Otto e Mezzo

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Giuseppe Barreca Guardando Otto e mezzo di Federico Fellini

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Giuseppe Barreca

Guardando Otto e mezzo di Federico Fellini

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Scheda del film

OTTO E MEZZORegia: Federico FelliniSoggetto: Federico Fellini, Ennio FlaianoSceneggiatura: Federico Fellini, Tullio Pinelli, Ennio Flaiano, Brunello RondiFotografia: Gianni Di VenanzoScenografia: Piero GherardiCostumi: Piero GherardiMusica: Nino RotaMontaggio: Leo CatozzoProduttore: Federico Fellini, Angelo RizzoliProduzione: Cineriz (Roma) e Francinex (Paris), Italia, 1963Durata: 213’Visto censura n. 39461 del 06/02/1963

Personaggi ed interpreti: Guido Anselmi (Marcello Mastroianni); Luisa: (Anouk Aimée); Carla (Sandra Milo); Claudia (Claudia Cardinale); Rossella (Rossella Falk); La donna delle terme: (Caterina Boratto); Mezzabotta (Raffaele Pisu); Gloria Morin (Barbara Steele);l’intellettuale: (Jean Rougeoul); la madre di Guido (Giuditta Rissone); il padre (Annibale Ninchi); Conocchia, direttore di produzione (Mario Conocchia); Pace, il produttore (Guido Alberti).

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Indice

Premessa ...................................................................................................................................... 5

L’incipit ....................................................................................................................................... 9

Le donne e Guido ...................................................................................................................... 11

L’afasia intellettuale .................................................................................................................. 13

La disillusione? ......................................................................................................................... 16

La discesa agli inferi ................................................................................................................. 20

La moglie di Guido ................................................................................................................... 24

Il sogno dell’harem e il dramma dell’uomo solo ...................................................................... 27

Claudia e la speranza ................................................................................................................. 32

La conferenza stampa e l’epifania ............................................................................................ 35

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Premessa

Federico Fellini (1920-1993) è considerato uno dei maestri del nostro cinema. A lui ripugnerebbero le celebrazioni, la frasi altisonanti, come per esempio “il più grande regista italiano”. D’altra parte, dare dei giudizi tanto netti è sempre rischioso, oltre che imprudente, soprattutto perché cambiano le mode, mutano i tempi, i gusti del pubblico e i canoni estetici attraverso i quali un’opera è considerata. Inoltre, ma è superfluo affermarlo, Fellini non piace a tutti. Per fortuna, aggiungerebbe lui; non per snobismo o civetteria. Ma per senso della realtà. È strano che un autore come lui, capace di far librare la fantasia sua e quella altrui verso i cieli dell’immaginazione, possa essere giudicato, a posteriori, come dotato di un grande senso della realtà. Ma, nel ricordo di chi lo ha conosciuto, come regista, negli ultimi anni di vita, Fellini appare così. E la sua grandezza consiste proprio nel dividere la critica, nello spaccare i cinefili e i semplici spettatori; un grande autore non piace a tutti. Uno scrittore che incontrasse invariabilmente i gusti della maggioranza dei lettori, probabilmente sarebbe uno scrittore medio, se non modesto. Un musicista eccessivamente popolare può fare sorgere il sospetto non solo di essere meno bravo di quel che sembra, ma anche di essere un individuo che non prende posizione, che non scontenta mai nessuno, che mira più ad apparire ecumenico e ben voluto che a essere se stesso.

E allora la grandezza di Fellini sta proprio nella sua capacità di dividere; nell’intelligenza che gli ha permesso di scrivere pagine di poesia con le immagini in movimento, anticipando certe degenerazioni della società italiana, oppure inventando delle parole (il celeberrimo “paparazzo”) che hanno descritto il carattere della storia d’Italia (o meglio, di un certo periodo di questa storia) in modo stringente ed efficace, meglio di tanti trattati di sociologia.

In molti suoi film l’elemento fantastico, immaginario, si unisce con il realismo. E la critica alla verbosità intellettuale, all’accademismo e all’afasia degli uomini di cultura non sfocia mai nel qualunquismo, né nella demagogia. Il personaggio sulla scena appare una figura autonoma, non una maschera di qualcosa d’altro. I messaggi di Fellini sono ammantati di simboli che non nascondo il contenuto della comunicazione, bensì l’accendono e la mettono in rilievo.

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La palla d’acciaio che demolisce l’auditorium verso la fine del film Prova d’orchestra (1979) è in se stesso il simbolo, forse, di un’Italia che, dilaniata dai contrasti e dalle liti interni, si avviava alla catastrofe. Non so se Fellini si riferisse al sequestro Moro, al terrorismo, o avesse già intravisto, nelle pieghe di una paese ferito, i prodromi della fatuità e della leggerezza che caratterizzeranno gli anni Ottanta, il periodo successivo al cosiddetto “riflusso”. Non si può dire, perché Fellini faceva il cineasta, non il profeta. Però quella palla d’acciaio è un simbolo forte, chiaro e oscuro al tempo stesso, come la vita medesima, che sulla scena sembra spesso più vera di com’è realmente.

Le pagine che seguono sono un semplice omaggio di un appassionato di cinema a un maestro. Anzi, di un appassionato in particolare di un film, Otto e mezzo, dove Fellini tocca i vertici della costruzione poetica e della pregnanza scenica, proprio in una pellicola che, in apparenza, appare confusionaria e priva di un tema, di un filo preciso che la guida. Questo è un mio giudizio, parziale, sul film. I risvolti di carattere esistenziale e metafisico, le atmosfere moraviane (tra Gli indifferenti e La noia), le suggestioni sartiane (si pensi a La Nausèe), sono legate alle impressioni che il film mi trasmette. Forse Fellini e gli autori ne erano coscienti solo in parte, ma è innegabile che la vicenda di Guido Anselmi (Marcello Mastroianni), il suo smarrimento, il senso di vuoto che lo consuma, l’incapacità di appropriarsi di se stesso e della sua vita, trasmettono l’idea di un più generale disorientamento dell’uomo di quel periodo. Dopo la guerra, e gli entusiasmi un po’ leggeri legati alla ricostruzione dell’Italia, all’inizio degli anni Sessanta le personalità più sensibili coglievano, forse, una certa stanchezza tra gli italiani. La delusione per le mancate riforme, l’afasia della politica, la crescita di un consumismo di stampo edonistico, il livellamento verso il basso delle mode e dei costumi, appaiono agli intellettuali come il segno di una decadenza e di un disincanto che appare inarrestabile.

Se ne La dolce vita, tra i tanti temi, spicca la denuncia di una società senza valori, perbenista, avida di sensazioni forti e povera di decoro e di sensibilità, in Otto e mezzo appare più viva la sensazione che, di fronte a una realtà che si sta disfacendo, la denuncia non valga più e l’unica cosa che rimanga da fare sia osservare il disfacimento morale di un consesso di poveri uomini e povere donne. La noia del protagonista, allora, è una barriera contro la decadenza che egli vede in ogni oggetto, in ogni volto, in ogni mano che stringe. Come scrive Moravia ne La noia (1960): “Il

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sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente, ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza”. In fondo anche Guido Anselmi potrebbe sottoscrivere queste parole; e aggiungerebbe, sempre rubando le parole a Moravia: “Dunque in quei giorni, una impazienza straordinaria dominava la mia vita. Niente di quello che facevo mi piaceva ossia mi sembrava degno di essere fatto; d’altra parte, non sapevo immaginare niente che potesse piacermi, ossia che potesse occuparmi in maniera durevole”.

Non sarebbe però giusto attribuire a un film una tesi filosofica; un’opera d’arte, infatti, ha una funzione propria che è quella di esprimere idee, sensazioni, immagini, raccontando le vicende di alcuni personaggi. Ma l’opera d’arte, di per sé, non può avere una funzione esplicativa o addirittura pedagogica. Fellini non è un filosofo, né lo è Flaiano. Però questo film mi appare in grado di attingere alle fonti più pure della nostra letteratura e della nostra poesia. E l’omaggio a Fellini appare doveroso, come un postumo ringraziamento per aver donato all’Italia un’opera tanto vera e disperata.

Per questo, banalmente, si dice che il film “colpisce”. Infatti, è una pellicola che colpisce, fin dal titolo (che indica il numero dei film girati da Fellini fino ad allora, 1963) e che è un film sul tentativo di girare un altro film e sulla alienazione esistenziale dell’artista. Il regista ha spiegato la sua incertezza nel dare il titolo allo storia in un’intervista rilasciata durante le riprese: «Per quanto riguarda il titolo non mi è venuto in mente niente che mi convinca. Flaiano propone La bella confusione, ma non mi piace molto. Non so, per ora sulla cartellina che contiene gli appunti e l’approssimativa scaletta del racconto, a parte le solite culone beneauguranti, ho disegnato un grande 8. Sarebbe il suo numero, se lo farò». Ed alla fine fu così, all’8 si aggiunge quel ½, come a voler sviare qualsiasi interpretazione preconcetta sul contenuto del film.

Reduce dal successo planetario di La dolce vita (premiato a Cannes con la Palma d’oro nel 1960), film che tuttavia in Italia aveva attirato al regista feroci critiche e denunce, da parte cattolica, per “pornografia” e attacco alla morale, Fellini in Otto e mezzo costruisce una sorta di confessione a cuore aperto di un uomo che, all’apice del successo, si “annoia”, in senso leopardiano (o moraviano, visto che pochi anni prima era stato pubblicato il romanzo La noia), di fronte ad una realtà che sembra non interessarlo più, nella quale le persone e gli oggetti perdono per lui significato. Ma il protagonista del film, il regista Guido Anselmi

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(vero e proprio alter ego di Fellini, interpretato in modo eccellente da un Mastroianni invecchiato e a tratti cupamente ironico), non è in grado di esprimere questo disagio trasfigurandolo nell’opera d’arte: l’incapacità di fare il film (nonostante le pressioni del produttore, della sua corte di languidi giornalisti e di un intellettuale pedante) è proprio l’epifenomeno di questa difficoltà, che porta il protagonista a sussurrare a se stesso ad un certo punto, mentre sullo schermo di una sala scorrono i provini che aveva girato invano per cercare i personaggi della storia: «ma non lo vedi che io, balbetto…balbetto…?». Fellini racconta con queste parole il soggetto del film:

È la storia di un intellettuale che tende ad inaridire tutto, a raggelare la vita. La storia di un uomo legato, irretito, imprigionato, che tenta di uscire da una specie di ristagno, che si sforza di capire, ma che alla fine si accorge che non c’è nulla da capire, che ha più bisogno di accettare la vita così com’è e di abbandonarvisi più che di problematizzarla.

