Teleromanza. Mezzo secolo di sceneggiati e fiction

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EDIZIONI FALSOPIANO Romanza Tele oreste de fornari mezzosecolodisceneggiati&fiction

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La lunga e gloriosa storia dello sceneggiato televisivo italiano, da I promessi sposi a Montalbano

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Con una introduzione di Raffaele La Capria

Genere principe della narrativa Rai, il teleromanzo è stato per anni una

biblioteca circolante e un teatro popolare, ha moltiplicato le vendite dei

classici, ha insegnato il parlare corretto, ha rilanciato vecchie glorie del

palcoscenico. Fondato sul remake, la parafrasi, l’illustrazione, e apparen-

temente nemico della fantasia, non ha goduto i favori della critica, almeno

prima di questo libro, che racconta la storia dello “sceneggiato da opera

edita” dal 1954 a oggi, e ne ricostruisce modi di produzione, tecniche di

adattamento, stili di regia. Si va dai primi, popolarissimi esemplari “al-

l’antica italiana” di Anton Giulio Majano (Jane Eyre, L’isola del tesoro, La

cittadella) alle versioni più austere e accademiche di Sandro Bolchi (Il mu-

lino del Po, I promessi sposi, I fratelli Karamazov), dai tentativi sperimen-

tali di Gregoretti, Albertazzi e Ronconi, alle superproduzioni di gusto

cosmopolita, come Marco Polo e Guerra e pace, fino alla serie del Commis-

sario Montalbano. Una ricerca nella nostra memoria collettiva di spettatori

e insieme una chiave per leggere nel futuro della fiction televisiva.

Oreste De Fornari, critico cinematografico, ha pubblicato libri su SergioLeone, Walt Disney, François Truffaut, oltre al recente Classici americanie ha curato un volume su Il sorpasso di Dino Risi. Membro per alcuni annidella Commissione Cinema presso il Ministero per i Beni e le Attività Cul-turali, collabora con la Rai da lungo tempo come autore e conduttore tele-visivo, quasi sempre in coppia con Gloria De Antoni.

EDIZIONI

FALSOPIANO

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FALSOPIANO

ISBN 978-88-89782-34-7

€ 18,00

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a Graziella

© Edizioni Falsopiano - 2011via Bobbio, 14/b

15100 - ALESSANDRIAwww.falsopiano.com

Per le immagini, copyright dei relativi detentoriProgetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri e Roberto Dagostini

Stampa: Lasergroup - MilanoPrima edizione - Mondadori Editore Settembre 1990

Seconda edizione aggiornata Marzo 2011

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Sommario

Presentazione p. 9

di Raffaele La Capria

Excusatio p. 15

Dal romanzo di… p. 19

All’antica italiana p. 37

Di qualità p. 71

D’autore p. 105

Quasifilm p. 119

Post Scriptum p. 153

Vent’anni dopo p. 157

Filmografia televisiva p. 171

Gli  sceneggiati degli altri p. 230

Nota bibliografica p. 235

Videografia p. 239

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Anton Giulio Majano con Anna Maria Guarnieri sul set della Cittadella.

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Presentazione

di Raffaele La Capria

Anni fa, invitato a far parte della commissione giu-dicatrice di un concorso per l’assunzione di nuovi fun-zionari televisivi, mi capitò di leggere un considerevolenumero di dattiloscritti, coi temi dei candidati. Fu unalettura faticosa, non solo perché fatta a ritmo serrato perrispettare i tempi, ma soprattutto perché gli «elaborati»(come li chiamavamo) erano scritti per la maggior partenella lingua delle scienze umane male apprese e maldigerite all’università, che li rendeva ostici, inutilmenteconcettosi e pretenziosi. Uno solo di quegli «elaborati»mi parve miracolosamente immune da quella abusataterminologia e tanto brillante da ripagarmi della noiaprovata fino a quel momento. Era una ricerca sugli sce-neggiati televisivi condotta da tre punti di vista incro-ciati: quello letterario (in rapporto all’opera da cui eranostati tratti), quello cinematografico (in confronto allaversione cinematografica dello stesso soggetto, sec’era), e quello televisivo (rispetto agli altri sceneggiatidello stesso tipo prodotti dalla televisione).

Fui subito colpito dalla qualità dei giudizi espressi edalla qualità della scrittura, pervasa da una lieve ironiasempre precisa e intransigente. E ricordo che suggeriiall’autore, Oreste De Fornari, conosciuto in quell’occa-sione, di trarre dalla sua ricerca una trasmissione cultu-rale che rendesse visibili i tre punti di vista da lui con-siderati. Sarebbe stato interessante vedere la stessascena realizzata al cinema e alla televisione e commen-tarla conoscendo le varianti rispetto all’originale lette-rario. Sarebbe stato interessante sentir citare, a propo-sito di uno sceneggiato, Auerbach o Debenedetti, cosìcome lui faceva, quasi di sfuggita e senza farlo troppo

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pesare. Sarebbe stato interessante ricordarsi al momen-to giusto di aver letto bene i propri testi, e poter dire(nel commento) che Franco Rossi nell’Odissea televi-siva «usa le voci di dentro (dell’eroe che ricorda o deglidèi che gli parlano) in modo tale che il suo Ulisse con-fina con l’“Ulysses”» o che Sandro Bolchi, quando faleggere «la sventurata rispose» fuori campo sulleimmagini di Gertrude che dalla finestra risponde aEgidio, «ottiene il risultato di trasformare un archetipodi concisione in un esempio di stile pleonastico». Ecosì via.

Sarebbe stato interessante fare un simile program-ma, dicevo, in un momento in cui «il rapporto dellatelevisione con la sua memoria sta(va) migliorando» ela televisione cominciava a parlare di se stessa non piùsoltanto per fornire il pretesto a un’imitazione o a unascenetta di varietà.

Quel programma da me suggerito non si fece, maper fortuna De Fornari ha ripreso la sua ricerca di allo-ra, l’ha rivista, aggiornata, riscritta, e ce la presenta inquesto volume, cui do il benvenuto. Sia pur «lacunosoe impressionistico», a me il suo libro non sembra affat-to «superfluo» come teme l’autore. Lui sa che «i lette-rati non amano la televisione e in particolare aborrisco-no il teleromanzo», ma da letterato (oltre che da uomodi cinema) vuol forse riparare in qualche modo a queldisamore, e perciò, nonostante il suo illuminismo, nonsi vergogna di citare a proposito di Majano i versi:«Non vergognatevi delle lagrime / Non vergognatevidelle lagrime, o giovani cuori!».

Certo, leggendo questo libro uno si domanda se sipuò trattare il casuale eterogeneo avvicendarsi dellescelte televisive (che avvengono secondo il gusto o ilcapriccio di questo o quel regista, il criterio o la strate-gia di questo o quel funzionario) come se si trattassedell’organico sviluppo delle forme espressive di una

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letteratura. E se quella monotonia che si avverte nellasuccessione di titoli e personaggi e trame televisivepossa già configurarsi come storia, o debba attendereancora perché si possa dirlo.

