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I SASSI

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I SASSI

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MADRI ASSASSINE

DIARIO DA CASTIGLIONE DELLE STIVIERE

Postfazione di Annelore Homberg

Prefazionedi Oscar Luigi Scalfaro

ADRIANA PANNITTERI

ALBERTO GAFFI EDITORE IN ROMA

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© 2006 Gaffi Via della Guglia, 69/b

00186 - Romawww.gaffi.it

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sotto i guanti di filo nero

le unghie d’agata assassine

taglienti e lucide come un rasoio

Paul Verlaine

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PRIMA PARTE

LA BELLA STAGIONE

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Quell’estate non fu tanto calda. L’aria che di solito a quel punto dellastagione al sud emanava odori forti, aveva un sapore lieve. Di pesco. La terra incampagna respirava, meno polverosa. C’era stata la pioggia in primavera arinfrescare. Scrosci che avevano riempito anche i torrenti. E così i solchi sipotevano vedere, ancora imbevuti di acqua. Un regalo per le coltivazioniseccate da tante stagioni aride.

Maria Grazia, quell’ estate, se la ricorda piuttosto bene. Per quanto fossepiccina. Quattro, cinque anni... Non di più. Le si affacciano alla memoria leimpronte delle sue scarpette lungo il viottolo che ancora si snoda fino all’aran-ceto. Alberi rigogliosi, le foglie di un verde scuro lucido. L’uno dietro l’altro, infila. “Uno, due, tre… e trenta… cinquanta, cinquantuno…”. Maria Graziacontava gli alberi con il nonno, cercando di allungare i passi. Facevano quelgioco decine di volte. Per forza di cose perdevano il conto, scoppiavano a ridere,e ricominciavano tutto daccapo. Sin quando, ricorda, un giorno il nonno le la-sciò per un attimo la manina e con il bastone di legno scuro prese a tracciare unsolco sul terreno, come un recinto attorno all’albero che a lei era sembrato il piùbello di tutti. “Maria Grazia…” disse con un gran sorriso e voce teatrale “que-sto è il tuo albero”.

Il nonno di Maria Grazia aveva le mani grosse e forti di chi aveva lavorato.Le usava però con una leggiadria sorprendente. In campagna, nelle lunghe pas-seggiate mano nella mano, si fermava d’un tratto dinanzi ad una pianta di fi-chi d’India. Dalla tasca dei pantaloni tirava fuori un coltellino e riusciva, conmovimenti veloci, a sbucciare i frutti senza che le spine lo ferissero. A tavola,messosi comodo, il coltellino volteggiava rapido. Un illusionista alle prese con labucce acuminate. Nel piatto una montagna di bei fichi freschi… Suo nonno in-dossava sempre un gilet scuro abbottonato sulla camicia bianca, come si usavaun tempo. Nel taschino custodiva un orologio tanto grande che pareva di senti-

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re l’eco delle lancette. A una certa ora, dopo la quiete del pomeriggio,quando lacasa iniziava a riempirsi di suoni e voci, tirava fuori l’orologio. Si metteva se-duto e iniziava a lucidare il vetro con un fazzoletto. Passava e ripassava, comese il tempo non avesse importanza, con gesti pacati, immerso nei suoi pensieri.Faceva gracchiare la rotellina della carica, avanti e indietro con movimentiquasi impercettibili, e pareva scrutare le lancette. Il nonno aveva la massima fi-ducia nel suo orologio. Ma tutto quel lavorio era parte di un rito. La bambina loguardava in silenzio.“Maria Grazia” diceva infine il nonno con aria di coman-do “amuninne, usciamo”.

Per Maria Grazia quelle passeggiate erano una gioia. Sapeva esattamentecosa l’aspettava e in un baleno era pronta sulla porta. Tirava il nonno appesa alsuo braccio, come un cagnolino verso la libertà e il nonno, con la mano fermama senza asprezza, la ritraeva a sé.

“Piano Maria Grazia, piano… non essere precipitusa”. Sì, le diceva propriocosì. Non essere precipitusa nel dialetto della gente del sud.

Maria Grazia aveva fretta perché quelle immancabili passeggiate pomeri-diane l’avrebbero condotta, soltanto in apparenza per un caso, proprio lì. Len-tamente, girovagando, sempre la piccola mano nella grande mano del nonno,attraversando la piazza gremita di capannelli di uomini intenti a godersi l’arialeggera, Maria Grazia era certa che sarebbero giunti dinanzi alla bottega al-l’angolo. Il negozio con l’insegna un po’ rovinata da “Turi”.

Un locale stretto e lungo nel quale a malapena entrava l’enorme bancone dilegno, gli scaffali e i barattoli di vetro con i tappi di latta. Barattoli zeppi di ca-ramelle, rosse e lucide. E quelli di mou, gommose, metà bianche e metà nere,con l’involucro uguale,bicolore. Pesciolini e stelline di liquirizia. Ogni ben diDio.

Dal fondo del negozio, dietro il banco altissimo, sbucava la faccia buffa di unometto. Gli occhiali neri e tondi sul viso stralunato, la testa calva che sembravanon aver mai conosciuto capelli. Quello era Turi, o il figlio di Turi, o il nipote diTuri, insomma chi gestiva la bottega che avrà avuto, anche a giudicare dai mu-ri pieni di crepe, almeno un centinaio d’anni.

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“Allora che cosa diamo a questa bella bambina? Il cartoccio grande o quellopiccolo?” diceva Turi mentre piegava la carta spessa a mò di imbuto. Ma erauna domanda tanto per dire, perché Turi puntualmente le preparava la confe-zione più grande. E quando il cartoccio sembrava scoppiare le riempiva le ta-sche. E poi le mani. E la bocca. Sgocciolante di saliva per il troppo masticare. Eper la felicità.

Fu al ritorno da una di quelle passeggiate, quiete, per avere il tempo dimandar giù quei pesciolini dispettosi che le guizzavano tra i denti neri di li-quirizia, che un giorno, lasciandosi alle spalle la piazza e girando l’angoloverso la grande casa del nonno, sentì voci che bisbigliavano. Bisbigli che al suoorecchio di bambina arrivarono nitidi. Dicevano: “povera piccola… la suamamma sta tanto male…”. Maria Grazia, pur nell’ingenuità dei suoi anni,non ebbe dubbi. Parlavano di lei e della sua mamma. E di una malattia chelei non conosceva e doveva essere cosa assai brutta se quegli uomini ne aveva-no parlato mesti e rassegnati. Forse per questo un giorno lontano, tantissimotempo dopo, quando i ricordi sembravano ormai svaniti, Maria Graziaavrebbe cercato di capire… Quel male che spegne lo sguardo. E a volte arrivaa uccidere.

Il viaggio

Era pomeriggio quando sono arrivata la prima volta a Castiglione delleStiviere in una giornata di primavera splendida, improvvisamente troppocalda, la luce che ferisce gli occhi. E i colori. Li ho guardati dal treno. La testaobliqua sul finestrino per chilometri e chilometri. Il buio delle gallerie, pae-si inerpicati su rocce marroni e torrenti grigi e d’un tratto lampi di azzurrosu pianure gialle senza fine. Macchie di case solitarie e formiche di uominichine al lavoro nei campi.

Quando il treno mi ha lasciata sull’asfalto appiccicoso di una piazza sco-nosciuta ho costeggiato il lago. Il Garda. Il più verde che abbia mai visto.

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Troppo verde per essere vero. Un risveglio potente ed eccessivo della natura.Un quadro senza sfumature. Perfetto. Uno schiaffo al dolore, ho pensato,talmente violento da far scoppiare la testa.

È a Castiglione che sono andata a cercare la follia e il suo volto più inac-cettabile. Quello delle madri che hanno ucciso i loro figli.

La notte precedente al mio viaggio avevo fatto un sogno. Una sala cupa,gremita di gente in abiti di altre epoche. Voci di contadini e sudore rancido,fiati di bocche affamate, corpi a premere l’uno sull’altro per tentare di scor-gere nel fondo la Corte, un tavolo altissimo e seduti i giudici col mantellonero, uomini senza volto, presenze severe, immobili statue, custodi inflessi-bili di quel che è giusto e di quel che è sbagliato. Delle donne avanzavanoverso la Corte, i vestiti stracciati, i piedi nudi e sporchi di terra, gli occhi bas-si, impaurite. Già sottomesse al verdetto: “colpevole…”, rimbombava unavoce nell’aula e il popolo esultava in delirio, invasato.“Avanti un’altra… col-pevole… colpevole...” incitavano uomini e donne tra urla e risa, un giococrudele. Sino a che una donna dai lunghi capelli neri corvino, come di seta,provò ad alzare lo sguardo. Gli occhi erano cerchiati di viola. Imploravanopietà, e la bocca tentava di articolare parole.Voleva, la povera donna, spiega-re qualcosa… la folle attonita, colpita da tanta impudenza, rimase in silen-zio per qualche secondo. Ma cosa avrebbe mai potuto dire la sciagurata?

“Assassina!” gridò d’un tratto un uomo. E subito si ruppe l’incanto. “As-sassina!”presero tutti a urlare. Un boato incontenibile. Chiedevano sangue,orde fameliche convenute per un rito disumano.

La donna del sogno non poté mai raccontare il dolore che aveva dentro.

La casa

Castiglione è un ospedale psichiatrico giudiziario. Una volta si sarebbechiamato manicomio criminale. Le differenze con quel nome che fa paurasono poche e tante allo stesso tempo. La prima, decisiva, è che non ci sono

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agenti penitenziari. È l’unico ospedale psichiatrico in Italia nel quale lavo-rano soltanto medici e infermieri. Il personale dipende dal ministero dellasanità e dagli enti locali. Come in un manicomio criminale però chi entra aCastiglione ha commesso un reato ed è stato ritenuto incapace di intende-re e di volere. Il magistrato può comunque disporre il ricovero provvisorioanche quando la persona accusata è in attesa di giudizio se c’è il sospetto diuna malattia mentale.

Gli uomini a Castiglione sono in media centocinquanta. Ma solo uno, traquelli ricoverati al mio arrivo, aveva ucciso il proprio figlio. Non ho saputo ilsuo nome ma ha poca importanza. Anche quell’uomo del resto non ricordala sua storia e il delitto che ha, senza alcun dubbio, commesso. Vive in unmondo fino ad ora inaccessibile. Le donne sono una cinquantina. Ogni set-tore ha il nome di un fiore. La triste contabilità delle madri assassine era fer-ma quel giorno a sei.

Castiglione è l’unico ospedale psichiatrico giudiziario in Italia a ospitarele madri che hanno ucciso i loro figli. Per questo nell’ immaginario colletti-vo, negli articoli dei giornale e nelle cronache che sempre più indugiano suqueste storie, è soltanto la casa delle mamme assassine.

Dopo qualche settimana dai miei incontri ne sarebbe arrivata un’altra,una certa Patrizia, che aveva ucciso il figlioletto chiudendolo in un armadio.E proprio quella notte, nelle ore trascorse nella stanza d’albergo prima di po-ter parlare con le donne della follia, anche Maria P., una mamma di Lecco,avrebbe iniziato a fare agli inquirenti le prime parziali ammissioni su quantole era accaduto qualche giorno prima. Avrebbe svelato, anche a se stessa, chenessuno era entrato nella sua casa per imbavagliarla e legarla lasciando ilbambino di appena cinque mesi a morire nella vaschetta da bagno. Non era-no mai arrivati i rapinatori a rovistare nell’appartamento per portare viachissà che cosa.Nè uomini sconosciuti le avevano lasciato graffi sulla schienae lividi sul collo.Non c’erano altre presenze nella sua casa.Soltanto lei e le suemani che premevano il corpo del piccolo, lo spingevano come un bambolot-to, sul fondo della vasca. Testimone muta dell’omicidio del suo bambino.

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A Castiglione avrei incontrato anche la mamma di Lecco andata ad ag-giungersi all’elenco tragico compilato dall’Istat dei venti figli che ogni annovengono uccisi dai genitori. Dalle madri soprattutto. Vengono considerati inquesta statistica anche gli infanticidi, cioè i bambini uccisi subito dopo il par-to.Sono i bambini gettati nei cassonetti o in un prato, figli di prostitute o di ra-gazzine che hanno nascosto la loro gravidanza a genitori che non hanno volu-to vedere.Creature partorite nell’abbandono morale o materiale,nel bagno dicasa o nel chiuso di una stanzetta. Grida di dolore e pianti soffocati da un cu-scino nella notte solitaria, fino all’assurdo. Come accaduto nel novembre del2004 in un convitto di Siena per studentesse universitarie dove una ragazza di19 anni ha ucciso il figlio partorito da sola nella stanza e lo ha tenuto chiuso inuna valigia di tela per 15 giorni. Drammatica nella sua crudeltà è anche la sto-ria di un’altra studentessa di Sedriano, nel milanese, nel novembre del 2000.Non si è limitata ad uccidere la bimba che aveva appena partorito.Prima di in-filarla ancora viva in uno zaino, che fu trovato sotto il letto della nonna, hapreso la cucitrice e ha spillato le labbra della neonata per impedire che il suopianto si sentisse.Anche lei aveva partorito in casa da sola.

Sono omicidi agghiaccianti. Storie di degrado, di paura, di ignoranza, in-concepibili ai nostri giorni nella cosiddetta società del benessere che ha da-to alla donna la possibilità di abortire o anche di lasciare un bimbo partori-to in ospedale.

Quel figlio non è mai stato voluto, è un puro incidente, un fardello dalquale liberarsi in un modo o in un altro. È una cosa. Ma non c’è stato, sem-bra cinico affermarlo, alcun rapporto reale tra madre e figlio. Per questemamme è come se il loro corpo avesse subito che un altro piccolo corpo sialimentasse e crescesse all’interno del proprio. È bastato recidere il cordoneombelicale per segnare il destino della creatura più fragile e indifesa. Dico-no che somigliano a vere e proprie interruzioni di gravidanza oltre tempo.Per la legge sono punibili con la reclusione da 4 a 12 anni, una condanna piùmite rispetto ai figlicidi che evidentemente sono ritenuti ancora più assurdi.Avvengono dopo il primo anno di vita, quando un rapporto si è dunque in-

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staurato. La mamma ha atteso quel bambino. Tutta la gravidanza a fantasti-care su di lui.“Si chiamerà Marco, o Andrea”. Poi l’ecografia. Il piccolo se nesta nel pancione. La mamma lo guarda sul monitor. Prodigi della tecnolo-gia. E si vede benissimo. Sembra quasi di poterlo toccare. È proprio un belmaschietto. Si mette il dito in bocca. Gli batte il cuoricino. Colpi forti, assor-danti.“Mamma mia…” esclama commossa “è davvero incredibile”.

Quella madre nel tempo ha avuto modo di accudire il suo bambino. Loha stretto a sé, gli ha dato da bere e da mangiare, gli ha cantato ninne nanneper addormentarlo la sera, gli ha raccontato favole alla luce di una lampadi-na. Le sue mani, nel gioco delle ombre sulla parete, hanno creato conigliettie uccellini... Il piccolo ha sorriso, divertito... Tutto un mondo fantastico... Lamamma si è commossa.Gli occhi lucidi e una fitta nello stomaco.Gli ha det-to “non ti lascerò mai”. Poi l’ha difeso dal freddo, dal buio e dagli estraneicattivi ma non da se stessa. Per la legge sono omicidi aggravati dal rapportodi parentela. La condanna può arrivare all’ergastolo.

Sono i delitti che fanno più paura perchè in bilico tra la normalità e la fol-lia. Accadono in famiglie nelle quali non c’è povertà, almeno materiale.

Dunque la pazzia sembrerebbe l’unica spiegazione.Eppure, stando agli stessi dati, solamente una donna su tre è folle. Le altre

vengono ritenute sane di mente in perizie stilate da psichiatri che non sem-pre però la pensano allo stesso modo. La gente inorridita sbotta “non si puòuccidere un figlio... È contro natura”. I medici, anche a Castiglione, si limita-no a replicare che l’istinto materno non è innato.

Le madri a volte hanno avuto problemi nell’infanzia. Covano un disagioche può diventare profondo. Qualcosa di più della malinconia. Ad amare avolte si impara o non si impara affatto. Non amare può essere la malattia.

Castiglione è una struttura abbastanza moderna, sorta negli anni Qua-ranta come semplice ospedale psichiatrico. Una serie di padiglioni in ungrande parco nei pressi della strada provinciale. Poche curve più su, salendolungo colline morbide ricche di viti dal sentore di vini buoni, si arriva inpaese, Castiglione delle Stiviere: zona di lombardi operosi, che maneggiano

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soldi e vivono bene, come in molte cittadine dell’alto mantovano, dove untempo governavano i Gonzaga. Lo stemma del vecchio Comune riproduceun cane che si alza sulle zampe posteriori in segno di fedeltà al suo signore.

Si respira aria pulita. Tutto è ordinato. Non c’è sporcizia nelle strade.La gente da queste parti, a Castiglione vi sono circa sedicimila abitanti, ha

sempre conosciuto i matti. Il vecchio ospedale psichiatrico era stato costrui-to a fine ottocento proprio dentro il paese. Muri alti e torvi che ancora oggisono in piedi, forse diventeranno miniappartamenti in un residence di lus-so, ma a guardarli fanno tristezza. Erano i tempi della psichiatria che nondava speranze ai malati. Chi entrava non usciva. Ed entravano a decine, an-zi a centinaia, perchè si nasceva folli o al massimo la follia, spiegavano i me-dici, tardava soltanto a manifestarsi come un marchio impresso a fuoco sul-la pelle. A Castiglione ne erano rinchiusi oltre mille in stanze che dovevanoessere simili a gabbie. La bestia della follia ben sigillata a un passo dal mon-do! E l’ospedale rappresentava una fonte di reddito della zona perchè in tan-ti avevano un componente della famiglia al lavoro tra le mura. Medici, in-fermieri, assistenti, cuochi o addetti alle pulizie. C’era un gran da fare.

Nei racconti di paese i matti venivano usati, a seconda delle esigenze, persuscitare timore o per far sorridere. C’erano aneddoti, storie vere o inventa-te, tenere e buffe. Si raccontava di Giuseppe, il figlio della Lella che fino algiorno prima sembrava normale poi una mattina si era svegliato, si era se-duto sul letto ed era tornato bambino. Disegnava solo case zeppe di comi-gnoli ! O di Mattia. La bocca che rideva sempre, un ghigno più che altro, an-che se c’era poco da stare allegri. Di Donato, appena un ragazzo. Quandostava seduto ballava e saltava, movimenti frenetici, che facevano sussultareanche chi gli stava davanti. Smetteva all’improvviso e si metteva a seguirecon lo sguardo la scia invisibile di una mosca o quello che poi si rivelava unpensiero… diceva:“da grande diventerò un brav’uomo”.

Le mamme di Castiglione, quando i bambini facevano troppi capricci,non avevano scrupoli… “guarda che se sei cattivo finisci lì dentro... In casti-go!” E la minaccia funzionava, eccome! Meglio della storia dell’uomo nero

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alla quale già non credeva più nessuno. Quando il sole spariva dentro al lagorisate e lamenti diventavano grida di corvi impazziti che andavano a popo-lare di incubi il riposo della pacifica gente di Castiglione.

Un giorno il grande ospedale che dava da vivere a tante persone è statochiuso ed è nato poco distante il piccolo Castiglione. Meno guadagni. L’in-differenza e a volte il fastidio.

“En po de pé,non ne possiamo più… ades ghe trop, forse ce mei che vaghesa casa so…” sbraitano i più intolleranti. “Non ne possiamo più… è meglioche ognuno torni a casa sua…”

Il fatto è che alcuni pazienti, terminato il programma di recupero, si sta-biliscono per sempre in paese. Sono nati altrove ma scelgono di rimanerenel luogo nel quale sono stati curati forse perchè non hanno altro. Il Comu-ne assegna agli ex malati alcuni miniappartamenti ma negli ultimi consiglicomunali è stata guerra.

La realtà ha sempre mille facce e c’è anche quella migliore.Al bar in paeseraccontano dei tornei di bocce ai quali da tre anni partecipano anche i citta-dini di Castiglione. La sfida è normali contro matti, ovviamente. E si diver-tono. Spesso vincono i matti. Ci sono scherzi e risate all’ombra del grandeparco che arriva su in cima alla rocca. Il torneo va avanti per giorni, si fa ami-cizia, si impara ad avere meno paura della follia.

Ma non è l’unica occasione di incontro tra la gente del posto e i reclusi.Un paio di volte alla settimana i pazienti che stanno meglio escono con glieducatori. Una passeggiata per piccoli acquisti o soltanto per mescolarsi al-la vita degli altri. Quelli che stanno bene. Li vedi arrivare in paese, a piccoligruppi, cinque, dieci persone. Anche la banalità può diventare una festa. Siguardano intorno, marziani sbarcati sul pianeta terra, camminano incerti, ilrespiro affannoso, ingoiano fette di vita, per gli altri usuale. C’e una signoraanziana nella piazza. Si arrabbia con il cane che tira il guinzaglio e gli parlacome se potesse rispondere. Strepita una moto che sbuca dal vicolo. È rossae lucida, l’ultimo modello… Il pilota è poco più che un ragazzo, giubbino dimarca, grinta da centauro. Hanno soldi i giovani da queste parti. Arriva il

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suono di una campanella, spezzato dal ruzzolare dei passi di bambini che siprecipitano in strada. Si rincorrono, gli zaini in spalla, gridano, prove di vo-ce e acuti come se fino a poco prima avessero avuto un bavaglio. Chi ha piùvisto un bambino vero da quando è a Castiglione?

I pazienti dello psichiatrico se ne stanno quieti sul marciapiede a guarda-re come fossero al cinematografo, poi si fanno coraggio. Ci sono le commis-sioni da sbrigare per chi non ha avuto il permesso di uscire.Tirano fuori dal-le tasche foglietti con gli appunti… comprare un quaderno per Giacomo,una scatola di biscotti per Francesca, caffé… parole crociate… sigarette perAndrea… Tutto qui.

Di incontri con i “pazzi” ne sa qualcosa anche la signora Paola. Gestiscel’agriturismo alla curva della strada provinciale, a pochi metri dal cancellodello psichiatrico.

Anche io ho dormito lì, nelle grandi stanze con le travi di legno al soffitto.Da lei arrivano spesso le famiglie dei reclusi. Pernottano e mangiano. Qual-che volta, da quando usufruiscono di permessi speciali, i pazienti hanno po-tuto trascorrere qualche ora nel salone dell’albergo e fare due chiacchierecon i loro cari. La signora Paola li ha guardati nel via vai del servizio ai tavo-li.“A volte le famiglie mi sembrano più strane di loro”commenta con la fac-cia di chi teme di dire una cosa brutta. La voce tradisce l’inquietudine e si ca-pisce che ha tanti interrogativi dentro.

Le regole dell’ospedale psichiatrico puntano al massimo dell’autono-mia. Ognuno può gestire i propri soldi. Maschi e femmine possono muo-versi liberamente all’interno dei loro settori, a meno che non siano sottoosservazione, e possono stare insieme nelle attività comuni assistiti daglieducatori. Chi ha raggiunto un grado di autonomia molto elevato può or-ganizzare sia il pranzo che gli orari della propria stanza da letto, tenendoconto degli impegni riabilitativi da portare avanti. I familiari possono ac-cedere alla struttura tutti i giorni, come in un ospedale qualsiasi. Ma chi havoglia di venire a trovare così spesso un matto? Per diciotto pazienti c’è lapossibilità di venire inseriti nel servizio di continuità riabilitativa, una sor-

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ta di comunità diurna, nella quale si cucina e si mangia insieme e ci si dedi-ca a progetti specifici, come il laboratorio di restauro, la falegnameria, lagrafica e la sartoria. Chi sta meglio può anche partecipare a corsi di forma-zione professionale all’interno dell’area riabilitativa o presso enti della Re-gione ricevendo anche un piccolo rimborso spese.

A Castiglione ci sono i campi da tennis, la piscina, la palestra, si organiz-zano tornei di pallavolo, di carte.

Parlo di tutto questo, mentre percorriamo in macchina il viale alberatosino al grande cancello di ferro dell’ ingresso, con Antonino Calogero. Lavo-ra a Castiglione da trenta anni.Ed è direttore dal 2003. Il suo è un bagaglio diesperienza unico in Italia e forse in Europa.

Antonino Calogero è un siciliano di Comiso ormai divenuto un uomodel nord. Gli piacciono le passeggiate lungo il lago con la sua famiglia. “Cisono posti bellissimi da queste parti. C’è attenzione per la natura. Si vive be-ne”. Calogero ha il passo veloce di chi ha molte cose da organizzare ma nonha fretta nella conversazione che è pacata e attenta. Della sua terra conservai modi schietti e la carnagione di chi non ha dimenticato l’odore delle estatie torna volentieri a cercare il sole caldo del mezzogiorno.

Mi spiega che non è facile far andare avanti una struttura come Castiglio-ne che ha progetti ambiziosi e su cui sono ormai puntati i riflettori. E nonsempre tutto è andato bene. Calogero non era ancora direttore quando nelgennaio del 2000 scoppiò lo scandalo della love story tra un infermiere e unapaziente. Le cronache locali parlarono di stupro e festini a base di droga.Erano state scoperte alcune lettere d’amore nella stanza di una paziente cheaveva ucciso la figlioletta. Erano state trovate lettere anche a casa dell’infer-miere. Si raccontarono particolari da commedia all’italiana. La donna, fuscritto in alcune relazioni ufficiali piuttosto discutibili, era bella e seducen-te, una sorta di femme fatale in lotta con la sua follia. Tutti sapevano e nonavevano parlato. L’infermiere fu trasferito.

Qualche tempo fa invece vi sono state interrogazioni parlamentari perl’apertura di una sezione sperimentale per minori in un’ala della struttura,

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poi chiusa. Ma ogni volta che una madre uccide si torna a parlare dell’ospe-dale psichiatrico, con una curiosità a volte sin troppo morbosa.

Antonino Calogero negli anni trascorsi a Castiglione, prima da medico epoi da direttore, un periodo che equivale ormai a una vita, ha cercato dimettere in pratica quel che a noi presunti sani sembra impossibile. La ma-lattia, il dolore, non vanno giudicati. Guai a cadere nella trappola della con-danna. La sofferenza va compresa e se possibile curata.

Dinanzi a quelle vite ha tentato di porsi con il massimo dell’obiettività. Hatracciato una statistica, studiando quattordici casi, che forse fornisce qualcheelemento in più di analisi su un fenomeno così drammatico. Secondo gli ul-timi dati disponibili le donne che hanno ucciso i loro figli provengono ingran parte dal nord, forse perchè nel più arretrato sud la famiglia ha ancoraparziali reti di protezione non strutturate. Una nonna, una zia, persino unaprovvidenziale vicina di casa pronta a spiare dalla finestra e a “intuire”. In-somma qualcuno disposto a soccorrere chi inizia a perdersi. Prima di essereavvinghiato dalla follia. E, in qualche caso, a salvare le vittime ignare, i bam-bini.Le madri che uccidono sono abbastanza giovani,hanno in media 36 an-ni, un titolo di studio non elevato, la licenza media, e in nove casi su quattor-dici rimangono sole, abbandonate dal partner che non è riuscito a sostenerepsicologicamente le conseguenze dell’accaduto. Ma la famiglia di origine, ilpadre, la madre, quasi mai recidono il loro rapporto. Restano, nonostantetutto, accanto alle figlie che sbagliano, figlie che hanno cancellato per semprela loro gioia di essere nonni ma non il fardello penoso di essere genitori.Spes-so, se le cure lo consentono, vanno a trovarle e sono pronti ad accoglierlequando è possibile un primo ritorno a casa.Tabelle,dati.Ma Antonino Calo-gero non è un burocrate. Gli occhi sono di chi sa andare oltre le apparenze.

Restiamo a lungo a parlare nel grande studio della direzione. Ci sonoscaffali pieni di libri e un grande tavolo per gli incontri settimanali di medi-ci e assistenti. Alle pareti, disegni incorniciati con immagini strane dai colo-ri forti.Alcuni li hanno fatti le pazienti. Mani che si contorcono e cercano diabbracciare il vuoto, visi squassati e deformi entro tinte dense, e il rosso del

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sangue e della paura. Eppure a Castiglione, in quel giorno di primavera ilmondo sembra avere un suono e una armonia tutta diversa. Mi sorridonogli addetti alla portineria e hanno soltanto un accenno di curiosità per il miolavoro. Gli infermieri, i pochi che incontrerò in quelle ore potendomi limi-tare a un saluto e ad una breve presentazione, hanno il passo leggero, nientea che vedere con i secondini. Nei corridoi è impercettibile il tintinnio deimazzi di chiavi custoditi nelle loro tasche. Le scarpe appoggiate alle inferria-te delle stanzette del piccolo edificio dove sono anche le madri assassine ri-schiano però di riportare alla memoria altre sbarre. Fotografie di carceri e disolitudini, celle cupe e orride mura umide.

Qui tutto sembra invece, per assurdo, pacifico,pacificato, addolcito, alle-viato. E la follia pare essersi compiuta e dissolta in quell’unico atto atroceche ha condotto quelle madri sino a Castiglione.