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L’incipit

Il senso di prigionia dentro se stesso, di incapacità di avere un contatto autentico con le cose e con le persone, è esemplificato dal sogno che apre il film. Guido è in coda in un sottopassaggio, in auto, fermo in mezzo ad altre macchine: non può uscire perché gli altri veicoli gli impediscono di aprire le portiere; il senso di claustrofobia cresce progressivamente: il silenzio che circonda la scena è irreale, non c’è possibilità di dialogo con gli altri, gli sguardi degli altri automobilisti, immobili, sono puntati su di lui con severità (la camera indugia con primi piani sui loro volti, immortalandoli per qualche secondo in un fermo-immagine). Alla fine nell’abitacolo comincia ad entrare del fumo, estrema immagine della sensazione di soffocamento. Guido, solo dopo notevoli sforzi, riesce a fuggire dal finestrino: la salvezza sembra raggiunta attraverso la fuga e la liberazione, in un volo nel cielo. Tuttavia, l’illusione si spegne presto: Guido non vola liberamente, ma è controllato dall’“avvocato” (che nel film interpreta l’agente di Claudia) e da un suo collaboratore, attraverso un filo simile a quello per dirigere gli aquiloni; essi alla fine, con non celata soddisfazione, lo fanno cadere a terra, e l’avvocato sentenzia: “Giù, definitivamente!”. È un cordone ombelicale non rescisso, è l’impossibilità di negare la realtà e, forse, il segno che la risoluzione dell’inquietudine va cercata nella realtà stessa, non in una fuga da essa.

Se la fuga è impossibile, ciò che rimane al protagonista è un risveglio terrorizzato, nel letto della camera del centro termale dove è andato per riordinare le idee per il suo film. Proprio in quel momento, tra l’altro, entrano due medici e un’infermiera per la visita mattutina: l’incubo non finisce, perché il medico prima della visita lo guarda sorridendo mellifluo e gli domanda: «allora, che ci sta preparando, un altro film senza speranza?».

Il secondo sogno è in realtà una visione fugace: all’atto di bere l’acqua termale, Guido vede Claudia (Claudia Cardinale), col suo puro sorriso celestiale e l’abito di un bianco abbacinante, al posto delle ragazze che di solito danno l’acqua ai malati, anch’esse vestite di bianco. In seguito, c’è il primo incontro con l’intellettuale (il quale per Fellini doveva raffigurare, con la sua inconcludente logorrea, i critici cinematografici), un uomo piccolo e gracile, dal viso scavato, con grossi occhiali ed un

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arrogante accento francese. Si capisce da quel che dice l’intellettuale che la visione di Claudia come ragazza della fonte è un primo “pezzo” del film che Guido vorrebbe girare (e che rappresenta la donna vagheggiata dall’autore, un simbolo di candore perduto, di incontaminata bellezza). L’intellettuale tuttavia stronca subito la scena, con questo giudizio (tuttavia Guido l’ascolta distratto, come sempre con la testa altrove):

Vede, ad una prima lettura salta agli occhi che la mancanza di un’idea problematica, o se si vuole, di una premessa filosofica, rende il film una suite di episodi assolutamente gratuiti, o può anche darsi divertenti, nella misura del loro realismo ambiguo. Ci si domanda: cosa vogliono realmente gli autori. Ci vogliono far pensare? Vogliono farci paura? Il gioco rivela sin dall’inizio una povertà di ispirazione poetica… Mi perdoni ma questa può essere la dimostrazione più patetica che il cinema è irrimediabilmente in ritardo di cinquant’anni su tutte le altre arti. Il soggetto poi non ha neanche il valore di un film d’avanguardia, benché qua e là ne abbia tutte le deficienze.

La critica dell’intellettuale, dotta ed argomentata, è però distruttiva e non coglie il valore dell’ispirazione e della creatività dell’artista. Anche la sua riserva nei confronti del cinema rivela il timore verso questo mezzo espressivo: l’immagine in movimento sfugge al bisogno di controllo di una razionalità a proprio agio solo nella lineare e immobile riga stampata. Il silenzio di Guido non sembra esprimere però una effettiva perplessità verso queste parole: egli parla del suo film con riluttanza, perché l’ammissione delle difficoltà che incontra nel realizzarlo comporterebbe l’ammissione della propria afasia intellettuale, della stanchezza e della noia, compagna della sua esistenza (infatti, appena sta per rispondere qualche cosa all’intellettuale, vede un suo amico, Mezzabotta, un uomo materiale e grezzo, e lo saluta festosamente, dimenticandosi dell’intellettuale).

Eppure l’ossessione di dover fare un film non lo lascia: senza di lei non potrebbe vivere. Guido è innamorato della propria ossessione: mentre sta aspettando alla stazione Carla, la sua amante, egli riprende a leggere il foglietto scritto dall’intellettuale a proposito del suo film: «E le capricciose apparizioni di questa ragazza della fonte cosa vorrebbero significare? Un’offerta di purezza, di calore al suo protagonista? Di tutti i simboli che abbondano nella sua storia questo è il peggiore, imbevuto di… ». A questo punto Guido getta a terra il biglietto con stizza, ma poi

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lo raccoglie, come a mostrare l’incapacità di prendere posizione, di ribellarsi al giudizio tranchant dell’intellettuale e di chi vorrebbe giudicarlo senza conoscerlo realmente.

Le donne e Guido

Anche con le donne, il regista ha un rapporto che non sembra consumarsi mai: viene raggiunto dalla sua amante, Carla (Sandra Milo), una bionda ingenua e superficiale. Egli la fa dormire in un albergo di bassa categoria, lontano dal centro termale, temendo di tradirsi e compromettere se stesso: è come se in tal modo l’artista, del tutto incapace di nutrirsi della sostanza delle cose e della vita (in quanto annoiato), comprendesse che può appagare se stesso solo con una persona vacua, all’apparenza inconsistente (la quale però, prima di cadere tra le sue braccia, gli domanda con lucidità: «Ma almeno mi vuoi un po’ di bene?», e Guido risponde spazientito: «Ma sì, sì»), dalla quale l’unica cosa che vuole, con una certa fretta, è il rapporto sessuale dopo il quale, come un bambino soddisfatto dopo aver mangiato, si addormenta, mentre Carla vicino a lui ride leggendo i fumetti. Scrive Fellini a proposto del rapporto con Carla: «Il rapporto che lo lega alla paciosa culona è basato su una specie di opaco benessere fisico, come succhiare da una balia mansueta un goloso nutrimento e poi addormentarsi satollo e spento».

Tuttavia all’istante, come contraltare a questa situazione sentimentale disadorna, si presenta un sogno: Guido vede se stesso adulto, ma vestito con la divisa da collegio; poco lontano c’è sua madre (egli difatti chiede alla donna: «Tu sei la mamma?», come a voler segnare un distacco tra il se stesso reale e quello onirico), una donna evidentemente dotata di maggiore sostanza di Carla. La madre, mentre pulisce il vetro di una cappella funeraria, si asciuga il volto e dice due volte: «Quante lacrime, figlio mio». Si comprende che i due si trovano in un cimitero spoglio; quasi subito compare il padre, che sembra camminare di fretta, come se volesse raggiungere al più presto un certo luogo. Il padre si lamenta perché la cappella, costruita evidentemente per ospitare la sua bara, è troppo bassa e brutta e chiede a Guido: «non potresti occupartene un po’ tu?…disegnavi così bene!».

In seguito, sopraggiunti due uomini (nella realtà il produttore di Guido e il direttore di produzione del suo film, Conocchia), il padre chiede loro

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come Guido si stia comportando ed essi scuotono la testa, insoddisfatti e severi, come maestri di scuola. Il padre appare deluso (infatti sussurra: «È stato triste accorgersi di aver tanto sbagliato»), ma si rivolge al figlio sempre con dolcezza, dicendogli di stare tranquillo per lui e di non darsi pensiero per la sua sorte, dato che la madre si reca tutti i giorni a trovarlo. Infine, l’uomo si dirige verso una buca (e nel frattempo sostiene che l’unica cosa che lo rende felice è il matrimonio di Guido con la moglie; egli però non è al corrente dell’esistenza di Carla, l’amante del figlio: sarebbe un ennesimo motivo di delusione) nella quale scende con le proprie mani e saluta Guido, il quale gli domanda dove egli stia andando e quale sia quel posto. Il padre dice di non averlo ancora capito bene, ma il suo discorso si interrompe: la morte viene raffigurata come un addio misterioso e doloroso, di cui però Guido non sembra avere piena coscienza. Egli è insomma un Edipo moderato, tenue: non uccide il padre, che pure muore. Poi si avvicina a lui la madre, che lo bacia con affetto sulle guance e, subito dopo, lo afferra con trasporto baciandolo sulla bocca: quando i due si staccano, la madre è diventata la moglie di Guido, Luisa (la splendida Anouk Aimée), che amorevolmente lo guarda, dicendogli che lo porterà a casa; tuttavia, di fronte allo sguardo disorientato di Guido che sembra non riconoscerla, la donna si irrigidisce e gli domanda con severità: «Sono io, Luisa, tua moglie, non mi riconosci? Cosa stai pensando?» (l’ultima inquadratura della scena, un campo aperto, ritrae dall’alto Luisa che è rimasta sola nel cimitero: la fuga di Guido da lei continua).