Lo stesso De Fornari sembra essere cosciente diquesto e mentre scrive il suo libro si chiede: «Ne varràla pena? Una volta sembrava inutile perfino conservar-li, gli sceneggiati». Io credo che ne valga la pena, anchese per ora conviene accontentarsi della approssimativatipologia da lui offerta, che distingue tra sceneggiati«all’antica italiana», «di qualità», «d’autore», e «quasi-film», e disegna una mappa delle tendenze: «popola-re», «accademica», «sperimentale», «colossale», corri-spondente a modi di produzione, stili, gusti diversi. Ecredo che ne valga la pena anche perché il suo è unlibro sulla nostra televisione finalmente piacevole aleggersi, e divertente. Ecco, per esempio, un ritratto diMajano: «Ex ufficiale di cavalleria… Majano intuiscesubito che l’universo della cultura di massa è uno, e lopercorre in lungo e in largo, al galoppo». E a propositodelle sue sceneggiature: «Gran folla di vip nei saloniparigini, dove si intrecciano malignità e convenevoli: –“Simpatica serata, vero Flaubert? E voi, Sainte-Beuve,che cosa ne pensate del giovane Bizet?”». Non v’è dub-bio che le simpatie di De Fornari vanno a Majano, eanche se riconosce la «grandezza» di Bolchi, non gli vatroppo a genio «la sua anima cattolica, quaresimale,perfino giansenistica», né che lui «si fidi molto delleparole, poco dei fatti e niente dello spettatore», perchénei suoi sceneggiati «le parole, come al solito, hannol’ultima parola».

Come Majano e Bolchi, definiti «i due titani» dellosceneggiato, così gli altri registi sono rapidamente ecausticamente sistemati: «Più enfant gâté che enfantterrible Giorgio Albertazzi… semina suspense abusivoe soprattutto non fa che ripetersi». Nel Jekyll «non ha

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rispettato né dissacrato: a volte è l’indecisione chegenera i mostri». E Gregoretti nel Circolo Pickwick «siesprime in pickwickiano, come i tromboni che prendein giro». In lui «c’è un’ironia un po’ da cabaret, espo-sta a invecchiamento precoce». Nel pedagogicoRossellini televisivo si assiste al «trionfo della Storiasulla story». Franco Rossi, nell’Eneide, «se non piùpoeta di Virgilio, è certamente più poetico». Gli effettispeciali di De Bosio, nel Mosè (definito un «kolossalinterruptus»), sono «tanto indigenti da comprometterela plausibilità dei miracoli». Il Gesù di Zeffirelli «difet-ta insieme di realtà e di irrealtà». Nel Sandokan diSollima «turismo e avventura legano male». Di Nocita«si può dire che è insieme calligrafico e bozzettistico»oppure, come scriveva Manzoni del suo anonimo,«rozzo insieme e affettato». Solo per l’Orlando diRonconi e la sua «scomplessata apoteosi del teatro fil-mato» c’è un’adesione senza riserve: «Non sapremmodire se stiamo assistendo a un rito teatrale o vivendoun’illusione televisiva. Il dubbio talvolta è delizioso».E, giustamente, per Comencini, che ha riscritto Cuore«non come è veramente, ma come ci piace ricordarlo»,e che in Pinocchio sa essere fedele all’originalericreandone un equivalente, senza mai cadere in quella«insensata fedeltà» (letterale) che è stata l’ossessionedi tanti volonterosi registi, come Bolchi, ad esempio, ocome lo stesso Rossellini che racconta gli Atti degliApostoli «con immagini moderne e parola accademi-ca», quando invece sarebbero occorsi «dialoghi piùinfedeli, in tutti i sensi».

Ecco, è questa scrittura «intelligente» che rende pia-cevole a leggersi e divertente il libro di De Fornari.Dov’è che non sono d’accordo con lui? Su Diario di unmaestro di Vittorio De Seta, che meritava forse mag-giore attenzione perché è una specie di esperimento«dal vivo» che solo la televisione poteva mettere in

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atto, in cui si segue il progressivo apprendimento sco-lastico di un gruppo di ragazzini osservati a uno a unonella loro evoluzione, così come a volte in un docu-mentario osserviamo un fiore rapidamente sbocciaresotto i nostri occhi. Non sono inoltre d’accordo suCristo si è fermato a Eboli, che a me pare una bellainvenzione cinematografica e insieme televisiva trattada un libro che sembrava irriducibile sia per il cinemache per la televisione. Ammetto che non avrei dovutodirlo, visto che uno degli sceneggiatori del libro di Levisono stato io stesso, però, già che ci sono, aggiungosenza imbarazzo che forse De Fornari avrebbe potutoricordare anche la serie dei Racconti italiani da mecurata, non solo perché in una monografia sullo sce-neggiato televisivo ci sarebbe stata bene, ma perché (aparte i risultati non sempre soddisfacenti) quella serieruppe la preclusione che fino a quel momento era esi-stita verso la nostra narrativa contemporanea, e dimo-strò che la misura breve del racconto poteva offrire unottimo materiale per una trasposizione televisiva. Fuallora che i racconti di Soldati, Cassola, Bassani,Petroni, Del Buono, Tecchi, Dessi, Tobino, eccetera,passarono in televisione e aprirono la strada agli altri.

Ma nonostante queste piccole divergenze e trascura-bili omissioni, a lettura finita il libro di De Fornari,almeno a me, si è rivelato anche sotto un altro aspetto:non più quello di una ricerca sugli sceneggiati, ma diuna «recherche» in quella specie di memoria collettivache la televisione ci fabbrica giorno per giorno dagliormai lontani anni Cinquanta, dove i nomi di Majano edi Bolchi e di tanti attori e personaggi acquistano laparticolare risonanza del nostro «tempo perduto», deinostri «Television Days».

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Sergio Pugliese, direttore centrale dei programmi televisivi, insieme aVittorio Gassman, nel 1959 all’epoca del Mattatore. (Foto Teche Rai).

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Excusatio

Avete presente l’amico che arriva a teatro ferratissi-mo sul testo e poi muore dalla voglia di segnalarvi levarianti abusive introdotte dal regista? Ebbene, temo diessere come lui, un delatore di infedeltà veniali.

A essere sinceri, nelle lunghe ore trascorse nei sot-terranei della Rai, a tu per tu con i vecchi sceneggiati,più che un pedante mi sentivo un censore, ultimo erededi una genia di cacciatori di streghe, inquisitori mac-cartisti e zdanoviani, moralisti di provincia. Mi sem-brava di rivivere le loro stesse eccitazioni, disappunti,perplessità. Da buon persecutore avevo una vittimapreferita: la mia bestia nera era Sandro Bolchi, quellodei Promessi sposi prima versione. A differenza deglialtri registi, Bolchi può vantare un alibi di ferro, l’as-soluta fedeltà agli originali: perciò è difficile commen-tarlo, accusarlo, perdonarlo. Il critico si sente inutile ediventa dispettoso.

Il proposito comunque non era censorio, anzi perfi-no ludico. Dietro al giudizio universale (Majano tra ipassionali, Bolchi tra gli ignavi, Albertazzi tra i super-bi), si dovrebbe intravedere una specie di caccia altesoro crossmediale, tra pagina, schermo e telescher-mo, in cerca di piaceri del testo e di «specifici» un po’chimerici: ciò che cinema, letteratura e tv possono dircicoi loro propri mezzi.