Per questo in tanta pace, quelle urla strazianti che penetrano all’improv-viso nella stanza dove sono a colloquio con Manuela,una delle donne che haaccettato di raccontarmi la sua storia, mi fanno rabbrividire.

Arrivano da lontano, da un luogo imprecisato. Dal profondo. Un boatodella terra che si spacca ed erutta viscere, sassi, radici, conati di fuoco, buiepresenze e viscidi vermi. Tutto il male del mondo è in quelle grida che attra-versano le pareti. Le scuotono. Vorrei coprirmi le orecchie per non sentire.Ma non posso. Trafiggono l’aria. Echi interminabili. Mi stordiscono e lacera-no il mio cuore. Somigliano al grido in una tragedia greca.All’urlo di Medea.E quando infine si spengono lasciano il posto al pianto mesto di Manuela.

L’appuntamento

Qualche minuto prima dell’incontro con Manuela, il prof. GiuseppeGradante, il primario del reparto nel quale sono ricoverate le madri assassi-ne, mi aveva accolto quasi scusandosi. Un velo di preoccupazione negli oc-chi. “C’è qualche problema. La signora proprio questa mattina si trova in

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una condizione di instabilità.” Non ho compreso bene cosa potesse signifi-care. Per timidezza o per timore non ho chiesto spiegazioni. Ho pensato cheil destino aveva deciso per me e che gli appuntamenti tanto attesi sarebberosaltati. Forse, per un attimo, mi sono sentita persino sollevata.

L’ho seguito, docilmente, lungo il vialetto di ghiaia e sassolini che condu-ce al padiglione delle donne parlando del più e del meno ma cogliendo neisuoi occhi la curiosità e una domanda silenziosa:“Perchè sei qui, cosa sei ve-nuta a cercare.”

“È una giornata bellissima. Sembra estate” commentiamo. Nel prato, filid’erba appena umidi della rugiada di un mattino pulito e senza nuvole. Miperdo con lo sguardo tra le goccioline d’acqua, nel verde intenso e mi sor-prende lo scatto di un cancelletto e il rumore della chiave che il dottore ha ti-rato fuori dalla tasca dei pantaloni. Una serratura per la porta che si apre suun altro mondo. Dentro, un corridoio, stretto e anonimo. Non c’è nessuno.Mi chiedo in quale altro luogo siano finiti i pazienti, perchè quel silenzio ir-reale a metà del mattino. Ed è solo attesa. Sono rimasta così per minuti,quanti non so, a guardare la parete spoglia dinanzi a me, impaurita.A cerca-re un segno nella stanza, un indizio di quanto sarebbe accaduto a me stra-niera nella casa.

Così quando la porta dello studio si è aperta e lei è entrata, un manichinoal fianco del dottore, non ero pronta. Le presentazioni sono surreali.

“Buongiorno, come va? Sono la giornalista che vuole scrivere un libro sudi voi.”

“Sì certo…”risponde lentamente, come se la sua voce facesse fatica ad ar-rivare anche alle sue orecchie “io sono… ma posso cambiare il mio nome,vero?”

“Certo non interessa il suo vero nome… la ringrazio per aver accettatoquesto colloquio. Capisco quanto le costa.”

“Bene allora vorrei essere chiamata Manuela... Era una mia collega di la-voro.”

“Era molto affezionata a questa collega?”

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“No… era tanto tempo fa... L’ho persa di vista. Mi piace soltanto il nome.”Per sua figlia, la bimba che ha ucciso, sceglie il nome Debora. Senza dare

altre spiegazioni.E siamo rimaste sole.

Facce

Mi sono chiesta decine di volte durante il viaggio in treno da Roma a Ca-stiglione che faccia ha il dolore. Se ha gli occhi storti, il naso deforme, i ca-pelli appiccicati di quella signora che, avevo forse quindici anni, saliva ognigiorno alla stessa fermata dell’autobus davanti alla mia scuola e imprecavacontro noi ragazze che scappavamo da un sedile all’altro. Cercavamo di nonfarci vedere, strattonandoci, sghignazzando. Lei diceva parole turpi e le gri-dava proprio a noi che non le avevamo fatto nulla. Urlava zoccole, che a Ro-ma come molti sanno significa donne di malaffare. Bastava che l’occhiostorto le saettasse su una di noi, la meno agile in quell’assurdo gioco a na-scondino, se l’autista frenava a un semaforo o a una curva, per beccarsi unaraffica di parolacce degne di uno scaricatore di porto. C’era sempre peròqualcuno informato più degli altri tra i passeggeri in grado di spiegare ainuovi arrivati : “poveretta. Un giorno di punto in bianco il marito l’ha la-sciata per un’altra più giovane e lei è impazzita.”

Ad Anita, credo si chiamasse così, noi ragazzine fresche, colorate di ma-gliette alla moda, i pantaloni scampanati, i capelli lunghi e scomposti, losguardo ingenuo, non come le lolite di adesso, dovevamo comunque sem-brare voraci maliarde e intriganti seduttrici… le sirene colpevoli della suasofferenza. E lungo il tragitto, poche fermate d’autobus che l’avrebbero con-dotta nella solitudine della sua casa, la povera donna gridando e imprecan-do diventava sempre più brutta e con gli occhi sempre più storti.

Pensando al dolore mi sono ricordata anche del volto invasato, i capelliritti in testa, gli occhi sgranati e i denti rossi di gengive malate, di quell’altro

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pazzo che vestito di tutto punto camminava avanti e indietro in piazza sanGiovanni e aspettava tamburellando nervoso le dita sempre sullo stessogiornale tenuto sottobraccio. Faceva ampi passi, ruotava su se stesso condietrofront degno di un soldato e muovendosi a scatti, come una scossa atratti nella testa, guardava l’orologio in attesa di qualcuno che non sarebbemai arrivato. Lo chiamavamo il pazzo dell’appuntamento e come Anita chediceva parolacce, il suonatore della stazione Termini che si esibiva con sco-delle e pentole, il folle di corso Francia che ancor oggi si pulisce la bava rove-sciandosi catini d’acqua sulla testa, appartengono ormai all’iconografia diuna grande città. Elementi naturali. Tragico folklore. Come lo scemo che untempo suo malgrado accoglieva i forestieri all’ingresso del villaggio.

Ho ripensato alle foto che Cesare Lombroso commentava per tentare ditrovare corrispondenze e relazioni tra la pazzia e il crimine nei volti.

“Donna omicida, labbra tumide, fisionomia virile. Donna parricida. Ar-chi sopraccigliari e seni frontali assai sviluppati, rughe strane, fronte sfug-gente, zigomi e mascelle molto sviluppate, labbra sottili…” e così via, unsorprendente campionario che annoverava per ogni specifico delitto defor-mità delle mascelle o delle orecchie, queste ultime quasi sempre troppo svi-luppate. Del resto Lombroso diceva che una donna che uccide il figlio non èpiù una madre ma uno scherzo maligno della natura e assai maligno di con-seguenza doveva essere il suo aspetto.

Pensieri grotteschi. Ridicoli dinanzi alla persona che ho davanti. Manue-la non dice parolacce, non suona pentole, non salta come una assatanata enon ulula alla luna, forse perché la scienza ha posto in parte fine a tutto que-sto. Lo ha guarito, lo ha camuffato o, scoprirò dopo, lo ha solamente in par-te nascosto.

Eppure Manuela è l’immagine del dolore. È come se il dolore non potes-se essere rappresentato che attraverso di lei, la sua voce e i suoi gesti, al pun-to che mi scopro a provare immediatamente nei suoi riguardi un sentimen-to di protezione, a parlarle con dolcezza e a sentirmi più adulta e matura diquanto in effetti non sia.

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Indossa una bella maglietta azzurra, i pantaloni blu. È magrissima. Ha icapelli scuri tagliati alla maschietto, un ciuffo dritto sulla fronte che la fasembrare quasi una bambina, una monella capricciosa disegnata dalla fan-tasia di uno scrittore di racconti per adolescenti. Un personaggio buffo e di-spettoso. Ma gli occhi, gli occhi scuri, sono già umidi. Ha pianto. Di Manue-la, ancora prima di sprofondare nel suo dramma, mi colpisce proprio la fra-gilità dello sguardo. È seduta davanti a me, le due poltrone così vicine che lenostre ginocchia quasi si sfiorano, ma i suoi occhi continuano a fuggire ver-so un punto che passa esattamente sopra la mia testa, verso la finestra e inse-guono un orizzonte lontano che per lei è un approdo. Soltanto qualche vol-ta riuscirà a guardarmi davvero, a raggiungermi e a sintonizzarsi. Comequando per troncare il terribile imbarazzo dell’incontro, le chiedo se guardala televisione… se vuole potrà vedermi qualche volta… ma non ho teleca-mere e di certo non scatterò foto. Non sono un nemico e non voglio farle delmale. E allora abbozza un sorriso e mi racconta che a Castiglione tutti pos-sono vedere la tv e scegliere i programmi che desiderano anche quando lecronache sono terribili, come il delitto del piccolo Samuele a Cogne e altrestorie di madri assassine.

Le racconto anche altro di me. Della mia vita. Della mia famiglia. Le dicoche ho una bambina, anzi una ragazzina. Lei piega appena la testa, lo sguar-do ha un barlume… dice:“davvero? Lei sembra così giovane…”

Le chiedo di fidarsi e non mi sentirò in colpa quando, in modo naturale,la nostra conversazione si spingerà sino all’abisso, violando il patto da mestretto con il dottor Gradante di limitarmi a un colloquio generico. Non sul“fatto”.

Manuela se ne sta con la borsetta rosso bordeaux sulle gambe e da quellaborsetta poi tirerà fuori il libro che, mi racconta, sta leggendo in quei giorni.Perros de Espana di Fabrizio Dentice. “Vede” mi dice sfogliandolo“è un libro divertente. Ci sono storielle su un tizio che deve fotografare alcu-ni cani per un concorso.”

“Ma riesce a concentrarsi, a leggere?” le chiedo.

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“Quando non sto troppo male, ci riesco. Questo libro mi piace davvero”risponde cantilenando mentre torna a custodire il libro nella borsetta.

Quando la tensione del nostro colloquio si fa più forte Manuela stringe laborsetta alla pancia, come la coperta di Linus, le lacrime le colano giù e ilpiede, che la natura sembra soltanto averle appeso alla gamba, come un ro-bot scarico inizia a oscillare avanti e indietro, come una altalena sulla qualeaddolcire l’amaro dei ricordi…

Maria Grazia non si ricordava molto della sua mamma. Sempre quell’esta-te, quando aveva quattro o cinque anni, e dopo che i bisbigli sulla piazza delpaese l’avevano colpita come pugni nello stomaco si era chiesta dove fosse an-data quella bella signora che qualche volta l’aveva portata a spasso. Le torna-vano nitidi alle orecchie soltanto i rumori di una grande città, clacson di mac-chine e tubi che sbuffavano fumi grigi vicino al suo naso, facce che la salutava-no da cartelloni colorati, negozi di bambole e animali di peluche grandi e mor-bidi che veniva voglia di abbracciarli. Le appariva come in un sogno l’immagi-ne di un orso bianco gigantesco con lo sguardo triste e le zampone alzate, piùimpaurito che minaccioso, che la guardava da una vetrina. Aveva occhi uma-ni. E c’era la giraffa. Aveva il collo così lungo che Maria Grazia doveva seguirlacon lo sguardo sù sù verso l’alto e alzarsi sulla punta dei piedi per vedere se la te-sta dell’animale sbatteva al soffitto... E c’era lo scimmione, peloso, con il figlio-letto buffo abbarbicato su una spalla. Le sembrava di avvertire un odore dolce,un richiamo penetrante che l’ attirava fino a una vetrina ricolma di torte a for-ma di castelli con alte torri e un lungo ponte levatoio, un principino e una fan-ciulla si tenevano per mano e dovevano essere lì da tanto tempo perchè i colorierano ormai opachi... Dentro al negozio c’erano bignè rigonfi di panna, va-schette colme di riccioli di crema e biscotti di ogni forma. A stella, a mezzaluna,tondi, quadrati, glassati di zucchero bianco, rosa e di cioccolato. In tale tripudiodi dolciumi a Maria Grazia sembrava di ricordare di aver scoperto la cosa me-

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no appariscente. Biscotti lunghi e piatti, gialli d’uovo con il bordo ambrato, di-sposti l’uno sull’altro come spighe. Si chiamavano lingue di gatto ed era forse ilnome a darle gusto. “Voglio quelli… quelli…” diceva alla signora che le tenevala mano e che sembrava però non avere voce. Una signora con i capelli scuri,forse, e gli occhi scuri, forse, ma più Maria Grazia si sforzava di ricordare e piùnel suo ricordo di bambina tutto si confondeva. Le sembrava di vedere un pro-filo, il colore rosso del lembo di un cappotto e mani candide, particolari che nonriusciva a comporre in un insieme, in una faccia. Come se la realtà fosse sbri-ciolata in mille pezzi e lei non riuscisse ad afferrarli.

Quel mosaico scomposto doveva essere una mamma e pian piano con la ca-parbietà che soltanto i bambini possono avere si mise in testa una idea che finoad allora, troppo intenta a mangiare caramelle con il nonno, non l’aveva nem-meno sfiorata. Se ogni bambino aveva una mamma, anche Maria Grazia ave-va una mamma. O l’aveva avuta.

Da giovane

Il racconto di Manuela sembra delineato da una tragica ineluttabilità,quasi che ogni segno premonitore dovesse essere ignorato o sottovalutato. Equello che lei riesce soltanto a chiamare l’incidente, dovesse necessariamen-te accadere.“In quel momento non avevo alternative”, mi dice. C’è, scavan-do nei ricordi, Manuela trentenne che si scontra con la prima profonda de-pressione all’indomani della morte della mamma, uccisa da un tumore aipolmoni che ne aveva stravolto l’anima e devastato il corpo. Non era Ma-nuela a occuparsene in prima persona. C’era suo padre. Ma quell’agonia,uno strazio senza conforto, Manuela deve averla respirata ogni volta tor-nando a casa dal suo primo lavoro. Un odore aspro di medicina, l’alito dellamalattia.

“Quando aprivo la porta sapevo che l’avrei trovata nel letto con il suo do-lore”. Non dice di più. Non parla di immagini liete del suo passato e non rac-

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conta altro di sua madre, della loro vita prima del tumore, come se tutto ilresto fosse stato annullato dallo stillicidio delle piaghe che ogni giorno ve-deva spuntare sul quel povero corpo. E come se la madre fosse esistita sol-tanto nella malattia.

È poco dopo i funerali che Manuela va dal medico. Sente di aver bisognodi aiuto, non ha pudori in questa sua debolezza. Manuela è una donnaistruita, lavora in un ufficio pubblico, è ragioniera. Del suo lavoro riesce adire, con un certo senso critico, che era bello ma un po’ monotono e ripeti-tivo. È del segno dei gemelli ma aggiunge con un sorriso appena accennato“no, non credo all’oroscopo. Le stelle mi dipingono loquace e superficialema io non sono così.”

Si affida a un medico. È la prima esperienza. Le viene somministratoqualche farmaco blando, per riposare meglio. Lo psicologo le parla di unadepressione reattiva dovuta a un avvenimento triste e la morte di una perso-na cara, di certo lo è. Riemerge da quella tristezza e per un po’di tempo spie-ga di essersi sentita anche più forte, più consapevole, più determinata. Ci so-no i progetti e i sogni di una giovane donna ad attenderla. L’incontro a 32anni con un uomo che le piace, il matrimonio in tempi piuttosto rapidi, ildesiderio di un figlio.

“Perché in fondo non eravamo più tanto giovani e non c’era tanto tempoda perdere.”

Insomma la voglia di costruire, mattone su mattone, una vita che avevarischiato di sbriciolarsi.

“Eravamo una coppia felice, non ci mancava nulla…” sussurra Manuela,con un sorriso amaro, quasi cogliesse la banalità dei tanti commenti lettisulla sua storia, a mente fredda, nelle pagine dei giornali. Un ritornello cheora suona beffardo.“Sì… che cosa doveva mancarmi?”

La storia di Manuela scorre mesta, senza sussulti, sino alla nascita di unabella bambina e al progetto di cambiare casa, di trasferirsi in un posto piùspazioso e sano, fuori dalla città dove tutto costa tanto e anche il sogno diuna stanzetta in più sembra proibitivo. Come tante coppie in cerca di pace,

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Manuela e suo marito decidono di trasferirsi in un paesino della cintura to-rinese, appena venti chilometri fuori, una distanza che in una grande cittàcome Roma è la norma ma che per Manuela diventerà uno spazio incolma-bile, un tuffo nel vuoto.

E così ci sono altre visite dai medici e altri farmaci.“Fin quando me ne so-no potuta andare in giro con la mia bambina abbracciata nel marsupio o nelpasseggino” singhiozza “mi sono sentita tranquilla. Il paesino era ospitale.La casa aveva un bel cortile per i giochi. A volte non c’era bisogno di andarea cercare un parco. Ero orgogliosa della mia bambina. Mi sentivo bene conlei… qualche volta mi fermavo a chiacchierare con le altre mamme, cose ditutti i giorni, consigli sulle pappe, come affrontare i piccoli capricci”.

La vita di Manuela scandita dalle necessità quotidiane. Dal fornaio a far laspesa, a comprare il latte, i pannolini che non bastano. La prima febbre diDebora. I primi mal di pancia… la festa di compleanno con le candeline…

Debora ha un anno quando Manuela la iscrive all’asilo nido perché devetornare in ufficio. Un distacco che tante mamme ricordano. Gli occhi incre-duli del loro bambino che si scioglie dall’abbraccio e si sente già tradito. La-crime che diventano singhiozzi perché “se la mamma è così preoccupata eha lo sguardo così triste anche se sorride, accade qualcosa di brutto e alloraio piango, anzi grido…”. L’ansia di consumare in fretta il tempo che separadal figlio. “Stai tranquillo, la mamma torna subito. Guarda quanti giochi cisono qui. Il cavalluccio a dondolo… e quanti bambini belli come te… vedisi stanno divertendo.Adesso canterete una canzone e tutti a battere le mani-ne… poi ti daranno anche un biscottino… quello che ti piace tanto… Eccola mamma ti fa ciao… fammi ciao con la manina …”

Ore lunghissime. Per Manuela l’ansia è già angoscia. Nella sua mente unaferita. Quei venti chilometri che la separano dalla sua Debora. Una distanzache lei percorre in treno come tanti altri pendolari. Ma giorno dopo giornoun pensiero, dapprima un’idea, poi una ossessione, inizia a soggiogarla.

“Sa” mi dice forse ricordandosi che sono una giornalista “lei lo sapràsenz’altro. La nostra è zona di alluvioni. Quando la pioggia inizia a cadere

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sono guai. Ce ne sono state di grosse anche in passato.Voglio dire di alluvio-ni. E così ho pensato che la pioggia avrebbe potuto fermare il mio treno.An-che in pulmann quando piove è un caos, non si va avanti. La pioggia miavrebbe impedito di tornare a prendere al nido la mia bambina”. È a questopunto, forse, che inizia il distacco di Manuela dalla realtà. Ogni cosa divieneinfinitamente ostile. Un fulmine che accende il cielo, il tuono assordante deltemporale, lo scroscio dell’acqua, la grandine che rimbomba sui tetti, la for-za della natura che a volte può essere davvero matrigna. Tutti questi elemen-ti devono esserle sembrati nemici implacabili. I suoi nemici.La violenza del-la natura contro di lei.

Avverto la disperazione di Manuela che ancora adesso è la sua realtà. Ènello stridore della sua voce che smette di essere cantilena di bambina e cre-sce di tono. Non ammette pause. Manuela mi racconta di aver imploratosuo marito, di avergli chiesto di cambiare casa e di tornare in città per starepiù vicina possibile a Debora. Il suo è un incubo che non ammette ragioni espiegazioni, perché ogni chilometro, ogni metro, persino ogni centimetroche la separa da Debora è già il vuoto incolmabile nella sua mente.

È disposta a lasciare quell’uomo che le appare restio a comprendere la suadifficoltà. Anche lui è divenuto un nemico. Come i venti chilometri…

La depressione torna a impadronirsi di lei e c’e una litania monotona dimedici, di colloqui che probabilmente non le sfiorano l’ anima, di farmaciche placano ma non curano,di ripetute assenze dal lavoro.Ci sono gli sguar-di di colleghi imbarazzati e pietosi che non possono capire quel dolore ac-quattato in fondo allo stomaco. Manuela vorrebbe dormire e non svegliarsi.Uno, due, tre, quattro lunghissimi anni. Giorni che finiscono per somigliar-si tutti, che scorrono lenti, implacabili, in attesa di una luce che non si ac-cende. È l’estenuante calvario di una giovane donna. In fondo c’è il baratrodella malattia.

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Nonostante tutto Maria Grazia trascorse giornate bellissime in quel paesinodel sud. Anche perchè le sembrava che tutti le volessero un gran bene. Il nonno,principalmente, che come si è detto, non perdeva occasione per comprarle cara-melle e ogni tanto si accalorava in lunghi racconti, per lei in verità incompren-sibili. Parlava delle vicende di un certo banditu Giulianu un personaggio chedoveva essere stato assai famoso in zona. Maria Grazia non aveva chiaro dairacconti del nonno se il bandito fosse una leggenda come un certo Robin Hooddel quale qualcuno le aveva parlato, o fosse un uomo vero in carne e ossa. E so-prattutto non capiva se fosse buono o cattivo, perchè il nonno le narrava di ag-guati e inseguimenti con i carabinieri, e nella foga Maria Grazia non capiva chiinseguiva chi, e chi era inseguito.

Erano in tanti comunque a comprarle caramelle, coca cola e pizza morbidaimbottita di formaggio fuso con quell’aroma inconfondibile che si sprigionavadalla focacceria poco distante.

Tutti quelli che abitavano nella grande casa dai soffitti altissimi e dai balcon-cini stretti affacciati sulla piazza più bella del paese, ne era certa, tutti le voleva-no bene. I suoi cugini. Carmelo, un adolescente dall’aria discola. Puccio, il piùgrandicello, dallo sguardo protettivo e gli occhiali da professorino. La zia Raffa,panciuta e con le gambe che sembravano arcuarsi ogni giorno di più, tanto cheMaria Grazia si chiedeva sino a che punto potessero piegarsi senza rompersi. Equel tipo buffo dello zio Gasparotto, uno che non si capiva mai quando facevaper scherzo o quando sul serio, perché parlava con voce solenne sia nelle occasio-ni tragiche che in quelle allegre. Maria Grazia aveva imparato a guardarlo drit-to nelle palle degli occhi anche se lui tentava di nasconderli dietro occhiali spes-si. Guardava come in un tunnel e capiva se lo zio Gasparotto stava scherzando ene stava combinando una delle sue. Lo chiamavano “u dutturi” e di certo era unmedico perché in ogni armadio o ripostiglio della casa c’erano scatole di medici-ne, pasticche, bustine di vitamine all’arancia che si scioglievano frizzando nel-l’acqua e che a Maria Grazia piacevano tanto. Al gioco delle carte lo zio era im-battibile. Barava e non aveva pietà di lei. Poi trovava mille modi per farsi perdo-nare. La coccolava. L’addolciva anche quando Maria Grazia faceva i capricci, si

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impuntava e teneva il broncio per ore come quella volta che lo zio Gasparotto leaveva fatto il solletico sotto i piedi mentre dormiva e lei si era arrabbiata tanto,anzi tantissimo. Era schizzata dritta sul materasso con le braccia sui fianchi e gliaveva gridato “non farmi mai più il solletico o ti farò frustare dal mio schiavo”,un personaggio immaginario che avrebbe dovuto vendicare Maria Grazia per leingiustizie subite. Del resto se tutti la trattavano come una principessina e l’as-secondavano, pensava tra sé e sé Maria Grazia, tanto valeva approfittarne. For-se le volevano così bene perché qualcosa non era andato per il verso giusto…

L’incidente

Qualche giorno prima di quello che Manuela continua a chiamare l’inci-dente lei è in casa con la sua bambina. È l’ora del bagnetto e quel giorno sisente meglio del solito. Ha dormito e il risveglio è stato meno faticoso. È riu-scita a fare tutto quello che viene richiesto a una brava mamma.

“Ecco l’acqua è pronta… metti il ditino… no, non scotta… dai Debora,scegli la saponetta profumata… limone, arancia... Di che colore la vuoi og-gi? Guarda che bella questa. È a forma di fragolina… odora davvero di fra-gola...”

Mamma e figlia si scambiano tenerezze, coccole, sorrisi, spezzoni di vita.“Come è andata oggi all’asilo? La maestra mi ha detto che hai fatto un di-

segno… hai disegnato tutta la nostra famiglia? E come sono io?”“Mamma tu sei bellissima …”“Quando avrai finito di colorarlo lo porti alla tua mamma...Vero?”Manuela racconta che in tanta quiete d’un tratto Debora le avrebbe detto

“mamma, mi brucia tanto qui… qui nella patatina …”La piccola chiede un po’ di borotalco, per alleviare il bruciore. Niente di

strano, forse un po’ di pipì le ha irritato la patatina, forse il sudore.Manuela prosegue il suo racconto:“Le ho messo il tantum rosa e lei mi di-

ceva mamma un po’ più in qua, mi guidava la mano, e poi sospirava gemen-

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do, faceva ah,ah… Mi si è bloccato il respiro.Allora ho chiesto alla mia bam-bina perché gemesse e lei mi ha detto perché sono venuta…”

Una frase impensabile per una bambina di appena quattro anni.È a questo punto che Manuela mi guarda per la prima volta negli occhi. È

uno sguardo che non ammette repliche. Disperato. Sembra chiedermi dinon essere lasciata sola nei suoi incubi.Vuole essere creduta nonostante tut-to e contro tutto. Implora, silenziosa, compassione per la sua debolezza qua-si volesse da me una alleanza. Da madre a madre... E quale mamma in fondonon teme che la propria bambina possa essere infastidita da un pedofilo? Echi non ha letto quelle cronache sui giornali, storie di piccoli che pensano digiocare a nascondino e nel buio incontrano invece il lupo cattivo!

“Dai bella bambina, vieni a prendermi, sono qui…”“Ma io ho paura del buio… io non ti vedo, dove sei? No, non voglio più

stare qui… non mi piace stare qui… voglio la mia mamma.”Resto in silenzio, stordita. Mi chiedo se il racconto che ho appena ascolta-

to fa parte dei ricordi, riemersi dal buio della sua infanzia. Se lei, Manuela,non abbia subito violenze da qualcuno e l’abbia nascosto. O se a parlare èl’urlo rabbioso degli spettri che le sono andati a far visita e che pretendonodi essere ascoltati. Tutto quell’orrore che grida dal profondo di Manuela!

La verità è che nessuno ha mai toccato la sua Debora. La storia che Ma-nuela mi consegna è la commedia orchestrata dalla sua mente, un pietosogioco a scacchi con la realtà.

Mi guarda, e sono io che non riesco a sostenere il suo sguardo. Cerco unappiglio,un pensiero che mi porti lontano.Un rumore.Un suono che mi di-stolga da tutto questo. Anche solo il cigolio di una porta. Ma c’ è soltanto si-lenzio. Ho le gambe deboli. Fa caldo nella stanza ma mi sembra di avere ibrividi.

Manuela mi racconta che la sera prima dell’incidente ha provato a parlarecon il marito della bambina e delle sue preoccupazioni, insomma “di queidubbi e della patatina che brucia”ma lui era troppo intento a sfogliare alcu-ne riviste.

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“Stava lì, seduto in salotto, stanco alla fine della giornata di lavoro. Mi so-no avvicinata, ho tentato di dire qualcosa… ma non ricordo molto... Sonostata zitta… che cosa avrei potuto dire?”

Mi spiega che quella notte non è riuscita a prendere sonno. Lo sguardo alsoffitto, la bambina, che da qualche tempo aveva iniziato a dormire sola nel-la sua stanzetta, ben stretta accanto a lei. Tutta la notte nel lettone. Una par-te non scindibile di sé. Una parte della sua follia. Inutile cercare di chiedersiin quali territori sia andata la mente di Manuela in quelle ore, quali deliri leabbiano fatto compagnia, consiglieri supremi e padroni della sua volontà.Perché tutto deve esserle sembrato estremamente necessario. Una missioneda compiere. A ogni costo. Stringendo Debora al petto in quel lungo ab-braccio letale, fino ai rintocchi dell’alba, in un sussurro Manuela deve averconsegnato alla piccola Debora la sua folle promessa. “Ti porterò con me,non ti lascerò sola”. Un viaggio nell’inferno.

La mattina dopo Debora piangeva, ricorda Manuela, non voleva andare ascuola, faceva i capricci come li fanno tanti bambini, non voleva vestirsi.Una triste inquietudine. Manuela dentro di sé covava quel morbo, pensava“non posso mandare la mia bambina a scuola, dove soffrirà, dove qualcunopotrebbe farle del male, dove forse c’è il lupo cattivo… non posso conse-gnarla ai suoi aguzzini…”

Deve salvarla. Quella mattina rimane a casa. C’è lo sciopero dei treni econtrariamente al solito non è il marito ad accompagnare la bambina ascuola.