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L’afasia intellettuale

Dopo questo sogno, l’arrivo del produttore (Guido Alberti) con la sua corte di miracoli (comprensivi di languidi giornalisti stranieri e di una sciocca amante ventenne) non muta la sostanza del film: nonostante le pressioni, Guido non fa progressi, nemmeno di fronte all’agente di Claudia (l’avvocato che nel sogno iniziale lo fa precipitare a terra) il quale lo mette in guardia, dicendogli che l’attrice, tanto famosa e desiderata da Guido, non può più attendere perché ha delle altre proposte cinematografiche: per questo gli chiede, se non un copione, quantomeno di sapere quale sia il soggetto del film. Guido tenta di rassicurare l’agente, ma lo fa con scarsa convinzione e, quasi subito, si distrae nuovamente, attratto dall’apparizione di una donna maestosa e bella, “la donna delle terme” (Caterina Boratto).

In seguito la sera, nella tavolata allestita dal produttore, ai discorsi dotti dei giornalisti e dell’intellettuale, Guido preferisce la passeggiata con Mezzabotta (Raffaele Pisu), il suo vecchio e un po’ rozzo amico, un ricco signore attempato che ha appena lasciato la moglie per una ragazza che ha trent’anni in meno di lui, Gloria (Barbara Steele). E intanto, qualche tavolo più in là siede, triste e sola, Carla, la sua amante, che Guido saluta di sfuggita, da lontano, per il timore di tradirsi. Altro protagonista della scena è Maurice, l’illusionista amico di Guido, che propone un numero nel quale, con la sua assistente, legge i pensieri dei presenti.

Anche in questo caso, il regista sperimenta una forte dissonanza con la realtà: alieno rispetto al produttore, all’intellettuale, ai giornalisti e ad un’attrice francese (da lui stesso scelta) che gli chiede informazioni sul film, Guido si allontana e cerca rifugio nell’amico Mezzabotta, suo alter ego rozzo però concreto. E tuttavia, anche rispetto a costui, Guido è estraneo; l’amico ha comunque scelto: ha lasciato la moglie e si è messo a vivere con la ragazza giovane, mentre Guido non sceglie, non sembra in grado di farlo, come se amasse cullarsi in quel clima malinconico, decadente, in quello spleen all’apparenza senza alcuna attrattiva, per lui, eppure irrinunciabile.

Di nuovo, di fronte a questa sua assidua inautenticità, quasi ostentata in alcuni momenti, munito di un sarcasmo che vuole mettere in ridicolo

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la seriosa tavolata ma che non lo salva da essa (Guido indossa un naso finto prima di rispondere con evidente fastidio alle domande del giornalista americano), il regista si rifugia in un sogno di purezza: rivede se stesso fanciullo, quando con gli altri bimbi faceva il bagno nel vino (sorta di rito di iniziazione). In seguito, nel sogno si vede che i bambini vengono messo a letto, in un’atmosfera che si carica di suggestione quando la nonna, con una candela in mano, si aggira nel buio per controllare che tutti dormano. Dopo che anche lei è uscita, una bambina pronuncia un oscuro discorso, dal quale si intende che se Guido vorrà accedere ad un misterioso “tesoro” dovrà ben conservare a mente la formula asa nisi masa (che Guido, per stare al gioco di Maurice, fa nascere nei suoi pensieri e che viene riportata dall’assistente dell’illusionista sulla lavagna). La formula non è chiara, anche perché i dialoghi del sogno sono in dialetto romagnolo; tuttavia si intuisce che dopo il bagno nella tinozza alchemica, iniziatica, nell’elemento vitale vino-sangue, Guido è pronto per la rivelazione. È infatti anima la parola che si nasconde in quella formula misteriosa. Senza il suo logos non si accede al tesoro della vita. In questa formula poco comprensibile, il protagonista (ma in realtà Fellini stesso) mette in scena la paura del proprio “io”, il proprio passato, l’angoscia per il proprio futuro, che la ricerca infantile di un’anima candida sembra poter spegnere. Ma non sarà così, il disagio che prova verso se stesso, l’impossibilità di appartenere a se stesso, dovranno stemperarsi per un’altra via, più faticosa e forse mai del tutto percorsa.

Rientrando in albergo dopo questa serata, Guido vive altri due episodi che simboleggiano la sua alienazione rispetto agli altri e alla realtà, seguiti dal solito sogno nel quale è presente Claudia, di nuovo prefigurazione della purezza, della possibilità di recuperare se stesso. Dopo aver respinto gli assalti dell’attrice francese, quasi ubriaca, che vuole sapere qualcosa del film (e che ha una scena di pianto, confessando la propria solitudine e la propria incapacità di amare e di essere amata), Guido parla al telefono con la moglie, Luisa, la quale gli domanda come stia andando il soggiorno. Guido confessa di non aver fatto molti progressi relativamente al film e, mentendo, aggiunge di essere sempre solo, di non conoscere nessuno. Alla fine, quasi come se in tal modo pensasse di prepararsi un’àncora di salvezza, propone a Luisa di raggiungerlo, lì, nella stazione termale, mostrandosi desideroso di vederla, nonostante il pomeriggio fosse stato con l’amante, Carla.

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In seguito, Guido sale nella stanza dove lavora la produzione al suo film e, con aria svagata, sofferente, si occupa di tutto meno che del film stesso, rispondendo con approssimazione alle domande dei collaboratori. Alla fine, diretto verso la propria stanza, Guido incontra Conocchia (Guido Conocchia), il direttore di produzione presente nel sogno sul padre (un uomo anziano, mite, coi capelli bianchi), il quale, con dolcezza, gli domanda se gli serva qualche cosa, se ha avuto qualche idea per il film. Guido risponde due volte “no, buonanotte”, con evidente fastidio, e la reazione rabbiosa di Conocchia non fa che rendere ancora più impossibile la comunicazione e il contatto fra i due. Conocchia vorrebbe sapere qualcosa del film, capire quello che deve fare, cosa dire agli attori, a coloro che lavorano al film, ma Guido non può dire nulla, non vuole dire nulla e tace anche davanti al pianto di Conocchia, che gli dice che non ce la fa più ad andare avanti in quel modo, annunciando l’intenzione di abbandonare la lavorazione del film (cosa che non accadrà). Le parole di congedo di Conocchia sono profetiche, taglienti quanto pacate: «Come sei cambiato Guido mio!», dice tra le lacrime e poi, calmatosi, soggiunge: «Però sta’ attento che anche tu non sei più quello di prima». Guido allora lo chiama con delicatezza, ma Conocchia non lo ascolta più.

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La disillusione?

Il rientro in camera presenta un Guido che, solo con se stesso, comincia a comprendere il nulla in cui si muove senza direzione: egli si domanda infatti se tutto il successo che ha ottenuto fino a quel momento non sia in realtà frutto di un inganno da lui perpetrato ai danni degli altri, di coloro che l’osannano, e se invece, di contro, l’incapacità a realizzare il film sia la rivelazione definitiva della propria mancanza di estro e talento. Eppure, egli non riesce e non vuole trovare risposte definitive e, in sogno, vede Claudia, in sottoveste, che si avvicina amorevolmente a lui, sorridente dopo aver letto parte del copione e che si corica al suo fianco. Con quanto affetto adesso la donna gli bacia la mano, per poi appoggiargliela sul ventre, come se con quel gesto volesse far fluire l’amore dentro di lui. Alla fine ella afferma con dolcezza: «Sono venuta qui per non andare via più. Voglio far ordine, voglio far pulizia». La ragazza rappresenta ancora un’immagine di purezza perché il riferimento erotico appare sfumato, anzi, in definitiva assente.

Di nuovo, questa immagine onirica di purezza primigenia, nella quale Guido si augura di trovare consolazione, viene bruscamente interrotta dal trillo del telefono che gli annuncia una telefonata di Carla, la sua amante, la quale gli dice di essere molto malata (Guido si sveglia di soprassalto, ancora vestito, con il letto invaso dalle fotografie di attrici: non c’è naturalmente traccia di Claudia). Non sembra esserci scampo per l’inautenticità, per l’incapacità di Guido di possedersi; mentre il corpo florido e sano di Carla lo attrae, benché in modo effimero e superficiale, il corpo malato di lei, febbricitante, è adesso un per lui un ostacolo fastidioso: egli se ne occupa, ma controvoglia. Carla è un corpo, adesso, senza attrattiva (benché abbia una vestaglia che mette in evidenza le sue forme generose) e Guido ben presto comincia a pensare ad altro (all’alto prelato che dovrà incontrare), senza sentire la domanda molto lucida che Carla gli pone, una domanda scomoda, alla quale il regista, tanto per cambiare, sfugge: «Ma dimmi, Guido, perché tu stai con me?».

L’incontro con il cardinale è uno dei più significativi del film di Fellini, perché in questo frangente l’incomunicabilità di Guido, dovuta alla sua crisi, si scontra con un’altra forma di incomunicabilità, quella delle

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gerarchie ecclesiastiche. Quest’ultima forma di incomunicabilità è però intenzionale, ovvero imputabile a una volontà precisa e a una profonda convinzione di essere “altro” rispetto al mondo terreno. L’incontro è stato organizzato dal produttore, preoccupato per lo stallo della lavorazione del film, affinché Guido possa chiedere informazioni su come far incontrare il protagonista del proprio film (che ha delle angosce e delle inquietudini che lo spingono a cercare risposte in un altro prelato) con un porporato.

Nondimeno, fin dall’incontro col segretario del cardinale, è chiaro che, come l’intellettuale di prima, anche la Chiesa teme il cinema: «Voi potete corrompere o elevare milioni di anime», sostiene il segretario del cardinale e Guido non riesce a ribattere praticamente nulla. In seguito, un Guido contrito e rispettoso, si avvicina al cardinale, farfugliando qualche parola di scuse per essersi permesso di disturbarlo, ma il cardinale, dopo qualche domanda sulla sua vita («Lei è sposato?». «Sì», risponde Guido. «E ha figli?», «Sì… cioè no») lo fa tacere e gli dice di ascoltare il canto degli uccelli negli alberi attorno. Quei volatili, spiega il cardinale, sono detti diomedee perché in origine erano i compagni di Diomede, trasformati poi in uccelli alla morte dell’eroe. Guido però non è Diomede e la sua attenzione è distratta da una figura corpulenta di donna che cammina verso di loro: questa figura gli fa venire in mente una prostituta che conosceva quando frequentava il collegio e la visione onirica che ne segue è una delle più paradigmatiche del film: l’incomunicabilità con la Chiesa, nella quale l’artista non trova risposte alle proprie inquietudini, è rappresentata dalla punizione che subisce in collegio dopo che è stato visto, assieme ad altri ragazzi, assistere al ballo della prostituita misera e procace, Saraghina, che vive sulla spiaggia. La punizione per Guido è umiliante: gli viene mostrata, da preti che Fellini fa interpretare da donne, la propria madre indignata e piangente per il suo peccato (ma il pianto della madre non sembra autentico); Guido è poi costretto a stare in refettorio con le ginocchia sui ceci. Infine, di fronte al confessore egli ha la rivelazione: «Ma non lo sai che la Saraghina è il diavolo?». Questa rivelazione non è però fonte di timore, anzi, è la consapevolezza dell’innocenza perduta in modo definitivo, per sempre.