Ne varrà la pena? Una volta sembrava inutile perfi-no conservarli, gli sceneggiati, tanto che un dirigentene ha fatto distruggere più di cento, tra sceneggiati ecommedie, per alleggerire i magazzini e recuperare ilnastro magnetico: non rivedremo più I giacobini,Demetrio Pianelli… Ma oggi che il rapporto della tele-visione con la sua memoria sta migliorando, una mono-grafia sullo sceneggiato, sia pure lacunosa e impressio-

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nistica, non dovrebbe sembrare del tutto superflua. Èstata scritta, tra l’altro, nella speranza che ai registi diteleromanzi succeda come a quelli di melodrammi ecommedie all’italiana, quando finalmente ci si è accor-ti che sono stati un po’ autori anche loro, con un postonon marginale nell’immaginario collettivo.

A proposito del rapporto dell’azienda radiotelevisi-va con la sua memoria è d’obbligo ricordare il podero-so lavoro di riordinamento dell’archivio audiovisivo efotografico compiuto, a partire dal 1997, dallaDirezione Teche Rai, diretta da Barbara Scaramucci,che ha reso consultabile oltre un milione di ore di tele-visione e di radio (per maggiori informazioni si puòandare al sito internet www.teche.rai.it). A questo siaggiunga la possibilità, da qualche anno, di acquistarecopie in dvd di quasi tutti i romanzi sceneggiati (vedipiù avanti alle voci filmografia televisiva e videogra-fia). Non è difficile comprendere quale enorme oppor-tunità tutto ciò rappresenti, oltre che per gli studiosi egli autori di programmi televisivi, anche per gli autoripresenti e futuri di fiction, in cerca di modelli cui ispi-rarsi e con cui confrontarsi criticamente.

Ho ripreso qualche pagina da una mia ricerca per laRai del 1979 e da due articoli apparsi rispettivamentesul catalogo del festival di Gabicce del 1988 e sul«Patalogo Tre» del 1981. A Raffaele La Capria va tuttala mia gratitudine per avere a suo tempo segnalato eincoraggiato la ricerca. Sono inoltre debitore di aned-doti, testimonianze, aiuti a consultare il materiale e pre-stiti di libri, agli indimenticati Anton Giulio Majano eLudovico Alessandrini, e a Carlo Orichuia, FabioStorelli, Francesco Pinto, Paola Debenedetti, LucianaCatalani, Enrico Ghezzi (per le sue “Schegge” ho curatonel 1989 un’antologia di sceneggiati, intitolata La tvdell’Ottocento), Filippo Porcelli, Eugenio Buonaccorsi,Marco Salotti, Maurizio Imbriale, Valeria Moretti,

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Valeria Paniccia, Fania Petrocchi e soprattutto a GloriaDe Antoni, che ha videoregistrato per me in orari impos-sibili. Con lei ho realizzato e condotto Romanzo popo-lare un programma di incontri con i protagonisti deiteleromanzi, andato in onda nel 2002 su RaiSat Album,il canale diretto da Marco Giudici.

Per le fotografie, una parte delle quali è stata fornitaa suo tempo dal «Tv Radiocorriere» (GiuseppeGennaro) e dall’ufficio stampa Rai (Gabriella Silvestri),ringrazio, oltre alla già menzionata Barbara Scaramucci,direttore di Rai Teche, (che ha in catalogo oltre 30.000fotografie digitalizzate), Stefano Nespolesi e ChiaraAntonelli della Biblioteca Rai di viale Mazzini 14,Roma. Quelle più recenti sono state gentilmente conces-se dall’Ufficio Stampa Rai (Fabrizio Casinelli e BarbaraPellegrino).

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Un tocco di grottesco nel finale di Sorelle Materassi. Le due zitelle(Sarah Ferrati e Rina Morelli) indossano l’abito da sposa del corredoal matrimonio del nipote (Giuseppe Pambieri) con un’americana (ErnaSchurer). (Foto Teche Rai).

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Dal romanzo di…

Sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi racconta,come noto, di due ricamatrici che vivono in provinciadi Firenze, intorno agli anni Venti. Abilissime, parsi-moniose, rigorosamente nubili, hanno una sola debo-lezza, il nipote orfano che allevano pieno di vizi.Gliele danno tutte vinte e lui, crescendo, pretendesempre più soldi, per comprarsi la moto, l’automobi-le, e per mettersi in affari, affari grossi, affari incerti;finirà per dilapidare i risparmi delle zie, prima diandarsene da casa con una moglie americana. Sisarebbe tentati di leggere questa storia come un’alle-goria di trent’anni di televisione, sostituendo alle duericamatrici gli umili tessitori di trame sceneggiate,esautorati da nipoti velleitari e spendaccioni, semprein cerca di un partner americano. Ognuno vedrà allafine se il paragone tiene e fino a che punto.

Ma il romanzo di Palazzeschi è importante per noianche perché lo sceneggiato che ne fu tratto da MarioFerrero nel 1972 ha ottenuto un curioso e prestigiosoriconoscimento. Si dice che l’ayatollah Khomeini,durante l’esilio parigino, l’abbia visto e, una volta alpotere, abbia raccomandato ai responsabili della tviraniana di rivolgersi anche all’Italia e non più soltan-to agli Stati Uniti per l’acquisto dei programmi.(Ammesso che la notizia sia fondata, è probabile chea conquistare l’imam siano state le solide, antichevirtù celebrate nella vicenda delle due sorelle.)

Se avesse visto anche gli altri sceneggiati Rai deiprimi vent’anni, non sarebbe rimasto deluso. E seavesse conosciuto i primi dirigenti avrebbe trovatodei punti in comune, almeno il misoneismo, cioè ladiffidenza nei confronti del nuovo. È proverbiale ilcaso del primo consigliere delegato, Filiberto Guala,

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che poi si farà frate trappista, il quale dichiara di nonavere mai messo piede in un cinema in tutta la suavita. L’industria delle immagini televisive, al suonascere, è in mano a uomini libreschi, frugali, talvol-ta piemontesi. Da cui l’adozione del romanzo sceneg-giato, che filtra serialità elettronica e pedagogia otto-centesca.

D’altronde in quegli anni il pubblico, anche laico e«d’élite», indulge in piccoli esorcismi antitecnologici.Mentre il popolo si raduna nei bar per vedere «Lasciao raddoppia?», i borghesi adornano il televisore concentrini e soprammobili, gli snob lo mimetizzano den-tro a mobiletti in stile e gli intellettuali si vantano dinon possederlo. E non fanno che dir male delle tra-smissioni. Gabriele Baldini esclude Tom Jones daiprogrammi di letteratura inglese perché la visionedello sceneggiato guasterebbe la lettura agli studenti,e Raul Radice minaccia Ilaria Occhini di espellerladall’Accademia d’Arte Drammatica se accetterà dilavorare con Majano. Accetterà, come noto, e saràespulsa.