Di quella mattina il marito, interrogato dagli inquirenti, racconta: “sonouscito alle 8.30. Mia moglie mi aveva semplicemente detto che a causa dellosciopero dei treni non sarebbe andata al lavoro e che quindi avrebbe accom-pagnato lei la bambina all’asilo.”

Manuela resta sola con i suoi tormenti, nella casa nella quale Debora sa-rebbe dovuta diventare grande. Mano nella mano Manuela l’avrebbe ac-compagnata un giorno alle elementari. La scuola con i compiti. I libri da in-filare nello zaino. Il suono della campanella: “su, corri Debora, se no fai tar-

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di...” e poi le medie, il liceo. Ci sarebbero state altre candeline da spegnere,regali da scartare e sorrisi, giochi, ore liete e fatiche. Rughe a solcare gli occhidi Manuela non più ragazza.Ancora notti con gli occhi spalancati nel vuoto.Pensieri. Paure. Lacrime da condividere. Una mamma e una figlia. Il presen-te si è invece fermato lì e il futuro non è mai arrivato.

Manuela va in cucina. Apre un cassetto, prende un coltello. Quanti minutideve essere rimasta con quell’arma in mano, nemmeno lei lo sa. Cosa possaaver detto alla sua bambina mentre le straziava il corpo nemmeno lei ricorda.

“Non volevo più farla soffrire” singhiozza con una vocina che torna a es-sere di bambina “e l’ho uccisa… Debora è rimasta a terra con gli occhi chiu-si… come se dormisse…” grida.

Poi Manuela volge il coltello verso di sé sul suo petto. Si sferra, dice, alme-no sei coltellate, si taglia i polsi ma, urla sempre più disperata sgranandoquegli occhi scuri e bui,“non riuscivo a morire …”

“Era una bambina di quattro anni” mi dice Manuela quasi cercando inme la risposta a quanto le è accaduto “si poteva già fare qualche discorsetto...avevo fatto tanti sacrifici per crescerla… era la mia vita…”

Le cronache di quel freddo giorno d’inverno del 2004 raccontano che Ma-nuela fu trovata dal marito. A metà mattinata aveva telefonato a casa. Nonaveva risposto nessuno ma non si era preoccupato. Aveva deciso comunquedi rientrare per il pranzo.“La porta era chiusa” si legge nei verbali “sono en-trato e ho visto.La bambina straziata.Manuela era in un lago di sangue ma re-spirava ancora.”L’intervento del marito contribuì in maniera decisiva alla sal-vezza della moglie. Manuela si era colpita almeno una decina di volte, di cuiuna in modo più profondo, all’emitorace sinistro. La lama le aveva leso unpolmone.“Operata - scrive l’agenzia Ansa - versa in gravi condizioni in riani-mazione ma non è in pericolo di vita”. La piccina era già morta da ore. Il me-dico legale ha contato almeno cinque coltellate. Un conoscente, un vicino dicasa al quale il marito di Manuela si era rivolto in cerca di aiuto e che avevapotuto vedere la scena dentro l’appartamento, riferisce “la bambina era rag-gomitolata su un fianco come se dormisse, la mamma giaceva sulla schiena.”

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Un altro vicino di casa nelle ore successive alla tragica scoperta, raccontaai giornalisti: “la bambina era carina. I genitori la riempivano di coccole. Levolevano bene… ma Manuela era spesso triste. Talvolta scoppiava a piange-re per strada. Ogni tanto i servizi sociali le facevano visita. Io l’ho persinoportata dal parroco perché le desse un conforto psicologico.”“Ma evidente-mente” interviene un altro conoscente “non ci siamo del tutto resi contodella gravità della situazione.”

Nei giorni successivi nelle cronache vengono riferiti altri particolari. Ma-nuela secondo i sanitari che l’avevano in cura “era affetta da una forte sin-drome depressiva ma negli ultimi tempi sembrava migliorata e in ogni casodurante le cure non si erano mai registrati segnali che facessero pensare aduna esplosione di aggressività. Aveva anche progettato di comprare unamacchina nuova…”

In particolare la direttrice della struttura sanitaria presso la quale Ma-nuela veniva curata dichiara che la donna era seguita con assiduità e che ilmarito era un uomo sensibile.“Le è stato sempre vicino” spiega la direttri-ce. “La sera prima del fatto aveva notato che la moglie era un po’ ombrosama non gli era sembrato niente di preoccupante, diversamente ci avrebbetelefonato.”

C’è un uomo dolente ai funerali della piccola Debora. Un uomo grande egrosso, i capelli brizzolati, le braccia a cingersi il giaccone che sembra non ri-pararlo abbastanza dal vento che anche quel giorno sferza la piccola cittadi-na del nord: tempo schifoso, luce fioca che rende tristi sin dal mattino. Ilfreddo gli sta ghiacciando l’anima. La gente gli si serra attorno, scorta il cor-teo funebre. Ci sono almeno un migliaio di persone accanto alla piccola ba-ra bianca. Sopra soltanto un mazzo di fiori. Durante la cerimonia il maritodi Manuela trova la forza di prendere la parola. Ha parlato altre volte inquella chiesa. È un uomo molto religioso.

“Vi chiedo di non cercare per forza una spiegazione a questo fatto tragico,il Signore talvolta dà e talvolta toglie. Sono stati anni nel deserto… io speroche Debora sia fonte di grazia per questa terra ora.”

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Poi parlando della moglie, quasi un estremo saluto come se Manuela nonci fosse più,“era una persona dolce che non voleva nulla per sé, avevamo dueconcezioni diverse della vita.”

Il padre di Debora non ha voluto fiori ma offerte da destinare ai bambinidel Terzo mondo.

Manuela non c’era ovviamente ai funerali della figlia. Il prof. VincenzoVillari, lo psichiatra dell’ospedale nel quale Manuela ha ricevuto le primecure subito dopo la tragedia dichiara:“la manteniamo in una sorta di sonnoindotto simile al dormiveglia, quando non si percepisce bene il limite tra ilsogno, il sonno e la realtà. Tutto questo è voluto… perché è meglio che alpieno senso della realtà lei arrivi piano piano, accompagnata.”

Nel sonno Manuela continua a pronunciare il nome del marito e della fi-glia. Vuole sapere come stanno. Sempre il prof. Vincenzo Villari aggiunge:“le condizioni psichiche della donna sono molto critiche, poco importa chein periodi recenti sembrasse più serena perché questo tipo di psicosi ha svi-luppi lenti, anche di anni, e presenta elementi di rischio anche incalcolabili.”

Ha pianto Manuela. Lacrime forti, impetuose. Poi gocce, come al rallen-tatore una, due, tre, mi sembrava di poterle contarle. Dense, pesanti, comefatte di colla, colare giù, in un tempo scandito da dieci o mille clessidre, finoalle sue labbra gonfie di bambina. Lei, sempre più minuta, la schiena curva.Le ginocchia si sono ritratte e sono rimasta immobile… pochi centimetril’una dall’altra, eppure distanze incolmabili. Nel silenzio, assurdo attorno anoi, ho sentito solo il mio deglutire a fatica e ho sperato ancora una volta chequalcuno interrompesse, entrando nella stanza, la sua sofferenza. E il dolo-re che guardandola mi aveva impastato la bocca. Anche la mia di colla.

Sono stata io a un tratto, quasi brusca, a dirle: “basta così, può andare…abbiamo finito… la prego non pianga...”, congedandola in modo pessimocome fanno gli psichiatri nei film. Ma era il mio tempo a essere scaduto, lamia umana fragile possibilità di sopportare tanta angoscia. Le ho stretto for-te la mano trattenendola nella mia. In piedi vicino alla porta. Pensando, atorto, che non avrei più avuto la possibilità di rivederla. È riuscita quasi a

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sorridermi intenta con il fazzoletto ad asciugare quelle strane lacrime e haaccostato di nuovo la borsetta alla pancia, per proteggersi.

E la sua voce:“non so se sono riuscita ancora a perdonarmi… i medici midicono che Debora non soffre e che è come un angelo che mi guarda da las-sù… ma quando l’ho fatto non avevo alternative…”

Sono tornata a sedermi. Sola. Il dolore è diventato ribellione. Una rabbiache avrebbe voluto spaccare il mondo. Mi sono chiesta se tutti attorno a Ma-nuela hanno finto di non vedere o non sono stati capaci di capire. Si girasempre la testa dall’altra parte e si aspetta fingendo che il bene trionfi. E hopersino odiato gli uomini in camice bianco. Non ho avuto pietà per loro,imperfetti. Ho pensato a Debora, alla sua bambina com’era in una foto. I ca-pelli ondulati, la pelle del viso morbida… odore di pesca, fragola, nuvole disoffice borotalco.

Ma in fondo si somigliano tutti i bambini a quella età. Ho guardato i suoiocchi dolci e grandi riempirsi di terrore, spalancati in una fuga impossibile.E dentro, un tormento senza risposta.

Per Manuela, per Debora, si poteva fare qualcosa di più?

Maria Grazia aveva i capelli neri a caschetto e la frangia finiva su enormiocchi scuri e furbi. Non stava mai ferma. Così dicevano gli zii, il nonno e gliadulti che le vivevano accanto. Insomma era una specie di diavoletto, vivace,curiosa. Forse per questo un giorno tanto tempo prima era accaduto quello chei grandi definiscono un guaio, anche se a esser sinceri, Maria Grazia non eracerta di come fossero andate davvero le cose. Innanzitutto le sembrava di ricor-dare un palazzo, una stanza con i soffitti meno alti di quelli della casa del non-no, una rampa di scale, un grande portone che si affacciava su una strada dallaquale si scorgeva una piazza tonda con tanti alberi e le panchine con le mammesedute e i bimbi sul triciclo. Attorno a rumori assordanti e l’odore forte dellacittà. Maria Grazia usciva dal portone mano nella mano con la signora dai ca-

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pelli scuri. Camminavano svelte, nel via vai della gente che affollava il marcia-piede. Maria Grazia faceva fatica a mantenere quel ritmo perché era piccina,ma aveva pregato le sue gambette di accelerare il passo quando le era sembratodi capire che la meta era quel negozio dove si vendevano i biscottini, le lingue digatto e certo la bella signora le avrebbe comprato i suoi dolci preferiti.

E così fu. Maria Grazia ne ebbe un bel sacchetto. Più del solito. Poi la signo-ra dai capelli scuri finalmente rallentò il passo e si fermò dinanzi a un grandenegozio con le vetrine piene di manichini seminudi e ornati solo di drappi. Al-l’interno scaffali alti fino al soffitto, pile di tessuti luccicanti, composizioni configure geometriche, quadrati, rettangoli e anelli e fiorellini, margherite enormie tulipani rossi. La signora guardava e riguardava, catturata dal gioco dellefantasie e dalle bizze delle stoffe che le commesse srotolavano con ampi gesti suibanconi. Era tanto assorta che lasciò cadere la mano che fino ad allora aveva te-nuto stretta. Maria Grazia non si preoccupò, anzi pensò di approfittarne. Fi-nalmente libera aprì il sacchetto e veloce poté tirare fuori una manciata di bi-scotti. Ma mentre masticava di gusto e l’aroma fragrante le riempiva la boccacon le briciole che cadevano sulla camicetta bianca, si accorse che la signora daicapelli scuri d’un tratto era scomparsa. Iniziò a cercarla alzando lo sguardo findove la sua altezza le consentiva, non molto in alto. Fece una sorta di girotondopensando che l’avrebbe trovata alle sue spalle estasiata dinanzi alla vetrina colmanichino fasciato di raso nero, le scarpine ricamate come una principessad’oriente con uno strano turbante sulla testa. Ma non la vide. Si guardò la pun-ta dei piedi e pensò che guardando in basso l’avrebbe trovata perchè non le po-tevano sfuggire, anche se tra tanta gente, le scarpe di vernice con il tacco alto eun fiore sul davanti. Ma niente da fare… Si mise in tasca il sacchetto di biscot-ti anche perchè una donna grassa l’aveva urtata rischiando di farglieli cadere.Si coprì gli occhi con le manine e contò fino a tre, era tanto piccola da non poterfare di più, sicura che un momento dopo, la bella signora sarebbe riapparsa el’avrebbe portata con sé. Ma niente accadde e davvero iniziò a preoccuparsi. Lelacrime le colavano giù sulle guance e si impastavano alle briciole dei biscottiche sapevano un po’ di amaro. Soltanto molto tempo dopo, una donna bionda

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che le sembrava fosse prima dietro il bancone a maneggiare le stoffe le si paròdavanti .“Bambina, come ti chiami? Dov’è la tua mamma? Ti sei persa... Staitranquilla vedrai che andrà tutto bene...”

Ci furono altre voci di grandi e una sirena che suonava proprio sulla sua te-sta. Sì, ne era sicura. La sirena si muoveva con lei rannicchiata sul sedile di unamacchina che non aveva mai visto prima dall’interno. E il signore che la guida-va aveva un berretto e parlava alla radio con un altro signore e facevano fintadi non essere preoccupati. La radio faceva tanto rumore, gracchiava ed emette-va curiosi suoni metallici, e le orecchie le facevano male.

Maria Grazia non capì mai se quel pomeriggio si era persa tra la folla perchèera troppo discola o se la mano candida della bella signora non l’aveva tratte-nuta. Allontanandola da sé.

Il dottore

Il dottor Esti ha la faccia larga, gli occhi grandissimi anche quando portagli occhiali e il sorriso, anche quello, è ampio e cordiale. Non ha ancora cin-quanta anni, parla veloce, inflessione forte del nord, di Brescia, e l’aria diuno che va dritto al problema. Niente orpelli da cattedratico. Dice di esserecattolico e questa sua fede coltiva anche nella terapia. Usa metafore quandoparla con le sue pazienti. È a Castiglione da qualche anno. È lo psichiatra diManuela, Simona, Marta, Alice... tanti nomi per le donne che ha avuto incura. Molte hanno ucciso i loro figli. Stiamo seduti su una panchina nel par-co dell’ospedale psichiatrico sotto il sole che filtra caldissimo tra le foglie de-gli alberi a mezzogiorno. Belle panchine di ciliegio come in un giardino del-le favole. Mi racconta delle sue lontane origini contadine e delle passeggiatenella Val Camonica. Conosce le stagioni e i colori dei boschi. La potenza el’incredibile fragilità che si nasconde nella natura. “Il vento può piegare unsalice ma non una quercia. Eppure il salice, così esile, riesce a recuperare inqualche modo un equilibrio. La quercia squassata dal vento e dalla pioggia a

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volte viene giù. Per questo chi è come una quercia ha timore delle intempe-rie. Ecco alcune donne sono così anche nella terapia. Sembrano forti e dure.Non vogliono guardarsi dentro per paura di spezzarsi…”

Mi parla di depressione,di psicosi.Categorie scientifiche.Anche lui sa be-nissimo che la storia di ogni donna che uccide è un evento a sé. Ogni volta,un’altra volta anche se tutto sembra uguale, come il rigido protocollo che se-gna l’ingresso nella casa delle madri che hanno ucciso.

“Di solito mi arriva una chiamata dalla portineria. Dottore c’è un nuovoarrivo. C’è solo il tempo di percorrere il vialetto che dal padiglione delledonne conduce all’ingresso per essere invaso da una serie di interrogativi, ti-mori, curiosità. Chi sarà, da dove viene, come si è comportata durante ilviaggio? Sarà tranquilla?”

“Davanti alla portineria” racconta il dottor Esti “sempre la stessa ombracupa e fredda del cellulare. Gli agenti penitenziari in divisa, la consegna deidocumenti e delle cartelle sanitarie redatte da chi ha prestato i primi soccor-si. E l’ordine del caposcorta ‘falla scendere’.”

Il dottore che cura le donne le ha sempre viste così. Impaurite, disorienta-te, salgono faticosamente una rampa di scalini verso la direzione, uno zai-netto in spalla con le poche cose della loro vita. Restano in silenzio ad atten-dere la registrazione dei documenti. E solo quando vedono avvicinarsi gliinfermieri con i camici bianchi trovano la forza di chiedere: “ma qui non cisono le guardie. Ma dove mi avete portata? Questo non è un carcere?”Paurae sollievo, quando vedono la piscina azzurra circondata da pini e i campi datennis.“Ma chi usa queste cose?” chiedono.

“Sono per voi” è la risposta degli infermieri che hanno nella voce unapunta di orgoglio.

E ancora una domanda:“ma qui non ci sono celle?”“No, qui ci sono stan-ze. Alcune hanno il bagno, altre no.Vede c’è un tavolino e l’armadietto.”

L’arrivo di una donna nella casa non è quasi mai un segreto né può passa-re inosservato in un ambiente così piccolo. La comunità delle madri chehanno vissuto lo stesso orrore è pronta ad accoglierla.

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“Come ti chiami?” tutto qui. Sono presentazioni scarne. A volte sannogià, l’hanno visto in televisione e non fanno altre domande. Conoscono ildolore del ricordo.

Il dottor Esti dice che al primo incontro nello studio le donne cercano so-prattutto di capire se possono fidarsi. Lo sguardo a terra. Soltanto a tratti sisolleva e si sofferma sulla parete di fronte alla scrivania. C’è un quadro raffi-gurante la testa di un lupo siberiano dipinto da una donna un tempo ospitedella casa.

“Sa signora, mi rendo conto che lei ha tante domande da fare.Vorrà sape-re perchè è stata portata qui, quanto dovrà restarci e se i suoi familiari po-tranno venirla a trovare… lei, signora, in carcere lo sa, stava molto male, sisentiva depressa, a volte sentiva anche delle voci… noi qui cercheremo dicurarla.”

“Ma io dottore queste voci le sento proprio qui dentro la testa, come faràa farle sparire? E poi a volte mi fanno compagnia… altre volte sono cattive.Mi fanno paura…”

“Vedrà che starà meglio. Abbia fiducia.”

La malattia subdola

È inevitabile chiedersi perché siano soprattutto le madri a perdere il con-tatto con la realtà e a trascinare nel loro delirio anche il proprio figlio.

Per curiosità da cronista ho consultato le ricerche sulle madri che uccido-no, saggi lugubri nei quali gli esperti dibattono sulla possibile origine gene-tica del problema. Insomma come se in una infinitesima, impercettibile, na-noscopica particella del DNA vi fosse impressa la dicitura “ucciderà suo fi-glio” e il grande dilemma sulla follia fosse soltanto un timbro da apporre. Sisoffermano sulla valenza culturale che ovviamente ogni società assegna aifigli. Spiegano che nell’antichità per i gruppi di cacciatori raccoglitori comei boscimani o gli aborigeni australiani o i gruppi artici, l’infanticidio era un

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modo per controllare le nascite perché le donne non potevano farsi carico ditroppi figli. C’è chi risale agli infanticidi degli antichi romani che gettavanoi figli dalla Rupe Tarpea o alle usanze di alcune comunità dell’India e dell’A-frica nelle quali sopprimere un neonato non è considerato un omicidio per-ché il bambino non è un essere umano completo. C’è da ricordare l’atrocelegge eugenetica varata in Cina nel 1979, in base alla quale non si poteva ave-re più di un figlio maschio. Delle femmine nate in quel periodo si sono per-se le tracce. Una selezione della razza autorizzata.

Altri studi evidenziano il tipo di arma usata. Gli uomini uccidono di piùcon un’arma da fuoco. Sono le cosiddette stragi familiari.“Un uomo uccidela moglie, i suoceri...” si legge sui giornali. Qualche volta un figlio si salva.Viene da chiedersi come mai, quando un equilibrio è così instabile, ci siasempre un fucile da caccia o una pistola in casa. Le donne ricorrono inveceal soffocamento. Lavori recenti, basati soltanto su fonti giornalistiche, met-tono in discussione l’idea che le madri uccidano più dei padri. I numeri sa-rebbero equamente distribuiti ma i padri, si spiega, uccidono i figli adultiperché impegnati in un confronto con un soggetto che è fonte di contrasti eantagonismi, per l’esasperazione dovuta alla tossicodipendenza del figlio,per motivi di studio, per conflitti di natura economica. Le donne uccidono ifigli piccoli per il rifiuto della loro progressiva autonomia. Soltanto le ma-dri, è bene ricordarlo, uccidono i neonati. Per i figlicidi, quelli che avvengo-no dopo il primo anno di età, l’ultimo rapporto dell’organizzazione mon-diale della sanità offre invece una chiave di lettura tutta sociologica. Le don-ne uccidono in misura maggiore i loro figli perché sono più vulnerabili e so-le, vivono lo stress di madri e donne lavoratrici, la svalutazione della lorocondizione sociale da un lato e dall’altro l’esigenza di soddisfare modelli diperfezione che un tempo si chiedevano solamente alle principesse o alle di-ve del cinema. Niente seni avvizziti e ventri flaccidi.“Vedi la modella tal deitali? Ha partorito due settimane fa e non ha un filo di pancia.”E poi, quandoun uomo non è un buon padre, ha sempre altro ad attenderlo fuori. Il valo-re di una donna si misura ancora sull’essere o non essere una buona madre.

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Talvolta le madri uccidono ciò che non sono riuscite ad amare, la lorostessa identità. Eliminando il loro bambino, spiegano i medici, è come secancellassero la loro insoddisfazione ma anche la parte di sé che non amano,che non riconoscono e che dunque non accettano. Ci sono quelle che stra-ziano i loro piccoli, ripetendo sul loro corpo ciò che magari hanno subito dabambine, come le violenze, il dolore degli abbandoni. E ci sono quelle chevogliono salvarli da un mondo crudele.

Accade qualcosa nella loro testa, come “un clic” nel cervello, ma prima diquel clic c’è stato sempre qualcosa che gli altri non hanno capito. Nemmenoi medici. Quelle madri non hanno volti maligni, come pensava Lombroso,ma solo ombre, battiti di ciglia… chi guarda davvero negli occhi delle madriche stanno male?

Chi comprende davvero cosa scatta nella mente di una donna un giornoqualsiasi, di una vita qualsiasi? Cristina Rainer, di Merano, 39 anni, tre bam-bini, parlando di se stessa, l’ha chiamato il buio nella mente. È accaduto nel-l’estate del 2005. Sono le 9,30 del mattino. Arrivano due telefonate al 118 inuna sequenza da brivido. Nella prima una donna grida “venite, l’ho ucciso”.Poi la seconda, disperata “fate presto”. Era accasciata su una sedia, stanca, in-capace di parlare. Gli infermieri hanno trovato il piccolo Julian morto, colpi-to al collo e all’addome da profonde coltellate. Doveva iniziare la prima ele-mentare. Il fratellino, di poco più grande, aveva sentito le grida ed era corsoin cucina. Se ne stava rannicchiato sul divano inebetito. Il più piccolo, ancorain culla, si è salvato. La mamma ha farfugliato che Julian gli aveva rispostomale.“Amavo i miei figli alla follia. Ma Julian mi aveva risposto male. Mi ave-va offeso, capite? E allora quella voce mi ha detto ‘uccidilo’…” E lei ha obbe-dito. Con la tazza della colazione ancora in mano, il barattolo della marmel-lata appena aperto e rovesciato sul tavolo, fragranti fette biscottate pronte peressere spalmate divenute briciole. Uno scenario surreale… niente famigliefelici per la pubblicità in televisione! Niente sorrisi, abbracci e caldi risvegli.

Al commissariato si è sdraiata su un divano. Ha detto: “no grazie, sto be-ne, non voglio medicine” e tutti ancora una volta sono caduti nell’inganno.

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D’un tratto ha aperto la finestra e si è gettata di sotto. Il suo corpo carambo-la sul selciato davanti agli occhi increduli degli assistenti che non sono riu-sciti a fermarla. Un volo di sette metri per cancellare il rimorso. È quasi pa-ralizzata. Viva e immobile con il suo dolore. Soffriva di depressione da unanno, dalla morte della madre alla quale era molto legata. L’aveva vista stra-mazzare in terra e lo shock era stato fortissimo. Era già incinta dell’ultimobambino. Tutta la famiglia, con il marito che fa l’elettricista, era appena tor-nata dalle ferie ed era stata in fondo una bella vacanza. Tre giorni prima ave-vano festeggiato tutti il compleanno del terzogenito, quello che si portavasempre dietro nel marsupio. La gente del posto racconta che era felice e chesembrava aver superato i momenti brutti. Stava andando da un medico eprendeva alcuni farmaci. Ma era stata mandata a casa a occuparsi dei suoi fi-gli. Nessuno ha pensato a fare qualcosa di diverso.Ad allontanare quei bam-bini che lei diceva di amare tanto. E che cosa altro avrebbe potuto dire? Lei liamava...

Quante storie da brivido, tornando appena indietro nel tempo. Comequella di Herika Rebelo. Giugno del 2003. La figlia di tre mesi viene ricove-rata in ospedale a Desio, provincia di Milano. È caduta dalla carrozzina, rac-conta la mamma, ma non è niente di grave. I medici la trattengono comun-que per fare degli accertamenti. Nella notte Herika strangola e affoga la fi-glioletta nel water del bagno dell’ospedale.“Ho ucciso il mostro…” va ripe-tendo agli infermieri attoniti.

Maggio del 2002. Santa Caterina di Valfurva, una bella località di monta-gna in provincia di Sondrio. Casette incastonate tra valli e fiocchi di neve di-sciolti nei torrenti. È il giorno della festa della mamma. E sono tutti in casa.Loretta Capone ha preparato il pranzo. Ci sono il marito, la figlia di undicianni, la figlioletta Vittoria di 8 mesi e la nonna materna. Una festa delle don-ne. Si scartano i regalini. Si recitano poesie, canzoncine. Uno sguardo alla tv.Nel pomeriggio i familiari escono per una passeggiata e Loretta rimane solacon la bambina più piccola. Quando rientrano la trovano con gli occhi sgra-nati davanti all’oblò della lavatrice che ha completato anche il programma

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della centrifuga.“Ho fatto il mio bucato” balbetta ai familiari atterriti “e oradevo portare a letto Vittoria la mia bambina”. Ma Vittoria era dentro la lava-trice. Loretta soffriva da qualche tempo di depressione. Dalla morte del pa-dre,Vittorio e così era stato scelto quel nome per la sua secondogenita. Ave-va fatto una visita dallo psichiatra.

“Signora niente di grave è solo una tristezza passeggera. Forse è moltostanca… le prescrivo qualche medicina e presto passerà.”

Aprile 2001. Inzago, un paese in provincia di Milano. Una donna soffocail figlioletto di diciannove mesi e si impicca a una trave sul soffitto. Gennaio2001 a Taranto. Una casalinga di ventisette anni uccide il figlio di pochi me-si con un cuscino premuto sul volto. La sua mano è rimasta ferma sulla boc-ca del bambino pochi minuti. Il tempo sufficiente per togliergli il respiro.Poi è corsa dal parroco in paese gridando:“non ce la facevo più… piangeva,piangeva… avevo bisogno di stare in silenzio.”

Dicembre 2001 a Vittuone in provincia di Milano. Una donna di 40 anniuccide la figlia di sette anni infilandole un sacchetto di plastica sulla testa eserrandolo al collo con i suoi collant di nylon, poi si siede sul divano aspet-tando l’arrivo del marito.Agosto 2000, in provincia di Caserta. Una maestradi 36 anni, Anna Pendolino, si uccide con le tre figlie di sei, due e un anno,saturando l’interno della macchina con i gas di scarico.

Aprile del 1997. A Foggia Anna Maria Colecchia, 35 anni. Soffriva datempo di crisi depressive. Strangola i due figli di cinque e otto anni e in unrituale macabro mette i loro corpi su un lettino con le mani giunte e si ucci-de impiccandosi.

Quanti altri racconti potremmo aggiungere? Gli esperti dicono che i cri-mini in famiglia sono aumentati di sei volte in soli cinque anni. Basta accen-dere la televisione. Seduti a tavola all’ora di cena abbozziamo un sorriso ras-sicurante verso i nostri figli che fanno finta di non sentire le notizie.Lo sguar-do basso sulla pastasciutta. Gli occhi che nascondono quel tarlo. Si chiedonomuti “mia madre e mio padre potrebbero farmi del male?”Ci chiediamo mu-te, prese da improvvise paure,“potremmo mai fare del male ai nostri figli?”

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Domande assillanti. Che cosa sta accadendo in questo folle mondo, do-ve l’omicidio di un figlio viene presentato come una sorta di malattia con-tagiosa? Forse la verità è che non è cambiato nulla. La malattia c’è stata sem-pre, anche nel passato, quando la televisione non entrava nelle case, avidaper frugare nelle vite. Un bambino cadeva inspiegabilmente dalla culla, daun balcone… Incidenti si diceva… “poveretta l’ha trovato soffocato nellaculla. Forse un rigurgito… il latte gli è andato di traverso… che disgrazia haavuto un capogiro mentre lo teneva in braccio… aveva perso anche l’altrofiglio... E non si è mai saputo come …”

Di bisbiglio in bisbiglio le comari, nelle cronache vere di paese, sussurra-vano mezze parole, dure come pietre: “sai l’Assuntina… quella che abita infondo alla piazza… povera donna… non ci stava più con la testa… il medi-co le aveva detto che doveva mangiare. Era troppo magra e piangeva sem-pre... forse per questo le è caduto il bambino dal balcone…”

Ma la sofferenza restava arroccata tra quelle quattro mura. Case buie, do-ve le tende non si aprivano mai. Il dolore mai lenito, amaro, una solitudinesenza fine. Una verità mai raccontata e la vergogna. Mariti cupi dagli occhisfuggenti per non vedere. E per le madri, sopravvissute ai loro figli, quelleche non sono riuscite a morire, il devastante cammino alla ricerca di un per-ché. Svegliarsi dal black out significa rientrare nell’incubo.