Tratta dai ricordi d’infanzia di Fellini, la Saraghina è stata definita dal regista «drago orrendo e splendido che rappresenta la prima traumatica visione del sesso nella vita del protagonista». La scena della sua apparizione è ancora più evocativa nella sceneggiatura del film:

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Una creatura pesante, maestosa nella sua straccionesca goffaggine, appare sulla soglia della tana: è una donna sui quarant’anni, vestita come una mendicante, spettinata, le cui forme animalescamente ricche e non del tutto sfasciate conservano il resto di un’antica bellezza. (…) La Saraghina infila i denari in tasca, poi getta un’occhiata intorno, per accertarsi che non ci sia nessuno. C’è un silenzio teso, rotto solo dal rumore del mare, come nell’imminenza di uno spettacolo misterioso e rituale. Adagio, con una calma quasi solenne nella sua animalesca turpitudine, la donna volge le spalle ai ragazzi e solleva le sottane fino alla cintola. I ragazzi guardano affascinati, turbati. Il viso di Guido esprime uno stupore profondo, pieno di echi confusi e terribili. Con la stessa lentezza, ora la donna si gira su se stessa, il volto verso i ragazzi, e risolleva fino alla cintola la sottana che aveva abbassata. Il fumo nerastro del focolare la investe e la circonda, dandole l’aspetto di un’apparizione mitica.

Quando la Saraghina si mostra ai bambini, Guido le fa una sorta di riverenza, eppure è come se per un attimo gli cedessero le gambe di fronte alla potenza della figura che ha davanti. L’immagine di femminilità procace, volgare (contrapposta alla compunzione della madre e delle donne-preti), rompe la purezza di Guido, la sua verginità ideale, l’involucro che lo protegge: il peccato fa ormai parte della sua esistenza e l’inquietudine che, da adulto, egli manifesta verso la vita, nasce ancora dal senso di colpa per quel peccato e, al contempo, dalla coscienza che quel peccato fosse comunque necessario, come se l’incontro con la prostituta (ovvero con il “diavolo”) fosse un’esperienza iniziatica, un richiamo della carne che è apertura verso il mondo, un Eros che nasce e lo apre al mondo.

Per questo, nonostante le punizioni di cui s’è detto e il pianto che suscita in Guido la visione delle reliquie di una santa (donna della purezza, certamente, della bellezza incontaminata, ma semplice immagine lignea di donna, non donna di carne), egli torna nuovamente dalla Saraghina e s’inginocchia sulla sabbia in prossimità della donna, come se ella fosse una sorta di Madonna alla rovescia, signora del peccato però essenziale per la crescita di Guido. La Saraghina è maestosamente seduta di fronte al mare, autentico numen per il piccolo collegiale: il contatto con la prostituta ha fugato definitivamente l’innocenza, la ‘verginità’ di Guido. Scrive Fellini in proposito: «la prostituta, creatura d’inferno, conserva però il potere e il fascino di ciò che sembra evocato da un

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mondo ultraterreno. Non è conoscibile ed è quindi immensa e inafferrabile, onnisciente e ingenua. Proprio come sono le nostre fantasie delle quali si fa non solo ladra ma anche realizzatrice».

La fine di questo sogno ritrova Guido che beve un caffè con l’intellettuale. Qualche tavolo più in là il cardinale, al quale Guido sembra lanciare un’occhiata malinconica, colma di domande non risposte, siede con i suoi segretari, raccontando una storiella arguta contro i comunisti (ma si sente solo la battuta finale che comunque copre in parte il discorso vacuo e logorroico dell’intellettuale): Guido è tra i due fuochi, tra le due figure simboliche (l’Uomo di cultura e la Chiesa) che sono contrarie al cinema come mezzo d’espressone artistico. L’intellettuale, con il solito tono pedante della voce, sta commentando negativamente la scena del sogno della Saraghina (anche in questo caso una scena del film di Fellini in realtà è anche una scena del film che Guido vorrebbe girare):

«E che significato ha? È un personaggio dei suoi ricordi d’infanzia, non ha niente a che vedere con una vera coscienza critica. No, no se lei vuole veramente fare qualcosa di polemico sulla cultura cattolica in Italia… innanzitutto è necessario un livello culturale molto più elevato e poi una logica, una lucidità inesorabile». Poi prosegue, con un sorriso di sufficienza, altezzoso: «Mi perdoni, ma la sua tenera ignoranza è del tutto negativa; i suoi piccoli ricordi bagnati di nostalgia, le sue rievocazioni inoffensive e in fondo emotive sono le azioni di un complice». E qui la voce dell’intellettuale è oscurata da quella del cardinale che ride con i suoi segretari. Tuttavia, la vacuità del discorso dell’intellettuale si coglie appieno nel suo epilogo: «Ma pensi un po’ a cosa è stato Svetonio al tempo dei Cesari. No, lei parte con una intenzione di denuncia e arriva al favoreggiamento di un complice! Ma lei vede che confusione che ambiguità!».

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La discesa agli inferi

A questo punto, la camera stacca dall’intellettuale (il quale si allontana scenicamente con un movimento delle braccia che ricorda una danza) e inquadra una cantante che inaugura la scena della “discesa” nella zona dove si fanno i fanghi e le inalazioni. Si tratta invero di una vera e propria discesa, perché gli attori discendono un grande scalone, tramite il quale le persone, avvolte in asciugamani, sono investite dal vapore delle saune che crea un’atmosfera irreale, per certi versi infernale: essi vanno verso un abisso lattiginoso e il ritmo di un tamburo sembra sottolineare questa discesa negli inferi. La cosa interessante, e sorprendente, è che in questa scena il produttore, uno dei personaggi più volgari della pellicola felliniana, pone un’affermazione significativa e illuminante sul senso del film che il regista non riesce a fare (mentre Guido l’ascolta come sempre distratto, perché incrocia ancora la donna delle terme): «Ma io l’ho capito, sai, cosa vuoi dire, vuoi parlare della confusione che un uomo ha dentro di sé. Ma devi essere chiaro!».

Dopo questa discesa negli inferi, Guido ne emerge per incontrare nuovamente il cardinale, forse con la speranza di trovare una parola di conforto alla sua crisi. Tuttavia di nuovo con l’incomunicabilità la Chiesa si mostra come un dato ineluttabile. Il cardinale lo riceve infatti nella sua cabina riservata dove sta facendo i fanghi e Guido, invece di chiedere qualcosa per il film, gli dice con voce accorata, come chiedendo conforto: «Eminenza, io non sono felice». La risposta del cardinale è rivelatoria, chiara, lucida, non denota incertezze ed è come uno specchio nel quale Guido vede finalmente riflessa, nitidamente, la propria inguaribile disperazione: «Perché dovrebbe essere felice? Il suo compito non è questo. Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?». Dunque il regista, come tutti gli uomini, ha un compito e certamente non è quello di essere felice. Però la Chiesa non può comunicare nulla all’uomo inquieto, se non una verità dogmatica che Guido non sa accettare perché l’avverte come estranea; la distanza con la Chiesa diventa quindi incolmabile allorché il cardinale, dottamente, afferma:

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dice Origene nelle sue omelie: Extra ecclesiam nulla salus - fuori della chiesa non c’è salvezza - Extra ecclesiam nemo salvatur — fuori dalla chiesa nessuno si salverà - Salus extra ecclesiam non est - non c’è salvezza fuori dalla chiesa - Civitas dei…. Chi non è nella civitas dei appartiene alla civitas diaboli.

Come nel sogno della prostituta, la rigida ragione ecclesiastica, l’insegnamento della Chiesa è qualcosa di pietrificato, morto, ossificato: un uomo come Guido, a sua volta pietrificato nell’animo, non può certamente trovare la salvezza in queste oscure parole latine, perché la sua disperazione, la sua infelicità sono umane, terrene e in gran parte causate da se stesso, dalla direzione che sa (o non sa) dare alla propria vita.

La seconda parte del film vede la comparsa sulla scena della moglie, accompagnata, oltre che dalla sorella e da alcuni svagati amici, tra cui Enrico, un giovane innamorato di Luisa, soprattutto dall’amica Rossella (Rossella Falk), sorta di coscienza critica del gruppo. L’incontro di Guido con Luisa è affettuoso: questa donna bella, con i capelli corti, i severi lineamenti del viso e grandi occhiali (dietro ai quali vivono occhi pieni di tristezza) lo abbraccia, lo saluta e Guido, dopo l’incontro con il cardinale, si sente sollevato: essi ballano assieme, egli ha per Luisa parole dolci, accorate (però mente ancora, perché sostiene di essere annoiato, di non aver fatto vita sociale e di non aver incontrato nessuna donna interessante) e, alla fine, tutti assieme, con il produttore e la troupe, si recano a vedere l’astronave che Guido ha fatto costruire per una delle scene più importanti del film. Infatti, come tutta la sua vita, lo stesso film che egli vorrebbe realizzare ha come tema la “fuga”; tuttavia, mentre nella sua vita egli vuol fuggire dalla sua realtà, nel film egli immagina che, in seguito ad un’esplosione nucleare, un’astronave decollerà da una piattaforma per portare via dalla terra gli uomini, i quali, a migliaia, cercheranno rifugio su altri pianeti. Guido d'altra parte fa lo stesso nella sua vita, cercando rifugio sempre in “altro” dalla quotidianità e fuggendo dalla sua esistenza: egli desidera un’altra donna (Claudia), senza però rinunciare alla moglie; vorrebbe altri amici, vorrebbe cercare sollievo nella Chiesa, ma questo sollievo non arriva mai, egli torna sempre alla propria angoscia ed alla noia.

