamente alcuni passaggi relativi all’interpretazione del giu-dice del Tar del Lazio e del Consiglio di Stato.

Il Tar, a conclusione di una sua libera e soggettiva interpretazione, neltentativo di capire la ratio su cui fonda il bonus, ha riconosciuto la legitti-mità dei trenta punti considerandoli come somma di due contributi:a) 24 punti per la semplice frequenza Ssis, equivalenti a 2 anni di servizio;b) 6 punti di vero punteggio aggiuntivo per il titolo Ssis.

Il Tar, relativamente al punto a), giudica, testualmente, i 24 punti come“doveroso riconoscimento dell’impegno dedicato alla formazione e dell’eleva-to livello di preparazione che è raggiunto con la frequenza delle scuole Ssis”neidue anni di durata del corso. Inoltre, esso sostiene che in considerazionedella serietà della scuola Ssis, una sua compiuta e corretta frequenza nonpossa essere compatibile con una contemporanea attività di supplenze nel-la scuola, ritenendo che queste ultime, laddove svolte nel biennio di fre-quenza al corso Ssis, debbano considerarsi come estensione dell’attività ditirocinio connessa al corso stesso. E quindi, il mancato riconoscimento delservizio prestato in tale periodo implica un adeguato e corrispondentecompenso, valutato in 24 punti aggiuntivi (dei 30 previsti nel bonus).

Confermando la legittimità del bonus dei 30 punti per la Ssis, il Tar consentenza n. 473/2002 escludeva la valutabilità del servizio svolto contem-poraneamente al corso.

Il Consiglio di Stato, con sentenza 19 novembre 2002 – 31 gennaio 2003n. 495, rigettando l’appello proposto dal Miur, avverso la citata sentenzadel Tar Lazio, ha confermato le conclusioni cui era pervenuto il giudice diI grado. Esso confermava la ragionevolezza di un punteggio così elevato(30 punti), vista la particolare pregnanza dei risultati formativi e degliobiettivi specialistici delle Ssis (durata biennale, numero di ore previsto,esami intermedi, tirocinio obbligatorio). Ma evidenziava l’illogicità e in-compatibilità giuridica di una valutazione circa l’eventuale servizio presta-to contemporaneamente alla frequenza dei corsi.

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Intanto si profilava l’intenzione, in parte già realizzata in diverse regioni,di organizzare un comitato nazionale di soli abilitati con concorso ordina-rio che riuscisse a fronteggiare le ingiustizie e le evidenti discriminazioni ailoro danni, sia per le immissioni in ruolo sia per il reclutamento per incari-chi e supplenze.

La decisione del C.d.S. ha comportato la revisione delle GraduatoriePermanenti, con l’obiettivo di rettificare i punteggi ulteriori (relativi al ser-vizio) attribuiti in contrasto con essa. A tale riguardo un Ordine del Gior-no in Parlamento, vanificatosi di lì a poco, è stato finalizzato all’attribuzio-ne di un punteggio aggiuntivo anche ai docenti abilitati a seguito del Con-corso Ordinario per titoli ed esami.

Il Cnpi ha espresso il proprio parere favorevole sulla revisione della ta-bella per l’aggiornamento delle graduatorie permanenti per l’a.s. 2003-2004. Il DM 16/04/2003 n. 40 prevede la nuova tabella di valutazione tito-li che attribuisce un bonus di 18 punti (oltre a quelli di abilitazione) nonsolo ai docenti “ordinaristi”, ma anche a quelli in possesso di abilitazioneriservata.

Tale punteggio aggiuntivo,secondo il Cnpi,non deve essere cumulabile peruna stessa classe di concorso, con i 30 punti attribuiti agli abilitati Ssis, fermarestando la possibilità di fruire del punteggio complessivo più favorevole.