Ci vogliono cure, infinite carezze, e crisi, lacrime, echi che rimbombano.Voci buone che scacciano i demoni. Una lotta feroce. Ci vuole la forza di so-pravvivere a chi era nel tuo grembo. L’orrore più grande.

Non ho chiesto ai medici di Castiglione quante ce la fanno.

Un giorno, quella stessa estate al sud, la zia Raffa e lo zio Gasparotto aveva-no deciso per la prima volta di portare Maria Grazia al mare, sottraendola per-ciò al rito della passeggiata con il nonno e all’abbuffata di caramelle nella bot-tega di Turi.

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La gente del posto diceva ninniemu alla plaia, ce ne andiamo alla spiaggia, el’avvenimento doveva avere una certa importanza perché i preparativi eranopiuttosto laboriosi. Le borse venivano riempite di asciugamani, costumi, ma-gliette. E questo in parte si capiva. Non si capiva quanto sarebbe durata la per-manenza alla plaia, perché altre borse, due tre quattro?, venivano riempite dipiatti, bicchieri, forchette e vassoi giganteschi di pasta al forno con le uova sode.Così abbondanti da far pensare che un esercito si sarebbe sfamato per giorni.

A Maria Grazia che non voleva perdersi la scorpacciata di caramelle con ilnonno, questa storia non garbava. E decise di risolverla con l’astuzia dei suoi po-chi anni. A metà della strada, mentre lo zio Gasparotto sfrecciava con la sua Sei-cento azzurra come un cavallo al galoppo, e la zia Raffa se ne stava seduta ac-canto a lui con gli occhiali da sole e un fazzolettone a raccogliere i capelli come ledive al cinema, bene… a un tratto Maria Grazia si mise a urlare. Urlava forte.Si contorceva. Si teneva la pancia, faceva “ohi, ohi, che dolore” e singhiozzavacon lacrime che sembravano un fiume in piena. Si sforzava così tanto di piange-re che la pancia le faceva quasi male davvero. Insomma una commedia dell’ar-te. Lo zio Gasparotto, che era dutturi, ma quel giorno di festa non aveva con sé lavaligetta con quegli attrezzi dentro per sentire cosa c’è nella pancia e non avevanemmeno una medicina, decise preoccupato di fare marcia indietro. Appenarientrati a casa il mal di pancia passò per miracolo e, mano nella mano, con ilnonno Maria Grazia se ne andò a farsi una bella scorpacciata di caramelle allabottega dove il signor Turi l’aspettava come una figlia. Il giorno dopo però lo zioGasparotto e la zia Raffa tornarono alla carica. Si rifecero i bagagli per la plaia equesta volta Maria Grazia non poté fare altro che sperare che la Seicento un po’scassata dello zio, nello sforzo della velocità, esalasse l’ultimo respiro.

Miracolo che non accadde. Alla plaia, una grande distesa di sabbia con cabi-ne di legno come la città dei sette nani, Maria Grazia scoprì che non era tantomalvagio stare nell’acqua a sguazzare, a fare salti come una rana schizzandotutti quelli che passeggiavano sul bagnasciuga, a scappare con stile incerto ver-so il largo dove non si toccava, facendo venire il batticuore agli zii. Non vollecambiarsi il costume e asciugarsi, nonostante l’aria stesse rinfrescando. Scappò

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due, tre ombrelloni più in là, piazzandosi a braccia conserte davanti a un si-gnore che si era appena seduto goccialante sulla sedia sdraio dopo un bel bagnoe fissando seria le gocce d’acqua che cadevano sulla sabbia gli disse “lo sai, ti staifacendo la pipì sotto!” Insomma ne combinò di tutti i colori. E questa volta tor-nata a casa, si ammalò davvero.

Iniziò a battere forte i denti, segno che aveva una febbre da cavallo. Si senti-va debole e la testa iniziò a girarle anche nel letto, da sdraiata, e quando il son-no la vinse le vennero a far visita una incredibile compagnia di immagini cupe,buie, deformi, mostri e quant’altro. Le sembrava di vedere nel sogno la bella si-gnora dai capelli scuri che piangeva. Le lacrime le bagnavano il vestito. MariaGrazia non riusciva a vedere da dove cadessero perchè la signora non aveva gliocchi. Al loro posto c’erano solo lastre fosforescenti come lame. E lei le doman-dava: “mamma perché piangi?” La signora piangeva, il vestito si inzuppava eMaria Grazia sentiva la sua voce che chiedeva sempre più forte: “mamma per-chè piangi?” Ma non c’era risposta. Maria Grazia urlava e la signora piangeva.Poi sentì la mano candida e liscia della bella signora che le premeva forte sullabocca, forse perchè non voleva sentirla gridare. Ma premeva così forte che aMaria Grazia mancava il respiro. E aveva tanta paura. Si svegliò tutta sudata.Seduta nel letto. Gridando.

Come plastilina

Le madri uccidono anche per vendicarsi come nella tragedia di Euripidefa Medea tradita da Giasone, quando nel loro delirio il figlio che hanno par-torito finisce per perdere qualsiasi significato e diventa cosa.

“E così li hai uccisi”dice Giasone e Medea si limita a replicare:“sì, per far-ti soffrire.”

La mente di Medea non può concepire altra possibilità.Anche per Simona, che ha ucciso i suoi bambini di quattro anni e di ven-

tuno mesi, è come se la vita non le avesse permesso alternative. Sceglie que-

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sto nome, Simona, per il nostro racconto ma sa benissimo, lo leggo nel suosguardo, che è difficile non riconoscerla. Ma forse questo non le interessapiù. Quando entra nella stanza che chiamo dei colloqui, Manuela ne è appe-na uscita e resto senza parole perché la donna che viene a raccontarmi oradell’omicidio dei suoi bambini non ha nulla di quello che comunementerappresenta la sofferenza.

Lo stomaco mi fa ancora male. È come se un pezzo di serenità se ne fosseandato via con Manuela… sono più fragile. Guardo Simona. Ha un bel sor-riso sulle labbra sottili delineate nel viso largo, gli occhi chiari, i capelli bion-do cenere. È giovane… ha 33 anni... Ha le forme procaci di una ragazza delnord, una di quelle ragazze che non hanno avuto molto tempo per guardar-si attorno perché le necessità della vita hanno imposto loro fatica e sudore.Poche chiacchiere, bisogna cavarsela.

“Non ho studiato granché” mi conferma Simona. “Ho lavorato nei bar,nei ristoranti, sette anni di fila in una lavanderia industriale… Nel 1994 il fi-danzamento, inframmezzato da litigi… non ci siamo visti per un po’… mirendevo conto che c’era qualcosa che non andava, che non era la personagiusta… ma lui era molto insistente e alla fine, ci siamo rimessi insieme”.Nel1997 il matrimonio con quell’uomo di dieci anni più grande… “Ci siamosposati ma a dire il vero non ci conoscevamo tanto.”

Parla così Simona della sua vita. Come se non ci fosse niente di importan-te da raccontare. È sbrigativa anche con se stessa ma non è maleducata. Unapadrona di casa pronta ad accoglierti nel suo salotto ma senza lasciare indie-tro le faccende domestiche. Mi spiega che ha poco tempo. C’e il pranzo e leiè addetta alla pulizia della cucina. È il suo turno e deve lavare i piatti… mipropone di riprendere il suo racconto, se voglio, dopo pranzo. Ma ho unacerta difficoltà a pensare che l’omicidio di due figli si possa raccontare apuntate… gran parte del colloquio con Simona è così avvolto da un’atmo-sfera curiosa. Potremmo sembrare, almeno per un po’, due tranquille signo-re intente a discutere di faccende non troppo complicate, di uomini che de-ludono, di mariti distratti, di suocere non comprensive… non sembra avere

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diffidenze, né paure, non chiede protezione come Manuela, non imploracon lo sguardo che posa solo rapidamente su di me… la voce è dolce, scorreliscia, continua a sorridere ogni tanto, scosta troppe volte i capelli lunghi dalviso, unico segno di imbarazzo. Per qualche minuto la sua normalità, il suoandare dritto al fatto senza troppi giri di parole, mi spiazzano e mi innervo-siscono. È come se lei non volesse concedermi pause, appigli per entrare nelsuo mondo che immagino avvolto in una pellicola sottile e trasparente, ap-piccicata sulla pelle, quasi invisibile a occhio nudo ma comunque impene-trabilel. Decido di reagire, di rischiare. La interrompo e le dico che sono an-cora molto turbata dall’incontro con Manuela e che lei invece, almeno al-l’apparenza, mi sembra più serena.

“Sì, è vero” mi risponde “Manuela è qui da poco tempo, il fatto è ancoratroppo recente e troppo doloroso per lei. Per me il fatto è lontano… sonotrascorsi tre anni.”

“Dunque” le chiedo “lei ha accettato tutto quello che è accaduto?”“Che cosa devo fare? Quando sono qua dentro del resto mi sento protet-

ta. Non sono sola. Qui abbiamo commesso tutte lo stesso reato. Non ci sonocritiche, non ci sono giudizi. Certo le cose cambiano un po’ quando vado acasa in licenza. La prima volta non volevo uscire. Ma mia madre mi ha det-to: ‘non devi vergognarti, andiamo a fare la spesa’. Insomma, il problemanon è qui. È fuori.”

Tre anni, dunque. Un tempo che a ben riflettere non basterebbe ad alle-viare fino in fondo il dolore di un compagno che ti ha tradito, la delusione diun amico che non si è rivelato tale, l’amarezza di una delle tante ingiustizieche si subiscono nella vita.

Tre anni, un tempo che Simona ha dovuto invece diluire e quasi deforma-re come plastilina per riporre più lontano possibile, in un angolo della suamente quel giorno tragico. Come se il tempo per lei non fosse fatto di giornima di secoli… ecco, come tre secoli fa. Allora soltanto così, mi rendo conto,Simona può raccontare la sua storia. Guardarla quasi da spettatrice, comeuna foto sbiadita dal tempo…

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La solitudine

Il malessere di Simona è un fastidio che somiglia a quello di tante donnesole in casa ad accudire i figli. Una fotocopia di storie che suscitano solida-rietà ma non totale comprensione. Forse perché era la vita delle nostre ma-dri e delle nostre nonne, e ascoltandole, viene voglia di dire esattamente co-me i nostri nonni:“e allora? Quanti grilli per la testa… le donne hanno sem-pre cresciuto i figli e i mariti sono sempre andati al lavoro… erano sole, fati-cavano, non c’era la lavatrice e la lavastoviglie… i mariti portavano i soldi acasa… la vita era questa e non si ammazzavano i figli… ora si vuole tutto fa-cile... La vita comoda…”

“No” mi dice Simona “non avevo mai sofferto di depressione in passato.Non ricordo un episodio che possa aver segnato la mia vita prima di quelloche è accaduto. So soltanto che mi sentivo sola, terribilmente sola con unmarito che era sempre al lavoro. I turni in fabbrica e quando non c’erano iturni, di corsa, una doccia e via a lavorare nei campi del fratello e della suafamiglia. Forse siamo stati felici all’inizio durante il viaggio di nozze. Poi ènato subito il primo figlio, e sono stata quattro anni sola.Avrei voluto aspet-tare qualche tempo, godermi il matrimonio. Ma è andata così.” Invece il se-condo figlio, Simona, dice di averlo fortemente desiderato. Si sentiva pron-ta. Era giunto il momento di un fratellino.

“Ero attaccata ai miei figli” spiega con lo sguardo incredulo e i grandi oc-chi che abbozzano di nuovo un sorriso.“Guai a chi me li toccava. E non vo-levo che mio marito sgridasse il più grande quando faceva qualche capric-cio. Gli dicevo… dai è un bambino… ha solo quattro anni, non ti arrabbia-re… forse per questo mio marito mai e poi mai avrebbe immaginato che iopotessi fare qualcosa ai bambini. Quando l’ho rivisto, qualche tempo dopo,era scioccato, invecchiato, i capelli bianchi.”

Simona racconta di non aver mai trovato appoggio nella sua vita di giova-ne moglie nella famiglia del marito con la quale aveva comunque vissuto neiprimi anni di matrimonio. Da poco si erano trasferiti in una casa tutta loro.

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“Il giorno che mi ha presentata ai suoi la madre mi ha squadrata dalla te-sta ai piedi. È stato davvero imbarazzante. Uscendo di casa il mio futuro ma-rito mi ha detto:‘Sai, sei piaciuta a mio padre, ma mia madre mi ha detto chesei troppo giovane... e bella’.”

Simona si sofferma su queste parole, le sottolinea… fa una pausa e con-clude “è chiaro erano gelosi di me. Sono sempre stati gelosi di me.”

E così la vita della giovane Simona mi si snoda davanti agli occhi. La vedo,distrattamente, come da una finestra. Non ci sono sussulti sui quali possa in-terrogarmi… non ci sono gesti o segnali che possano fermare il mio sguardo.Dapprima c’è una giovane donna piena di vita. Canticchia una canzone… sipettina i capelli biondi e lunghi… si guarda allo specchio e si trova bella. Hauna vita davanti. È ancora giovane, ha voglia di divertirsi, di giocare, non hagrandi pretese, è una ragazza qualsiasi. Poi, piano piano, proprio lo scorrereconsueto delle giornate mi induce a spiarla con più interesse.

La vedo mentre si alza presto la mattina e prepara la colazione al suobambino, Matteo, quello con cui ha potuto dividere quattro anni della suaesistenza. La seguo mentre, mano nella mano, chiacchierando delle cosepiccole di tutti i giorni, lo porta all’asilo. Lo zainetto nuovo, i saluti davantialla scuola… il grembiule macchiato di cioccolata… la spesa, le faccendedomestiche, il pranzo per un marito che va sempre di fretta. “Dai sbrigati,non è ancora pronto? Io devo andare a lavorare…”

Il nastro della pellicola che provo a immaginare attraverso il suo raccon-to, scorre fotogramma dopo fotogramma, fino al giorno in cui il suo ventreinizia a gonfiarsi in attesa del suo secondo bambino. E questa volta il miosguardo, d’un tratto, è costretto a posarsi più a lungo. Ma non sulla sua pan-cia che è appena più morbida. Vedo il suo viso, che mai in passato mi erasembrato malinconico, diventare più scuro, gli occhi pieni di pagliuzze ver-di riempirsi di aloni cupi.Ai lati della bocca, piccoli solchi, quasi impercetti-bili, come singhiozzi trattenuti... sembrano sorrisi ma sanno di amaro. For-se ci sono da tempo ma da quell’angolo della mia finestra per uno stranogioco di luci non li avevo visti…

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Nel nastro che scorre non c’è traccia del giorno della nascita del suo se-condo figlio, Davide. Non sappiamo se il parto è stato sofferto, chi c’era ac-canto a lei, se il marito le ha portato un mazzo di fiori, un gesto di galanteriache ai suoi occhi avrebbe cancellato l’immagine non certo esaltante di unuomo che, dice Simona con rabbia, talvolta di sera scopriva intento a guar-dare filmetti porno. “Pensava che non me ne accorgessi? Roba da matti. Ibambini nella stanza accanto e lui a guardare quelle schifezze…”. È pome-riggio. La guardo. È sempre più stanca, buttata sul divano, senza forze, esau-sta, come dice, sudata. I capelli lunghi incollati sul viso per il gran caldo e l’a-fa che già a giugno a volte può essere implacabile al nord. C’è un bimbo pic-colo, ora, poggiato sul suo petto. Ma le braccia della mamma non lo stringo-no, non lo proteggono. Il piccolo piange, piange sempre più forte, strepita,chiede inconsapevole, attenzioni. Energia, cibo, coccole, ninne nanne… unrito insaziabile dettato dalla natura.Vuole essere ascoltato.

In un’altra scena c’è la domenica, giorno comandato per la festa. Il mari-to si sveglia, si fa la barba, si profuma. Si mette il vestito bello per andare amessa, il più elegante, la camicia ben stirata, come si usa ancora nei piccolicentri dove tutti si conoscono.

La moglie al mattino si aggira per la casa come un fantasma, ha dormitopoco, ha socchiuso gli occhi ma non ha mai assaporato il silenzio. Il piccolosi è svegliato, una, due, tre volte… come tutti i bambini venuti al mondo daqualche settimana… lei lo ha allattato e cambiato. Le palpebre come maci-gni. Nella retina punture di spilli. Ha abbandonato la testa sul cuscino e perqualche minuto forse ha anche sognato… i vagiti le sono entrati nelle orec-chie e le hanno attraversato il cervello… una implorazione “Dio, fa chesmetta di piangere …”

Ha l’aria sciatta, è in camicia da notte, non ha avuto il tempo di lavarsi e dipettinarsi. Chiede al marito una mano, soltanto una mano. Il piccolino hafame. Il più grande deve fare il bagnetto per andare a trovare i nonni e c’è ilpranzo della domenica da preparare, il pranzo buono con primo, secondo econtorno, il dolce per poter dire finalmente “ecco qui tutti a tavola… che

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bella festa…” ma il marito risponde “io non posso restare. Ho da fare. Devouscire. Tutte le domeniche vado a messa.” La porta si chiude.

Chi, come me, continua a osservare questo triste film vorrebbe strapparela pellicola. Mi rimbomba nelle orecchie la porta che si chiude, più spietatadi uno schiaffo, eco della totale incapacità di capire che l’altro ha bisogno diun sorriso, di una parola. Simona è immobile, la camicia da notte stropic-ciata di rabbia. Le braccia le pesano come se avesse spalato sassi. Vorrebbemuovere le gambe, sono di marmo anche quelle. Il sudore si gela sulla fron-te, grani come stille di ghiaccio. Quale regista non avrebbe voluto cambiareil copione? Prima scena.Simona spegne il gas.Oggi niente pranzi importan-ti. Seconda scena. Tutta la famiglia esce a fare una passeggiata. È una giorna-ta limpida… c’e un sentiero che s’inerpica lieve fino alla radura ombreggia-ta. Il bimbo più grande trotterella accanto ai genitori che chiacchierano delpiù del meno. Scena tre. La camera allarga l’inquadratura su una carrozzinacolorata. La spingono il papà e la mamma e il bimbo piccino, cullato da suo-ni familiari, smette di piangere e si addormenta.

Tutto qui. Niente di complicato.“Mio marito”accusa Simona “non pote-va capire niente dei miei desideri.”

Un uomo sordo e cieco,persino senza mani per sfiorare il profilo di un vi-so e sentire sotto i polpastrelli lacrime o sorrisi.

Avverto la solitudine di Simona. Una distesa di ghiaccio nella quale ci sipuò soltanto perdere perché i passi non lasciano segni. E mi chiedo cosa maiavrebbe potuto dire quell’uomo se per miracolo fosse riuscito a parlare. Si-mona sarebbe stata a quel punto in grado di sentire la sua voce? O i suoi sen-si erano già alterati, deformati da quel male subdolo che le aveva scavato si-lenzioso le pieghe che, solo un giorno, sono riuscita a scorgere attorno allesue labbra? Quella donna, mi chiedo, non si sarebbe comunque sentita solae affranta?

Forse la tragica constatazione è che non potevano ormai esserci mazzi dirose e passeggiate nei parchi perché Simona si era già persa nel vuoto dellasua mente…

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Quella volta che a Maria Grazia venne la febbre, dopo la famosa gita allaplaia, gli zii la ricordano bene. Prima di tutto perché la febbre durò giorni, no-nostante le vitamine effervescenti dello zio Gasparotto e le spremute di aranciadella zia Raffa. Il nonno diceva che le arance dovevano essere freschissime e co-sì era un via vai nella campagna a cogliere frutti succosi, polpe di un rosso cheMaria Grazia non aveva mai visto, denso e dolce. Un nettare buono quasiquanto le caramelle alle quali per un po’ fu obbligatorio rinunciare. Al capez-zale di Maria Grazia non mancavano comunque dolci e dolcetti fatti in casaperché “a picciridda era palliduzza” e la zia aveva preso a impastare e inforna-re biscotti gustosi chiamati ‘le lune’, morbidi e croccanti allo stesso tempo. Unadelizia. Ogni tanto ci scappava anche un bicchiere in più di coca cola che a Ma-ria Grazia piaceva tanto ma che di solito poteva bere soltanto di nascosto dallozio che di formule chimiche, visto che era dutturi, se ne intendeva. Lo zio quan-do erano tutti seduti a tavola, nel bel mezzo del pranzo, si alzava di scatto e ini-ziava a sbraitare camminando a passi veloci, le braccia conserte dietro la schie-na.“U stomacu c’abbruciò…” intendendo riferirsi a quel suo paziente che ave-va bevuto troppe bottiglie di coca cola e era arrivato allo studio contorcendosi lebudella. “U focu, u focu, m’abbrucia…” urlava come un pazzo. E dopo, pun-tualmente, lo zio raccontava un’altra storia, quella di un certo cucchiaino d’ac-ciaio lasciato per una notte solo soletto immerso nella coca cola e finito corrosoe divorato dagli acidi della formula misteriosa. Maria Grazia non aveva benchiaro se tutta la faccenda fosse una messinscena dello zio Gasparotto ma qual-che timore, piccolo piccolo, le era venuto. Comunque dicevamo che gli zii la feb-bre di Maria Grazia la ricordano bene anche per un altro motivo. La bambinainfatti durante il giorno sembrava serena. Faceva giusto qualche capriccio, nonpiù di tanto, costretta com’era a stare ferma a letto sotto le coperte. Un miraco-lo di bontà, dicevano gli zii abituati a vederla saltellare da una parte all’altradella casa, giocando a nascondersi nei posti più impensabili, sotto i tavoli, neiripostigli, ma anche negli impermeabili che si mettevano a camminare congran spavento della zia Raffa e sotto al letto, che per poco una volta allo zio nongli prende un infarto. La notte però la bambina, forse per la febbre che saliva,

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sussultava nel letto, si ripiegava su se stessa, piangeva con i singhiozzi, si sve-gliava e, poverina, si riaddormentava e ricominciava daccapo quello stessobrutto sogno che la rendeva inquieta e pareva stare lì sospeso ad aspettarla…Così la mattina dopo a esser sinceri Maria Grazia ‘ciatuzzu’, che in dialetto vor-rebbe dire qualcosa come tesoro, più che serena doveva essere stremata. Pensa-va e rimuginava come può fare una bambina di quattro o cinque anni, e quan-do i pensieri le sembravano troppo grandi, troppo faticosi gridava “ohi, ohi, mifa male la testa, voglio la coca cola…”. Poi quando nemmeno la coca cola riu-sciva a farle passare quello stordimento che agli occhi degli zii la faceva appari-re tanto buona, trovava la forza di dirsi che tanta confusione doveva dipenderedalla febbre e che insomma “va bene, la prossima volta che vado alla plaia congli zii, esco dall’acqua quando le mani diventano tutte bianche e molli, il costu-me bagnato lo cambio, sto con la testa al sole così i capelli si asciugano e vistoche la zia si è arrabbiata tanto non vado da quel signore a dirgli che si è fatto lapipì sotto.”

Così ragionava Maria Grazia bambina cercando di cacciare via i suoi fanta-smi, la signora del sogno che emetteva lampi dal viso, e un altro brutto pensie-ro che le era venuto alla mente. Si vedeva piccina in una stanza tutta diversa daquella dove stava ora. C’erano tanti specchi, lucidi lucidi e lei si guardava. Lafaccetta buffa, la gonnellina blu a pieghe, la camicetta con il pizzo bianco, i cal-zini con il fiocco. Le scarpe con il cinturino nere di vernice. Lei faceva smorfie esi studiava. Allargava la bocca come la rana grande, tirava la lingua in su pervedere se arrivava al naso e ancora la spostava da un angolo all’altro della boc-ca rendendola sottile come un serpentello. Strizzava gli occhi. Si dondolava alritmo di una canzoncina “ma quanto sono bella madama Dorè, ma quanto so-no bella…” Si ricordò che lo specchio doveva essere nient’altro che lo sportellodell’armadio. C’era la chiave. Lo aprì e iniziò a guardarsi con lo sportello soc-chiuso tanto per vedere com’era la metà del suo corpo. Lo apriva e lo chiudeva.Sempre più veloce facendo la linguaccia a se stessa ogni volta che riusciva aspecchiarsi. E lo riapriva e lo richiudeva. Fin quando lo sportello, un po’ vec-chiotto, strattonato, venne giù. Maria Grazia vide il vetro infrangersi, pezzi

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grandi e aguzzi che cadevano come al rallentatore, e pezzettini piccoli piccoliche rotolavano in terra, che saettavano come spilli micidiali. Ma quel pezzogrande di vetro, proprio il più appuntito, che le sembrava stesse per conficcarsinella sua testa le scivolò accanto. Rimase ferma, immobile. La porta della stan-za si aprì e la signora dai capelli neri e dalle mani candide entrò. Urlava comese niente potesse calmarla. Un grido che le spalancava la bocca in dimensionispropositate. Urlava con il corpo statico, paralizzato a pochi passi da lei come sebocca e corpo fossero due entità separate. La guardava e sembrava non vedereche Maria Grazia era lì intera, tra i vetri, gli occhi sgranati nell’ultima smorfiacon l a quale si era specchiata. Era viva. Nemmeno un graffio. Ma la signora ur-lava come se il terrore le impedisse di fare altro se non emettere quelle grida chea Maria Grazia facevano tanta paura. La signora continuava a urlare e era co-me cieca. Il terrore l’aveva portata via. E Maria Grazia non la vide più. Per tan-to tempo… che quasi se ne dimenticò.

La tragedia

È lunedì quando Simona decide di togliersi la vita e di uccidere i suoibambini.“Quel giorno”mi racconta “sapevo che mio marito sarebbe torna-to a casa per il pranzo. Avrebbe fatto la doccia e poi sarebbe uscito comesempre per andare a lavorare nei campi… Sarei rimasta ancora sola. Mi so-no alzata, ho fatto anche il bagnetto al più piccolo, ho preparato persino ilpranzo, poi sono uscita. All’inizio volevo fare un giro attorno al lago. Poi misono detta: io a casa non torno… io in quella situazione non ci torno… sa-rei potuto andare dai miei genitori, chiedere aiuto… ma tutto era ormai cu-po. I miei bambini dovevo portarli con me. Non potevo abbandonarli… no,non hanno sofferto. Nella mia mente era una tale liberazione, tutto era unaliberazione…”

È il 24 giugno del 2002 quando l’agenzia di stampa Ansa riferisce che duefratellini sono annegati in un laghetto a pochi metri di distanza l’uno dal-

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l’altro coperti da un metro di acqua e melma, vicino a un piccolo pontile.Prima i soccorritori hanno recuperato nel laghetto di Les Iles il corpo delpiccolo Matteo di quatto anni. Un’ora dopo viene ritrovata nell’acqua sta-gnante la salma del fratellino Davide di ventuno giorni. “Nel frattempo”scrive il resoconto dell’agenzia “la mamma è ricoverata in stato confusiona-le. Piange ininterrottamente e non riesce a parlare. L’ipotesi più accreditataè che si sia trattato di un incidente.”

Fino al giorno successivo la madre non è ancora in grado di fornire un va-lido aiuto per chiarire le cause della tragedia. Si suppone, o questo riesce afarfugliare in un primo tempo Simona, che il figlio più grande Matteo stes-se giocando con lei sul pontile quando è caduto in acqua. La donna con ilpiccolo Davide in braccio, narrano sempre le cronache, è entrata nello sta-gno per cercare di trarlo in salvo ma è scivolata e dalle braccia le è caduto ilbimbo.

Sembrerebbe un drammatico incidente. Anche nei primi commenti allatragedia si parla di una famiglia felice, tranquilla, colpita da una grande di-sgrazia. Una famiglia di grandi lavoratori. Lei, Simona, viene descritta comeuna persona gentilissima, sempre disponibile, sorridente, che vive per i figli.