La scena della visita all’astronave è perciò altamente significativa: tutti salgono in alto a visitare la rampa di lancio ricostruita, mentre Guido

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rimane a terra, nonostante sia lui il regista che dovrebbe spiegare agli altri il motivo di quella costruzione gigantesca: è qui evidente il distacco dal film; Luisa intanto non sorride più: è rabbuiata perché (lo si scoprirà il giorno dopo), ha visto di sfuggita Carla, l’amante di Guido (che Guido le aveva assicurato di aver lasciato tre anni prima). Il regista, che non conosce questo retroscena, non comprende il motivo di tanta irritabilità. Intanto la sorella di Luisa, mentre sale le scale parlando col produttore, confessa il suo astio, il suo fastidio per Guido. D’altra parte, anche gli altri sono perplessi di fronte a quella riproduzione, ad altezza naturale, di una rampa di lancio per astronave: davvero la salvezza si raggiunge fuggendo dal male e volando verso altri pianeti? Non, non è possibile: come nel sogno che apre il film alla fine si è sempre precipitati a terra ed per l’appunto Guido rimane a terra, non sale le rampe.

L’amica della moglie, Rossella, è la voce critica e la confidente di Guido; mentre tutti salgono sull’astronave, lei e Guido si fermano a parlare: è un primo momento di rivelazione dell’angoscia di Guido. Rossella, mentre ascolta le mirabolanti cifre delle comparse che appariranno nel film (diecimila, ventimila in fuga dalla terra dopo un Olocausto nucleare), guarda stupita Guido e gli domanda: «Ma va’, davvero vedremo tutta questa roba nel tuo film? Mamma mia, il profeta fa la voce grossa, si è messo in testa di far paura a tutti quanti!».

«Perché?», risponde Guido in apparenza con animosità, «anche a te t’entusiasmano le storie in cui non succede niente? Nel mio film succede di tutto, pensa un po’… ». Dopo questo scambio di battute, il tono muta: Guido torna alle sue angosce, alle sue autentiche preoccupazioni che evidentemente non riguardano affatto il film che deve girare. Egli infatti chiede a Rossella: «Cosa pensa Luisa di me? Cosa vuol fare?». La donna risponde: «Sai, Luisa non parla mica molto, neanche con me che sono la sua migliore amica. Veramente, non so quello che vuol fare. È smarrita, un giorno dice una cosa, un giorno ne dice un’altra. Purtroppo, credo che l’unica cosa che vorrebbe è che tu fossi diverso da quello che sei».

Guido (sospirando): «Ma perché… ».Rossella: «Eh! Perché. Questo è lo sbaglio che facciamo tutti!».Guido: «Ma quel tipino gentile le fa la corte, è innamorato?».Rossella: «Ti farebbe comodo, eh? così metti a posto la coscienza! Che

mascalzone! Povero Enrico, è così maldestro e delicato che se ne è fatto accorgere da tutti quanti. Le sta vicino, l’ascolta, le fa compagnia, è un buonissimo amico».

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In seguito Guido, sospirando nuovamente, parla per la prima volta di se stesso e si confida con Rossella, compiendo un atto che non potrebbe fare con alcuna altra donna: non con Carla (ella non ne è all’altezza), né con Luisa (lo conosce troppo bene e forse non lo capirebbe, non l’approverebbe):

«Mi sembrava di avere le idee così chiare; volevo fare un film onesto, senza bugie di nessun genere. Mi pareva di avere qualcosa di così semplice, così semplice da dire. Un film che potesse essere utile un po’ a tutti, che aiutasse a seppellire per sempre tutto quello che di morto ci portiamo dentro. E invece io sono il primo a non avere il coraggio di seppellire. Adesso ho la testa piena di confusione, questa torre fra i piedi!». Poi, dopo una pausa: «Chissà perché le cose sono andate così! A che punto avrò sbagliato strada». Infine, Guido conclude il suo discorso canticchiando, come facesse una rivelazione: «Non ho proprio niente da dire, ma voglio dirlo lo stesso!».

Rossella lo guarda, tace e sorride: forse erano le parole che si aspettava. Poi Guido le chiede: «E i tuoi spiriti, Rossella? Perché non mi vengono in aiuto. Hai sempre detto che sono carichi di messaggi per me!». La donna sorride, quasi per schermirsi: «Guido, te l’ho già detto, tu hai un atteggiamento sbagliato verso di loro, tu sei curioso, curioso in un modo infantile. E poi fai troppe riserve, vuoi troppe garanzie».

Ma Guido insiste: «Va bene, ma che ti dicono?». Allora Rossella esterna quello che ha in mente da tempo, con pacatezza. La prima rivelazione (che Guido ancora non può accettare perché è una rivelazione che non proviene da lui): «Dicono sempre la stessa cosa, anche in questo momento, sono degli spiriti molto ragionevoli, ti conoscono bene. Dicono: sei libero, ma devi saper scegliere e non hai più molto tempo davanti a te. Devi far presto… ». Insomma, il tempo per Guido sta finendo e il momento della scelta (fuga o realtà, sogno o esistenza quotidiana) è sempre più prossimo.

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La moglie di Guido

Nella scena successiva, in camera d’albergo con la moglie taciturna e irata, si rivela drammaticamente il dissidio tra i due: mentre l’amante, Carla, è un corpo con il quale Guido gioca nel modo più volgare (nella scena del loro rapporto sessuale, all’inizio, Guido le propone di uscire dalla stanza d’albergo e di rientrare come se incontrasse uno sconosciuto e facesse l’amore con lui senza sapere chi sia. Inoltre, prima di farla uscire dalla porta, Guido la trucca, dicendole di fare un’espressione “da porca”), Luisa è compita, rigida nelle sue movenze (appena uscita dal bagno urta una valigia nel buio della stanza). Ella indossa una veste che non fa intuire nulla delle sue forme, al contrario di Carla, rispetto alla quale veste in modo di gran lunga meno appariscente e più ingessato. Luisa si corica infine in un letto a fianco del marito, dato che la camera non è matrimoniale: per Guido lei rimane impenetrabile, anche simbolicamente, dato che manca ogni intimità tra di loro.

Nella realtà il ruolo che Guido assegna a Luisa è quello di una donna tradita e infelice; tale infelicità si esprime nel duro scambio di battute che avviene prima di dormire, nella quale la lontananza tra i due, al di là della distanza fisica, appare incolmabile. Ecco il dialogo, preceduto da un riso isterico di Luisa (Fellini naturalmente indugia sui primi piani dei volti: rigido e amaro quello di Luisa, stanco e annoiato quello di Guido, raramente incapace di accendersi):

Luisa (con stizza): «Io credo che non potrei tradirti mai, non fosse altro per non sopportare il ridicolo, la fatica di dovermi nascondere, mentire. Si vede che a te riesce facile, invece».

Guido (sospirando con stanchezza): «Senti Luisa mi fa tanto piacere che tu sia qui. Ma abbi pazienza, sono molto stanco, ho sonno». Guido cerca di sfuggire alla lotta, al litigio, ma viene punto sul vivo dal saluto duro della moglie.

Luisa: «Allora dormi, buonanotte!».Guido (girato dall’altra parte, inquadrato di schiena): «Io non lo so che

cosa credi di vedere, di scoprire tu nella mia vita riducendo tutto alla meschinità di uno che ruba in cucina. Ma cosa ne sai della mia vita, di quello che ho, di quello che non ho, che ne sai?».

Luisa (calma, senza guardarlo): «So solo quello che mi fai vedere tu».

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Guido (voltandosi verso di lei con ira): «Ma cos’è che ti faccio vedere eh? Avanti dimmelo che cosa vedi, con questo tuo giudizio moralistico, dov’è che vuoi arrivare?».

Luisa (guardandolo con rabbia): «Io non voglio arrivare a niente sai, lo so che siamo fermi da anni allo stesso punto. Sei tu che vuoi sempre ricominciare, ogni volta mi richiami e credi sempre di riprendere daccapo!».

Guido (gridando sollevandosi un po’ dal cuscino, alzando la voce): «Oh dico, sia chiaro, io non voglio ricominciare proprio niente!».

Luisa (con gli occhi lampeggianti di rabbia, ma sempre freddi): «Ma tu, perché mi hai fatto venire qui, a che ti servo, che cosa cerchi da me, che cosa vuoi!».

La distanza tra i due appare insanabile, senza sbocchi e il dialogo tessuto a scatti, nervosamente, è un chiaro segnale: Guido non riesce a penetrare (sia simbolicamente che fisicamente) la moglie, perché la donna non è leggera e fatua come Carla ed ella non gli si piega facilmente.

Il giorno dopo, seduti al caffè all’aperto un un’assolata mattina, Guido, Luisa e Rossella vedevo arrivare in carrozza Carla, vestita di nuovo nel suo abito appariscente e pacchiano, accompagnata dalla musica incalzante dell’orchestra. Guido cerca di non farsi notare, coprendosi il volto con il giornale, ma Luisa lo gela:

«Calmati, va’, l’avevo già vista ieri sera appena sono arrivata», e, appena Guido accenna a dire qualcosa, ella aggiunge prontamente: «non ti ho chiesto niente e non voglio sapere niente, risparmiami almeno la vergogna di sentirti sempre giurare il falso!». Il clima teso tra i due raggiunge un livello elevato ma, come si vedrà, non arriva ancora al suo climax. Guido sembra non rendersi conto dell’ira della moglie, anzi, sostiene di non sapere nulla di Carla (ricorda a Luisa di averla lasciata tre anni prima), di vederla per la prima volta in quel momento e di essere scandalizzato dal fatto che si pensi che egli possa andare in giro con “una” conciata in quel modo. Tuttavia Rossella, che assiste sconcertata e in parete divertita allo scontro tra i due, è molto penetratene allorché, osservando Carla che ai aggira imbarazzata tra i tavoli vuoti (perché si è accorta della presenza di Guido e di Luisa), osserva: «Ma sono proprio quei tipi lì che hanno maggiore facilità a stare a fianco a uomini deboli, abulici, senza chiarezza… », con evidente riferimento a Guido.