Si profila intanto, come già avvenuto, un altro contenzioso: da una partegli abilitati Ssis, che da tempo avevano già avanzato ipotesi di ricorso, sivedono ottenere un nuovo pronunciamento del Tar a loro favorevole: lenuove graduatorie definitive di luglio del 2003 sono state invalidate (Sen-tenza Tar del Lazio del 14/07/2003). Da un’altra gli ordinaristi, a questopunto più che mai, rivendicano non solo la legittima attribuzione del pun-teggio a loro spettante fin dalle origini della storia delle graduatorie e delreclutamento, ma anche la necessaria distinzione di valutazione del loro ti-tolo rispetto a quello conseguito dagli abilitati dei corsi riservati.

Vedendosi sottratto ancora una volta un punteggio di bonus (18 p.), gliordinaristi di Adaco (Associazione docenti abilitati con Concorso Ordi-

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nario) decidono di condurre una rivendicazione comune assieme al Miip(Movimento interregionale insegnanti precari), nella convinzione che, al-meno in parte, le loro richieste siano condivisibili: rispetto della graduato-ria di merito (quota del 50% per l’immissione in ruolo); immissioni inruolo immediate; rigetto di qualsiasi logica di prevaricazione e di ingiusti-zia. Restano dubbi circa la fondatezza del principio della parità delle abili-tazioni, richiesto, come primo punto, da alcune associazioni di precari“storici”. Più tardi, il coordinamento delle rivendicazioni degli “ordinari-sti” tenteranno di produrre una forma di lotta politica unitaria e consape-vole con le categorie dei lavoratori della scuola che si riconosceranno nellaloro offesa e nella loro protesta.

La convocazione del 30 luglio 2003, presso il Csa di Roma, per le classidi c.A043 e A050, rappresenta un episodio storico significativo: avendo ri-levato irregolarità diffuse all’interno delle graduatorie, nel meccanismo diassegnazione dei punteggi soprattutto agli abilitati Ssis, Adaco ha tentato,prima attraverso numerosi esposti, poi attraverso il blocco delle nomine,di impedire che si perpetrasse l’ennesima ingiustizia ai danni dei legittimiaspiranti a supplenze.

Dal punto di vista amministrativo la situazione si è aggravata dal momen-to che, soprattutto a Roma, il Csa non ha mai reso conto, con risposta scrittao verbale, di quegli esposti relativi alle presunte irregolarità riscontrate nel-l’attribuzione dei punteggi. Le motivazioni di quel silenzio, da parte dei fun-zionari di Stato e dei responsabili del settore, non sono state mai fornite.

L’esito di quella battaglia, non favorevole, ha rappresentato un’ulterioreoccasione per fomentare la rabbia e il risentimento, negli anni resi più po-liticamente visibili attraverso sit-in di protesta, assieme a tutti i precari d’I-talia, ricorsi in atto nel Paese, attivazione di contatti con esponenti politicidi diversi schieramenti, collegamenti con esponenti di varie testate giorna-listiche, incontri con i sindacati della scuola, audizioni parlamentari.

In particolare, il disagio e il disorientamento aumentano di fronte alle in-consistenti ed oscillanti prese di posizione sia dei vari parlamentari in cerca

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di consensi, sia dei vari sindacati della scuola, in merito alle garanzie dei vin-citori/idonei del concorso ordinario. Gli ordinaristi hanno ancora oggi vivala sensazione di provocare un senso di fastidio, di costituire una minaccia,assai scomoda, verso i diritti degli altri lavoratori della scuola, già resisi lorostessi, negli anni, scarsamente garantiti e per i quali non ci sarebbe posto perulteriori diritti “acquisiti”. La scuola pubblica, in altri termini, diventa uncontenitore troppo stretto per tutti, e i cartelli sindacali se ne devono essereaccorti. Solo è che si mettono a difendere chi il posto di lavoro già ce l’ha.

Il 19 settembre 2003, dal Ddl del ministro Moratti non si evince, ancorauna volta, alcuna intenzione di conferire il giusto valore al titolo conse-guito con un concorso pubblico e non si fa menzione alcuna circa l’asse-gnazione agli ordinaristi di un punteggio congruo, tale da riequilibrare ladisparità di trattamento tra le varie procedure abilitanti. Né si evince, nel-le intenzioni dell’opposizione, una chiara consapevolezza in merito ai dan-ni subiti, soprattutto, dagli abilitati con procedura concorsuale ordinaria.