Qualcuno però con il passare delle ore inizia a chiedersi perché Simonacon due bambini piccoli si sia avvicinata all’acqua del piccolo lago artificia-le formato dalle draghe che un tempo estraevano ghiaia e sabbia e alimenta-to dalla Dora Baltea che scorre poco distante. Un luogo comunque rischio-so perché a pochi metri dalla riva è subito profondo.“Anche se”sottolinea ilsindaco di uno dei paesini della zona “fauna e flora si sono sviluppati ed èmeta di pescatori e bagnanti.”Per fare luce sulla vicenda la polizia scientificalavora senza sosta e il professore chiamato a effettuare l’autopsia dice “nonc’è nulla di strano… è una morte nell’acqua…” Ai cronisti che da tempo sicimentano con lo sconvolgente caso di Cogne, sempre in provincia di Aosta,il medico legale replica: “non fantasticate”. Sconvolti si dicono i quattrosommozzatori della protezione civile che hanno recuperato i due corpicinicon i vestiti perfettamente in ordine. È nella tarda serata del 25 giugno che

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arriva quella che gli inquirenti definiscono la svolta. La donna crolla davan-ti al Gip Fabrizio Gandini, lo stesso che, ironia della sorte, si è occupato deldelitto di Cogne anche se da Anna Maria Franzoni, poi processata per l’omi-cidio del figlioletto, non è mai arrivata fino ad ora alcuna confessione.

Per Simona è il quarto interrogatorio. Tra lacrime, disperazione, sprazzidi lucidità si era limitata a confermare la versione più verosimile, quella del-l’incidente. Le contraddizioni nel suo racconto erano apparse comprensibi-li zone d’ombra nella mente provata di una madre che aveva perso in pochiminuti due figlioletti. A incastrare Simona, come si usa dire con pessimolinguaggio giornalistico, c’è però un biglietto trovato in un cassetto nel co-modino della stanza da letto e indirizzato al marito. “Per Pietro. Le donnenon ti mancano, tanti auguri. Addio voglio essere cremata.”

Nessun accenno ai figli che Simona ha deciso di trascinare nel suo tunnel.Nessun rimpianto. Solamente la ferma, sbrigativa, semplice volontà di spez-zare le catene che la tengono legata alla vita.Non sappiamo se Simona si sen-te o si è sentita una donna tradita, se un tradimento ci sia stato davvero e seSimona, come farebbe pensare il biglietto, come in una tragedia greca, abbiascelto per se e i suoi figli lo straziante epilogo che sembra accomunare i de-stini di tante donne. Non sappiamo se Simona ha semplicemente voluto im-primere in quel biglietto, con quelle parole, il suo sentirsi inutile, un niente.

Nell’ordinanza di custodia cautelare il Gip Gandini si troverà a scrivere:“è tuttora animata da un concreto risentimento e astio nei confronti delproprio marito e dei suoceri.”

Il racconto definitivo è per Simona una confessione liberatoria. “Abbia-mo costeggiato la riva, faceva un gran caldo. Ho detto a Matteo di fare il ba-gno. Siamo saliti sul pontile e ho fatto scendere Matteo nell’acqua attraver-so una fessura. Gli ho detto… ci rinfreschiamo nel lago? Poi ho scavalcato laringhiera e mi sono calata nell’acqua con Davide. Il piccolo è scivolato dallemie braccia e non ho fatto nulla per trattenerlo. Matteo, il più grande, è an-dato a fondo. Ha bevuto. È riemerso privo di sensi. Ho ripreso Matteo perun polso (l’autopsia confermerà che ci sono dei segni sul braccio del bambi-

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no). Poi mi sono distesa sulla schiena per fare il morto. Mi sono sentita an-dare via. Avevo tanto freddo… ma ero serena…”.

Il primo a notare la donna in mutandine e reggiseno in mezzo al lagonel pomeriggio era stato un trentenne che faceva jogging. “Ho visto quel-la donna nel lago” racconterà alla polizia “sembrava che nuotasse …”. Po-co più tardi nei pressi del lago arriva un uomo che sta portando a spasso ilsuo cane. Una tranquilla passeggiata in riva al lago in cerca di refrigerio.Sarà lui a vedere la donna. Si tuffa, riesce a trascinare Simona a riva e a da-re l’allarme.

Senza perdono

“Matteo quando mi alzerò per andare al lavoro non mi chiamerai più, maalla sera guardando le stelle penserò a te che giochi con Davide. Ciao bambi-ni miei.”È l’ultimo saluto del papà ai funerali di Davide e Matteo.Nella piaz-za del paesino la chiesetta è troppo piccola per contenere tutta la folla. Inchiesa in prima fila ci sono però alcuni posti vuoti. Mancano i nonni mater-ni. In un angolo piange la sorella maggiore di Simona. Ha la stessa facciadolce e gli occhi chiari. Il parroco chiede di pregare per chi deve sopportarela sofferenza di aver perso Davide e Matteo ma a tratti la voce gli si ferma ingola e singhiozza.

Per il resto è una cerimonia funebre in un silenzio irreale. Gli amichetti diMatteo hanno gli occhi sgranati… non capiscono. Matteo sedeva nello stes-so banco con un ragazzino biondo che ora se ne sta rigido accanto alla ma-dre. Le telecamere delle televisioni, per una volta più discrete, non indugia-no sul padre.

Deve far caldo mentre il corteo funebre risale la montagna. Si vedonosprazzi di verde, il quadro di un paesaggio incontaminato. La natura offre ilmeglio di sé persino in questa occasione. Il cimitero è arroccato su in cima,il posto è pittoresco. Domina la valle. Chi ha occhi buoni può scorgere in

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lontananza il riflesso dell’acqua del laghetto. Il padre di Davide e Matteo in-dossa una camicia a mezze maniche con una fantasia minuta azzurra. Sem-bra un uomo molto adulto, i capelli brizzolati, la pelle mangiata di chi stasotto il sole a lavorare duro. Nei suoi occhi ci sono troppi interrogativi aiquali non è in grado nemmeno lontanamente di dare una risposta. Rimaneper un po’ a guardare fisso davanti a sé… la testa si accascia su chi gli sta vi-cino, in cerca di conforto. Cammina, sostenuto passo dopo passo, un calva-rio senza fine, il corpo grosso senza forza. I muscoli, le mani tozze, non ri-spondono al cervello. Non pronuncerà parole di perdono. Nella tomba deisuoi bambini vengono deposti un pupazzetto e una mela. Il pupazzetto è diDavide. La mela è il frutto preferito di Matteo.

“Nel mio cuore non c’è spazio per il perdono” dice il marito di Simona“mia moglie poteva andarsene, chiedere la separazione, fuggire, abbando-nare me e i miei figli. Ma non ucciderli. Qualsiasi cosa dico... ma non ucci-derli… erano anche figli miei …”

Una rabbia che non trova conforto.Simona è andata al cimitero soltanto qualche tempo dopo. “Non è stato

bello” mi dice. “Ci penso sempre ai miei bambini. Un giorno quando sonoandata in licenza a casa, nella casa dei miei genitori, ho visto le loro foto. Leho guardate a lungo. Ho baciato le foto dei miei bambini. Le ho accarezzate.Ci penserò sempre ai miei bambini…” Dice queste parole, Simona, tutte diun fiato.Forse perché io non possa chiederle altro di questa assurda vicenda,di questo amore che riesce a uccidere.

Ma comprende la richiesta che è nei miei occhi. “Anche mio marito nonriusciva a capire. Io volevo spiegare. Quando è venuto a trovarmi subito do-po la tragedia se ne stava attaccato con le spalle al muro e mi guardava terro-rizzato come se avessi potuto ucciderlo… mi continuava a gridare: ‘perché ibambini? Perché non sei morta?’Ma io ero così sicura di morire con loro chetutto mi sembra una beffa.”

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Il futuro

Simona è stata assolta perché ritenuta incapace di intendere e di volere almomento della tragedia.Al processo, con rito abbreviato, è stato stabilito unpercorso terapeutico in una casa di cura per dieci anni. Per questo Simona èora a Castiglione delle Stiviere.

C’è una domanda che aleggia nel colloquio con Simona, una domandasilenziosa. Arriva quasi inevitabile proprio quando abbiamo smesso di rie-vocare il passato e per assurdo cerchiamo entrambe una conclusione, unmodo per congedarci, pensando al futuro. Perché, per quanto possa sem-brare inconcepibile, la donna che mi sta davanti è viva. Dorme, mangia, co-munica, vede la televisione. Esce da Castiglione per brevi passeggiate consi-derate come un premio. È già andata una volta a casa a trovare i suoi genito-ri e da loro, mi dice con fermezza, andrà a vivere un giorno per ricomincia-re, magari cercando un lavoro. Con un sorriso che vuole sembrare vero manon le illumina lo sguardo dice che non può fare altro. Perché non si puòcancellare il passato e non si può tornare indietro. Si può solo, ripete, anda-re avanti. Deve continuare a dirlo anche a se stessa. Forse per non crollare.Un’altra volta. Così quando quella domanda arriva tra noi è come se il sipa-rio scendesse su una commedia e i protagonisti, per un attimo immobili,fossero costretti loro malgrado a togliersi la maschera e tornare sulla scenasvelando un altro volto. Il vero volto.

“Sì” risponde mentre gli occhi cambiano colore e sono ora pieni di pa-gliuzze cupe “mi sono chiesta mille volte perché quel signore è passato vicinoal lago con il cane e mi ha vista. Mi sono chiesta perché non è passato un atti-mo prima per salvare i miei bambini.Perché mi ha salvata? Bisogna essere co-raggiosi anche per rischiare la vita e fare una cosa del genere! Io dico perchénon mi ha lasciata lì? Perchè devo vivere e i miei bambini sono morti?”

Piange e le lacrime colano giù troppo in fretta per poterle fermare. Ne ècome sorpresa e spaventata. Un senso di liberazione che deve aver concessopoche volte a se stessa. Singhiozza, piano, quasi avesse paura di far rumore.

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Le lacrime continuano a scendere. Volge lo sguardo lontano, ha vergognadi tutto questo. La bocca le si serra in una smorfia. Trattiene fiele e dolore.Sin quando, atroce, esplode in un grido.“Io dico… maledetto quello che miha salvata”.

Vivere nella sofferenza

A volte non è facile convivere con il dolore che lascia piaghe e strappa vialembi di pelle. Penso a quelli che sono chiamati a curarle quelle piaghe. Chehanno il compito di capire quanto sono purulente e se possono infettare ilresto del corpo. Devono sapere come avvicinarsi, toccare, sentire l’odore,provare pietà, passione, tenerezza. Essere umani non freddi operatori in ca-mice bianco. E devono farcela.

Per Antonino Calogero, il direttore che ha trascorso trenta anni a Casti-glione, ci sono una infinità di ricordi. Suoni, voci, grida nella notte e risateaspre di follia. Quanto è lungo il nastro della memoria? Quante immaginipuò contenere?

Le donne di Castiglione le ha impresse su quel nastro, una ad una. Le haviste sfilare dinanzi ai suoi occhi, anno dopo anno. Simona, Manuela, An-na. Francesca che aveva all’epoca quaranta anni, due figlie grandicelle e unmaschietto di tre anni e si era convinta che il bambino fosse malato e avreb-be sofferto e per proteggerlo lo aveva lasciato a galleggiare nella corrente diun canale. Angela che ha soffocato il figlio di due anni con un cuscino pervendicarsi del marito che le sembrava freddo e distante. Margherita che hadipinto un quadro nel quale è ritratta una madre con un bimbo in grembo.Il bimbo che ha lasciato cadere dalle sue braccia affacciandosi dal balcone.La ragazza che ha ucciso il figlioletto per paura che il marito ne abusasse. Cisono immagini che scavano solchi più profondi. Hanno colori più cupi,stridono. O fanno semplicemente più male per ragioni che conosciamosoltanto noi.

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...folletti, demoni, fantasmi...

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Cleo - Il rosso da la vita alle onde (acrilico su tela, 38x55, 2002)

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Cleo - Io sono Aracne (acrilico su tela, 52x60, 2004)

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Cleo - Senza titolo (acrilico su tela, 63x50, 2005)

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Cleo - Senza titolo (acrilico su tela, 65x50, 2004)

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Cleo - Senza titolo (acrilico su tela, 58x62, 2004)

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Cleo - Senza titolo (acrilico su tela, 56x46, 2005)

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Cleo - Senza titolo (acrilico su tela, 42x90, 2004)

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Calogero ripensa a quella donna 10 anni fa divorata dal dolore di avereucciso la figlia. Se ne stava nella sua camera immersa in lunghi colloqui conla bambina che non c’era più. Le parlava cercando conforto.A volte erano leconversazioni di tutti i giorni come se la piccola potesse essere davvero lì di-nanzi ai suoi occhi e lei potesse toccarla, di nuovo viva, vera perché nienteera mai arrivato a turbare il loro mondo, intatto, chiuso in quella stanza. Al-tre volte l’illusione finiva per essere crudele. Le diceva “tu sei la mia bambi-na che non ho più… perché invece di proteggerti ti ho ucciso…”Poi la don-na implorava comprensione “ti ho dovuto uccidere, perdonami, ho dovutofarlo.” Ma chi avrebbe potuto assolverla? Il suo era un tormento, un incubodiabolico, un estenuante colloquio senza risposta. Il dolore l’ha sopraffatta.Ma il suo viso riemerge dal buio. Al dottor Calogero ogni tanto sembra divederla in quella stanza, attrice disperata nella sua follia. Il set di una rappre-sentazione agghiacciante. Anche per un medico ci sono le sconfitte con lequali fare i conti. Parlarne è un segno di umiltà, forse unico, in un mondo dionnipotenti. Calogero ripensa qualche volta a un paziente che tantissimianni fa aveva ucciso le due figlie all’arma bianca, come si dice, simbolo dipurezza e candore secondo gli psichiatri. Quell’uomo pareva schiacciato daldolore e dall’angoscia. “Un giorno” racconta Calogero “riuscì infine adaprirsi e raccontarmi qualcosa di sé e della sua storia. Mi parlò anche deisuoi momenti felici, del viaggio di nozze in Toscana con la moglie, tantotempo prima... Noi stavamo andando a Lucca. Gli avevo chiesto di accom-pagnarmi per andare a trovare mio nipote che era nato da poco e era ricove-rato in ospedale per alcuni problemi di salute”.

“Dopo qualche anno” prosegue Calogero “il paziente fu dimesso e primadi andar via mi disse che aveva timore di tutto quello che l’attendeva fuori.Della vita non protetta dell’ospedale psichiatrico. Era un medico. Gli suggeriidi dare un senso alla sua vita, di cercare di aiutare gli altri per quanto possibi-le, di recarsi in una missione in Africa per ricominciare.”“Ero giovane. Forseinesperto” mi racconta ancora Calogero “non potevo immaginare fino a chepunto fossero grandi le sue paure. Dopo qualche tempo si è impiccato.”

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Per una triste fatalità anche il nipote del dottor Calogero è morto. Giova-nissimo qualche tempo dopo in un incidente stradale.

Ricordi amari scolpiti nella roccia, come macigni.

Il giornalino

A Castiglione,prima di andare via,mi hanno regalato un numero del gior-nalino realizzato dai pazienti dell’istituto. È un lavoro artigianale. Non ci so-no soldi per riviste patinate. In copertina c’è persino un disegno colorato amatita. È un albero con un pappagallo. Una immagine frammentata. Ancheil colore sembra tracciato in modo infantile, ma nella semplicità dell’involu-cro sono racchiuse mille esperienze, le anime e i pensieri delle persone rico-verate tra quelle mura. Alcuni detenuti preferiscono usare uno pseudonimoe ogni riflessione è a tema. Nel numero che ho tra le mani i pazienti rispon-dono alla domanda “che cosa farei se fossi fuori di qui.” Sorrido. Mi sembrauna domanda assurda, come chiedere a un ricco di diventare povero per ap-prezzare tutto quello che aveva prima e forse gli sembrava insignificante.

Un certo Carlo scrive: “mangerei quello che voglio, spaghetti e bistecche,dormirei almeno il week-end. Guarderei la tv. Andrei a pescare d’estate.”Leggo di una certa Agnese. Dice: “di sera farei le serali e di mattina lavorereicome domestica...”Francesca:“starei assieme alla mia famiglia che mi man-ca tanto...”Roberto:“lavorerei presso la città di Milano come imbianchino...La sera mi dedicherei allo studio e alla meditazione.” Matilde: “per primacosa mi rimetterei in sesto e poi andrei a trovare i miei amici e parenti chenon vedo da un anno.” Un tizio che si firma Scafandro medita, una voltauscito, tremende vendette contro chi gli avrebbe sottratto terreni e ville. Maanche con gli psichiatri non è tenero. Scrive:“ci sono medici che si danno unsacco da fare per cambiarti la vita, se tu hai un mestiere si danno da fare pertogliertelo e ti consigliano di zappare la terra… psicologi fetenti che voleva-no sapere tutto del mio passato personale.”

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Quante storie dietro questi nomi di gente che non conosco. Eppure sem-bra tutto così banale. Lo sguardo mi cade su un titolo:“Un gesto estremo: ilsuicidio.”“Molta gente” scrive Fernando “si uccide perché trova il coraggionel gesto che compie... C’è il suicidio con la droga... C’è quello sparandosi epoi quello che si impicca. Cosa dire del suicidio? È solamente qualcosa cheesiste nella vita.” Una donna che si firma Veronica si spinge oltre: “Appenaarrivata in ospedale mi sentivo persa... Non accettavo né regole né dottori.Un giorno ero così stufa e piena di rabbia con il mondo e con me stessa chepresi un temperino lo ruppi tirai fuori la lama e cercai di tagliarmi le vene...Avevo provato e riprovato ma mi feci dei taglietti da niente allora presi unreggiseno e lo misi al collo e strinsi così tanto che ero diventata viola, nellostesso momento entrò nella camera la mia compagna che chiamò subito gliinfermieri che mi portarono in un’altra stanza e mi medicarono le braccia.Poi mi chiusero in contenzione, legata mani e piedi per farmi riflettere perquello che avevo fatto, ma io nella mia testa pensavo che appena uscita l’a-vrei rifatto. Infatti appena uscita di lì, dopo tre giorni mi sono messa un al-tro reggiseno al collo ma se ne accorsero gli infermieri e mi rimisero inquella stanza che poi alla fine mi fecero capire che stavo sbagliando, infattisono qui ora a scrivere.”

Mi sono assopita, cullata dal treno, con questi racconti nella testa e dinuovo nel sogno è venuta a farmi visita la donna con i capelli lunghi nerocorvino, scalza e triste. La donna che avevo già sognato. Questa volta era so-la in una stanza dalle pareti altissime, bianche di un bianco che abbagliavagli occhi. Non c’erano voci e suoni, non c’erano grida di popolani assetatidi sangue. La donna se ne stava seduta su un materasso, poco più che ungiaciglio ed era così sola da non riuscire neppure a percepire il contatto delsuo corpo sul letto o la consistenza della parete sulla quale, comunque,poggiava la schiena. Era talmente sola da non riuscire a sentire nemmeno ilbattito del suo cuore o il suo respiro che in qualche modo le avrebbe tenu-to compagnia. “Qualcuno mi aiuterà, qualcuno mi salverà.” Ma la sua erauna solitudine nella quale non c’erano ricordi di una vita, né dolore, né

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gioia, né rimpianto, semplicemente perché niente sembrava essere mai ac-caduto. O tutto era stato cancellato. E quel vuoto era così insopportabileche la donna del sogno cercò di urlare almeno per sentire la sua voce e nonriuscendo ad avvertire nemmeno quella si mise, impazzita, a colpire labianca parete davanti a sé con la sua testa. Forte, sempre più forte. Per sen-tire almeno il dolore .

Il nonno di Maria Grazia aveva un cavallo. Si chiamava Fulippu. Un nomedi persona. In effetti Fulippu meritava quel nome perchè capiva più di unumano. Riusciva a rendersi conto di ogni stato d’animo. Lo avvertiva dal toc-co di una carezza sulla criniera lucida “niura niura”, da cavallo imperioso. Oforse riusciva a catturare ogni cosa nell’aria sollevando appena le enormi fro-ge. Restava qualche secondo così, all’erta, ed era come se il mondo iniziasse aparlargli.

Innanzitutto, ma questa doveva essere la cosa più semplice, sapeva deicambiamenti del tempo ancor prima che la pioggia arrivasse. Te lo diceva conun fremito, impercettibile. E non sbagliava mai. Ma lo straordinario era il fiu-to di Fulippu per le disgrazie e le gioie di chi gli stava vicino.

Il nonno aiutava Maria Grazia a salire in groppa a Fulippu, che era alto al-to, un bestione, e le camminava al fianco tenendo le briglie. Maria Grazia pen-sava così davvero di cavalcare e di aver domato con le sue arti il fiero destriero.Si sentiva orgogliosa. Il nonno cercava di accelerare il passo per far divertire labambina ma l’età e il bastone sul quale era costretto sempre più a fare affida-mento gli impedivano di correre. Qualche volta le lasciava fare un tratto da so-la sapendo che Fulippu si sarebbe comportato al meglio. Facevano lunghe pas-seggiate nei campi tra gli aranceti che si tingevano di sfumature rosa nel sole altramonto, quando la calura mollava la sua presa. L’aria diventava più tersa eallora si poteva vedere meglio la sagoma della grande montagna, il vulcano, ilgigante che se ne stava all’apparenza buono buono e la gente del posto diceva

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che era meglio così perché quando si svegliava madonnuzza santa erano guai.Scintille, saette, brontolii spaventosi e un fiume bollente e rosso di lava chesembrava l’inferno. Raccontano che l’ultima volta la colata era giunta all’estremità del paese e aveva inghiottito la chiesetta e la Madonnina e poi lastrada che si acciambellava come un serpente.

Il signor Gaetano, che stava alla casa più in cima ed era sordo, si era co-munque sentito vibrare il corpo con tutte le pareti e aveva aperto, sorpreso, laporta. Il torrente di fuoco gli era arrivato a un passo e come per miracolo si erafermato. Per questo la casa del vecchio Gaetano pareva un presepe scavato nel-la roccia e lui un novello San Giuseppe.

Così Fulippu capiva benissimo quando Maria Grazia era pimpante. L’asse-condava nei suoi giochi. La portava a spasso docile come mai si sarebbe im-maginato per un cavallo di razza. A volte faceva quasi finta di impuntarsi, co-me un mulo, e sembrava prendere gusto ai corteggiamenti della bambina chelo implorava ridendo “e dai, Fulippu, cavallo bellissimo, il cavallo più bello delmondo… nessuno è bello come te… galoppa cavallo, galoppa…”

Allo stesso modo l’animale aveva imparato anche a sentire l’inquietudinedella bambina. Un sussulto nelle manine che gli si aggrappavano addosso, legambette che si serravano, la voce un po’ più stridula. Un non so ché indefini-bile che agli umani sfuggiva. E a lui invece cavallo era chiarissimo. La primavolta che Fulippu aveva percepito quella strana sensazione aveva continuato atrotterellare ancora più vispo come se niente fosse. Si era rifiutato di girare peril sentiero che portava al greto asciutto del torrente, tanto per provocare la rea-zione della bambina. Poi all’improvviso aveva accelerato perchè sapeva che aMaria Grazia piaceva tantissimo quando sentiva il vuoto nella pancia. In-somma si era dato da fare in tutti i modi. Poi,meglio di un umano, aveva com-preso che in quelle occasioni a Maria Grazia piaceva di più sentirsi portare aspasso lentamente, in modo che la bambina potesse sentirsi sicura avvertendoil corpo robusto dell’animale sotto di sé, il suo odore, concentrandosi sul ru-more degli zoccoli che si stampavano sulla terra… clap…clap… Gli uccellinicinguettavano. Un cane in lontananza abbaiava. E a Maria Grazia sembrava

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di essere cullata.“Ninna oh, ninna oh… fai la nanna Maria Grazia... come seicarina” le diceva una voce nella penombra di una lampada. A volte le sembra-va che la voce fosse dolce e melodiosa: una carezza. Altre volte le sembrava lon-tana e fredda: svuotata. Una cantilena monotona che non la confortava.

Eppure Maria Grazia era certa. Anche la sua mamma un tempo l’avevacullata.

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SECONDA PARTE

LA BRUTTA STAGIONE

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Il ritorno

Sono tornata a Castiglione in autunno inoltrato. La nebbia mangia le os-sa, la senti dentro, si raggruma nelle narici. Arriva dal lago. Sale verso il pae-se su fino al castello, si infila nelle stradine linde e vuote, percorre i bastionidel vecchio carcere e lascia affiorare nella piazza principale un signore dal-l’aria distinta, i baffi scuri, un giornale sotto il braccio. È un ex paziente del-l’ospedale psichiatrico e vive qui in paese.

Il viale dell’ospedale è un sentiero di foglie venute giù dagli alberi e di ca-stagne inzuppate di acqua che scivolano, crocchiando, sotto le scarpe. C’èstato qualche giorno di sole poi la pioggia è tornata inclemente. Mi diconoche presto ci sarà una bella gita. I pazienti che stanno meglio andranno fuo-ri a cogliere le castagne nei boschi. Al ritorno ci sarà una grande festa: casta-gne per tutti. Al bar dell’ospedale. Musica. Forse qualche ballo.

Nel frattempo qualcuno si è fidanzato. Come Cleo, che qui chiamanol’artista. Si veste e si muove come un personaggio di classe. Ha pizzi neri aibordi della camicetta che le sbuca dalle maniche ampie del giaccone. Piegaleggermente il collo per guardarti. Metà della faccia è coperta dai capelli,striati di argento, un vago taglio alla francese. Arrota un po’ le consonanti enon capisco se è un vezzo. Forse era di buona famiglia, ma si capisce che hafrequentato anche la strada, la droga, gli uomini vecchi e sudati che paganoper un po’ di compagnia. Raccontano che ha ucciso da ragazza ed è tornataa uccidere. Dipinge e i suoi quadri sono stati esposti in diverse mostre. Ci so-no folletti che sembrano nascere dalla natura e sorprendono spuntandofuori dal tronco di un albero. Cammina mano nella mano nel parco con unbiondino del settore maschile con i baffetti e l’aria vispa. Mi salutano con ungran sorriso. Sembrano una coppia come tante. Si abbracciano nel viale da-vanti alla cancellata che separa il reparto maschile da quello femminile. Si

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scambiano un bacio e si danno appuntamento al giorno dopo quando po-tranno incontrarsi durante le attività comuni.

Sanno che sto scrivendo un libro e che li sto osservando. Non sono ostili.Anche il direttore dell’ospedale si fida di me e ho un permesso speciale, qua-si insperato. Mi viene consentito di “vivere” con i pazienti. Libera tra le mu-ra dell’ospedale psichiatrico, tra di loro, a parlare anche del tempo “che quid’inverno fa davvero brutto e freddo”.

La follia, mi rendo conto, ormai, ha davvero mille facce. Il mio viaggionon era ancora finito. Per questo sono tornata. Ora ho meno paura. E possoguardarle tutte.

L’infermiere

Le donne sono tutte al bar dopo pranzo. Bevono un caffé. La barista fa fa-tica a tenerle a bada.“Un po’ di pazienza, eh… in fila… mica posso fare tut-ti questi caffé in un minuto.”

Chiedo anche io un caffé e mi guardo intorno. C’è un chiacchiericcioquasi allegro. Si sono formati dei gruppetti. Le anziane sembrano le piùsfrontate. Continuano a provocare la barista, che un po’ si innervosisce. Al-cune lo fanno per farsi notare. Superano la fila, si girano verso di me con lar-ghi sorrisi che odorano di troppe sigarette. Alzano la voce e si chiamano l’u-na con l’altra per non dirsi nulla. Sorseggio la mia tazzina. Il caffé è buono ec’è tanta umidità e ho voglia di sentire qualcosa di caldo, lo assaporo e per unattimo dimentico dove sono. Fino a che lo sguardo, sopra l’orlo della tazzi-na bollente, arriva in fondo alla sala a un tavolo. C’è un bell’uomo dai capel-li brizzolati, ha una camicia a quadri di flanella, le maniche arrotolate suipolsi e sorride. Tiene un bicchiere in mano e con dolcezza sostiene il viso diuna ragazza, grassottella, i capelli neri sgraziati e gli occhi a palla persi nelnulla. Le dice qualcosa. È seduta su una sedia a rotelle e tutto di lei sembraimmobile, paralizzato. Si chiama Lara. Avrà 25 anni ma come tutte le perso-

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ne che stanno molto male è difficile darle un’età. Non è bella. I tratti del visosono infantili, una maschera appena sfiorata dal tempo, sembrano rimasti aquando aveva 14 anni al giorno in cui ha avuto una ischemia. Ha cercato diuccidere la madre. A Vicenza, dove era stata ricoverata, ha cavato un occhioa un infermiere. Ora sta lì, ferma, con le mani fasciate. Due enormi guanto-ni bianchi di garza che le serrano le dita e le unghie e la fanno somigliare a unpugile suonato. Per lei non ci sono molte speranze.

“Le sto vicino. Le faccio bere qualcosa” dice l’uomo dai capelli brizzolati.Fa l’infermiere qui da diciannove anni e si chiama Agostino. Spiega che nonc’è niente di strano nel suo lavoro. Che non ha paura.“Non dobbiamo mo-strare che abbiamo timore. Con le malate più gravi è molto rischioso. Dob-biamo essere comprensivi e forti…”“Anche con Maria devo fare così … po-veretta vedi…ci sono stati un po’di problemi con un’altra infermiera. Qual-che incomprensione… ora me ne sto occupando io.”