Insomma, i letterati non amano la tv e in particola-re aborriscono il teleromanzo, anche più dei romanzicondensati di «Selezione»: due modi di riprodurre,togliere l’aura, mistificare forse, banalizzare certa-mente; con la differenza che mentre i digest di solitonon risalgono oltre gli ultimi best seller, i teleroman-zi attingono alla tradizione letteraria dell’Ottocento.Un compromesso, praticamente unico al mondo, traalta e bassa cultura, opera e serie, vecchio e nuovo.Ben lontano da soap operas americane, feuilletonfrancesi, telenovelas brasiliane, che non ambisconoalla cultura e perciò non la contaminano (piuttosto c’èuna parentela con i classic serials inglesi).

Seconda novità, abbastanza inaudita, le puntate.Sono servite a creare un pubblico letterario, funzione-

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ranno anche con quello televisivo. Per trent’anni ilromanzo sceneggiato a puntate sarà il genere principedella narrativa Rai e il simbolo del suo progetto cul-turale, umanistico e cattolico. I teleromanzi saprannoerudirci, intrattenerci, edificarci, commuoverci, farcisentire più buoni e forse anche più italiani.

Ma pochi li ameranno senza riserve, dentro e fuorila Rai. Forse perché non si tratta di opere originali e ilpregiudizio romantico contro i remake accomuna,sotto sotto, registi e critici. Infatti, da parte dei registi,esagerate professioni di umiltà: non si prendono maiper autori, appena illustratori, figurinai, contenti almassimo che le tirature del romanzo siano aumentate.Da parte dei critici, perlopiù i soliti «traduttore tradi-tore», «fedele alla lettera, infedele allo spirito» e«guardate come hanno massacrato il romanzo».

Eppure, direbbe Manzoni, le favole si possono rac-contare in tanti modi. Saltando certi passi, aggiungen-do particolari, cambiando il finale, a seconda dell’e-stro del narratore e della sensibilità del pubblico. Lostesso, fino a un certo punto, con la prosa. Il reperto-rio dei teatri è composto in massima parte di classiciriletti secondo il gusto di oggi.

Con i romanzi, «compiuti» già sulla pagina,cominciano i problemi. Flaubert per esempio inorridi-va all’ipotesi di una Bovary illustrata. E il cinema, sisa, è responsabile di innumerevoli maltrattamenti. Maperlomeno i riduttori per lo schermo cercavano spes-so di creare un’opera originale e se toglievano molto,aggiungevano qualcosa, un punto di vista, un ritmo,un’inflessione. La mortuaria festa da ballo delGattopardo, le facce arcaiche del Decameron, i gestida burattino del Conformista, tutte cose che un po’violentano gli originali e un po’ li completano (quelche si dice «essere fedeli allo spirito», «creare degliequivalenti»).

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In tv si punta piuttosto sulla fedeltà alla lettera,cioè alla trama e ai dialoghi, facendo un misto di rias-sunto e di parafrasi, nell’illusione di ottenere unacopia, magari un po’ sbiadita, dell’originale. Ironiadella sorte, il primo sceneggiato Rai, Il dottorAntonio, è tratto da un romanzo di cui non esiste ori-ginale, è nato direttamente come remake. Niente auto-re e nemmeno nazionalità. Ruffini l’ha pensato in ita-liano e abbozzato in inglese, Cornelia Turner eHenrietta Jenkin l’hanno riscritto e abbellito in ingle-se e tempo dopo Bartolomeo Aquarone l’ha tradottoin italiano. Sembra che non ci sia nemmeno un regi-sta. Affidato ad Alberto Casella, un drammaturgodigiuno di regia, di fatto viene realizzato da due assi-stenti. È un successo. Gli ingredienti: amori impossi-bili, Risorgimento, rinunce, un medico come eroe,insomma l’Ottocento.

È televisione sull’Ottocento e Ottocento della tele-visione. Ottocenteschi i testi, le ambientazioni, i valo-ri, l’idea stessa di una televisione concepita comescuola serale, dove gli sceneggiati fungono da biblio-teca circolante. Nei titoli non si legge, come al cine-ma, «Cime tempestose, dal romanzo di EmilyBrontë», ma «Cime tempestose di Emily Brontë, libe-ro adattamento televisivo di…». E alla fine, unaromantica postilla: «Finisce così la storia di Caterinae di Heathcliff come fu raccontata, nella prima metàdel secolo scorso, da Emily Brontë, una giovanedonna che visse in una desolata contradad’Inghilterra. In quella triste brughiera dove trascorsela sua breve esistenza, ella non conobbe l’amore e tut-tavia seppe immaginare questa storia che è tutta ungrido d’amore, una delle più belle che fantasia dipoeta abbia mai creato». Oppure, all’inizio, il libroche si apre, come già in molti film, con copertine ara-bescate in similpelle (poi molto in voga per le edizio-

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Un medico patriota (Luciano Alberici) è l’eroe del primoteleromanzo, Il dottor Antonio. (Foto Teche Rai).

Il regista come Gulliver. Mario Landi a confronto con il modellinodella casa nella brughiera di Cime tempestose. (Foto Teche Rai).

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ni da edicola), o magari un Albertazzi giovanissimo incostume Ottocento e fresco di «Appuntamento con lanovella», che preleva religiosamente il volume dalloscaffale e comincia a leggere: «Risotto e tartufi.Soffiava sul lago una breva fredda, infuriata di volercacciare le nubi grigie, pesanti sui cocuzzoli scuri dellemontagne. Infatti, quando il Pasotti…». Prosa aulica,voce flautata, modi desueti per mettere la televisionesottovento alla letteratura. Sul «Radiocorriere» la pre-sentazione dello sceneggiato in programma non preve-de interviste al regista, ma solo l’intervento di unoscrittore (Siciliano, Ripellino, Spaziani) che presenta ilromanzo: come se fosse questo a andare in onda.

L’altro grande modello del teleromanzo, dopo la let-teratura, è il teatro. Preferito al cinema perché più adattoallo studio televisivo, meno costoso e forse per ragionimorali. «Non voglio far entrare i produttori cinemato-grafici coi loro pacchetti di cambiali in via del Babuino»tuona il direttore dei programmi Sergio Pugliese. E i teo-rici pronti a spiegare che «la televisione non è cinema,bensì teatro avvicinato all’occhio dello spettatore»(Alberto Perrini). O perfino, come Renato May, a statui-re che l’illusionismo, proprio del cinema, è estraneo almezzo televisivo, che non deve mai far dimenticare lapresenza delle telecamere e del narratore. Chissà perché.

È un teatro all’antica italiana, con una compagniaformata da veterani della scena, legati a ruoli fissi. Ilpadre nobile Aldo Silvani, il padre severo RoldanoLupi, il povero diavolo Andrea Checchi, il felloneUbaldo Lay, il brillante Leonardo Cortese. E ancoramadri nobili (Wanda Capodaglio, Elsa Merlini), primiamorosi e prime amorose (Warner Bentivegna, SergioFantoni, Corrado Pani, Anna Maria Guarnieri), eternegovernanti (Laura Carli). E anche medici barbuti,mercanti che si fregano le mani, malvagi che lancianoocchiate sinistre.