VIIIl problema è “solo politico”

Finalmente la legge 143 (4/06/04) converte il D.L.del 7/04/04 n.97 (G.U.Se-rie Generale, n. 130 del 5/06/2004). E il bello è che essa reca “DISPOSIZIONIURGENTI PER L’ORDINATO AVVIO DELL’ANNO SCOLASTICO2004/05, NONCHÉ IN MATERIA DI ESAMI DI STATO E DI UNIVERSITÀ”

Di “ordinato” non c’è stato proprio un bel niente, se non graduatorie im-pazzite per il continuo cambiamento dei punteggi in itinere, prima dichiara-rati – a domande di aggiornamento/inserimento avviate – e poi smentiti; su-pervalutazioni sui punteggi di alcuni servizi, considerati “disagiati” (ma Su-biaco, viaggio di andata senza ritorno, non compare nell’elenco!!!) e valutatiin modo retroattivo, sempre a domande già inoltrate ai vari Csa; improvvisasupervalutazione – retroattiva anche quella – di TUTTI i titoli culturali post-

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lauream (ma una seconda laurea con tirocinio obbligatorio è posta sullo stes-so piano di un’irrisoria valutazione di un qualunque corso “a distanza”).Tut-to tace sul fronte del titolo abilitativo con il Concorso ordinario. E in unastessa classe, ondate successive di diversi supplenti, segnale oggettivo che iposti liberi ci sono, per l’assegnazione delle cattedre. Cattedre, per le quali lastessa legge prevede già un piano di assunzioni pluriennale. Perché questa at-tesa? Cosa o, meglio, chi si deve aspettare? A chi si penserebbe di destinare lepreziose e sospirate cattedre? Certamente non agli ordinaristi che, intanto,attendono un ultimo pronunciamento del Tar: quello per il quale ci sarebbesperanza di portare la loro causa davanti alla Corte costituzionale.

Nell’attesa, la legge 53, approvata dal Consiglio dei Ministri recente-mente, ha decretato la “morte” definitiva delle graduatorie di merito, rela-tive a un concorso pubblico, in favore del quale miliardi di spesa pubblicasono stati utilizzati!

Per il resto, rimangono in “sospeso” solo duecentomila individualità,annullate nel vago della speranza e dell’incertezza, cifre costitutive della lo-ro esistenza.

Un illustre esponente della maggioranza ha annunciato da tempo, inpubblica piazza, che il problema non è giuridico (che sarebbe servito “soload arricchire gli avvocati”) ma “soltanto politico”. Ci si è chiesti tutti, maicosì perplessi come di fronte a quella dichiarazione, e in quella stessa pub-blica piazza, che fine avrebbero fatto il potere dei giudici e il valore della no-stra Costituzione. Mentre si rifletteva sull’educazione civica, sulla storia esui perché rivolti a noi dagli alunni, si è avvertita un’angosciosa e inquie-tante preoccupazione sugli ultimi avvenimenti politici del nostro paese,“macrocosmo” delle nostre microcosmiche sciagure.

Un ringraziamento particolare a Cristina Simonetti, a Giovanni Romano– che hanno reso possibile la ricostruzione di alcuni profili normativi – e al-l’Adaco (Ass. docenti abilitati con Concorso Ordinario – www.adaco.net).

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Lucia Iorio

QUESTIONE IMMISSIONI IN RUOLO

Dal 2002 il meccanismo delle immissioni in ruolo si è bloccato a causa del-la politica portata avanti dal governo attuale, che ha operato dei tagli sostan-ziosi nella Pubblica Amministrazione e in particolare nel comparto scuolanonostante una legge promulgata dal governo precedente che prevedeva, sca-glionati negli anni a partire dal 2000, un contingente triennale di immissionia tempo indeterminato pari a un numero complessivo di circa 100.000 unità.Alcune assunzioni sono state fatte nel 2000 sulle vecchie graduatorie ancoravigenti e nel 2001 sulle nuove graduatorie. Il terzo scaglione previsto non èmai stato autorizzato. A seguito di un paio d’anni di battaglie e di ricorsi si èavuto per il 2004 l’autorizzazione ad assumere 15.000 unità di cui 2.500 Ata.