Maria da qualche ora è chiusa nella sua stanza. È legata al letto. Non ave-vo mai visto una persona in quello stato. Il suo corpo impresso nel biancodelle lenzuola, le braccia e le gambe leggermente aperte come in un sacrifi-cio. Aveva una crisi fortissima e ha litigato con un’altra malata. Agostino di-ce che anche l’altra non è un tipo facile e che cerca lo scontro.

Maria è a Castiglione perché ha cavato gli occhi alla madre. Proprio leiche ha occhi grandi di un azzurro incredibile tinto di violetto, colori di altritempi sul volto bianco, la pelle liscia e la bocca carnosa come una albicocca,da adolescente. Occhi che non ti parlano, però. Chissà perché le piace tantorompere i televisori. Era ricoverata in un altro ospedale fino a qualche tem-po fa. Mentre tutte le pazienti erano lì a godersi lo spettacolo, balletti, quiz ereality show, lei ad un tratto “patapomf”afferrava il televisore con una forzasovrumana e lo scagliava in terra. La prima contestatrice vera della tv. Negliultimi giorni ne aveva fatti fuori otto di tutte le dimensioni. Erano state sce-ne di panico, di rabbia tra le pazienti, grida, insulti. L’avrebbero strozzata seavessero potuto e lei, con quegli occhioni incredibili, sembrava ogni voltacontenta per aver portato a termine la sua missione.

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“Ti facciamo uscire dalla stanza… ti laviamo e ti vestiamo… puoi andarein corridoio con le altre Maria… ma se ti comporti male...”

Maria stringe quel patto con Agostino e il dottor Esti. Dice sì con la testa,farfuglia, mugola mezze parole che valgono un accordo e sgrana gli occhisempre più azzurri. Sembra la Biancaneve di una favola triste. Mi chiedoquanto capisca. Ma so per certo che nessun principe azzurro verrà a sve-gliarla dal suo brutto sogno.

A Maria Grazia il mondo riservava sempre qualche sorpresa. E a volte eranobrutte, come quando aveva scoperto che la signora della focacceria, una portadopo la casa del nonno,aveva deciso di chiudere per sempre il negozio. Anche inpaese lo sconcerto era stato grande. Primo perchè la signora Concetta non avevamai parlato delle sue intenzioni e, secondo, perchè la donna, pasciuta e allegra,non sembrava in età pensionabile.

In effetti i capelli erano più bianchi che neri, ma la pelle del viso pareva quel-la della pastella di pizza e focacce, stirata, pallida, senza una grinza a darle fasti-dio. O forse la farina, panzerotto dopo panzerotto, granello dopo granello, le erapenetrata nei pori facendola somigliare a una statua di borotalco e nasconden-do la sua vera età...

Così il giorno che la saracinesca della bottega non venne tirata su, in piazza fuil caos. Il cartello scritto a mano con tratto incerto diceva “iativinni a casa... daoggi Concetta s’arriposa”, insomma “andate a casa da oggi Concetta si riposa”.La gente si dava spallate e ‘murmuriava’, perché a Concetta in tanti anni non eramai venuto in mente di riposarsi. Che novità era mai questa? Concetta non ave-va mai saltato un giorno di lavoro e quando l’aveva fatto, in casi che si contanoa memoria sulle dita di una mano, si era premurata di avvisare i suoi clienti conlargo anticipo. I paesani si misero comunque in fila per comprare gli arancini.Sì, certo la povera donna faticava, eccome, e da tanto tempo. Si alzava presto al-la mattina e tirava fino alla sera tardi ma, si dicevano tra loro, la faccenda era

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senz’altro un brutto scherzo e si sarebbe chiarita nel giro di un quarto d’ora.Concetta, che non era abituata, si sarebbe stancata di riposarsi!

La fila cresceva di minuto in minuto e l’attesa dei tanti diventava senza spe-ranza. C’era chi parlando del ripieno di piselli e sugo per gli arancini iniziava ausare i verbi al passato.“Ti ricordi quello di Concetta era il migliore.”“E la scac-ciata, con la tuma filante. Com’era morbida.”“Per me la scacciata più buona eraquella con i broccoletti, li coltivava lei.”

Insomma come in una cerimonia funebre la gente iniziava a fare le condo-glianze ai menu della signora Concetta.

Maria Grazia quel giorno era scesa per le scale veloce come un razzo, i soldinistretti nella mano, per andarsi a comprare una bella razione di scacciata, la piz-za calda, e una bottiglietta di coca cola. Piombò sulla fila che si era allungata sulmarciapiede sino alla porta del nonno e per poco non ci sbatté il muso. Si fecelargo tra la folla, incuriosita, spintonando qua e là, e arrivata dinanzi al cartelloche a malapena riusciva a leggere, fu presa dallo sconforto.“Che c’è scritto… chedice?” chiedeva la bambina preoccupata. “C’è scritto che Concetta si riposa.”Maria Grazia non voleva crederci. Nel brusio che ormai regnava dinanzi allabottega d’un tratto un uomo tuonò. “Muti, v’ate a stare muti” “Zitti state zitti”disse tendendo l’orecchio per sentire se qualche rumore proveniva dall’internodella focacceria. E tutti si paralizzarono. Ma il buon senso diceva alla bambinache se la signora Concetta si fosse semplicemente nascosta dentro la bottega aimpastare arancini e scacciate l’odore le avrebbe riempito le narici e nemmenola saracinesca chiusa sarebbe riuscita a arginare tale delizia.

Fu quella, per Maria Grazia, una giornata triste. Anche i paesani ne soffri-rono a lungo. Del resto, per quei misteri inspiegabili della vita, la signora Con-cetta si era come volatilizzata. Aveva chiuso bottega, nella quale lavorava da so-la, aveva chiuso la casa, quella vicino alla fontana con le bocche di pesce, nellaquale viveva da tempo da sola e nessuno era stato in grado di ricostruire che co-sa fosse accaduto. I più informati, che questa volta però erano stati gabbati benbene, dissero che la signora aveva qualche parente al nord e che forse era lì che siera andata a riposare e a spolverarsi la faccia dalla farina.

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Per Maria Grazia la scomparsa della signora Concetta con tanto di pizze,arancini e coca cola era stata dunque drammatica ma la bambina per qualcheragione profonda aveva da tempo iniziato a pensare che le persone apparivanoe scomparivano senza molte spiegazioni. Un po’ c’erano un po’ non c’erano.Punto e basta. E quelle che non c’erano ora, magari non erano vere. Se le era in-ventate, visto che poi non se ne ricordava più tanto bene. Così con la stessa na-turalezza aveva finito per accettare, sempre lo stesso giorno, la altrettanto mi-steriosa comparsa di un ragazzino che, le dissero, era suo fratello. Aveva rifattole scale con il fiato in gola per andare a raccontare al nonno la storia della si-gnora Concetta. Le parole le si smozzicavano per la fatica, perchè i gradini era-no altissimi e lei voleva sbrigarsi. Diceva: “nonno, nonno... Gli arancini sonoscomparsi... Cioè la signora è scomparsa... Con gli arancini.” Insomma si in-garbugliava, povera bambina, fin quando sul pianerottolo in cima alle scale vi-de un ragazzino che avrà avuto 10 anni o poco più e che a Maria Grazia sem-brava di aver già incontrato da qualche parte. Se ne stava immobile vicino aglizii e ai cugini e pareva in verità un profugo. Aveva i capelli nerissimi, la carna-gione scura e bella come quella di un indiano, le lunghe ciglia su occhi grandi etristi come di chi ha visto tante cose brutte e ha masticato il sapore amaro dellasolitudine, ma non è riuscito a piangere. Così nonostante i pantaloni con le bre-telle un po’ troppo corti sulle scarpe consumate con i lacci e il maglioncino a ri-ghine che qualche nonna doveva aver sferruzzato con avanzi di lana ruvidasulla pelle, sembrava più grande della sua età. Un piccolo grande ometto severoe compassato. Forse lui sapeva bene che la bella signora dai capelli scuri e le ma-ni candide non era frutto della fantasia. Era scomparsa come la signora Con-cetta ma lui la stava ancora aspettando.

La scelta

“Dottor Ernesto, dottor Ernesto… non mi lasci… mi tenga con lei.”A parlare così è una signora piccoletta, goffa dentro una tuta da ginnasti-

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ca grigia che le fascia troppo i fianchi enormi su piedi e gambe minute. Lemanca un dente e non capisco se scherza o fa sul serio perché implora spa-lancando troppo la bocca e ha gli occhi furbi di chi la sa lunga. Non so qualereato abbia commesso. Il dottor Esti sorride paziente.“Lo sai che mi chiamoAntonio Esti, non Ernesto… va beh… che succede?”

Le donne gli si fanno intorno. C’è una ragazza magrissima, con un giac-chetto di lana rossa che le balla sulla schiena curva e ossuta. Continua a chie-dermi chi sono. È molto agitata. Ha la voce grossa, come impastata di medi-cine. Racconta al dottore che la madre non le ha voluto parlare ancora unavolta al telefono. Del resto la madre le ha sempre detto che “è la fonte dellesue disgrazie”. “Non ho mangiato niente… si vede vero? Sono dimagritatroppo? Prometto dottore, più tardi mangio qualcosa.”

Dal fondo del corridoio una signora di mezz’età continua a ripetere sol-tanto “dottore, dottore...” un ritornello che vale una richiesta.

Oggi è un giorno importante a Castiglione. È in arrivo una nuova dotto-ressa. Le pazienti del reparto arcobaleno verranno redistribuite tra il dottorVernizzi, che è qui da tanto tempo, il dottor Esti che per il suo carattere alle-gro sembra godere di molte simpatie, e la nuova arrivata. Non la conoscono.Hanno paura di essere “cedute”. Chi è più consapevole dell’importanza delrapporto tra medico e paziente teme di dover ricominciare tutto da princi-pio. Chi non è in grado di capire, perché la follia non gli lascia tregua, avver-te soltanto l’agitazione delle altre. Una sensazione sulla pelle. Come un tamtam di guerra che fa drizzare le orecchie. Un segnale di pericolo primordia-le che scatena reazioni a volte buffe. “Come è bello oggi, dottor Antonio…che bel vestito …” dice una vecchietta con il dialetto del nord e le zeta tuttedolci come la gente di Romagna.“Chi è questa bella ragassa che ha portato?Lei ha l’occhio lungo dottore… non sarà mica la dottoressa?”

Il dottor Esti si vede costretto a spiegare che non sono io la dottoressa ecosì quei fremiti si placano.

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Lady Tavor

La vecchietta che parla con il dialetto del nord si chiama Vittoria. Poveradonna, verrebbe voglia di dire, vedendola così allegra nella sua demenza eripensando alle sue gesta. Negli occhi azzurri non c’è un’ombra. Il sorrisosdentato nella bocca tinta di rossetto. Le mani curate. Due begli anelli alledita. E bracciali. Un orologio di antica marca al polso.Veste bene, con classe,camicia e gilet beige ricamato di fiori all’uncinetto, anche se ora sopra i ve-stiti indossa una tunica bianca da lavoro.

Il lunedì a Castiglione è giorno di parrucchieria, così dicono da questeparti. Viene una signora da fuori. Si fanno tagli, si tingono capelli, si fannomeche. Tutte a farsi belle anche lì dentro come facevano prima di arrivare inospedale psichiatrico. Vittoria il lunedì fa l’aiutante.“Lo faccio solo per fareun favore” mi dice, “perché c’è tanto lavoro. Dodici tinte da stamattina, mamica mi piace come lavora quella lì… non si fida di me… non mi vuole farcompletare il lavoro… ma io ai miei tempi l’avrei cacciata.”

Vittoria, classe 1927, di “parrucchieria”ne capisce. Si dice che fosse madredi famiglia e donna benestante perché a Vicenza, spiega, gestiva quattro ne-gozi. Per convincermi che era davvero una brava persona mi racconta che iltribunale per un po’ di tempo le aveva affidato una bambina che aveva pro-blemi a casa. Le assistenti sociali venivano a farle visita al negozio e le dice-vano: “che cuore grande che ha…”. Ma sulla sua storia ci sono molte zoned’ombra.

Avrebbe avuto un ictus… un tilt nel cervello. Misteri della mente… daquel giorno è diventata Lady Tavor… “ah… che gusto a fregar portafogli…mi ricordo di quella signora che aveva un calessino in centro, sa la carrozzel-la con i cavalli… la invito a prendere un caffé, la faccio chiacchierare mentresbriciolo la pasticca tra le mani e quando si distrae la metto nella tazzina…quando è tutta intontita le prendo il portafoglio… c’erano un milione e sei-cento mila lire… tutti in un colpo solo, capisce… corro subito al casinò e meli gioco.”

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“Ma non aveva un po’ di rimorso?”“Ma quale rimorso, mica le ho fatto male… sapesse quante ne ho frega-

te… Al casinò quando mi vedevano era sempre una festa… Mi trattavanocome una regina, con tutti gli onori… Prego signora si accomodi, prego si-gnora venga da questa parte e mi offrivano da bere, tanto poi giocavo…Avevo la grana io… avevo trovato anche delle ragazze che venivano con me,compagne di scuola… Facevamo proprio un bel gruppetto. Ah, bei tempi,come mi mancano.”

Dice tutto questo Vittoria con l’aria sognante.Gli occhi le si accendono e sisfrega la mani vigorosamente per farmi capire quanto gusto le dava gabbarele altre vecchiette. “Guardi signora che io anche a lei riuscirei a prendere ilportafoglio anche se non ho la pasticchina da darle… le faccio vedere co-me… lei ha la borsetta in mano,mi avvicino e l’abbraccio e le dico come va…infilo la mano dentro, così… le sorrido e… zac… ecco qua il portafoglio.”

“No guardi, questa è l’agendina.”“Signora mia, sono un po’ fuori allenamento…”“E lei dottore, dove lo ha messo il portafoglio?”“Dai, ormai non mi freghi più… senti sono venuti a trovarti i tuoi figli ul-

timamente?”“Sì, poveretti… mi sa che un po’ si vergognano di me… io mi ero anche

fatta tutta bella.”“Anche oggi sei molto elegante.”“Sì, lo so, mi sono messa bene perché ho il moroso. Anche lei è bello, dot-

tore. Però il mio moroso è più bello.”Il dottor Esti mi spiega che la signora in fondo non dovrebbe essere lì. Ma

dove mandarla? Dopo tanto clamore nessuno vuole Lady Tavor. È assurdoma riesce a far sorridere. In tanto dolore, lei Vittoria non ha lacrime e sem-bra una bambina ancora con la voglia di fare marachelle.

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“Giro giro tondo quanto è bello il mondo… casca la terra, tutti giù perterra…”

Era un po’ quel pomeriggio che Maria Grazia stava nel cortile della gran-de casa del nonno a saltellare con una bambola in braccio grande quasiquanto una bambina. La bambola aveva i capelli rossi e le lentiggini.

Il pacco che la conteneva era arrivato misteriosamente qualche tempoprima ed era enorme, almeno dal suo punto di vista. Per aprirlo si era dovu-ta sistemare in terra con le gambe incrociate a destreggiarsi con il fiocco e ilnastro adesivo che non ne voleva sapere di staccarsi dalla carta a pallini.Quando infine era riuscita a venire a capo della faccenda la bambola le siera presentata in tutta la sua grazia maestosa.

Il vestito verde stretto da una cintura in vita, le scarpe nere con fibia do-rata, un buffo cappellino di lana arancione con la visiera e una borsetta difinta pelle a fiorellini. Una bambola di lusso.

La prima impressione però non era stata delle migliori. A Maria Graziapiacevano i bambolotti ciocciottelli, con le guance tonde e le cosciotte morbi-de con i quali si poteva giocare a mamma e figlio. Quella, invece, più che unabambola, sembrava una ragazzina finta. Aveva anche l’aria dispettosa e pe-sava un quintale. Maria Grazia così minuta doveva trascinarsela dietro co-me un sacco di patate per tutta la casa.

Fatto sta che con il passare del tempo la bambola aveva perso quell’ariaprecisina del primo giorno. I vestiti si erano sciattati, il berretto alla france-se era finito sotto una poltrona e non si era più trovato, i capelli si erano ar-ruffati in nodi inestricabili, la faccia era diventata piuttosto unta a forza ditoccarla con le mani sporche di cioccolata e di pizza, la borsetta si era strap-pata e le scarpe, nemmeno a parlarne, sembravano aver calpestato chilome-tri e chilometri di territori inesplorati. A quel punto la bambola le era diven-tata più simpatica e Maria Grazia aveva deciso di darle anche un nome,Barbara, come la festa che per giorni trasformava il paese in una grandeprocessione, con canti, bande, fuochi d’artificio e colpi di cannone che rim-

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bombavano dal castello sulla collina. Maria Grazia quando li aveva sentitisi era spaventata. Il primo botto aveva fatto tremare i vetri della casa, comese avessero sparato proprio lì. Il nonno le aveva detto che era solo l’inizio del-le celebrazioni per la patrona e così, tremante ma curiosa, si era messa inascolto. Ne aveva contati ben ventuno con le orecchie che iniziavano a farlemale. Poi era arrivato il suono della campane. Rintocchi frenetici che richia-mavano in strada la gente. A sera i pellegrini, ormai un paese intero, eranogiunti tra cori e squilli di tromba proprio dinanzi alla chiesa nella piazzasulla quale s’affacciava la casa del nonno.

Maria Grazia era corsa in balcone e si era schiacciata tra le strette colonni-ne di ferro per non perdersi lo spettacolo. Il fiume di gente era proprio sotto dilei, avanzava compatto, un esercito nella via troppo stretta per contenerlo tut-to e le era sembrato quasi di poter toccare la statua della Santa dall’ aspettodolente. Come le donne in prima fila, generalesse velate di nero, che ondeggia-vano con il rosario nelle mani. “Santa, santa, santa Barbara…” pregavanocome un sol lamento. Niente a che vedere dunque con l’aria birichina della suabambola. Ma il nonno le aveva raccontato una storia che le era piaciuta.

Tantissimi anni prima in paese era arrivata una brutta malattia che sichiamava peste. La statua o meglio la Santa, era apparsa in sogno ad unasuora che cercava di prendersi cura dei malati. La suorina, vedendone mori-re troppi sotto i suoi occhi, aveva implorato la santa di far andar via la peste.E così era stato. Dopo quel racconto Maria Grazia aveva deciso che la suabambola non solo si sarebbe chiamata Barbara ma che, in mancanza di bam-bine della sua età, avrebbe giocato con lei in cortile a girotondo. “Giro girotondo, quanto è bello il mondo, casca la terra, e Barbara va per terra…”

Se la statua di Barbara, o la santa, aveva liberato il paese da quella bruttamalattia che si chiamava peste anche la sua bambola con gli stessi poteri ma-gici avrebbe cancellato quella brutta malattia che aveva portato via la bellasignora dai capelli neri. Che cosa poteva esserci peggio della peste?

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Jadranka

Ho diviso le gioie con teNelle stagioni

Della nostra bellezza Vardare di Macedonia

Fonte di vitaProsegui la via

Prosegui

Ho conosciuto Jadranka dopo aver letto la poesia nel libricino che i dete-nuti di Castiglione hanno pubblicato nel giugno del 2005. Il titolo della rac-colta è Mordere il tempo restando. Jadranka ha voluto dedicare la poesia alfiume Vanare che scorre nella sua terra di origine, la Macedonia.

Mi sono ricordata immediatamente di lei. Era il giugno del 2001. I lancidi agenzia nelle redazioni battono la notizia.“Una donna di 36 anni uccide acoltellate i due figli.”Accade in un paesino alle porte di Roma. È sufficiente ascatenare la corsa dei cronisti sul posto. Arrivano altre informazioni. I duefigli hanno quattro e sei anni. La donna ha sferrato almeno trenta coltellatee si è anche ferita in modo leggero. Ha qualche taglio sui polsi ma non è inpericolo di vita.A trovarla rannicchiata in un angolo della casa è stato il ma-rito.È italiano e fa il barista.Quando è tornato dal lavoro tutto taceva.Nel si-lenzio una visione orrenda. Il bambino più grande morto, straziato da al-meno quindici coltellate all’addome. Il più piccolo ferito in tutto il corpo ealla gola. Ma respira. È appena un rantolo. Il marito di Jadranka si affacciadisperato alla finestra.Urla.Chiede aiuto.“Vi prego correte… aiutatemi… liha uccisi fate qualcosa…”Ma la corsa in ospedale è inutile. Il bambino muo-re poco dopo. Nelle ore successive anche Jadranka, come altre donne chehanno ucciso i loro figli, cercherà di dare una spiegazione al suo gesto, l’uni-ca che la sua mente riesce a concepire. Ripete:“non volevo farli soffrire.” Ungrido accorato, assurdo. Ma da cosa voleva salvarli? Jadranka dice “sentivo

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delle forze superiori dentro di me che mi spingevano a fare quello che hofatto per difendere i miei bambini, per la loro incolumità fisica.”

Jadranka avrebbe parlato dei suoi suoceri “non volevo che mio maritoportasse i bambini da loro.” In un momento di lucidità, quasi rassegnata,riesce a raccontare come li ha uccisi. Ma Jadranka, secondo le cronache, eragià depressa da tempo. Si era rivolta ai servizi di igiene mentale, anche se lagravità del suo stato non era così evidente. Sembrava a molti soltanto un ca-rattere ombroso, chiuso, frutto di una cultura diversa. Una donna orgoglio-sa. Sono passati anni. La donna che mi viene incontro ha lunghi capelli ca-stani, un naso importante, da eroina greca, e occhiali vagamente antiquati,da intellettuale. Sembra più adulta della sua età. Parla benissimo l’italiano,conosce le sfumature della lingua e le chiedo semplicemente di parlarmidelle sue poesie che devono essere diventate la sua vita o almeno l’aspirazio-ne di questa parte di vita. Mi dice che in Italia per gli stranieri che hanno stu-diato non c’è posto. Possono soltanto fare le pulizie.

“Quando sono arrivata nel vostro paese pensavo di poter fare tante co-se… ero molto ambiziosa. Ho studiato ragioneria e mi sono iscritta all’uni-versità del turismo. Soltanto due anni. Non ho finito… peccato. Mi sono re-sa conto che tutto era diverso. Sono stata male…”

Jadranka è ancora in attesa di giudizio. Non ha mai avuto un permessoper uscire. Mi chiede di non parlare troppo della sua storia, forse perché te-me di essere danneggiata. Ma non mi è chiaro dal suo sguardo e dalle sue pa-role se è consapevole fino in fondo di quello che è accaduto o lo ha ricaccia-to nella profondità della sua mente. Mi saluta con un sorriso cordiale. Michiede di leggere un’altra poesia che ha scritto. È sul coraggio.

Vivo giorno per giorno Goccia per goccia

A pezziIn questo mondo pieno di trappole

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Gli artisti

A Castiglione lo chiamano l’atelier degli artisti e il nome può sembrarepretenzioso. È una sala, tavoli di legno e barattoli di colori, così tanti che si fafatica a starci dentro. Lungo le pareti cavalletti colmi di tele. Su una c’è il ri-tratto di un signore d’altri tempi in giacca, cravatta e bombetta. Tutto scuro.Sembra un personaggio autorevole, forse Freud?, ma ha le sopracciglia gros-se e lo sguardo che incute timore. Un padre severo al quale dare del voi.

Nell’atelier ci sono loro, i pazienti. Uomini e donne, seduti l’uno accantoall’altro. Immersi nel loro mondo. E c’è Silvana Crescini la signora biondache ha insegnato ai pazzi a disegnare. Ha una tempra d’acciaio, dietro losguardo dolce, e racconta storie di oltre quindici anni di scoperte. Per lei èstata una scelta di vita. Disegnava fin da piccola, modellava bambole conpezzi di legno che poi colorava e animali che prendevano forma con il fil diferro. Poi l’accademia delle belle arti e le prime mostre. Lavorava nella segre-teria di un ospedale della zona quando il direttore di quello che veniva anco-ra considerato il “manicomio criminale” le chiese se aveva voglia di far di-pingere i pazienti. I pazzi, si è sempre detto, sono creativi ma Silvana nonavrebbe mai immaginato di scegliere di restare con loro per vederli imbrat-tare le tele di spruzzi, macchie, puntini e pennellate sataniche. Racconta laprima volta nel vecchio ospedale psichiatrico al centro del paese:“Si presen-tarono all’appuntamento in trenta e certo erano strani. C’era chi indossavauna mascherina contro l’inquinamento, chi stringeva un peluche, chi mifissava con occhi sbarrati sin quando una donna, si chiamava Aurora, iltrucco pesante e i vestiti stravaganti aprì un quaderno che teneva stretto sot-to il braccio e si mise a declamare una sua poesia. Parlava d’amore e di no-stalgia... Ecco è cominciato tutto così. Ho lasciato il mio lavoro amministra-tivo e non me ne sono più andata dall’ospedale psichiatrico.”

All’inizio Silvana insegna ai pazienti a fare murales, grandi opere colletti-ve. Poi piano piano li lascia liberi di creare quelle che lei chiama le figure del-la loro anima.Le emozioni più profonde, le paure, la solitudine.“No,non c’è

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nessuna pretesa di analisi o di terapia in quello che faccio. A volte sono lorostessi a dirti che cosa hanno voluto esprimere e sono colloqui tra me e loro.Intimi. Li incoraggio. Si crea un rapporto di fiducia e chiedono di non esse-re traditi.”

Alcuni disegni sono davvero belli, come quelli di una ragazza dai capellilunghi che parla lentamente quasi volesse ricostruire una vita che di calmadeve averne avuta davvero poca. Ci tiene a farmi vedere i suoi progressi. Hainiziato a dipingere quando era in carcere qualche anno fa tanto per passareil tempo. Poi quando è arrivata qui da Silvana ha iniziato anche a studiare lastoria dell’arte.“Vedi…” mi dice mostrandomi una immagine che non rie-sco a decodificare “questo è uno dei primi che ho fatto! Non mi piace tanto...Guarda qui invece… che progressi.” Ci sono disegni nei quali la realtà èscomposta in infinite angolature. Prospettive sconosciute e insolite, come segli occhi dei folli potessero entrare in un altro modo dentro le cose. Mi chie-do se la mente di una persona normale riesce a percepire quest’altra realtà.

Poi ci sono i folletti di Cleo, o i demoni, i fantasmi, i mostri, dettati dal suoinconscio.Anche lei mi fa vedere le tele. Dispone i disegni su un tavolo muo-vendo le belle mani con gesti rotondi, stranamente armoniosi. Commenta:“qui stavo bene... Qui stavo un po’ male... qui stavo molto male...”e mi sem-brano definizioni spicciole dinanzi a quello che ho davanti. Un vortice dipennellate. Cleo usa i colori in modo curioso. In un centimetro sembra neabbia spalmati mille e l’effetto è di un mondo a strati, come se le emozionivenissero fuori sovrapposte le une alle altre, infinite. Qualche volta, vicino altitolo, aggiunge pensieri e poesie.

“Non chiedo mai alle persone che vengono qui quale reato hanno com-messo” racconta Silvana, “non mi interessa. Ma ho imparato a capire chespesso le mamme che hanno ucciso i loro figli si esprimono per simboli. Di-segnano cuori, ponti. Usano colori intensi. Qui dentro il dolore esplode inmille modi e mi sento vicina a loro ma non intervengo. Lascio fare. Ognunodeve trovare la propria strada espressiva. Sono sprazzi di luce nell’oscuritàdella loro sofferenza. Alcuni vivono la pittura come un atto liberatorio. A

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volte commentiamo i disegni insieme se hanno voglia di parlarne. L’ango-scia diminuisce.” Silvana si ricorda di quella donna tanti anni fa che se nestava nell’atelier taciturna. Era stato indetto un piccolo concorso di pitturadal titolo il viaggio.“Un giorno la donna mi chiama in disparte, prende unafoto dalla tasca e me la mostra dicendo... ‘sai per il tema del viaggio ho pen-sato di dipingere la mia bambina mentre mi saluta e se ne va in cielo’…”

Silvana mi racconta che fu come un pugno nello stomaco. Dopo di che ladonna se ne è rimasta più di un’ora sola con i suoi pennelli a dipingere quelritratto. Un bel ritratto.“Me ne stavo distante e ogni tanto la guardavo... erabrava... Gli occhi, la bocca, i capelli e mentre sulla tela prendeva forma il vol-to della sua bambina le mani iniziavano a tremarle e gli occhi si riempivanodi lacrime... L’ho chiamata in un’altra stanza. Mi ha guardata fisso e mi hadetto soltanto...‘Tu sai vero che io ho ucciso la mia bambina?’ Quella donnanon piangeva da tanto tempo. Non ho mandato il disegno al concorso an-che se era molto bello. La donna voleva che quello fosse soltanto suo.”

Dietro ogni disegno una piccola storia. “Alcuni pazienti sono appena ingrado di tenere in mano una matita. Non propongo un metodo. Per loro èimportante pensare di poter realizzare qualcosa.”