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Luisa, colpita da queste parole, reagisce con rabbia alle affermazioni di Guido che nega di sapere che Carla si sarebbe trovata nella stazione termale:

Mi fa impazzire (intanto sorride nervosamente ma sembra parlare con tono sprezzante)… parla come se dicesse la verità, fa l’onesto… ma guardalo, ha ragione lui (ora il tono della voce è accorato, come si mischiassero rabbia e dolore). Ma come fai a vivere in questo modo! Ma non è mica giusto mentire sempre così, non far capire mai agli altri ciò che è vero e ciò che è falso. Possibile che è tutto uguale per te, tutto!

In seguito, dopo un attimo di silenzio, Luisa riprende a parlare, stavolta con calma, rivolgendosi a Rossella, come a continuare discorsi fatti tempo prima con l’amica: «Scusami, lo so, hai ragione, sono noiosa. Che malinconia fare la parte della borghese, di quella che non capisce». Ma alla fine Luisa soggiunge, con rabbia a stento trattenuta, con un’espressione eccezionalmente intesa del volto, esaltata dal primo piano che Fellini le dedica: «Quello che mi fa più schifo è che l’hai mischiata alla nostra vita, che lei sappia tutto di me e di te, quella puttana, vacca!». Nondimeno questo sfogo irato di Luisa non sembra avere effetti su Guido: anche Luisa è “incatenata”, non sceglie, non lascia il marito e quest’ultimo sembra saperlo. Infatti, Guido con leggerezza continua a vagheggiare un suo harem, immaginando (o vedendo realmente?) Luisa e Carla (la moglie e l’amante) scambiarsi gentilezze accennando a dei passi di danza nel sole della mattina.

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Il sogno dell’harem e il dramma dell’uomo solo

Conseguente a questa immagine, abbiamo le scene dedicate al sogno dell’harem, maestoso e mirabile quadro corale disegnato da Fellini, nel quale si vede la casa d’infanzia di Guido popolata da una serie di donne (tra cui la moglie, l’amante, sua madre, una zia, la donna delle terme, la cognata e, infine, Rossella, che si definisce “il Grillo parlante di Pinocchio”), tutte pronte ad adorarlo, ad accudirlo, a preparargli la cena. Tuttavia, questo harem non consente a Guido di essere soddisfatto: non c’è amore in quella grande casa (e infatti non ne fa parte Claudia, la sola donna realmente vagheggiata); anzi, quando le donne si rivoltano contro di lui, Guido le doma con una frusta e le mette a tacere. L’atmosfera diventa cupa, colma di disperazione e tristezza, desolante come la grande casa spoglia dove stanno le donne (la casa d’infanzia di Guido); alla fine, a tavola, egli domanda alle donne: «Perché tanta tristezza?». L’unica immagine positiva è quella di Luisa che nel sogno è rappresenta come la moglie “ideale”, la perfetta donna di casa, aliena da ogni conflitto, dedita esclusivamente al focolare, malinconicamente felice nell’appagamento del marito: insomma, il contrario di quello che è nella realtà, tanto è vero che quando finisce il sogno, troviamo Guido seduto nella sala dove deve visionare i provini per i film che sussurra al vuoto: «Se tu potessi avere un po’ di pazienza Luisa, ma non forse non ne hai più».

La scena della visione dei provini mette in campo tutti i personaggi significativi del film: è la scena che segna il punto più basso dell’alienazione e dell’inautenticità di Guido ma che, con l’apparizione (questa volta reale) di Claudia, getta le basi per la salvezza finale, o almeno, per il suo ravvedimento. Questi si trova di fronte, quella sera, alla necessità di visionare i provini e scegliere gli attori: non c’è più spazio per rimandare le scelte, sia quelle reali (decidere se fare il film), sia quelle esistenziali. L’intellettuale in questo caso coglie perfettamente il significato della situazione, allorché sottolinea che in quel frangente Guido è chiamato all’arduo compito di dare volto a personaggi del tutto inconsistenti e caratterizzati in modo assolutamente vago (e sottotraccia intende sia i personaggi del film che quelli della sua vita). Guido, colpito sul vivo, allora immagina di impiccare l’intellettuale ad una corda, come a

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voler dire che i critici cinematografici non meritano di essere ascoltati quando pontificano e danno giudizi altezzosi. Tuttavia, l’intellettuale ha ragione e, infatti, la sua impiccagione è solo un’illusione, tanto è vero che nella scena successiva egli è ancora lì, seduto poco oltre Guido, che si siede in alto, vicino all’uscita, lontano da tutti isolandosi da tutti (Rossella, in qualità di coscienza critica del gruppo, guardando Guida afferma: «Eccolo là! Ti sei messo vicino alla porta, sempre pronto a scappare»). D’altra parte, le parole che l’intellettuale pronuncia, tratte da una frase di Stendhal, sono a loro modo profetiche: «L’io solitario che gira attorno a se stesso, che si nutre soltanto di sé, sarà soffocato da un gran pianto o da un gran riso».

Nella scena dei provini, come detto, ci sono Luisa (lontana ovviamente dal marito, vicina a Rossella e ai suoi amici), Conocchia, Cesarino (l’aiuto regista amico di Guido), tutta la produzione e, alla fine, anche il produttore stesso che ritiene fondamentale cominciare le riprese dopo cinque mesi di lavoro a vuoto. Le sue parole sono molto chiare: «Giovanotto, devi decidere. Non è più tempo di scherzare. I dubbi, i ripensamenti, i capriccetti, hanno avuto tutto il tempo che volevano. Ma stasera deve scegliere… Mi devi dire: questa è l’amica, questa è la moglie, questo il cardinale, questa è la Saraghina, è chiaro? Io non voglio diventare il Pulcinella del cinema italiano e soprattutto non voglio che lo diventi tu!». Infine, il produttore aggiunge, tratteggiando una situazione che Fellini stesso, probabilmente, aveva vissuto: «Ti aspettano tutti con il fucile puntato. Amici te ne sono rimostri pochi, tanto a sinistra quanto a destra. Ma io sono qua per aiutarti in tutti i modo. Però il film deve cominciare e deve cominciare subito!».

L’insistenza del produttore (interessato al solo lato economico della questione) è il simbolo della condizione di Guido, già descritta da Rossella la sera della visita all’astronave: il momento della scelta si avvicina per lui. La decisione di girare il film non è una semplice decisione concernente una parte della propria vita, ma coinvolge l’intera esistenza di Guido, la quale è giusta a un punto morto, a un ristagno ormai non più sopportabile: le stesse persone che gli stanno attorno cominciano ad allontanarsi da lui, a non sopportarlo, a non coccolarlo più.

La visione dei provini è la dimostrazione che Guido avrebbe voluto girare un film sulla propria vita, sulla propria crisi, sulla propria alienazione, sulle proprie difficoltà. È quello che ha fatto Fellini in Otto e

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mezzo ed è ciò che Guido vorrebbe poter fare per attuare una catarsi della propria angoscia, per poter riconoscere in un altro se stesso (il protagonista del suo film) la propria disperazione, la propria tetra condizione esistenziale, e una volta riconosciutala, comprenderla meglio. Infatti, finché l’angoscia vive dentro di lui, egli non sembra in grado di afferrarla pienamente: l’agnizione invece avviene (o dovrebbe avvenire) “drammatizzando” la propria angoscia, ossia facendola rappresentare dai personaggi della storia che Guido vorrebbe narrare. In tal modo il regista pensa di allontanare da sé tale angoscia e crede poter porre una distanza tra il “se stesso” in crisi nella realtà e il “se stesso” in crisi nel film. Ma è questo il punto in cui il disegno di Guido fallisce ed è questo il motivo che spiega la sua crisi creativa. Lui credeva di poter risolvere la propria crisi proiettandola sul grande schermo, dunque negandola nella realtà e ammettendola solo nella finzione; invece, presto si accorge che tutto questo non è possibile. La crisi che lui vive non è solo artistica, bensì esistenziale e dunque non può essere risolta trasfigurandola nell’opera d’arte.

I provini mostrano proprio questa situazione. Guido ha cominciato a valutare gli attori perché voleva trovare le “facce” giuste per rappresentare le persone della sua vita; poi ha capito che questa impresa era impossibile. Ma i provini sono ormai stati girati e, nel momento in cui il produttore vuole vederli, si palesa agli spettatori nella sala (in gran parte gli amici di Guido e dunque gli involontari protagonisti del film) l’intenzione iniziale di Guido e il suo fallimento.

Il primo personaggio del film, ossia “l’amante”, nei provini è infatti vestita proprio come Carla e, pur nei diversi volti delle varie attrici impiegate, come Carla è vanesia, superficiale, un po’ sciocca, però conturbante nella propria vacuità. Il secondo personaggio del film (nei provini passeranno anche la Saraghina, il cardinale e così via) è “la moglie”. Questa è una donna di una bellezza fredda, lineare, quasi ingessata nei propri occhi tristi: assomiglia a Luisa, anzi è Luisa. La donna accusa Guido di lasciarla sola, di non riuscire ad esserle mai vicino soggiungendo: «Sono io che ti offro di lasciarti completamente libero. Tanto così non ti servo a nulla. Ti do solo fastidio. Ti prego di pensarci seriamente…. ». In seguito, il personaggio aggiunge: «Perché non ce la faccia più ad andare avanti così». Guido, il regista, durante il provino, le chiede a questo punto: «E allora sentiamo, come dovrei essere?». La donna risponde: «Uno che non giura il falso dieci volte al giorno, tutti i

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momenti, basterebbe questo almeno. Quello che fai è il meno. È il non sapere mai, mai una volta sola la verità, neanche per le cose più piccole».

Sono frasi che Luisa stessa ha rivolto varie volte al marito, ma fino ad allora la moglie non ha mai accennato alla possibilità di lasciarlo: Guido mette in bocca all’attrice quello che forse vorrebbe sentirsi dire da Luisa; la fine del matrimonio sarebbe a suo modo una soluzione, ma una soluzione parziale, una fuga senza possibilità di guarigione. Quando la donna che dovrebbe interpretare la moglie nel film si mette gli occhiali, si ha l’epifania, si scopre il vero soggetto del film di Guido: tutti in sala capiscono infatti che Guido vuole mettere sullo schermo la storia della propria vita e che quella donna è il ritratto della moglie reale, di Luisa. Fellini inquadra prima Guido che sussurra: «Luisa, ti voglio bene», poi non inquadra Luisa (che non poteva sentire), bensì l’attrice sullo schermo che, con gli occhiali e l’espressione triste tipica di Luisa, risponde a chi dirige il provino, cioè allo stesso Guido: «Ma tu menti come respiri!»; è chiaro che la frase rispecchia quello che Luisa, pensa realmente del marito.