A fronte di tutto ciò i posti disponibili non sono stati completamentecoperti.

Allo stato attuale della situazione ci sono su tutto il territorio nazionalecirca 50.000 posti, ma il Miur non lo ha ancora ben precisato, sull’organicodi diritto; l’organico di fatto comprende invece circa 100.000 posti.

L’organico di fatto non viene tramutato in organico di diritto per palettiprecisi messi dal Miur. Anche quest’anno quindi su tutto il territorio na-zionale i precari ricoprono un numero cospicuo di posti senza peraltroavere garanzia di assunzione a tempo indeterminato.

Visto il persistente disagio denunciato dalla categoria del precariato acausa anche dei tagli continui sugli organici, il Parlamento ha approvato,nell’estate 2004, un emendamento incluso nella legge 143/04, che prevedeun piano pluriennale di assunzioni su tutti i posti disponibili. I sindacatihanno quindi cominciato a premere per il rispetto della legge 143/04, manella finanziaria di quest’anno non sono stati previsti finanziamenti in talsenso. L’amarezza tra i precari è notevole ed è stata esternata durante la ma-nifestazione del 15 novembre indetta dai confederali.

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Il Miur non ha mai risposto in merito fino alla data del 5 gennaio 2005,quando il senatore della maggioranza Valditara in un’intervista a “Italia Og-gi”ha dichiarato di aver pensato a un piano di assunzioni pluriennale su tut-ti i posti disponibili a costo zero con una dilazione della ricostruzione dellacarriera. Su varie testate di giornali ha dichiarato questo suo intento senzaperaltro mai concretizzarlo con una proposta di legge scritta e senza maiconsultare i sindacati confederali. A questo ha fatto seguito la dichiarazionedella Moratti del 26 febbraio che, in chiusura di un Consiglio dei Ministri,ha reso noto attraverso tutti i media che il Miur, in accordo con i ministri eco-nomici, stava vagliando un piano di assunzioni per il personale docente pre-cario di 200.000 posti a tempo indeterminato scaglionati in 5 anni.

Per il resto silenzio, fino alla dichiarazione di giovedì 24 marzo in cui laMoratti, intervistata dal Tg1, sul decreto attuativo approvato dal Consigliodei Ministri sull’alternanza scuola-lavoro, ha dato a intendere che con l’in-nalzamento dell’obbligatorietà scolastica a 18 anni (peraltro non vera), po-trebbero essere assunti “se necessario”nuovi insegnanti. Dichiarazione checontraddice quanto finora espresso.

Questa è l’attuale situazione, il futuro dei precari rimane del tutto incerto.

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E LA NAVE VA… DOVE?

– Documenti –

Resoconto ufficiale del Consiglio dei Ministri n. 196 del 25.02.2005

Il Consiglio dei Ministri si è riunito oggi, alle ore 10.15 a palazzo Chigi,sotto la presidenza del Presidente, Silvio Berlusconi. Segretario, il Sottose-gretario di Stato alla Presidenza, Gianni Letta. Il Consiglio ha approvato iseguenti provvedimenti, su proposta del ministro dell’Istruzione, dell’uni-versità e della ricerca, Moratti:

– uno schema di decreto legislativo che dà attuazione alla delega conte-nuta nella legge n. 53 del 2003 (Definizione delle norme generali sull’istru-zione e sui livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e for-mazione professionale), con particolare riguardo alla formazione dei do-centi della scuola dell’infanzia, del primo e secondo ciclo, nonché alle moda-lità di accesso ai ruoli per gli insegnanti delle scuole superiori. Obiettivo (e no-vità) del provvedimento è da una parte individuare un percorso formativo al-tamente qualificato per i futuri insegnanti, dall’altra creare un collegamentodiretto fra la formazione e i posti disponibili per l’immissione in ruolo, nel-l’ambito del quale le università assumono un ruolo fondamentale. Il provve-dimento verrà trasmesso alla Conferenza unificata e alle competenti com-missioni parlamentari per il parere prescritto.