È il caso di Moana. Un nome che sembra uscito da una rivista per soli uo-mini e che suona beffardo su di lei.Una montagna di carne in due metri di ra-gazza. Una bambina cresciuta senza armonia. Ha i capelli biondi, ritti sullatesta. Gli occhi sono grandi e azzurri, ancora più sproporzionati, come labocca che riesce appena a muovere nella faccia piena articolando poco piùche suoni. Moana ha, a guardarla bene, un’età indefinibile, 18, 20 o 30 anni.Ma sta male da quando era adolescente e la sua mente sembra essersi ferma-ta lì, all’orrore di quello che deve aver subito e nascosto. Poco prima che ioentrassi nel laboratorio ha avuto una crisi. Gli occhi le si sono rivoltati all’in-sù, come fuori dalle orbite, e faceva un po’ paura, grande come è in un corpodel quale non sembra rendersi conto, visto che è lei, dentro, ad avere tantoterrore. Non è stato facile calmarla. Così Silvana ha scelto un modo che mi èsembrato buffo. Ha messo su un disco, una canzone di Pupo: “è il suo can-

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tante preferito” mi dice. E da almeno un quarto d’ora nella stanza tutti dise-gnano assorti al ritmo dello stesso mediocre ritornello… una, due, tre vol-te… “Gelato al cioccolato, dolce un po’ salato…”. Poi Silvana ha preso una ri-vista con la foto di un invitante panino al prosciutto. Sa che a Moana piacemangiare. Ha aperto il giornale accanto alla ragazza. Le ha disegnato su unfoglio i contorni del panino,anche se Moana è convinta di averli fatti lei, e orala ragazzona con le grandi mani incerte spalma il colore a fatica nei margini,piano piano, con tutta la calma del mondo, come imbambolata dal ritmodella canzone e dalla vista del panino al prosciutto. Poco distante una signo-ra di mezz’età se ne sta seduta con la federa di un cuscino quadrato stesa suun tavolino. Dipinge sulla stoffa. Mi spiega con voce serena che ha disegnatoun ponte che unisce due rive di un fiume. Ci sono anche alberi sullo sfondo.Dice che è un regalo per il marito. Il ponte è il simbolo di una unione che nonviene meno.“Di qua ci sono io e dall’altra parte le persone a cui voglio bene,mio marito e i miei figli.” È grata al marito che non l’ha abbandonata dopoquello che è successo. Non mi è permesso chiedere di più. Ma capisco chequella donna ha ucciso il figlio. La sua famiglia esiste soltanto nella sua men-te. E su quel cuscino.

Pane e Nutella

Simona è appena tornata da quella che in ospedale psichiatrico, con ger-go militaresco, chiamano una licenza. Ha trascorso quindici giorni nella ca-sa dei genitori. Una grande conquista.

La volta precedente le avevano concesso una settimana ma non era anda-ta benissimo. Aveva disobbedito al medico e si era recata al cimitero. La te-sta le si era confusa dinanzi alla tomba dei suoi bambini e aveva iniziato abarcollare sospesa tra passato e presente. Ha capito che non era pronta.Questa volta Simona ha rispettato i patti. Ha incontrato i medici del servi-zio sanitario locale ai quali era stata affidata dalla direzione di Castiglione.

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“Mi hanno trovata abbastanza bene… è andata molto meglio... L’altravolta ho fatto un grande errore.”

Per Simona ogni giorno in più di licenza è un gradino verso il traguardodi una vita fuori da Castiglione. Un futuro che lei reclama, nonostante tutto.Ha una bottiglia di vino in una bella confezione colorata. È un regalo per ildottor Esti ed è la prima volta da quando è in ospedale psichiatrico che haun pensiero così gentile verso il medico che segue la sua malattia. Anche leiricorda la nostra conversazione, quando ci siamo viste in primavera.

“Quel giorno dovevo andare a lavare i piatti. Forse avremmo potuto par-lare più a lungo con più calma…” ammette. Sembra abbastanza serena.Ancora un grande sorriso, come la prima volta. Mi dice che il papà e lamamma l’hanno coccolata. La mamma specialmente le ha cucinato pran-zetti prelibati.

“Sì ho preso qualche chilo a casa… con mia madre ho trascorso lunghipomeriggi a chiacchierare in cucina e a preparare dolci... Anche la gente inpaese mi ha accolta abbastanza bene. Ho superato la paura di andare in giro.La prima volta mi sembrava che tutti parlassero all’orecchio degli altri. Misentivo osservata. È venuta a trovarmi anche una mia amica di infanzia. Miha detto ‘ti abbiamo aspettata, era ora che ti facessi viva’… no, non ho in-contrato mio marito. È meglio così. Se tornassi indietro? No, non mi spose-rei con quell’uomo. Le cose forse sarebbero andate diversamente. Ho sapu-to che si è rifugiato nella religione. Va ai pellegrinaggi a Medjugorie… unsantuario dietro l’altro …”

“Sono sempre stata bene a casa con i miei genitori”racconta Simona.“So-no sempre stati una coppia molto unita.Avevano spesso l’abitudine di pren-dersi una giornata tutta per loro. Facevano lunghe passeggiate. Io restavocon mia sorella e con i nonni che vivevano con noi… ma non mi sono maisentita trascurata. Non ho mai avuto problemi. Ancora adesso mi chiedoperché non mi sono rivolta a loro quando ho iniziato a star male. Il giornoprima della tragedia mio padre e mia madre erano venuti a trovarmi. Non sisono accorti di nulla. Abbiamo scherzato e giocato con i bambini. Hanno

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coccolato il più piccolo. Eppure ero già fuori di testa… no, non mi hannorimproverata. Mia madre con dolcezza, mentre ero a casa nei giorni scorsi,mi ha detto ‘potevi dirmelo… avremmo portato via i bambini. Ti avremmoaiutata… tutto qui’…”

“Eppure” le dice il dottor Esti “quello che ti è accaduto fa pensare a un di-sagio più profondo, nascosto…” Simona lo guarda sorpresa ma non fa do-mande. Cambia discorso. È davvero più rotondetta. “Sono golosa, mi piacemangiare.”

“Lo so, lo so” sorride il dottore “poco fa ti ho vista mentre spalmavi lacioccolata sul pane!”

“Mi ha vista in cucina vero?” ammette con l’aria di una bambina pescatacon le mani nel sacco. Ha gli stessi grandi occhi verdi e i capelli sciolti. In-dossa sempre i fuseaux come quando ci siamo viste la prima volta e una ma-glia pesante e larga che le addolcisce i fianchi rigogliosi. Mi guida fino allasua stanza in fondo al corridoio. Quando apriamo la porta, sul letto saltellaun cane, un bastardino dall’aria furba che reclama la sua padrona. Abbaiaper farsi notare anche da me e fa più rumore di quanto le dimensioni gliconsentano.“Mi ci sono affezionata, la notte va a dormire nella stireria. Quinon posso tenerlo. Ma sta buono, non dà fastidio.”

Affisse ai muri, cartoline, immaginette buffe, calendari. So per certo checi sono anche le foto dei suoi figli ma non ho il coraggio di cercarle con losguardo. Mi sembra di aver già frugato abbastanza nella sua vita… mi colpi-sce il grande comodino che separa il suo letto dalla compagna di stanza. So-pra ci sono pacchi di pastasciutta, biscotti e barattoli di marmellata. Dal cu-scino, di traverso, sbuca una rivista. Una di quelle con tante foto, i pettego-lezzi sulle attrici, le ultime storie d’amore dei vip, finte o vere, poco conta.Tutto il mondo che è nella sua stanza parla di una quotidianità per me in-comprensibile. Una esibizione di normalità. Simona parla con voce squil-lante. Oggi è anche allegra, quasi euforica dopo la licenza. Il dottor Esti le hadetto che continuerà a occuparsi di lei e dunque non sarà affidata alla nuovadottoressa. Simona sembra aver creato questa volta un legame forte pur se

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continua a essere la ragazza che vuole badare a se stessa. Non frequenta atti-vità comuni, nessun corso tra i tanti che Castiglione offre ai malati. Simonaè la regina del giardino. Un lavoro solitario, il suo. Paziente, accurato. Persi-no tenero. Ha tagliato le erbacce, ha visto i colori delle piante mutarsi neltrascorrere delle stagioni, ha aspettato che i fiori sbocciassero. Lei e la natu-ra. Il conforto delle sue mani nella terra a scavare, piantare, potare rami sec-chi… e quanta fatica deve aver fatto..

“Sì” spiega il dottore “a Simona piacciono le piante. Una volta ha preferi-to rimanere a occuparsi qui del giardino piuttosto che andare a casa in li-cenza. Ha detto che era il tempo della fioritura. Si arrabbia con chi trascurafiori e piante… anche del ficus nello studio dei colloqui se ne occupa lei.”

“Dottore, la pianta ha sofferto” sbotta Simona con aria di rimprovero“guardi le foglie, ci vuole acqua. Lei si è dimenticato… meno male che si so-no io.”

Ripenso alla metafora del dottor Esti. La quercia e il salice. Simona nonaccetta volentieri le regole della psicoterapia. Soltanto qualche breve collo-quio e le medicine. Sta meglio, comunque, e aspetta. Che le stagioni trascor-rano. Che le foglie cadano. Che altri fiori germoglino seppellendo il suo do-lore. Simona è una quercia. Nasconde le radici della sua sofferenza per pau-ra di spezzarsi.

La panchina

Due figure nel parco dove la vegetazione è più fitta. Le scorgo da lontanoe faccio fatica a capire che sono un uomo e una donna. Cammino lungo ilvialetto di ghiaia e riesco a mettere a fuoco i loro volti. Una giovane donna eun uomo anziano. Lei è di certo una paziente e non mi interessa sapere chi èe cosa ha fatto. Lui, mi piace pensare così, è il padre. Ha una sciarpa scura dilana buona e il cappello a coprirgli le orecchie ma gli occhi sbucano dalle fal-de come una brutta sorpresa. Sono appassiti dall’età e soprattutto dalla fati-

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ca. Deve aver fatto un lungo viaggio per arrivare lì. Ha molte cose da raccon-tare. Tanti pensieri, dentro.

Il freddo non dà tregua ma loro rimangono seduti l’uno vicino all’altro.Un curioso quadro d’autunno. Il cappotto verde dell’uomo pare imprimer-si nella corteccia dell’albero come una sola materia e il giubbino color mar-motta della donna si confonde tra le fronde che sfiorano la panchina di le-gno ancora umida di rugiada del mattino... Parlano a tratti e per un tempointerminabile a chi osserva se ne stanno infine immobili. Lo sguardo delladonna insonne, le mani serrate e l’anziano in cerca di parole. I genitori nonabbandonano quasi mai i loro figli, mi aveva detto il direttore dell’ospedaleAntonino Calogero, anche se infinite volte hanno cercato la risposta ad unasola domanda. “Che cosa ho sbagliato?” Si sono stretti la testa tra le mani,con forza, per trovare i pensieri. Tutta una vita compressa dentro uno spaziocosì piccolo, tornando indietro a cercare i segni , il primo manifestarsi dellafollia. Che fatica! Anche le mani si sono fatte rosse e gonfie. Alcuni hannocapito, altri non hanno capito niente o non avrebbero potuto fare granché.Tutto è molto più grande delle loro possibilità e così il dolore del fallimentolascia segni che fanno somigliare i loro volti a montagne incise dall’acqua,dalle bufere e dai terremoti. Aspettano il giorno in cui andranno a ripren-dersi quel figlio o quella figlia e hanno un po’ paura.

La bugia

Anna Maria Franzoni ha occhi da cerbiatto, color nocciola. Le ciglia lun-ghe rivolte all’insù nascondono uno sguardo senza certezze.

Per le donne di Castiglione la mamma di Cogne è un tormento che sem-bra non doversi placare. C’è il processo d’appello e tutti sono tornati a par-lare di lei. Ormai è così dal gennaio del 2002, da quando il piccolo Samuele èstato ucciso nella villetta di famiglia e lei è stata condannata in primo gradoa trenta anni di reclusione. In carcere non è mai stata, se non per poche set-

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timane.Aveva un figlio più grandicello da accudire e un altro è nato qualchetempo dopo.

Su Cogne i manuali di psichiatria potranno scrivere pagine e pagine. Ilpiccolo Samuele, in un modo e in un altro, è divenuto il protagonista ditroppe serate televisive. Della madre hanno dibattuto giornalisti, sociolo-ghi, psichiatri, attori e opinionisti non sempre attendibili. Gli indici diascolto delle varie trasmissioni, scrupolosamente rilevati, sono saliti allestelle. I più critici l’hanno definita Telecogne, una sorta di processo di an-nullamento delle emozioni provocato dalla overdose di dibattiti e informa-zioni veicolate dal piccolo schermo. Ma la gente è stata costretta comunquea interrogarsi. Colpevole o innocente? Chi crede nell’innocenza della Fran-zoni ha dato vita a un comitato e a un sito internet per difenderla. Chi ha vo-luto toccare con mano è andato a assistere al processo di appello a Torino.Sono stati stampati biglietti d’ingresso in uno scenario da avanspettacolo.Un signore anziano, sbracciandosi tra la folla, ha chiesto “si paga o è gratis?”Alle ultime apparizioni in tv di Anna Maria Franzoni, le donne di Castiglio-ne erano lì a scrutarla nello schermo. C’era quel servizio dove si potevaascoltare la registrazione della telefonata del marito alla guardia medica al-l’alba prima della tragedia. Lui diceva che la moglie non respirava bene. Unattacco di panico? Poi soltanto qualche ora dopo la voce stridula della don-na… “aiuto, venite gli è scoppiata la testa... Il sangue”. Pianti, grida e sin-ghiozzi.

Alle più informate tra le pazienti non era sfuggito qualche tempo primaneppure il discutibile scoop di una rivista da ombrellone. La Franzoni veni-va immortalata su una spiaggia con tanto di bikini leopardato “teneramen-te abbracciata al marito”. La didascalia in verità suggeriva anche l’ipotesi chela donna fosse di nuovo incinta al punto che in seguito il marito si era vistocostretto a smentire l’inesistente gravidanza.

A Castiglione in poche credono alle sue parole anche se colpiscono alcuore. La Franzoni contro tutto e tutti ha sempre tenacemente respinto l’ac-cusa di aver ucciso il piccolo Samuele nel lettone di casa.

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Tra le donne che a Castiglione portano impresso il marchio di “madri as-sassine”alcune in fondo provano pena per questa donna, una guerriera sen-za nemico. Ma altre sono severe. Ritengono che la consapevolezza di quelloche è stato fatto, l’omicidio del proprio bambino, è il prezzo da pagare. Edunque la pena che deve essere espiata. Alcune non perdonano a loro stessenemmeno la malattia.“La Franzoni ha ucciso il figlio, non ci sono scuse…”Simona, che ormai ho imparato a conoscere per i suoi commenti di una lu-cidità tragica, aggiunge:“basta con le finzioni.”

Simona sa di certo che quando una donna uccide il proprio figlio c’è unaparte di sé che rifiuta di ammetterlo. Costruisce finzioni che appaiono per-sino subdole se non patetiche. Lo ha fatto anche lei quando ha raccontato diDavide e Matteo annegati nel laghetto per un tragico incidente. Sono castel-li di bugie destinati però a sbriciolarsi in poche ore o in pochi giorni come èaccaduto anche a Maria P. che ha fatto persino di più. Gli psichiatri la chia-mano amnesia dissociativa e spiegano che una persona uccide ma non ri-corda perché nel cervello c’è una sorta di congegno che aiuta gli esseri uma-ni a dimenticare fatti troppo dolorosi. Ogni tanto su qualche rivista compa-re una ricerca. Svela o tenta di svelare dove si trovi tale fantastico meccani-smo che permette alle persone di raccontare a se stesse, credendoci, grandibugie.

Poi, spiegano gli esperti, quando le loro condizioni cliniche iniziano amigliorare e si rendono conto di aver ucciso un padre, una madre, un mari-to, e soprattutto un figlio, allora è il momento più drammatico. E il rischiodel suicidio è altissimo.

A chi ascolta, inesperto, sembra la trama di un film di Hitchcock.È quanto accade ad Anna Maria Franzoni? Questa donna continua a ri-

manere un enigma… gli psichiatri si sono divisi ma al processo di primogrado è stata dichiarata capace di intendere e di volere e lei, sempre come inun giallo, ha continuato a cercare l’assassino del suo Samuele chiamando divolta in volta in causa i vicini di casa “invidiosi”, lo “scemo del villaggio”, lavendetta di un possibile ammiratore respinto.

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“Preferisco andare in carcere”ha gridato “ma non sono pazza”. Spiega chein fondo le converrebbe farsi passare per folle. Se la caverebbe con qualcheanno a Castiglione. Parole che denotano disprezzo per la malattia mentale,ritenuta inaccettabile. Del resto la giustizia commette a volte grandi errori.Ricordo il caso di quel padre accusato di aver abusato del figlioletto. Il mar-chio di pedofilo gli fu impresso a fuoco. Un giorno, qualche tempo dopo, ilfiglio morì. Quei segni sull’ano del bambino erano stati provocati da un tu-more. Nessuno aveva capito.

Non interessa come andrà a finire. La legge scriverà la sentenza.Penso solo a tutte queste donne sedute davanti alla televisione. Le guardo.

I loro occhi raccontano se stanno imparando a fare i conti con la follia o sehanno ancora paura. Chi non ha avuto il coraggio di farlo se ne sta ripiega-to, ha pupille di ghiaccio. Pensa “io sono sano, sanissimo”. Si nasconde e siindigna, più subdolo del folle che grida al mondo di essere Napoleone Bo-naparte. Mi chiedo come queste donne accoglierebbero Anna Maria Fran-zoni a Castiglione se un giorno per ipotesi dovesse scoprire le fattezze di chiha ucciso il suo bambino. Se sempre per ipotesi dovesse riconoscere, nellasagoma che ha colpito decine di volte il povero Samuele, niente altro che sestessa malata. Se infine, nascosta nell’ombra a guardare l’Anna Maria sco-nosciuta, dovesse capire che la follia davvero si è presa gioco di lei.

Gli uomini

“Hei mora, dove te ne vai… ciao…”. Gli uomini di Castiglione non sonocerto tutti uguali ma quelli che vedo aggrappati alle finestre con lo sguardoaffamato di femmina non mi piacciono. Il sesso deve essere un gran proble-ma dentro quelle mura, dove tutto sembra trascorrere lieve, in una quoti-dianità quasi familiare. Ma l’istinto, se così possiamo definirlo, non sempreviene domato dai farmaci. Una donna che gira libera nel viale, sconosciuta,accende qualche pensiero.

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È un momento di pausa.Alcuni ciondolano senza meta anche se nel par-co il freddo continua a infradiciare le ossa. Un gruppetto saltella per scal-darsi. Lasciano sbuffi di alito e di troppe sigarette fumate. È una umanitàvaria. Ci sono i più consapevoli e quelli che fanno fatica a comprendere do-ve si trovano come i malati che stanno in piedi nell’androne del repartosenza fare niente. Non parlano neppure tra di loro. Faccio due chiacchierenell’ ufficio dello psichiatra responsabile del settore maschile.

Dalla finestra un uomo con i capelli ritti continua a guardare al di là delvetro dentro la stanza. Fa finta di andar via, poi ritorna sui suoi passi e mifissa anche se non sono del tutto convinta che mi veda. Il gioco va avantiper diversi minuti e sono inquieta. Il dottore degli uomini mi dice di nonpreoccuparmi. Quel paziente è un tipo piuttosto solitario. Fa lunghe pas-seggiate in giardino. Ogni tanto gli piace mettersi lì alla finestra e guardaredentro l’ufficio. Ci sono le scrivanie. Le segretarie. I telefoni che squillano.Lui guarda e basta. Non ha mai fatto male, almeno da quando è qui, nem-meno a una mosca.

I reclusi che hanno ucciso i loro figli non sono aumentati dalla mia primavisita. C’era soltanto un papà. Non ho il permesso di parlargli. I padri ucci-dono meno i loro figli,mi conferma lo psichiatra,per una questione di iden-tità. Hanno meno ruoli interiori con i quali fare i conti. Difficilmente avver-tono i figli come una parte di sé e dunque come una parte da eliminare. For-se sono più semplici. O ci sono altre contorsioni dell’animo. Chi è qui ha dicerto commesso delitti orrendi quando i fantasmi hanno parlato alle sueorecchie. Come Ferdinando Carretta. Lo incontro al pianterreno dell’edifi-cio del centro di continuità riabilitativa. Scende le scale a grandi passi, saltaqualche gradino, veloce. È il primo della fila. C’è stata una proiezione per ilcineforum e i pazienti hanno appena terminato il dibattito.Gli chiedo:“scu-si, che film avete visto?”“The beatiful mind un bel film sa,un film sulla follia”risponde con l’aria vagamente intellettuale.“Beh un tema non facile” repli-co imbarazzata.“Sì, l’altra volta abbiamo visto Qualcuno volò sul nido del cu-culo, siamo stati noi pazienti a chiedere questi film.”

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Soltanto quando gira l’angolo e se ne va mi rendo conto che quel ragaz-zone con la giacca a vento, la faccia pulita e l’aria sicura è Ferdinando Car-retta. L’uomo che a Parma nel 1989 massacrò la sua famiglia, padre, madre efratello. Li uccise, li tenne qualche giorno nella vasca da bagno dell’apparta-mento.Poi li seppellì in una discarica anche se i corpi non sono mai stati tro-vati.Fu uno dei più grandi misteri di quegli anni.Dei Carretta scomparsi nelnulla si favoleggiava che fossero ai Caraibi a godersi i beni di famiglia. Ma lecose non erano andate così. Fu rintracciato quasi per caso a Londra nove an-ni dopo e un giornalista, questo sì uno scoop, raccolse la sua testimonianza.Uno shock mediatico. Ricordo benissimo cosa accadde nelle redazioni deitelegiornali. Per la prima volta un figlio raccontava lo sterminio della sua fa-miglia all’ora di cena. Lo guardavamo anche noi, in piedi davanti ai televiso-ri, immobili e scrutavamo i suoi occhi pensando, da giornalisti, che avrem-mo capito qualcosa di più.“Vedi” suggeriva qualcuno “ha sbattuto le ciglia.Significa che ha detto una bugia. E guarda come piega la testa…”

Furono intervistati psichiatri per decifrare le espressioni del suo volto, ilghigno sulle labbra, le mani che si muovevano nell’aria dinanzi alle teleca-mere. Ma la verità è che il killer aveva la faccia più normale del mondo. Unafaccia da bravo ragazzo.Aveva vissuto a Londra con il sussidio di disoccupa-zione e qualche lavoretto ogni tanto. Non negò nulla. Disse di averli uccisiperché li odiava. Il padre in particolare. Troppo attento a prendersi cura delfratello più piccolo che era tossicodipendente.Un odio covato in una vita al-l’apparenza come le altre.Al processo venne assolto perché ritenuto incapa-ce di intendere e di volere e affidato a una struttura di cura e riabilitazione.ACastiglione dunque. Tra breve andrà via per usufruire del regime di semili-bertà. Dicono che sia bravo a usare il computer, se la cava con l’economia,parla ovviamente bene l’inglese, e disegna. Nel corridoio del centro di con-tinuità riabilitativa ci sono alcuni suoi lavori. Ha una bella mano, dal trattoleggero. Sembrano miniature in bianco e nero. E poi c’è la firma. Così famo-sa. Una bella scrittura, limpida, ben leggibile: Ferdinando Carretta. Gli edu-catori sostengono che anche qui è un leader. I primi tempi gli arrivavano an-

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che le lettere delle ammiratrici, come è accaduto a Pietro Maso il giovaneche massacrò i suoi genitori per un pugno di soldi e la macchina bella. Chiha avuto per molto tempo i riflettori puntati su di sè, anche nel male e nel-l’orrore, finisce per distinguersi dagli altri.

Distrazioni

Sono andata a visitare la palestra dell’ospedale psichiatrico. Vittoria, cheormai chiamo la vecchina del caffé,non si perde d’animo e ci va ogni giorno.

“Un’ora di cyclette, mi tengo in forma sa... Mica come quelle vecchie ca-denti. Ho il fisico io...” sghignazza soddisfatta dandosi pacche sulle gambeper certificarne la consistenza. L’istruttore è un ragazzone muscoloso dall’a-ria mite. Niente ormoni o tatuaggi da esibire sulle braccia. Ma per il resto lapalestra è come quella di un qualsiasi centro sportivo.

“Vittoria è una sagoma... Si mette lì con le cuffie sulla testa per sentire lamusica… e pedala… pedala. Ha fiato da vendere... se non avesse i capellibianchi direi che ha l’atteggiamento di una ragazzina di quindici anni.”

L’istruttore mi indica alcune foto ricordo appese alle pareti. In una c’è unbel gruppo di uomini schierati l’uno accanto all’altro. I più bassi in prima fi-la. Un paio in ginocchio. Tutti uguali in maglietta e pantaloncini. Sarà l’oc-casione, il gusto insolito della sfida, ma gli sguardi sono fieri e limpidi. Sem-brano davvero una squadra, difficile pensare che siano pazienti.

“Guardi qui” racconta orgoglioso l’istruttore “questa l’abbiamo fatta al-la finale del torneo di pallavolo. Sono state partite dure, ma alla fine abbia-mo vinto.”

“Questo è il torneo femminile.” Indica un altro bel gruppone sulla pare-te. Lo seguo con lo sguardo fino ai volti delle giocatrici, ma non ho voglia discrutarle.

Mi prende una sensazione di irrealtà. Alcune sorridono. C’è la cerimo-nia di premiazione. Si vede una bella coppa. Azzardo qualche domanda ba-

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nale. Chiedo come sia stato organizzato il torneo, chi ha partecipato e dadove arrivano le squadre sfidanti e finisco per immaginare un inverosimilevia vai di pullman da ospedale psichiatrico a ospedale psichiatrico con lesquadre di pazienti in trasferta dal nord al sud dell’Italia. Mi sembra di sen-tire le canzoni, le chiacchiere. E il tifo... “forza Castiglione... Olé, olé... Daiche vinciamo…” Gli applausi del pubblico. Tutto al rallentatore come inquei bei servizi televisivi dove l’attimo viene catturato e la palla resta in-spiegabilmente sospesa in alto nel cielo, la musica l’accompagna e un calcioa un pallone diviene un valzer pieno di poesia. Poi la palla ricade e ho da-vanti a me ombre di bambini immobili a bordo campo. Figurine senza ma-teria, mute. E qualcosa mi ronza nella testa perché è come se il mondo gi-rasse al contrario. Dovevano esserci i loro figli cresciuti, a correre sudati incampo inseguendo la palla... i papà e le mamme avrebbero dovuto guarda-re attenti senza perdersi un passaggio, con occhi umidi di emozione “…chebravo il mio bambino, diventerà un campione.”

Che cosa non è andato per il verso giusto? Forse è un incubo. E mi do-mando quante, tra quelle facce impresse nella foto, non vedranno mai i lorofigli giocare a pallone...

Gli scrittori

A Castiglione è uscito il numero autunnale del giornalino. Questa voltasi parla molto di amore, gelosia e come al solito della vita in ospedale psi-chiatrico.

Un certo Gentleman driver scrive “senza la libertà manca proprio il respi-ro profondo dell’anima. Manca il ponte con la realtà di fuori, con la vita checonta, con gli amici e gli affetti più cari... senza la libertà manca quel pizzicodi respiro, quel qualcosa dell’anima che ti rende insieme felice e con unosguardo ottimista sull’esistenza... Ma a quale generazione di lavativi, mezzecalzette e smidollati devo appartenere? Su andiamo che non è tutto da but-

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tar via! Proviamo ad accendere il sole in questo cielo plumbeo. Uno sguardoottimista è già un buon passo per uscire dalla depressione.”

Scrive invece Paola raccontando una sua giornata no:“il mattino è il tem-po più accogliente per le visite di lucifero-stanchezza: andar su e giù per i re-parti con le gambe pesanti, frutto della terapia. La terapia fa scoppiare la te-sta e chiudere gli occhi. Devi essere sveglio presto mentre vorresti dormireancora fino alle dieci, quando si chiudono le camere fino all’ora di pranzo.Nel frattempo non c’è nulla da fare. Prima d’ora io non fumavo una sigaret-ta, qui ho subito il contagio dei fumatori. Soffocati, fumano fino a saturarelo spazio della camera a disposizione dei fumatori. E così questo animalecompresso nella noia ha preso a saturare il tempo fumando.”

Sul giornalino trovo un lungo scritto di Manuela, la donna che ha uccisola sua bambina a coltellate. È una riflessione consapevole sulla vita nell’o-spedale psichiatrico.

Questa volta Manuela ha scelto un altro pseudonimo. Violetta. Mi spie-gherà un giorno che le piace giocare con i nomi di fiori in assonanza con ilsuo vero nome.