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Alcuni attori, come Fosco Giachetti e MassimoGirotti, sono stati celebri sugli schermi, altri, comeVirna Lisi, lo saranno, ma nessun divo del cinemalavora in tv, perché la tv imbruttisce, paga male e nonè di moda. I registi vengono dal teatro (Landi, Blasi)o dal cinema popolare (Majano, Cottafavi) e sonopassati dalla radio. Se il cinema B ha praticato a lungoil feuilleton in costume, ormai soppiantato nei gustidel pubblico dai vari Pane, amore… e Poveri mabelli, la radio ha nel romanzo sceneggiato uno deisuoi filoni di prestigio. Sono queste le fonti immedia-te del teleromanzo; per quelle remote si può risalireall’illustrazione popolare ottocentesca e su fino allaBiblia pauperum medievale.

Il modo di produzione è più vicino al teatro che alcinema; si prova una settimana per andare in scena,cioè in onda, il sabato sera, e replicare, sempre indiretta, la domenica. Inevitabile prevalenza di internie di fondali dipinti, ma non mancano le costruzioni dacinema, come la nave Hispaniola dell’Isola del teso-ro. I rari inserti, filmati precedentemente in esterni,vengono mandati in diretta come contributi, con per-fetto tempismo. «C’era il duello sul brigantino tra Jime un pirata. Il brigantino era in studio. Il pirata feritosi staccava dall’albero e cadeva sulla rete; in quelmomento partiva il contributo, di quattro secondi,girato sul lago di Fogliano, dove il pirata cade inacqua» ricorda Majano, che ha vissuto avventurosa-mente il «bello della diretta». Ilaria Occhini che svie-ne tra le braccia di Raf Vallone, Fabrizio Mioni coltoda un attacco di fou rire nel mezzo di una scena dram-matica (e il regista deve staccare sulle pareti),Giovanni Cimara che si cambia in scena e sbagliapantaloni, la spada di Foà che si piega durante il duel-lo. E anche piccole papere degli attori, piccoli ritardinegli attacchi, magari sul gesto già cominciato…

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Teatro filmato dunque, con tutte le convenzioni delteatro e le imperfezioni della diretta. Facile distin-guerlo allora dai film, anche dai più sobri e «da came-ra», ma girati inquadratura per inquadratura, cam-biando ogni volta luci, posizioni degli attori, dellamacchina da presa…

Nel teatrino dello sceneggiato, ripreso contempo-raneamente e alla meno peggio da quattro telecamere,non si può piegare lo spazio-tempo alle esigenze delracconto, per cui si vede sempre un po’ troppo e trop-po a lungo: luci uniformi, passi superflui, corpi opa-chi dove non si dimentica del tutto l’attore dietro alpersonaggio. Niente a che vedere, tuttavia, con lapiattezza di situation comedies e telenovelas a venire.Anche il cinema è un modello, sia pure in subordine.

Infatti si possono ammirare movimenti di macchinavirtuosistici e profondità di campo fortemente dramma-tiche. Come quando la telecamera si allontana dai dueprepotenti, arretra fino a inquadrare l’elsa di una spadae quindi risale al primo piano di Capitan Fracassa, appo-stato nell’ombra. Fine della terza puntata. Né mancanoaltri topoi del linguaggio cinematografico: immaginisoggettive, effetti fantasma, dettagli funzionali, vocifuori campo evocative… Insomma, quando si dice tea-tro filmato non suoni più come un insulto.

Ripresa in diretta, l’azione si svolge in tempo realee non evita i tempi morti. Se qualcuno per arrivarealla porta deve attraversare la stanza, non si può bara-re, come si fa al cinema col montaggio. E per evitareche le telecamere entrino in campo, gli attori si muo-vono con prudenza. Se poi un personaggio deve pas-sare da un set all’altro e magari cambiarsi d’abito, ènecessario chiudere la scena su un attore che doponon compare; da cui gli indugi sulla serva che sparec-chia, il maggiordomo che accende il lume…

Si parla anche lentamente e staccando bene le

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parole. Perché non tutti intendono con la stessa pron-tezza e perché la cultura deve essere solenne.

Diretta, dominio dello studio, autarchia, pedago-gia, ciclo integrato, dal soggetto alla messa in onda;c’è qualche affinità con lo studio system hollywoo-diano. Il direttore dei programmi, il commediografoSergio Pugliese, sceglie testi, registi, attori, comefacevano Harry Cohn o Jack Warner: un monarcaassoluto. Non può mancare un codice di autocensura,il codice Guala, altrettanto meticoloso del codiceHays nell’enumerare i tabù («le relazioni illegali deb-bono sempre essere configurate come anormali… ledanze non debbono consentire nudità immodeste…»)e come quello destinato a tacite, clamorose violazio-ni: la Pisana-Lydia Alfonsi che in camicia da notte sioffre a Carlino-Giulio Bosetti invitandolo a seguirlanella sua stanza. Eppure è soltanto il 1960.Ufficialmente l’anno in cui l’Italia diventa un paeseindustriale; di qui a poco, nel 1962, anche lo sceneg-giato diventa più industriale, e meno effimero, grazieall’introduzione dell’ampex, il nastro magnetico, inanticipo sulle altre tv europee.

Non è più necessario fare tutto in diretta, si puòregistrare prima e trasmettere poi, senza perdita diqualità. E si possono pianificare le riprese, come alcinema, raggruppando tutte le scene che si svolgonoin un certo ambiente, o con certi attori, che inveceprima d’ora, se comparivano per esempio nella secon-da e nella quinta puntata, per le settimane intermediedovevano restare a disposizione e venir retribuiti.

Ma siccome all’inizio il taglio del magnetico èquasi impraticabile, ripresa e montaggio sono ancoracontemporanei: si registra una scena tutta di seguito eil montaggio a posteriori è perlopiù di ripulitura, dav-vero non come al cinema. Risultato, dai dieci ai quin-dici minuti di registrato al giorno. E ancora, dati i

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budget modesti e i tempi stretti, stessa impronta tea-trale, stesse imperfezioni negli attacchi e lentezze per-fino assurde. In Papà Goriot di Buazzelli, Rastignacesce dal palco di una contessa per raggiungere il palcodi fronte. Dopo che è uscito, la telecamera arretradalla nobildonna rimasta sola, senza scoprire niente,senza che venga pronunciata una battuta, giusto perfar passare tutto il tempo che Rastignac si presumaimpieghi per attraversare un corridoio. In compensol’occhio della telecamera aspira alla velocità. Invecedi carrelli, zoom. Sottolineano violentemente sorpre-se, trasalimenti, colpi di scena, appiattendo lo spazioe cancellando la profondità: ma i registi, almeno neiprimi tempi, ne abusano. Nel cinema, i vari Petri,Damiani, Rosi fanno lo stesso. Prevale, tra i tipi diinquadratura, quella più adatta all’introspezione, ilprimo piano; qualcuno, come Saverio Vertone, è con-vinto che si tratti dello specifico televisivo.

Aumenta lo sforzo scenografico. Bolchi, per l’allu-vione del Mulino del Po, fa allagare lo studio 3 diMilano, con i getti dei pompieri che sommergono gliattori. Anche gli affollati tumulti per il pane deiPromessi sposi vengono ricostruiti in studio.Aumenta, moderatamente, la percentuale di esterni,sempre ripresi a parte, in cinematografico. Ogni tantosi vedono attori in costume Ottocento uscire in stradae incrociare qualche comparsa, magari un cavaliere,un calesse, in un clima da ferragosto o da coprifuoco.