Resoconto della conferenza stampa del ministro Moratti al Miur25.02. 2005(da http://www.istruzione.it/prehome/newsletter/newsletter_istruzione/2005/nl7.shtml)

Insegnanti più qualificati e più giovani nella nuova scuola.Il ministro Moratti: “Così supereremo il precariato e daremo la certezza

del posto di lavoro agli aspiranti docenti”.

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Il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto legislativo in attuazionedella legge 53/2003 che disciplina l’accesso alla professione di docente.

Cambia la formazione iniziale dei docenti delle scuole italiane, in lineacon le normative europee che richiedono per la professione di insegnanteuna formazione specifica di livello universitario. Il Consiglio dei Ministriha approvato stamani in prima lettura, su proposta del ministro dell’Istru-zione, dell’università e della ricerca, Letizia Moratti, lo schema di decretolegislativo concernente la definizione delle norme generali in materia diformazione degli insegnanti ai fini dell’accesso all’insegnamento in attua-zione della legge 53/2003.

Il decreto prevede una formazione di pari dignità per i docenti di tutti gliordini e gradi di scuola. I percorsi di formazione iniziale dei docenti dellascuola dell’infanzia, del primo ciclo e del secondo ciclo si svolgeranno pres-so le università e le istituzioni di alta formazione artistica, musicale e co-reutica, rispettivamente nei corsi di laurea magistrale e nei corsi accademi-ci di secondo livello.

“Avremo insegnanti più qualificati e più giovani – ha detto il ministroMoratti – e, attraverso la programmazione, potremo dare loro certezza del po-sto di lavoro, mentre nel sistema precedente si era creata una situazione carat-terizzata da aspiranti insegnanti anche non laureati e in numero sovradi-mensionato. La nuova disciplina – ha aggiunto il Ministro Moratti – consen-tirà progressivamente di risolvere il problema del precariato nelle scuole, per-ché a regime sarà possibile insegnare solo con il livello più alto della formazio-ne universitaria, e non con una semplice formazione professionale. Per quan-to riguarda il precariato storico viene conservato il reclutamento dalle gra-duatorie permanenti dei precari storici per il 50% dei posti da coprire, così co-me previsto dalla disciplina attuale. Con il nuovo canale formativo verrà co-perto il restante 50% dei posti, che la disciplina previgente riservava a un con-corso per titoli ed esami”.

“Il Miur – ha concluso il Ministro Moratti – sta studiando con il Ministe-ro dell’Economia e con il Dipartimento della Funzione Pubblica misure che ci

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consentano di assorbire nei prossimi cinque anni tutto il precariato storico. Atale proposito stiamo avviando un confronto con le Organizzazioni sindacali egià alcune proposte sono pervenute dallo Snals. Vorrei ricordare che a partiredall’estate 2001 abbiamo assunto complessivamente circa 90.000 docenti pre-cari, riducendo il fenomeno del precariato storico di circa il 30 per cento. Conle misure che adotteremo potremo pianificare il riassorbimento degli altri200.000 precari storici”.

L’inizio dei nuovi corsi è previsto dall’anno accademico 2006-2007, percui i primi abilitati potranno essere assegnati alle scuole dall’anno scolasti-co 2008-2009.

Ma ecco, in sintesi, altri punti qualificanti della nuova normativa.

I nuovi percorsi sono programmati dalle università nella loro autono-mia in conformità a criteri definiti con decreto del ministro, assicurandol’approfondimento disciplinare, i contenuti pedagogico-professionali eperiodi di tirocinio nelle scuole, oltre a eventuali stage all’estero. I corsi so-no finalizzati all’acquisizione di quell’insieme di competenze che caratte-rizzano il profilo culturale e professionale del docente. I nuovi percorsi for-mativi sono a numero programmato e sono ripartiti tra le università di cia-scuna regione in misura pari al numero dei posti che si prevede di coprireper concorso nelle scuole statali della Regione stessa. Ai corsi si accede pre-via selezione nazionale che si svolge presso le università, dopo aver conse-guito la laurea di primo livello o il diploma accademico di primo livello. Unruolo essenziale nella formazione dei docenti hanno i centri di ateneo o diinterateneo, che verranno realizzati con compiti di organizzazione del tu-torato, svolgimento delle prove d’accesso, coordinamento delle lezioni teo-riche con i laboratori e i tirocini, raccordo con le scuole e con le altre istitu-zioni formative del territorio. Tale raccordo verrà assicurato anche da pro-fessori della scuola, comandati presso i centri con compiti di supervisionee coordinamento dei tirocini. I centri realizzeranno specifiche intese con lescuole o con reti di scuole, con le associazioni professionali e disciplinari,