Nel frattempo, il produttore è convinto che questi potenziali attori siano perfetti per le varie parti del film, ma Guido tace, anzi, sonnecchia, annoiato, del tutto alieno dal quel che accade in sala. I provini si succedono con disordine, creando un profluvio di suoni e musica che invade la sala, quasi a rimarcare scenicamente la confusione e il groviglio di dolorose sensazioni di Guido, Luisa e degli altri personaggi. Guido si riprende solo quando vede Luisa andare via: la raggiunge nell’atrio del cinema e le chiede come mai se ne stia andando.

Guido (conciliante, con voce tenera): «Luisa, dove vai?».Luisa (con voce triste e infastidita): «Ho sonno vado in albergo,

buonanotte Guido».Guido: «Aspetta un momento senti, ma che c’è, cos’è successo?».Luisa (con voce spossata, esausta): «No non è successo niente, Guido,

non succede mai niente tra noi due».Guido: «Ti ha offeso qualcosa che hai visto nei provini? Si tratta di un

film».Luisa (adirandosi): «Oh, lo so meglio di tutti che si tratta di un film,

che è un’invenzione, un’altra bugia, anche se ci hai messo dentro tutti, ma come fa comodo a te. La verità però è un’altra. E la so solo io. La tua fortuna è che non avrò mai la sfrontatezza di raccontarla agli altri come fai tu. Ma fallo il tuo film, fallo! (Qui Guido, appoggiandosi al muro,

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sconsolato, ripete due volte “Ma no, non lo faccio”), compiaciti, fai credere a tutti di essere meraviglioso! Ma cosa vuoi insegnare agli altri se non sai saputo dire niente di vero a chi ti sta fianco, a chi è invecchiato con te!» (qualche lacrima di Luisa).

Guido (perentorio): «Insomma Luisa, non fare la melodrammatica!».Luisa (calmandosi, sorridendo, quasi come se avesse finalmente preso

una decisione): «Hai fatto bene a farmi venire, sai, c’era bisogno di una conclusione e ti assicuro che non tornerò indietro. Ma vai all’inferno!». Luisa ha pronunciato le parole che preludono a un abbandono, anche se non lo dice chiaramente. Guido rimane inerte, senza dire nulla, come se tutto quello che succede sovrasta le sue forze e non può essere per nulla influenzato dal suo intervento.

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Claudia e la speranza

Nel momento più difficile per Guido, quando la rottura con la moglie e la lontananza dagli altri giunge al massimo grado, appare finalmente Claudia. La donna veste di bianco, è bellissima, delicata, proprio come Guido la immaginava nei sogni: è un primo segno, forse, di una possibilità di salvezza per il regista, di una possibilità di riappropriarsi di se stesso. Claudia darà a Guido l’occasione per una confessione definitiva sulla propria disperazione, sulla propria angoscia, sulla propria inquietudine: il discorso cominciato con Rossella non può che giungere all’epifania con una creatura dolcissima, pura, quasi eterea come Claudia.

Il sorriso limpido di Claudia, la sua bellezza fanno da contraltare alla confusione del film, al guazzabuglio di sentimenti, parole vuote, rabbie, cattiverie che hanno popolato le scene precedenti e che rendono insopportabile l’esistenza di guido. Per questo Claudia interpreta il ruolo della ragazza che dà l’acqua ai malati, è lei la salvezza, la speranza di fare ordine e pulizia, come diceva in uno dei sogni di Guido. Ecco un brano del suo incontro con Guido (i due a un certo punti abbandonano la sala dove si proiettano i provini a vanno via in automobile):

Guido: «Mi metti soggezione, mi fai battere il cuore come un collegiale. Non ci credi eh? Che rispetto vero, profondo comunichi. Claudia… di chi sei innamorata? Con chi stai, a chi vuoi bene?»

Claudia: «A te!».Guido (sorridendo con scetticismo): «Sei arrivata proprio in tempo

sai? Ma perché sorridi così? Non si capisce mai se giudichi, se assolvi, se mi stai prendendo in giro… ».

Claudia (con ingenuo candore): «Mi hai detto che vuoi parlarmi del film, io non so niente!».

Guido le descrive poi il personaggio della “ragazza della fonte”, come se volesse davvero cominciare a girare il film (Claudia infatti, appena lo aveva incontrato, gli aveva chiesto quando sarebbero cominciate le riprese): «È una di quelle ragazze che danno l’acqua per guarire. È bellissima, giovane e antica, bambina e già donna, autentica, solare. Non c’è dubbio che sia lei la sua salvezza. Sarai vestita di bianco e avrai i capelli lunghi, così, come li porti tu».

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Se il rapporto con la moglie è fatto di bugie, di falsità, ossia di modi per non rivelare la propria inquietudine, la propria disperazione, il dialogo con Claudia è per contrasto del tutto aperto, libero e Guido non ha più reticenze, non ha bisogno di fingere. È chiaro che, parlando del protagonista del film, egli in realtà parla di se stesso, delle cose che vorrebbe realizzare, ma che non ha la forza di attuare. A questo proposito Guido chiede a Claudia: «Tu saresti capace di piantare tutto e ricominciare la vita daccapo? Di scegliere una cosa, una cosa sola, e di essere fedele a quella, riuscire a farla diventare la ragione della tua vita? Una cosa che raccolga tutto, che diventi tutto proprio perché è la tua fedeltà che la fa diventare infinita. Saresti capace?». Poi, dopo una breve pausa, forse in attesa di una risposta, aggiunge: «Ecco, se io ti dicessi: Claudia….».

Claudia (sta guidando, ed è incerta sulla direzione da prendere): «Da che parte si va? Non conosco la strada. E tu? Saresti capace?».

Guido: «No, questo tipo no, non è capace. Questo vuole prendere tutto, arraffare tutto, non sa rinunciare a niente. Cambia strada ogni giorno perché ha paura di perdere quella giusta, e sta morendo, come dissanguato». In pratica, queste parlano dipingono il ritratto di Guido, la descrizione della propria disperata esistenza in quel momento: Claudia si rivolge a Guido utilizzando il “tu”, in modo diretto, dunque, mentre il regista risponde, ma citando il protagonista del film, quindi cercando comunque non di non svelare del tutto se stesso. Ma è inutile.

Alla fine i due arrivano in un luogo buio, freddo, circondato da edifici in rovina, inquietanti nella loro caducità, in parte simile a quella presente nel sogno del padre e della madre: qui però è notte. Nelle scene le visioni della Claudia reale si alternano a quella di una Claudia immaginaria, vestita da infermiera, con il camice bianco, pronta a confortare il regista. Guido continua ad aprirsi, a raccontare della propria crisi, ma appena si accorge che Claudia smaschera il suo gioco, ossia il suo desiderio di essere coccolato e di apparire come vittima della propria disperazione e non quale responsabile di essa (come invece effettivamente Guido è), egli si mette sulla difensiva.

Claudia: «Della storia che mia hai raccontato non ho capito quasi niente. Ma scusa, un tipo così, come tu l’hai descritto, che non vuol bene a nessuno, non fa mica tanta pena sai? In fondo è colpa sua. Che cosa pretende dagli altri?».

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Guido: «Perché credi che io non lo sappia? Come sei noiosina… anche tu».

Claudia: «Ah, ma non ti si può dire proprio niente… quanto sei buffo con quel cappellaccio truccato da vecchio!» (Infatti nel film Mastroianni viene invecchiato ad arte, perché nella realtà ha quattro anni in meno di Fellini). Poi Claudia continua la sua opera di smascheramento: «Io non capisco… incontra la ragazza che lo può far rinascere, che gli ridà vita e lui la rifiuta?».

Guido: «Perché non ci crede più».Claudia: «Perché non sa voler bene».Guido: «Perché non è vero che una donna possa cambiare un uomo».Claudia: «Perché non sa voler bene».Guido: «Perché non ho voglia di raccontare un’altra storia bugiarda»

(ecco, Guido comprende che non può più andare avanti a vivere nella falsità).

Claudia: «Che bugiardo, mi hai preso in giro, allora non c’è questa scena nel film!».

Guido: «Claudia, mi dispiace di averti fatto venire qui. Hai ragione tu sai, non c’è questa parte nel film, non c’è neanche il film, niente di niente. Per me, la faccenda potrebbe finire qui».

Tuttavia, proprio quando Guido, finalmente, ammette la propria caduta nel nulla, nell’afasia intellettuale, nell’incapacità di creare alcunché e di mettere in scena la propria disperazione, irrompono in macchina il produttore, l’agente di Claudia e dicono a Guido: «Ma dove ti eri cacciato? Hai sentito la novità? Si comincia a girare. Il produttore ha avuto un’idea fantastica», ovvero, per forzare la situazione, ha convocato i giornalisti nel luogo dove c’è la rampa dell’astronave per annunciare l’inizio delle riprese. Pertanto Guido, che aveva pensato, con la confessione fatta a Claudia, di aver definitivamente allontanato da sé il momento della scelta, si trova invece implicato più di prima in un film che ha confessato di non voler più girare: il produttore lo costringe e sembrano non esistere vie di fuga.

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La conferenza stampa e l’epifaniaLa scena della conferenza stampa è frenetica, volutamente confusa,

caotica al massimo grado, sottolineata dal solito incalzante accompagnamento musicale: Guido viene portato in macchina (c’è un riferimento al sogno claustrofobico dell’inizio del film) e, successivamente, viene portato a spalla dall’aiuto regista e da un membro della produzione: egli cerca di scappare, ma è ripreso e quasi trascinato, del tutto inerte, verso il tavolo con i microfoni. Non sorride più, non è né cinico, né ironico, ma passivo: non ha più alibi, ed è chiaro che i giornalisti, con le loro domande cattive, scopriranno il suo fallimento, la sua crisi, la sua nullità. Per fortuna il suo amico Maurice gli dice: «In bocca al lupo».