Aumenta, comunque, l’impressione di realtà.Basta confrontare la Sardegna di Canne  al vento(1957) con quella dell’Edera (1974): altre strade, altrebarbe, altri baci, altre agonie. Perché nello sceneggia-to, come nel romanzo naturalista, agonie e ereditàcontese ricorrono: gli estremi sospiri di Carlo Ninchinell’Edera saranno eguagliati solo dai rantoli di TinoCarraro in Arabella.

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Tra musical e parodia. Virgilio Savona, Carlo Campanini, Renato Rascel,Silvio Gigli e Lucia Mannucci nella Primula rossa, episodio di Biblioteca

di Studio Uno. ( Foto Teche Rai).

Il direttore generale della Rai Ettore Bernabei e il ministro dellaDifesa Giulio Andreotti, fra il pubblico di Sorella Radio, nel 1963.(Foto Teche Rai).

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Siccome molti sceneggiati vengono registrati aMilano, e grazie ai talenti persuasivi di SandroBolchi, al cast si aggiungono attori del Piccolo, comeTino Carraro e Gastone Moschin. Intanto AlbertoLupo si consacra divo con migliaia di fan, che comeal solito confondono il personaggio e l’attore e maga-ri gli scrivono chiedendo consigli per il mal di schie-na. Giancarlo Giannini debutta, attonito, in DavidCopperfield, Enrica Bonaccorti è una pimpante fante-sca nella Pietra di luna e Roberto Benigni transitasotto al balcone delle Materassi. Loretta Goggi per-corre la sua infanzia dickensiana: sorellina dell’arrivi-sta di Una tragedia americana, figlia della camerieradel dottor Manson, figlia adottiva di Jean Valjean… Ibambini, dentro e fuori dal teleschermo, non hannoconquistato del tutto il diritto a non annoiarsi.

I registi continuano a venire dal teatro (Bolchi,Fenoglio); qualcuno, come Vaccari, sogna il cinema.

Alla metà degli anni Sessanta lo sceneggiato è unodegli appuntamenti più attesi, di poco inferiore, nelgradimento, a film e telegiornali, ma superiore avarietà e prosa. Già dai tempi del «Musichiere» la suacollocazione viene spostata alla domenica. La sera deldì di festa è notoriamente meno euforica del sabatodel villaggio, più adatta alla degustazione istruttivadello sceneggiato.

Fioriscono in questo periodo varie ramificazionidel teleromanzo, come i gialli a episodi, sempre d’au-tore e d’attore: Maigret-Gino Cervi, padre Brown-Rascel, Nero Wolfe-Buazzelli, Philo Vance-Albertazzi. Cui si affiancano i cicli, meno classici, deltenente Sheridan (La donna di fiori, di quadri, ecc.),che impongono il profilo ligneo di Ubaldo Lay. Ancheil varietà occhieggia alla letteratura negli indimenti-cati minimusical della «Biblioteca di Studio Uno»,interpretati dal Quartetto Cetra. E la letteratura si con-

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tamina audacemente con il giornalismo e con la sto-ria, nelle vite dei grandi (Dante, Michelangelo) e neivari «Teatro inchiesta». Insomma, un genere albero,con radici profonde e lunghi rami.

È ancora cautamente ottocentesco. Il nuovo diret-tore generale Bernabei, entrato in carica nel 1961, hamodernizzato diverse cose, un secondo canale piùaperto alla sperimentazione, giornalistici più corag-giosi (ricordate «TV7»?), ma nel teleromanzo la solagrande apertura sono I giacobini di Zardi, dove fascalpore che si dica bene di Robespierre (in omaggioal centrosinistra, insinua qualcuno).

Il cinema, certo, viaggia ad altre velocità, ma inuno sceneggiato ’68 si potrebbe gridare al massimo:«Pellico libero!», «Radetzky boia!» o «Più potere alleTrade Unions!». Un ghost writer infila una citazionedi Marcuse nel copione di Papà Goriot, ma nessunose ne accorge.

Il potere non sembra del tutto estraneo a questiritardi. Certe dichiarazioni impertinenti di PaolaPitagora sulla Lucia dei Promessi sposi, riportate daun rotocalco, inducono il presidente della RepubblicaGiuseppe Saragat a telefonare personalmente aSandro Bolchi per chiedere garanzie circa la «fedeltàallo spirito» dell’imminente sceneggiato manzoniano.Ma l’aria dei tempi filtra sotto la porta: il cast dellaFiera della vanità riunisce Pietro Valpreda e GiusvaFioravanti.

Nei Settanta l’evoluzione del costume si avverte dipiù. Si vedono i primi nudi (Madame Bovary), circo-lano le prime femministe e i primi terroristi, quelli diDostoevskij naturalmente. Arrivano registi filologicie professorali, come Leandro Castellani e Marco Letoe arriva Rossellini, in fuga dal cinema.

Lo studio si apre al mondo e lo ingloba grazie a unnuovo effetto speciale, il chromakey, simile al «tra-

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sparente» cinematografico, per cui gli attori, in stu-dio, si muovono su sfondi ripresi altrove: trucco visto-so che può avere conseguenze ironiche, come in Macos’è questo amore? di Gregoretti. Viene adottato, nel1975, il colore, che dovrebbe nascondere la povertà dicerte ricostruzioni e che rischia invece di metterlaimpietosamente a nudo. Più decisiva l’introduzionedel montaggio elettronico, per cui si può montareun’inquadratura per volta, come in un film, o quasi. Emolti sceneggiati sono già tecnicamente dei film.

Perché alla fine degli anni Sessanta, anche perarginare l’invasione di telefilm americani, si sonocominciati a produrre, oltre a film d’autore(Bertolucci, Olmi, Taviani) e a telefilm sperimentali(a cura di Italo Moscati), anche sceneggiati su pelli-cola, abbastanza costosi. Numi tutelari della nuovatendenza, due autori-produttori cattolici, VittorioBonicelli e Pier Emilio Gennarini: quest’ultimo con-cluderà la sua carriera nei tardi anni Ottanta, comeconsulente alla sceneggiatura dei Promessi sposi(sembra, stranamente, che certe sottolineature anti-claustrali siano state incoraggiate da lui).

La realizzazione degli sceneggiati filmati nonavviene più internamente all’azienda, ma in appalto aproduttori cinematografici anche grandi, come DeLaurentiis, che firma il primo della serie, Odissea, incoproduzione con Francia e Germania. Matrice sem-pre letteraria, linguaggio quasi cinematografico, ritmiancora lenti. De Laurentiis, per paura di annoiarsi, sifa proiettare Odissea a velocità doppia.

Nel cast si cominciano a leggere nomi di divi o exdivi del cinema, da Claudia Cardinale a AnthonyQuinn, inseriti nella speranza di raggiungere i merca-ti internazionali, mentre grandi nomi della regia -Rosi, Comencini, Antonioni - non disdegnano più dilavorare per la Rai.

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L’incontro di capitali e talenti, al servizio di unaconcezione lievemente funerea della cultura, è all’ori-gine di nuovi brani da manuale. Non più anguste ago-nie da studio, ma due sontuosi funerali acquatici, diAnchise e di Ombretta, che Virgilio e Fogazzaro nonavevano previsto.