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gli Irre, l’Indire e l’Invalsi, per assicurare una migliore integrazione e siner-gia tra i contenuti teorici curati dalle università e la riflessione sulla praticaprofessionale svolta nelle scuole.

Alla fine del corso, dopo la laurea magistrale o il diploma accademico disecondo livello, è previsto un esame di Stato con valore abilitante, che valeanche come prova concorsuale e garantisce quindi a coloro che lo supera-no la certezza dell’assunzione nelle scuole statali sui posti messi a concorso.La programmazione dei posti avviene a cadenza triennale in base a stimeprevisionali che tengono conto del numero dei posti di insegnamento, delnumero degli alunni, anche disabili, e del turnover del personale docente.

Il ministero ripartisce poi anno per anno tra le università funzionantinelle singole regioni un numero di posti pari a quelli che si prevede di co-prire nelle scuole della Regione, maggiorato del 10%. I vincitori del con-corso sono assegnati, nell’ordine della graduatoria del concorso e tenendoconto delle loro preferenze, alle scuole della Regione, nelle quali svolgonoun periodo di applicazione della durata di un anno tramite un appositocontratto di inserimento formativo al lavoro, con assunzione di responsa-bilità di insegnamento sotto la supervisione di un tutor e svolgimento diattività formative connesse all’esperienza didattica, coordinate dal Centrodi ateneo, sulla base delle indicazioni del tutor.

Al termine dell’anno di applicazione e in seguito a valutazione positivaespressa dal comitato per la valutazione del servizio, i docenti stipulanocon i dirigenti scolastici un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Il nuovo canale formativo potrà essere utilizzato anche dalle regioni perassumere gli insegnanti delle loro istituzioni formative sulla base di un’in-tesa in Conferenza Unificata.

Roma, 25 febbraio 2005

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Aureliana Scotti (a cura di)

PAGINE UTILI

Si indicano qui i riferimenti alle principali organizzazioni di docentiprecari; alcune rappresentano realtà locali, altre nazionali.

ADACOAssociazione Docenti Abilitati con Concorso [email protected] Presbiteri De Lassis (Presidente) 3381316316Giuseppe Foglio (Segretario) 3286529302Marco Adorno Rossi (Vicepresidente) 3404049777

L’associazione nasce dal tentativo di risolvere i problemi degli abilitati tra-mite l’ultimo concorso ordinario, doppiamente penalizzati per le mancateimmissioni in ruolo e per lo scavalcamento nelle graduatorie permanenti daparte di abilitati provenienti dalle scuole di specializzazione, inseriti a pettinenella stessa terza fascia. Le finalità coincidono con i principi che ispirano tuttele associazioni e i coordinamenti dei precari, con i quali l’Adaco collabora.

CIP-ANComitato Insegnanti Precari – Associazione Nazionalewww.cipnazionale.itGianfranco Pignatelli (Presidente) 3381996449 [email protected] Casale (Vicedresidente) 3490955383 [email protected] Curreli (Addetto stampa) 3398477138 [email protected]

Riconosciuti dal Miur fin dal 1998, i Comitati insegnanti precari sonoradicati nel territorio nazionale come organizzazioni di categoria a difesatanto dei precari quanto della scuola pubblica pluralista e di qualità.