Una volta seduti davanti al tavolo, Guido è del tutto alla mercé degli astanti: le domande dei giornalisti si accavallano disordinatamente (tale concitazione è accentuata da una sorta di ondeggiamento della macchina da presa che inquadra freneticamente i volti famelici dei giornalisti), colme di livore, di soddisfazione per aver messo in crisi un regista di successo (una giornalista americana grida, ridendo: «He has lost, he has nothing to say!»). Guido tuttavia sembra non comprendere affatto quello che accade: non dice nulla, rimane come interdetto, disorientato e anzi domanda a Conocchia: «E che si dovrebbe fare?», guardandosi attorno smarrito. Pensa alla moglie e sussurra: «Luisa, dove sei, ma è vero che mi vuoi lasciare, vuoi andartene via?». La moglie gli appare in un’immagine onirica, vestita di bianco come Claudia, in mezzo alla confusione della conferenza stampa e alla selva di domande: «Ma come faccio ad andare avanti così», ella dice, poi domanda: «quando mi sposerai veramente, quando diventerò tua moglie».

Le rievocazione di queste figure femminili è bruscamente interrotta dal produttore che sussurra minaccioso all’orecchio di Guido: «Avanti, parla, dì qualcosa. Io ho comprato il tuo disordine, la tua crisi, sono mesi che pago tutto, se non fai il film ti rovino!». Il produttore si mostra meschino e gretto, interessato solo al lato economico del problema. La situazione per Guido diventa insostenibile, la sensazione di panico cresce a dismisura: il suicidio sembra essere l’unica via di fuga, questa volta

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definitiva. Egli infatti si nasconde sotto il tavolo, balbettando freneticamente: «Un momento, vengo subito, un attimo, penso a quello che voglio dire», mentre gli insulti dei giornalisti lo sommergono. C’è un’ultima immagine onirica, quella della madre che gli urla, ragazzo: «Guido torna qui, dove vai, disgraziato!» e poi la voce dell’intellettuale che, sarcastico, dice: «Che inguaribile romantico». Infine lo sparo e il silenzio.

Tuttavia Guido non muore: il suicidio sarebbe un’inutile scappatoia; esso è invece la metafora che segna la fine dell’equivoco che serpeggia durante il film: l’idea cioè che l’esistenza sia qualcosa di arcano, misterioso e indecifrabile, mentre appare chiaro che l’unica cosa da fare è lasciarla fluire così com’è, accettarla per quello che è, senza fare inutili sforzi per ottenere quello che non può essere raggiunto. La fine dell’equivoco è simbolicamente rappresentata da Guido che ordina agli operai di smontare la struttura che doveva servire da rampa di lancio per l’astronave: non serve a nulla fuggire dalla terra. Il luogo dell’affollata conferenza stampa di prima ora è deserto, spazzato dal vento che solleva delle cartacce; Guido sale in macchina con l’intellettuale, il quale ha il merito di provocare parzialmente l’epifania finale del regista. Egli chiarisce infatti, con il suo fiume di parole, il significato di quello che è successo, mentre lo sguardo assente di Guido nel momento in cui ascolta le parole dell’intellettuale è il segno del cambiamento in corso nel suo animo:

Lei ha fatto benissimo. Mi creda oggi è una buona giornata per lei. Sono delle decisioni che costano, lo so, ma noi intellettuali, dico “noi” perché la considero tale, abbiamo il dovere di rimanere lucidi fino alla fine. Ci sono già troppe cose superflue al mondo, non è il caso di aggiungere altro disordine al disordine. Un film non riuscito per il suo produttore è solo un fatto economico, ma per lei, al punto in cui era giunto, poteva essere la fine. No, mi creda, non abbia né nostalgia né rimorsi. Distruggere è meglio che creare quando non si creano le poche cose necessarie. E poi… c’è qualcosa di così chiaro e giusto al mondo che abbia il diritto di vivere? (…) Meglio lasciar andare giù tutto e far spargere sale, come facevano gli antichi per purificare i campi di battaglia.

In fondo avremmo solo bisogno di un po’ di igiene, di pulizia, di disinfettante. Siamo soffocati dalle parole, dalle immagini, dai suoni che non hanno ragione di vita, che vengono dal vuoto e vanno verso il vuoto. A un artista veramente degno di questo nome non bisognerebbe

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chiedere che quest’atto di lealtà: educarsi al silenzio. Ricorda l’elogio di Mallarmé alla pagina bianca? E di Rimbaud? Un poeta mio caro, non un regista cinematografico (…). “Se non si può avere il tutto, il nulla è la vera perfezione”. (…)

La nostra vera missione è di spazzare via le migliaia di aborti che ogni giorno oscenamente tentano di venire al mondo. E lei vorrebbe addirittura lasciare dietro di sé un intero film, come lo sciancato si lascia dietro la sua impronta deforme? Che mostruosa presunzione credere che gli altri si gioverebbero dello squallido catalogo dei suoi errori. E a lei che cosa importa cucire insieme i brandelli della sua vita, i suoi vari ricordi, o i volti delle persone che non ha saputo amare mai?

Tuttavia questo non basta. L’intellettuale coglie solo la pars destruens dell’atteggiamento di Guido il quale ha capito che non era possibile girare un film sulla propria crisi; ciò nonostante, non è pensabile domandare a un artista di “educarsi al silenzio” come fa l’intellettuale, il quale evidentemente conferma di non credere nelle possibilità artistiche del cinema: le sue parole sono utili per segnalare e chiarire a Guido il significato della decisione di non girare quel tipo particolare di film, ma non di non girare più film. Infatti, mentre Guido ascolta l’intellettuale, egli rivede i volti di tutti i protagonisti della sua vita: c’è Claudia vestita di bianco che sorride e va via, come se ormai il suo compito si fosse esaurito e da quel momento Guido fosse in grado da solo di fare ordine e pulizia nella sua vita. Gli altri personaggi, anch’essi vestiti di bianco, camminano sorridenti nella direzione opposta a quella di Claudia: ci sono i genitori, la Saraghina, il cardinale, la madre da giovane. E Guido capisce, comincia a comprendere quello che sta accadendo: ecco la pars costruens, il momento positivo dell’epifania, nelle parole che egli dice a se stesso:

Ma che cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare, mi ridà forza, vita? Vi domando scusa dolcissime creature, non avevo capito, non sapevo. Com’è giusto accettarvi, amarvi, e com’è semplice. Luisa, mi sento come liberato. Tutto mi sembra buono, tutto ha un senso, tutto è vero. Ah, come vorrei sapermi spiegare… ma non so dire. Ecco, tutto ritorna come prima, tutto è di nuovo confuso. Ma questa confusione sono io, io come sono, non come vorrei essere, e non mi fa più paura. Dire la verità, quello che non so, che cerco, che non ho ancora trovato. Solo così mi sento vivo, e posso guardare i tuoi occhi fedeli senza vergogna. È una festa la vita, viviamola insieme. Non so dirti altro Luisa,

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né a te né agli altri. Accettami così come sono se puoi, è l’unico modo per tentare di trovarci.

Luisa si avvicina timorosa, anch’essa vestita di bianco, e dice «Non so se quello che hai detto è giusto, ma posso provare, se mi aiuti». La felicità di Guido è legata alla fecondità che ora avverte dentro di sé, dopo lungo tempo, e la comprensione di quanto sia facile vivere serenamente e voler bene agli altri si traduce in una creatività artistica prima assente. Emerge allora la sua capacità di dare ordine alle cose, di dirigere i personaggi, questa volta non a suon di frusta come nel sogno dell’harem. Infatti, egli diventa realmente regista e sta girando un film, nel quale tutti i personaggi della storia scendono sorridenti e felici da una grande scala, accompagnati da una musica festosa, creando un effetto scenico mirabile, maestoso, dove non sembra esserci più spazio per gesti di disperazione, per angosce dovute alla propria inautenticità e non a motivi reali.

La scena finale è quella, bellissima, del celebre girotondo di tutti i personaggi (eccetto Claudia) sulla passerella, diretti da Guido; adesso la madre sceglie di seguire il padre, com’è giusto che sia, permettendo con questo ‘tradimento’ del figlio che anche Guido, con comprensibile tristezza, sia costretto a separare la propria libido dalla figura materna, e possa quindi unirsi alla moglie nel girotondo finale. Guido non è più l’eterno figlio, e non si identifica più con il bambino, perché anch’egli è ora partecipe della rappresentazione: non è più alieno dagli altri, distaccato dalle loro vite, ma fare parte lui stesso del film: lo dirige certamente, ma recita altresì in esso, come nella vita, e si riappropria di se stesso.

I personaggi sono discesi dunque dall’astronave: è sulla terra e non nel lontano spazio che la vita continuerà. Il ritorno a terra non è, a differenza che nel sogno iniziale, un drammatico precipitare nella propria disperazione: è la salvezza, l’accettazione della propria condizione di essere umano ed anche il segno della comprensione del fatto che i sogni fanno della parte della realtà, ma non sono la realtà stessa. Questa convinzione sembra vacillare allorché si rivede Carla che, lucidamente, dice a Guido: «Io ho capito sai cosa vuoi dire, vuoi dire che non puoi fare a meno di noi. A che ora mi telefoni domani?». Guido risponde «Sì, sì, adesso però svelta, vai in fila con gli altri». Non sappiamo se l’indomani tutto tornerà come prima. Guido tuttavia, finalmente regista, riesce, con l’aiuto di Maurice (è proprio l’illusionista lo aiuta a

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riappropriarsi della realtà), ad integrare nella rappresentazione la parte di sé che Carla simboleggia: l’immaturo, il superficiale. La direzione di Guido sembra connotarsi come adempimento di un qualcosa che gli viene chiesto, che così va fatto, ed egli stesso si inserisce come uno dei tanti membri nella catena umana della quale fa parte. Centro e finale del girotondo è Guido bambino, sul quale ora si concentrano le luci finali, fino al buio, allo spazio vuoto, alla possibilità nuova che questo fanciullo di luce lascia dietro di sé, uscendo di scena.

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