Assieme alla centralità dello studio, comincia edeclinare l’immagine della Rai come azienda a ciclocompleto (dalla produzione alla diffusione): qualcunocomincia a temere, o ad augurarsi, che si trasformi inuna finanziaria. Vale ancora la similitudine con lo stu-dio system hollywoodiano, che ha conosciuto un ana-logo processo di disgregazione, a cui si è reagitoentrando nella logica del big budget, della singolaoperazione miliardaria. Logica premiata, per quantoriguarda la Rai, dallo sfondamento sul mercato ameri-cano, come partner minoritario degli inglesi (Mosè,Gesù di Nazareth), e quindi da sola, col Marco Polo.

Non tutti sono d’accordo su questa politica delgrande evento, e non hanno tutti i torti. «Quanti sce-neggiati medi si sarebbero potuti produrre con i tantodiscussi miliardi di Marco Polo? Quante persone inpiù sarebbero state impiegate, quante idee e progettirealizzati?» si domanda lo sceneggiatore Calligarichsulla rivista della Siae. Ma per venderli a chi, noncerto agli americani, è lecito obiettare, e dunque comesarebbero rientrati quei miliardi?

Accanto ai big hits internazionali (Gesù, Mosè,Marco Polo sono entrati nei «primi dieci» della tvamericana) non mancano comunque i flops comeL’isola del tesoro di Margheriti. Accanto alle opera-zioni coperte in partenza dai coproduttori stranieri, lefalse coproduzioni, dove invece di finanziamenti, dal-l’estero arrivano programmi di scambio, talvoltainservibili. Il nipote delle Materassi ormai legge«Capital» e «Variety» e parla da manager, ma non ha

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perso del tutto il vizio di vedere il grande affare anchedove non c’è.

Ancora una domanda. È lecito continuare a chia-marli sceneggiati visto che da qualche tempo sonoentrati nell’uso termini come fiction, miniserie e filmper la tv?

Accontentiamoci per il momento di definireromanzo sceneggiato o teleromanzo qualsiasi opera dinarrativa a puntate e di origine letteraria. Sono questiprobabilmente i segni di riconoscimento del genere, isuoi tratti distintivi, che lo differenziano sia dai gene-ri a puntate, ma senza matrici letterarie, come gli ori-ginali televisivi, sia da quelli di derivazione letteraria,ma non sempre a puntate, come certi gialli a episodi.Fra tutti il teleromanzo è il più intensamente italiano,quello che rappresenta meglio il progetto, mai abban-donato, di educare divertendo. Perciò qui ci occupia-mo solo di teleromanzi.

Individuato il profilo del genere (uno dei profilipossibili), cercheremo di disegnare, nei capitoliseguenti, una mappa approssimativa delle tendenze:popolare, accademica, sperimentale, colossale.Ognuna corrisponde a modi di produzione, tecniche,gusti, stili diversi, ma non si tratta, come si è visto, diuno sviluppo lineare, perché tendenze diverse coesi-stono in uno stesso periodo, mentre lo stile di un regi-sta può attraversare diversi periodi; né vanno dimen-ticati i casi di attribuzione dubbia e certe costantigenerali. Per esempio l’ascolto. Almeno prima diBerlusconi e del telecomando, il pubblico della dome-nica si nutriva di Fogazzaro e Dostoevskij, Bolchi eVaccari, con la stessa voracità (rarissime le eccezioni,come lo sfortunato Circolo Pickwick di Gregoretti).Altra costante, il ritmo, o la sua mancanza. Dopotanti  anni gli sceneggiati sono più veloci, ma semprediluiti, a una marcia sola (mentre il cinema oggi

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eccelle in sincopi, accelerazioni…) e lo sono per ilsolito vecchio motivo: più si allunga una scena, piùpuntate si fanno, più si ammortizzano i costi.Parafrasando McLuhan, il medium è il metraggio. Opiù crudamente con Godard: «In tv non si fannoopere, non si fanno che ore».

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Anton Giulio Majano con Renato Salvatori e Sophia Loren: La dome-

nica della buona gente. (Foto Teche Rai).

Anton Giulio Majano con Maria Fiore: La domenica della buona gente.(Foto Teche Rai).

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All’antica italiana

«Chi lascia un trono per amore non può dare scan-dalo: ricorda al mondo intero che cos’è l’amore». «Equi, mentre le coppie ballano e la musica suona, forsesi fa la storia». «Andrew, per l’amor di Dio, non ven-derti». «Vent’anni: come mi pareva pulito il mondo avent’anni, e pieno di sole».

Chi è l’autore di queste battute? Anton GiulioMajano, naturalmente. Ammesso che siano stati Cronine Salvator Gotta a scriverle, lui le ha migliorate, le harese degne della lapide. Come? Aggiungendovi ilpathos, un pathos inconfondibile, fatto di pause elo-quenti, voci vibranti, violini sullo sfondo. Perché fra iregisti di teleromanzi Majano è il più popolare, in tuttii sensi.

Le origini della sua maniera precedono l’introduzio-ne della tv in Italia, e sono da ricercarsi in uno dei luo-ghi più malfamati del nostro cinema, il dittico Noi vivi,Addio Kira!, diretto nel 1942 da Goffredo Alessandrini,dal romanzo dell’emigrata russa Ayn Rand. Majano,già aiuto di Luis Trenker in Germania per Condottieri,firma come cosceneggiatore e collaboratore alla regia.

A metà fra il pamphlet antisovietico, ma inefficace esenza gulag, e il feuilleton sentimentale, il film diAlessandrini racconta gli amori della studentessa AlidaValli, titubante tra un Rossano Brazzi aristocraticosenza qualità e un Fosco Giachetti onesto commissariodella Ghepeu, che alla fine si sacrifica per lei lascian-dosi «suicidare» dai suoi compagni.

Dalle colonne di «Bianco e Nero» un giovane criti-co di sicuro avvenire, Antonio Pietrangeli, lamenta l’a-buso di primi piani, la regia statica, l’ambientazionestereotipata: difetti che nel giro di cinquant’anni forsediventeranno pregi, perché facilitano la riproduzione in

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serie. E poi si tratta di un film in due puntate, quasi unprototipo per gli sceneggiati a venire.

Non che il piacere dell’occhio sia proprio assente.Basta ricordare il finale, quando Alida Valli in abito dasposa viene uccisa mentre tenta di passare la frontiera,sagoma bianca nel bianco assoluto di una steppa rico-struita in studio. E di belle inquadrature ce ne saranno,all’occasione, anche nei teleromanzi, purché non gua-stino il pathos. In Majano è sempre il drammaturgo aprevalere inesorabilmente sul regista.

Ex ufficiale di cavalleria, la leggenda vuole che ilsuo genio strategico venisse apprezzato dal marescial-lo Rommel, e in televisione continuerà a comportarsicome uno stratega astuto e tenace che, penalizzato dauna cronica scarsità di uomini e mezzi, riesce sempre atrovare la via più breve per centrare l’obiettivo; conuna tattica molto semplice: colpire al cuore. Da strate-ga e da pioniere, Majano intuisce subito che l’universodella cultura di massa è uno, e lo percorre in lungo e inlargo, al galoppo. Dopo l’esordio rivelatore di Noi vivi,continua a scrivere film, a produrli, come capo ufficiosceneggiature della Scalera Film e a dirigerli, una deci-na, tra avventurosi e mélo. Sforna anche romanzi, com-medie e soprattutto è un assiduo della radio, specialistanelle riduzioni dei classici: Jane Eyre, con Ubaldo Laycome protagonista, viene replicato oltre dieci volte.