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MIIPMovimento Interregionale Insegnanti Precariwww.precari.orgDirettivo:Anna Maria Alesi 3497591821 [email protected] Cristina Benzi 3487941753 [email protected] Cataldi 3381321567 [email protected] Naldini 3281621567 [email protected] Scotti 3389294268 [email protected] Soldini 3383669805 [email protected]

Il movimento, a carattere nazionale, si articola in una struttura di coor-dinamento regionale (per l’elenco dei referenti locali si rimanda al sito). Apartire dal 2002 ha condotto, anche in collegamento con altre associazioni,una serie di battaglie per la difesa dei diritti dei docenti precari. Nel riven-dicare la necessaria e dovuta stabilità lavorativa e nell’affermare l’alta pro-fessionalità della categoria, inserisce la questione in una più generale ideadel sistema istruzione e della professionalità docente, intendendo porsi co-me un polo di elaborazione del fare scuola, avendo come capisaldi la difesadel principio costituzionale della libertà di insegnamento, la pari dignitàtra i vari ordini e le varie tipologie di scuola nel rifiuto di modelli gerar-chizzati, il diritto degli alunni a un’istruzione qualificata.

AIP di CataniaAssociazione Insegnanti Precari di Cataniawww.aipcatania.itCoordinatrice: Pina Palella 3493534345 [email protected]

L’associazione coordina a Catania e provincia l’attività di lotta per il ricono-scimento dei diritti dei docenti precari,che da anni operano nella scuola;agiscea livello nazionale in coordinamento con le altre realtà associative di categoria.

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ADPMAssociazione Docenti Precari di Milano e provinciawww.adpm.itCoordinatrice: Lucia Iorio 3356763804 [email protected]

L’associazione coordina i docenti precari della provincia di Milano. A li-vello nazionale opera in stretta collaborazione con altre realtà rappresenta-tive della categoria, con le quali porta avanti progetti e intenti comuni.

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NOTA DEL CURATORE

Il progetto è nato da una sorta di ribellione allo stato di smarrimento eimpotenza determinato dagli eventi dell’estate 2004. Ne costituisce per oral’unico frutto positivo.

Gli obiettivi erano e sono: ottenere visibilità, suscitare simpatia, esercita-re una legittima pressione. Tutti gli autori delle testimonianze nel corpocentrale del libro sono ancora, alla data in cui si dà alle stampe, insegnantiprecari, tranne un’unica eccezione. Hanno tutti accettato di partecipare atitolo gratuito e con pseudonimi (volutamente non riportati nell’indice).Soltanto in appendice si è deciso di lasciare i nomi e cognomi veri perchédiversamente non avrebbe avuto senso. A tutti va un caloroso ringrazia-mento e un augurio di poter continuare in condizioni più stabili a fare ciòche sono stati finora capaci di fare. Cioè molto. Come tanti altri, che quinon figurano, ma ai quali la scuola italiana affida il 25 per cento circa dellasua credibilità. A tutti costoro il libro è idealmente dedicato.

RINGRAZIAMENTI

Desidero ringraziare l’editore Alberto Gaffi e il mio editor, GianlucaSpadoni, per aver creduto fin dall’inizio nel progetto.

Desidero ringraziare tutti coloro che vi hanno preso parte scrivendo testi:– il professor Tullio De Mauro, Aureliana Scotti, Antonella Sacconi, Ro-

berto Filippi, Alessandra Bellini, Chiara Ferrari, Daniele Aletti, StefaniaNegro, Alessandra Tonelli, Alessandro Girasoli, Katia Soldini, Marco Ma-gni, Claudio Pagnelli, Antonella Bondì, Luca Leuzzi, Antonella Leoni, Dia-na Travagliati, Andrea Lupi, Brunella Presbiteri De Lassis, Christine Pou,Mirella Savo, Simona Borgatti, Bianca Tonetto, Lucia Iorio, Marina Litri,Silvia Bucci, Ersilia Marinelli, Vera Pagano, Pina Palella, Paola Sabbatini,

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Laura Pesce Delfino, Vincenzo Valentino, Giampiero Mazzone, la Rete na-zionale ricercatori precari, il Comitato precari di Bari.

Un ringraziamento particolare ad Aureliana Scotti, senza il cui supportoe senza i cui consigli e suggerimenti il libro non sarebbe stato possibile. Ungrazie per la preziosa collaborazione ad Alessandra Bellini, AntonellaBondì, Domenico Rossi e Bianca Tonetto che hanno anche sostenuto e in-dirizzato questo lavoro, così come un grazie anche a chi non compare mami ha incoraggiato: Silvia Benzi, Marina Ciaccio, Andrea Tulli, e aiutato:Giulia Antoccia, Fernanda Aragona, Giovanna Carè, Tina Di Marco, Gio-vanna Tonelli.

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INDICE

Tullio De Mauro, Prefazione pag. 7Aureliana Scotti, Organismo e non meccanismo.

La scuola e il precariato: una partita da non perdere » 11

STORIE E TESTIMONIANZE DI INSEGNANTI PRECARI

RACCONTI

Il precariato raccontato al mio gatto.Una storia da The Dark Side of the School » 19

Il maratoneta » 31

20 02 2002.Un mercoledì da precari » 35

Precarius precari lupus.Da La distruzione di una specie di Charles Darwin » 39

FRONTIERE

Dalle secondarie ai primari. In ospedale, a scuola di precarietà » 43

Scuola elementare San Precario. Il caso Corviale:una scuola tutta di precari » 47

Codice a sbarre: comunicare in carcere » 49

Tutor nei corsi di formazione. Un’esperienza pilota? » 53

La scuola anche di notte. Un’esperienza nei convitti » 57

Riesco ancora a sognare. Alla conquista della scuola di montagna » 61

SASSI E MACIGNI

Imprecariando » 67I precari e l’azienda scuola » 69

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Da Precarius a Precario, storia di un nome » 72Precari all’università. Un’analisi » 76Problemi aperti » 82

FRAMMENTI DI UN’AUTOBIOGRAFIA COLLETTIVA

Ero una fluttuante » 87

La mia prima volta in classeo la scoperta del piacere d’insegnare » 90

Il bello, e il brutto, di essere precari » 92

Non sono eccellente, sono ordinaria » 95

Questa scuola va restaurATA » 101

Il calvario di un precario » 104

Una questione privata » 110

TiPi (Teacher Pride) » 112

Punti? No, grazie! » 114

Angeli su Roma » 127

Nodo alla gola » 130

Ciao Claudia » 132

Blowing up » 135

CARI INSEGNANTI

Lettere e testimonianze di alunni e genitori a insegnanti precari

Dal più profondo del cuore. Lettera a un professore » 145

Ricordanze. Souvenir d’alunni » 147

Di una nevicata e di altre cose. Lettera da una mamma » 155

Gentile signora ministro Letizia Moratti.Epistola di una bambina » 157

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PRECARI EX

Incipit » 161Precari sempre. La fluttuazione infinita » 167Precaria-mente. I precari visti dalla terraferma » 171

APPENDICE

MATERIALI CREATIVI

Vincenzo Valentino, Più precari di così, Un documentario in Dvd » 175Giampiero Mazzone, Il mare soltanto » 179Vincenzo Valentino, Precariopoli. Un testo teatrale » 184

MATERIALI DI DOCUMENTAZIONE

Brunella Presbiteri De Lassis, Per una ricostruzione normativa » 195Lucia Iorio, Questione immissioni in ruolo » 217E la nave va… Dove? – Documenti – » 219Aureliana Scotti (a cura di), Pagine utili. » 223

NOTA DEL CURATORE E RINGRAZIAMENTI » 227

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Copertina: Luca MusellaDesign: ab&c - Roma 06 68308613 - [email protected]

Impaginazione: Top Colors srl - Pomezia - 06 9107235

Alberto Gaffi editore aderisce all’appello di GREENPEACE Italia“Scrittori per le foreste” e utilizza carta proveniente da fonti sostenibili

come quelle certificate dal Foresty Stewardship Council (FSC).

Finito di stampare nel mese di ottobre 2005su Pigna-Ricarta da 100 grammi

carta riciclata di alta qualitàprodotta da maceri di diversa estrazione

senza sbiancamento al cloroe possibile disomogeneità cromatica

presso la Società Tipografica Romana s.r.l.Via Carpi 19 - Pomezia

06.91251177