Al neorealismo ci arriva in ritardo e con poca devo-zione. Non è escluso che abbia visto in Pratolini enelle sue tranches de vie un potenziale autore di situa-tion comedies, trasferibili da un medium all’altro. Nel1952 alla radio firma la regia della Domenica dellabuona gente, da un testo appunto dello scrittore fio-rentino. Soliti bozzetti un po’ grigi di innamorati infe-lici, disoccupati di buona volontà, pensionati che gio-cano al totocalcio, sullo sfondo di una partita Roma-Napoli e perciò vagamente «in diretta» (e moltiplica-

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bili, volendo, per tutte le domeniche di tutti i campio-nati). L’anno seguente il regista trasforma il radiorac-conto in un film, con Sophia Loren, Renato Salvatori,Maria Fiore. Segnale di una vocazione al remake, inanticipo sull’industria culturale, ribadita clamorosa-mente nel 1955, quando Majano concepisce l’ideatemeraria di rifare per la tv Piccole donne, a brevedistanza dall’ultima versione americana. Vincere ladiffidenza del direttore Pugliese non gli è difficile.«Gli ho ricordato i romanzi a puntate nei quotidiani -E lui alzò il pugnale su di lei. Il seguito a domani - lafolla al porto di Boston in attesa della nave che venivadall’Inghilterra con le nuove puntate di DavidCopperfield… E Pugliese - Due puntate al massimo -Almeno quattro». È subito un trionfo, tanto che peresaudire le richieste del pubblico viene aggiunta inextremis una quinta puntata, a base di flash back. Cheil pubblico preferisca Vira Silenti a Liz Taylor, LeaPadovani a June Allyson? Chissà. Sono meno splen-denti, meno remote, più intonate ai nostri tinelli.

Nel 1956, invece di un remake una novità, quasi unevento, L’alfiere, di Alianello, itinerario bellico e spiri-tuale, da Calatafimi a Gaeta, di un ufficialetto borboni-co fedele fino all’ultimo alla bandiera. D’autore eanche da producer l’idea di giocare d’anticipo sul cine-ma, rovesciando l’agiografia garibaldina sulla conqui-sta del Sud, fino allora vigente nella scuola e suglischermi, e mettendosi dalla parte dei vinti. «Mi piace-va fare come gli americani con la guerra di Secessione.Prima tutti gentiluomini al Nord e figli di buona donnaal Sud, poi il contrario, poi sono arrivati a un compro-messo; hanno fatto lo stesso con le guerre contro gliindiani. Soltanto noi facevamo tutti i piemontesi genti-luomini e al Sud tutti briganti». Majano non dice maledi Garibaldi, ma basta la scena in cui un gruppo dicamicie rosse cade prigioniero dei borbonici per scate-

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nare le proteste dei circoli garibaldini: «Evidentementeper loro un tenente garibaldino può venire ucciso, eallora monumento in bronzo con la spada alzata inmezzo alla piazza del paese, oppure uscire vincitore,ma prigioniero no».

Con la scelta dell’Alfiere Majano gioca un tiro bir-bone a Visconti, che aveva messo gli occhi sul roman-zo fin dalla sua uscita, nel 1943, e lui fintamente pre-muroso a sconsigliarlo: «È troppo lungo, rischi di fareun condensato. Ci vorrebbero almeno due film, comeper Noi vivi».

Curiosamente, ma non troppo, la censura, tantosospettosa due anni prima con Senso, non ha trovato daridire sull’Alfiere. Forse perché, parallela all’odisseadell’ufficiale, si snoda la via crucis di un frate (AroldoTieri), praticamente un santo, che vorrebbe unirsi aigaribaldini, ma diventa invece cappellano dei borboni-ci; morirà per una cannonata nel mezzo di una predicadurante l’assedio di Gaeta.

Tra anime belle e soldati tutti d’un pezzo, si muo-vono generali abbastanza cinici e fanciulle evanescen-ti: la frivola Emma Danieli, la romantica Ilaria Occhini,la maliziosa Maria Fiore, meno maliziosa che nel libro.Dove, a proposito di censura, il frate era scortato da unterzetto fortemente emblematico (padre brutale, figliasensuale, genero losco) e cercava invano di redimerli.Come in un Buñuel, o giù di lì. Mentre nella versioneMajano, accanto al frate c’è solo Domenico Modugno,scapestrato di buon cuore, che appena può si mette acantare accompagnandosi con la chitarra. Anche questadi inserire il cantante nel cast un’idea da cinema; e dalcinema arrivano alcune guest stars, come Monica Vitti,la poco regale regina Sofia, moglie di Francesco II;Nino Manfredi, un garibaldino assolutamente noncomico e anzi costantemente imbronciato; CarloCroccolo, che fa la macchietta del soldato codardo e

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Videografia

La grande maggioranza dei titoli compresi nella filmografia,dal 1956 a tutti gli anni Settanta (e qualche titolo degli Ottanta)è pubblicata in dvd da Fabbri editore con Rai Trade, divisa trecollane. La prima, “I grandi sceneggiati RAI”, comprende tuttii titoli classici: molti Majano (da L’alfiere in poi), Bolchi (da Ilmulino del Po), Fenoglio, ma anche sceneggiati meno celebricome Questa sera parla Mark Twain, Arabella o Quaderno

proibito. In tutto più di ottanta sceneggiati in un centinaio didvd. La collana “Gli sceneggiati RAI - I grandi classici perragazzi” comprende circa 50 dvd da Il giornalino di Gian

Burrasca a Cuore, Le avventure di Pinocchio, La freccia nera,ma anche titoli un po’ meno infantili come Il signore di

Ballantrae, Tom Jones e Martin Eden. Infine la collana “Glisceneggiati RAI - Giallo e Mistero” (uscite previste 85 dvd) conle serie poliziesche (Sherlock Holmes, Philo Vance) e classicicome Una pistola in vendita.

Abbastanza nutrita la collezione di dvd di Elleu Multimediacon RaiTrade, ordinata per cofanetti: Sherlock Holmes,Montalbano, Nero Wolfe, ecc. Nel catalogo Warner Video(sempre con Rai Trade) spiccano Le inchieste del commissario

Maigret. Solo otto titoli, per ora, nella raccolta “La grande let-teratura sceneggiata” di La Repubblica - L’Espresso, in colla-borazione con Rai Trade: I Buddenbrook, I fratelli

Karamazov…

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Andrea AntoliniHitchcock umanodisumano

Umberto Calamita e Giuseppe ZanlungoLa classe operaia non va in paradiso. il cinema di lotta e di protesta

Mario Gerosarobert Fuest e L’abominevole Dottor Phibes

Gianni Volpiroger Tailleur. Gli occhi fertili

Paola BoioliCarmelo Bene

Alberto Brumana - Carlo Prevosti - Sara Sagrati - Marco ValsecchiDispersi. Guida ai film che non vi fanno vedere

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