Racconta di essere arrivata in ospedale psichiatrico dopo aver trascorsoquaranta giorni nel reparto detenuti dell’ospedale maggiore di Torino. “Lìstavo tutto il tempo in una stanzetta chiusa da un cancelletto a sbarre e perandare al gabinetto dovevo farmi aprire… poi sono stata trasferita agli arre-sti domiciliari in una casa di cura... Mi sentivo a disagio e avevo paura di es-sere giudicata. Poi finalmente è arrivato il posto giusto per me. Qui all’ospe-dale psichiatrico sono sempre stati molto disponibili quando ho avuto mo-menti di crisi,ma non è un posto dove ti lasciano a leccarti le ferite.Devi rea-gire, a parte le persone inabili, bisogna provvedere a se stessi, alla propriaigiene. Adesso partecipo ad alcune attività. Certo all’arrivo il fatto che mihanno preso le impronte digitali e fatto le foto segnaletiche mi ha ricordatoche non sono una persona libera...Mi pesa la lontananza dai miei cari... Spe-ro di essere pronta in breve tempo a riaffrontare il mondo fuori di qui con laconsapevolezza che dovrò essere più forte di prima... Il mio medico ha det-

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to tutto il possibile per rimuovere il mio senso di colpa... Ma quando saròfuori di qui dovrò essere io sola ad avere fiducia in me.”

Sul giornalino i pazienti hanno scritto molto sull’amore. C’è una miste-riosa Ketty ’76 della quale non sono riuscita a sapere molto di più per que-stioni burocratiche. “Nella notte sfioro la sua anima, e come dolce ombrasfiorerà le mie labbra nel lungo cammino. Saremo mano nella mano libericome due gabbiani con due cuori e una sola anima. Saremo i padroni dellanotte.”

Scrive Giocondo, ovviamente uno pseudonimo che denota senso dell’i-ronia...“L’amore è come un pugno di mosche e come uno schiavo di cuore,è una cosa meravigliosa. La rabbia è un articolo molto sensibile sul sensodella parola amore... un momento di rabbia può cambiarti. Dolore, il dolo-re è una cosa pazzesca e insopportabile.”

C’è anche una testimonianza di Cleo, la pittrice, che racconta propriodella passione per il suo recente fidanzato.“Io Cleo non sono affatto gelosa.Oddio, prima di conoscere Augusto XII! Ora sono gelosa perché l’ho amatoed è un bel ragazzetto e ho paura che accada qualcosa che ci divida... Se melo portano via spacco il mondo. Non lascio più vivere nessuno e non vogliopiù nessun uomo ma mi dedicherei ai travestiti che a me piacciono tanto.”Qualche tempo prima su un altro numero del giornalino anche il fidanzatoaveva scritto a Cleo.“Oggi mi sono reso conto che l’amore che provo per tein tanti mesi mi ha fatto migliorare ed essere anche meno freddo con le per-sone… questa terapia fa tanto bene al mio cuore.”

Sulla “pace dei sensi” ci sono pensieri amari come quelli di un certo Pic-chi.“Addio donne crudeli, ho passato bei tempi con voi, i più belli della miavita. Ora non ho più 20 anni, so vedere le belle donne, ma ora mi fermo sol-tanto a dipingerle e credo mi vengano bene. Mi ritengo un ritrattista, nonun pittore.”

Sullo stesso argomento interviene Benito. “La pace dei sensi che cosa è?Con tutte quelle annunciatrici e con tutte quelle dei tg? Che pace dei sensiposso trovare? L’ultima è stata Cristina Parodi, la prima Bianca Berlinguer e

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le altre prima non le ricordo... Mi è capitata una roba con su certe che mipaiono quelle della parabola delle dieci vergini… è tristissimo.”

Forse fa sorridere. Mi vengono in mente le lettere che gli ammiratori scri-vono ai personaggi televisivi. Nelle redazioni ne arrivano a decine. Alcunesono inquietanti e vengono considerate lettere di maniaci. Non so se Benitosia un pervertito. Magari è soltanto uno che riflette sui troppi ammicca-menti di letterine, veline e così via. Certo anche le belle giornaliste a volte -inganni del piccolo schermo - possono somigliare a una promessa!

La messinscena

Maria P. somiglia a un pulcino. Ha l’aria arruffata, i capelli castani con unricordo di meches bionde, gli occhi scuri e le ciglia meste di rassegnazione.Sulla faccia ha tracce dispettose di brufoli. È pomeriggio ormai, più o menol’ora del tè. Lei sta seduta nella grande sala a un tavolo con altre pazienti ed ècome se fosse a disagio. È a Castiglione soltanto da qualche mese e sembrachiedersi per quale motivo sia lì mischiata a quelle donne… da alcune sem-bra volersi tenere lontana forse perché la follia è troppo chiaramente im-pressa nei loro volti e lei ne ha paura. Ha le mani dentro le tasche di una fel-pa che le va grande. Non parla molto. Ascolta e si limita a annuire guardan-dosi attorno. È minuta come una bambina di 10 anni e faccio davvero unagran fatica a capire che è proprio Maria P., la mamma del piccolo Mirko, ilbimbo di soli cinque mesi annegato a maggio del 2005 nella vaschetta da ba-gno. La guardo con la coda dell’occhio per non farmi notare. Mi vengono inmente le foto pubblicate sui giornali. Dicevano che voleva fare la modella eche voleva sfondare in tv. C’erano foto di Maria, detta Mary, che sembrava-no quelle di Marilyn Monroe. Maria, stando alle didascalie, esibiva capellibiondi, trucco carico e sguardo ammiccante, labbra carnose e semiaperte inuna promessa. E che pezzo di figliola doveva essere questa Maria P. così co-me ce la mostravano le copertine delle riviste che della sua vita avevano fat-

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to scempio nello spazio di ventiquattro ore. Di questa giovane commessa diuna panetteria di Arcore, a Milano, avevano raccontato più o meno tutto.Una vita tranquilla, in un paesino della brianza lecchese, un bravo marito,operaio tornitore, molto legato alla famiglia. E i sogni, i segreti di Maria,l’ambizione di rovesciare una esistenza normale. Lei in casa a allevare unbambino e tutte quelle ragazze in tv a raccogliere autografi! Così dinanzi atanta procace determinazione l’opinione pubblica ebbe la conferma chenon solo la televisione deforma gli animi e crea mostri invasati di successoma può spingere all’omicidio di un figlio. “Preziose” a questo proposito letestimonianze delle amiche. Alcune raccontarono che Maria si lamentavadella gravidanza che le aveva leggermente allargato i fianchi. Lei stessaavrebbe detto quando la nebbia iniziava a diradarsi dalla sua mente che“quel bambino lo odiava e si era messa a dieta per recuperare la sua forma.”“Ma quale velina…” sbottano qui a Castiglione le donne che la conosconomeglio e che iniziano a difenderla.

“Ma la guardi, le pare una velina? Maria si era fatta fare quelle foto perchéandava nei programmi a battere le mani. Faceva la figurante. Guadagnavaqualche soldo in più.Arrotondava. Le avevano detto che anche per fare quellavoro doveva presentarsi in modo decente e così si era fatta fare delle bellefoto. Un buon trucco, forse qualche ritocco al computer… per cancellare ibrufoletti. Una maliarda? Era un gioco da bambina.”

Vorrei che tutti potessero vedere Maria P. come l’ho vista io e provare unpo’ di rimorso per le banalità scritte nei rotocalchi. Davanti a me c’è sola-mente una donna di ventinove anni che avrebbe potuto avere dinanzi a séuna vita felice e si è trasformata invece in una giovane madre divorata dalladepressione. Qualche medico l’aveva visitata ma non aveva capito. Si tendesempre a pensare che le donne quando hanno partorito diventano un po’noiose. Del resto nessuno dedica loro più tante attenzioni. Nessuno va a toc-care la pancia per sentire se il bimbo da i calci. E gli ormoni, quelli che fannola pelle bella, come insegna anche la saggezza popolare, dopo un po’ vannovia e rimane quell’aria sciatta e stanca delle notti insonni. Non arrivano più

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fiori per festeggiare. E magari quel bambino è difficile da accudire. Si la-menta e non ciuccia il latte… Maria aveva iniziato a pensare che non sareb-be riuscita a farcela. Diceva: “non sono capace… ho paura di non essere ca-pace” L’aveva confidato anche al medico “niente di grave, passerà …” erastato il commento del dottore.

Non le chiedo nulla. I nostri sguardi si incontrano e basta. Deve esserestanca di tanta curiosità e i suoi occhi raccontano una strana assenza, comese un velo la tenesse ancora avvolta in un altro mondo. Ripenso a quel gior-no qui a Castiglione non molto tempo prima. I reporter l’avevano inseguitafino al cancello dell’ospedale psichiatrico cercando di fotografarla mentrescendeva dal cellulare della polizia penitenziaria. Lei aveva l’aria smarritapur se aveva tenuto in scacco per giorni gli inquirenti. Sì, qualche dubbio loavevano avuto subito. La storia di Maria era perfetta per un giallo e sembra-va fatta apposta per gettare nel panico ogni mamma sola in casa con il fi-glioletto. L’idea di essere aggredite, di vedere il proprio bimbo morire senzapoter far nulla, annegato nella vaschetta da bagno! La polizia aveva dovutoattendere i riscontri, le famose perizie e a incastrarla infine era stata propriola perizia sul nastro adesivo con il quale si era fatta trovare legata. Una sta-tuetta di madonna a braccia conserte. La saliva sul nastro adesivo era la sua.Ed è crollata.

La confessione di Maria è stata atroce. Dinanzi ai magistrati di Lecco chela interrogavano per l’ennesima volta, lei pareva l’ombra di se stessa. Pesavatrentacinque chili. “Non so che cosa mi è accaduto… mi rivedo come infilm… che lo tengo sott’acqua.”

È un racconto di lacrime e strepiti per sprofondare di nuovo nel buio del-la sua mente, trovare la verità di quell’attimo, appena pochi secondi, neiquali le sue mani hanno spinto giù nell’acqua il suo bambino e lo hanno uc-ciso. Poi un lampo deve essersi acceso. Maria ha realizzato che quel corpici-no immobile era il suo Mirko abbandonato senza respiro nel fondo della va-schetta. E la lucida, diabolica, malata, determinazione di ingannare il mon-do o di illudersi di poterlo fare.

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Maria usa il linguaggio di una ragazza:“dopo ho sclerato e non ho capitopiù niente… allora ho fatto la messinscena per giustificarmi con i miei…”

A Castiglione qualche giorno dopo il ricovero è venuto a trovarla Cri-stian, il marito, poco più che un ragazzo. Il giorno dell’omicidio era entratoin casa.“Maledetti ladri me lo avete ucciso…”urlava slegandole le mani ap-piccate di scotch e le liberava la bocca. Lei tremava, lacrime di terrore le co-lavano giù, sembrava impazzita e farfugliava.“Mi ha aggredito alle spalle…era un uomo… parlava italiano.” A Cristian, che è sempre stato un ragazzocoraggioso e impulsivo, la rabbia rodeva il fegato per la voglia di andare acaccia del nemico che aveva distrutto la sua famiglia. Quel bambino lo ave-vano atteso a lungo, lui e Maria. Era stata una gravidanza difficile. Soltantodue giorni prima Maria era andata a comprare l’abitino bianco per il batte-simo di Mirko. Tutto era pronto nei minimi dettagli. Gli inviti, il ristorante.Per Cristian dover ammettere che il nemico era davanti a lui è stato un pas-so nell’inferno.“Eravamo così felici noi tre... Ora sono morto anche io…”

Eppure quel giorno a Castiglione, con il sole che finalmente scaldava laterra bagnata di lago,nonostante tutto Cristian era venuto a dire a sua moglieche non l’avrebbe mai abbandonata, che avrebbe cercato di capire, che le sa-rebbe stato sempre accanto. Una dichiarazione d’amore, pubblica e rara, madura per poter resistere agli interrogativi del tempo, alla solitudine… Le tele-camere lo hanno atteso. Le mani avvinghiate sulla cancellata dell’ospedale.Gli obiettivi infilzati tra le sbarre… microfoni accesi… “Sì”giura Cristian,gliocchi ancora sgranati e il dolore che lo stordice “non la lascerò mai …”

Povera Maria, povero Cristian, povero piccolo Mirko. Ora sì protagonistidel reality show più macabro della tv.

Brutte storie

È accaduto in una notte fredda. A Castiglione dicono che il vento soffias-se forte, folate che scuotevano i rami degli alberi, suoni per niente rassicu-

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ranti nel buio del grande parco. Il medico di guardia nella sua stanzetta nonci aveva badato più di tanto. Notti dannate come quelle ne aveva fatte millea Castiglione. Era scivolato nei suoi pensieri. Il respiro lugubre del vento erariuscito persino a cullarlo ma d’un tratto c’era stato un silenzio glaciale e perassurdo il silenzio l’aveva risvegliato dal torpore. E nel niente, quasi contem-poraneo, era arrivato l’urlo.

Non si sa ancora chi ha urlato,né chi ha visto per primo il corpo… il medi-co di guardia sa soltanto che quel grido non era arrivato dal corridoio o dallestanze delle pazienti. Ha afferrato il mazzo di chiavi ed è uscito di corsa nellanotte mentre il gelo penetrava nella lana del maglione,ghiacciava la suola del-le scarpe e anche le vene.Raccontano,ma molti particolari restano sconosciu-ti, che il corpo della donna ciondolava sulla rete metallica che funge da recin-zione esterna del settore femminile, e era attaccato per il collo con un lenzuo-lo. Pareva una bambola di pezza. E a vederla la prima cosa che tutti si sonochiesti è come la donna abbia potuto attuare una morte così complicata.Quanta fatica per annodare quel lenzuolo nei buchi della rete e stringere for-te,senza un sussulto o un ripensamento e la faccenda deve essere durata ancheun po’.Un sipario surreale, lei in camicia da notte nel freddo e nel buio,un fan-tasma in carne e ossa e una vita che non c’è più. Era a Castiglione da quattroanni. Quelli che per loro fortuna non avevano sentito il grido sono stati sve-gliati dal via vai di passi che calpestavano il viale, rumori di porte che si apri-vano e si chiudevano e motori di macchine.Sono arrivati i carabinieri e il ma-gistrato, e tutta quella gente seria che si dava da fare avanti e indietro, pensan-do di non essere vista.Ma quelli che stanno male hanno orecchie dappertutto.A Castiglione si racconta che carabinieri e magistrato erano arrivati soltantoun’altra volta, tantissimi anni fa ma il trambusto sembrava logico perché c’e-ra stato un omicidio. La vittima si chiamava Manlio Castellazzo, aveva quasisettanta anni e era ricoverato nel reparto maschile da sei anni. Era un medico.Aveva ammazzato la moglie con un colpo di pistola, poi aveva cercato di ucci-dere il figlio di diciannove anni. I carabinieri lo avevano fermato mentre cer-cava di buttarsi sotto a un treno. Sosteneva di aver salvato così la sua famiglia

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dal “buco dell’ozono”che, continuava a gridare agli agenti esterrefatti, avreb-be riservato giorni di agonia ai suoi cari e al mondo intero.Uccidendoli avreb-be evitato tante sofferenze. È stato soffocato nel sonno con un cuscino da unaltro paziente dell’ospedale psichiatrico. Nel buco della sua stanza. Diconoche anche quella notte soffiasse un vento maledetto e facesse freddo.

Per qualche tempo a Castiglione,anche se nessuno vuole ammetterlo,nonsi parlò d’altro. Anche questa volta le cose non sono andate tanto bene. Ledonne del reparto arcobaleno sono rimaste ammutolite a rimuginare ore eore su quel letto rimasto vuoto nella camera in fondo al corridoio. Gli sguar-di si sono fatti sfuggenti. Soltanto dialoghi a mezza bocca all’ora del caffé.Adalcune sono riapparsi i demoni. Altre si sono sentite più deboli, le gambemolli... e per il medico di guardia sono state notti difficili.

Preparativi

Tra non molto a Castiglione arriverà il Natale e la frenesia prende anchequi dentro. Si fanno mille progetti. I ragazzi dell’atelier di pittura per esem-pio, stanno organizzando una cena. Alcuni quadri, le opere ritenute più bel-le, sono stati venduti all’esterno grazie al lavoro dell’associazione che ha crea-to la signora Silvana e così i soldi verranno dati agli autori e in parte utilizza-ti per chi frequenta l’atelier. È stato contattato un ristorante e nel pranzo, cheverrà portato dentro l’ospedale, c’è la paella e tutto quel ben di Dio che si puòmangiare nelle feste comandate… persino, per la prima volta, una coppa dispumante per brindare, in realtà appena un sorso per bagnarsi le labbra, per-ché le terapie non consentono di mischiare i farmaci alle bevande alcoliche.Ci sarà l’albero di Natale, come in ogni casa, e chi è fidanzato si scambierà re-gali. Gli educatori si vestiranno da babbo natale e andranno a distribuire ca-ramelle e dolci anticipando il lavoro della befana,un po’come si fa con i bam-bini. Ci sarà per tutti una tombolata nella grande sala del bar centrale. Den-tro ci possono stare quasi duecento persone. E il barista, come l’anno scorso,

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tenterà di organizzare una grande orchestra per chi vuole ballare. I pazientiche stanno meglio potranno andare via per qualche giorno. I familiari, anchequelli che non si vedono tanto spesso in ospedale psichiatrico, si faranno viviperché a Natale un conforto non si nega a nessuno.

Sarà un bel Natale, giurano tutti. Ma ogni giorno che passa, mentre l’ariasembra già riempirsi di melodie, suoni di zampogne e odore fragrante di pa-nettone, c’è chi inizia a tremare un po’, a sentire lo stomaco chiuso e quelgroppo nella gola che non fa deglutire. Come sanno bene i medici le ricor-renze possono essere nefaste per un malato psichiatrico. E specialmente ilNatale, con tutta la liturgia della bontà e lo sfavillio dei buoni sentimenti.Torneranno ad affacciarsi nel ricordo le letterine dei bambini, quelle dei piùgrandicelli che sapevano scrivere.

“Cara mamma e caro papà, vi voglio tanto bene e siccome sono stato buo-no vorrei che babbo natale mi portasse il game boy… oppure… oppure laplaystation... Oppure...” e via una sfilza interminabile di giocattoli. Dei piùpiccini si ricorderanno gli angioletti fatti di cartoncino,tutto oro e porpori-na, che si sgrana attaccandosi lucente alle mani e ai vestiti. Regalini che lemaestre hanno confezionato con i bambini per settimane e settimane. Uncoro di angioletti che canta nel cielo con la faccia birichina.E come potrà sen-tirsi buono, chi ha ucciso il proprio figlio?

Verranno a riempire il sonno di incubi i ricordi di abbracci che non ci so-no più e gli odori di notti trascorse fino al mattino tardi a crogiolarsi tra le co-perte, gridolini di bambini che saltellano accanto all’albero dopo che babboNatale è passato facendo il suo dovere… e lo stropiccio della carta da regali,una montagna di fiocchi e nastri, il risuonare di pianti di bambolotti chesembrano veri, robottini, che parlano come umani e camminano per casa,microfoni che risuonano di canzonette urlate da chi ha appena scartato “ilcanta tu”. E ore piene di rumori che sanno di casa.

Sarà la notte di Natale, infine, silenzio nelle stanze dove ogni donna andràa dormire rigirando tra le mani la foto del proprio bambino, seduta sul letto.Una notte strana, lunghissima. Aspettando domani.

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La bella stagione era durata comunque mesi. A Maria Grazia avevano inse-gnato che le stagioni sono quattro e ognuna di queste deve lasciare il posto all’al-tra ma l’estate quell’anno, seppure meno rovente, sembrava non volerne saperedi lasciare spazio all’autunno. O forse erano passate una, due estati, chissà.

Di mattina, al risveglio, la luce era sempre forte e le giornate sembravanodue in una. Il fatto è che la gente al sud dopo aver mangiato “pasta incaciata”,con le melanzane e la ricotta salata, sentiva il bisogno di accostare le finestre egodersi pancia all’aria la digestione di quei sapori forti… La faccenda impe-gnava almeno un paio di orette. Poi erano di nuovo chiacchiere di paese, struscidi signor e acchittate sulla “strada ritta”, che era appunto la via principale, par-tite a carte ai tavolini nei bar, scambi di battute che a Maria Grazia facevanotanto ridere perché da quelle parti tutti avevano un soprannome e non usarloera una offesa. C’era “Ciccio, u’ viddanu”, cioè il contadino, “Pino u bugiacco-ne”, in riferimento all’enorme pastrano che indossava d’inverno, Ignazio “oc-chio niuro” che forse non ci vedeva bene…Gli appellativi restavano a vita erendevano grottesco anche il trapasso. In paese si ricorda di quel manifesto fu-nebre con la scritta “la famiglia di Nuccio Cianci detto ‘sciddicasapuni’ ringra-zia gli amici che le sono stati vicini”. Così era un dolce e lento scivolare verso iltramonto, come se la luce non volesse mai essere spenta. Soltanto quando il“sciauro” di cose buone si spandeva nell’aria tutti rientravano in casa.

Quella sera Maria Grazia rimase con il nonno più a lungo del solito a trotte-rellare nella piazza masticando caramelle. Il nonno ogni tanto aveva cercato didirle qualcosa, erano mezze frasi e lui che era così ruvido almeno in apparenza,pareva confuso, a disagio.“Senti Maria Grazia… ti volevo dire…” iniziava co-sì e Maria Grazia si faceva attenta perché pensava che il nonno si fosse ricorda-to qualche altro episodio di quel banditu Giulianu che un po’ le faceva paura epo’ l’affascinava. Il nonno in genere sceglieva quei racconti per le lunghe pas-seggiate in campagna. Il nonno ricominciava e dopo un po’ si interrompeva dinuovo. “Senti Maria Grazia… ascutami, stammi a sentire… Ti ricordi diquella città grande grande, quella bella dove ci sono tante macchine e poi c’èquel monumento tondo …”

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“Il Colosseo” rispose tutta contenta Maria Grazia che pensava fosse un quiz.“E ti ricordi come si chiama quella città dove c’è il Colosseo?” continuò il

nonno abbassando sempre di più gli occhi come per nascondere qualcosa.“Roma” disse Maria Grazia in un fiato pur se iniziava a rendersi conto che

quello non era un gioco, anche perché il nonno si spostava la coppola sulla testa,se la toglieva e se la rimetteva un po’ di sbiego. Insomma la coppola, in generefissa sul capo e quasi un tutt’ uno con la bella figura del nonno, non trovava pa-ce. Si stavano ormai avviando verso casa e Maria Grazia si sentiva inquieta.

“E ti ricordi di quando eri ancora più piccina e stavi a Roma in quella bellacasa?” continuò il nonno mentre la voce grossa e fiera gli si spezzava un po’.

Maria Grazia restò in silenzio anche perché aveva ormai la bocca così pienadi caramelle che volendo rispondere al nonno si sarebbe dovuta infilare primale dita tra i denti e “spiccicare” la liquirizia che non le permetteva di parlare.

Lo stomaco iniziò però a farle tanto male e Maria Grazia si sentì convintache in fondo avevano ragione i grandi quando ogni tanto dicevano che non do-veva mangiare troppe caramelle. O forse erano gli occhi del nonno a farle strin-gere quel groppo nella gola. Era come se il nonno fosse combattuto. Un occhio,cercando di guardar bene sotto la coppola di traverso, sembrava sereno, solleva-to, come se una bufera fosse passata. L’altro occhio era socchiuso e umido, giàvelato di malinconia, di cose belle che finiscono. Sembrava il nonno come unostrabico. E poi le teneva la manina così forte che le faceva quasi male. Come senon volesse farla andare via.

Voleva dirle, il nonno, che Maria Grazia sarebbe salita su un aereo e avrebbeviaggiato sulle nuvole a forma di pupazzi proprio sotto di lei, una coltre sofficee morbida.

“Maria Grazia, non hai mica paura vero dell’aereo? Quando sarai lì in al-to, potrai vedere il vulcano, quello che quando si arrabbia, madonnuzza santasputa tutto rosso… ma tu ci volerai sopra… e c’è anche il mare. Ci sono i tra-ghetti, che caricano tante macchine, avanti e indietro. Sono grandissimi per-ché il mare è spesso in tempesta ma da lassù ti sembreranno nichi nichi, picco-li piccoli.”

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Le avrebbe detto, il nonno, che la sua mamma era tornata (da dove?) e cheMaria Grazia l’avrebbe trovata a casa in quella bella città dove c’è il Colosseo.Ci sarebbe stato suo padre. Insieme al suo fratellino.

Tutto in un battito di ali. Veloce, veloce, lei che con il nonno era abituata acamminare piano piano. E un po’ era contenta. Un po’ aveva paura. Anche leisi sentiva strabica…

La malinconia

È stato bello rivederla. All’improvviso. Me la sono trovata davanti all’in-gresso del reparto delle donne, imbacuccata in un giaccone sportivo sulla fi-gura sempre esile. Stava andando in biblioteca con un gruppetto di pazientie l’assistente che si occupa di questa attività. Ci siamo riconosciute, anche seil viso mi sembra leggermente più paffuto, forse ammorbidito dagli psico-farmaci che evidentemente fanno parte della terapia. La carnagione è bru-na. I capelli però sono cresciuti e le nascondono lo sguardo fragile di quelgiorno, quando abbiamo parlato a lungo, in primavera. Un lieve imbarazzo.

“Come sta? È tornata a trovarci?”La voce è una curiosa miscela di alti e bassi ma forse è la cadenza dei suo-

ni delle persone del nord. Il sorriso diventa infine cordiale, i movimenti sisciolgono, saltella lieve sulle gambe per scrollarsi di dosso il freddo, si staccadal gruppo, e mi viene incontro. Una stretta di mano più decisa.

Nel corso della giornata Manuela avrà modo di spiegarmi che da due set-timane è la responsabile del lavoro di archiviazione nella biblioteca e che starealizzando anche una raccolta di dati sull’ospedale psichiatrico.Usa il com-puter. È attenta e precisa.

“Sono contenta di questo lavoro in biblioteca. Mi piacciono molto i libri,mi fanno compagnia.”

“Si mi ricordo… quel libro che stava leggendo sulle storielle dei cani…”“Davvero, come fa a ricordarsi?”sorride.

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Mi sembra lusingata dal mio interesse, quasi non riuscisse a immaginarequanto abbia pensato e ripensato al nostro primo colloquio e quanto abbia,inevitabilmente, conservato dentro di me del suo smarrimento e del suo do-lore. Anche questa volta Manuela mi dice che solo con i libri riesce a disto-gliere, a tratti, la mente dall’immagine della sua bambina.

“Non è facile… sapere che lei non c’è più… che è sotto terra… sì è sottoterra… non posso dimenticare tutto questo… mio marito? Gli ho scritto.Mi ha risposto, poi è stato silenzio per diverso tempo… non credo che si siarifatto una vita.L’ultima volta che ho avuto modo di parlarci mi ha detto cheè rimasto nella nostra casa. Ha alzato una libreria sulla parete e ha messodelle piante nella stanzetta della bambina… che devo dire?… io e lui forsenon eravamo fatti per stare insieme…”

“Ma suo marito la comprendeva… capiva che stava male… ho letto negliarticoli che la riguardano che lui seguiva la sua malattia e che era una perso-na sensibile.”

“Non lo nego. Mio marito però mi accettava così come si accetta una zop-pa. Tutto qui.”

Sul giornalino di Castiglione Manuela, con lo pseudonimo di Violetta, hadescritto questo stato d’animo… “A me è capitato di cambiare per amore,anche perché ero sposata e avevo una figlia e non potevo per ogni minimadivergenza rischiare la rottura. La soluzione più frequente era che cambias-si io... Qualche volta quando si raggiungeva un compromesso a me sembra-va una vittoria. Alla lunga però è stata una continua negazione della miapersonalità e anche l’amore è diventato difficile da portare avanti.”

Il dottor Esti le dice, con fare scherzoso, che anche lei deve trovarsi “un belmoroso” a Castiglione come hanno fatto altre pazienti.

“Mah, avevo conosciuto uno che veniva a fare alcune attività al corso diformazione professionale. C’era stata una simpatia… poi non ci siamo piùvisti… mi ha illusa…”

Manuela accenna un sorriso. Ma dice tutto questo con l’aria mite e conun po’ di vergogna, abbassando lo sguardo. Come una ragazza che ha no-

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stalgia di sentimenti belli, puliti. Dolci incontri che teme di aver perso persempre… come se avesse persino paura di sperare. “Ormai sono troppogrande… non posso certo pensare che nel mio futuro possa esserci un’altrabambina da mettere al mondo. Non sarò più madre.”

Gli occhi le si riempiono di lacrime. Una struggente malinconia.Manuela sa ormai davvero quello che ha fatto. Lentamente, piano piano,

goccia dopo goccia,graffio dopo graffio, la parte più sana di lei deve aver ini-ziato a scavare e a comprendere. Si è guardata allo specchio, ha sfiorato conle mani l’immagine riflessa nel vetro, ha seguito i contorni con le dita e ha ri-conosciuto il suo viso. Nessuna ombra dietro di lei. Non ha più dovutostringere alleanze con quelle voci che nella sua testa le costruivano storie chenon c’erano. Pensieri fasulli. Trabocchetti mortali. Agguati.

Forse ora Manuela sa di non aver salvato la sua bambina. L’ha uccisa e ba-sta. Manuela era malata.

Ai bambini si raccontano spesso mezze verità o non si racconta niente perchèè troppo difficile. Tutto pareva avvolto nel mistero come un grande segreto difamiglia da custodire. Poi a Maria Grazia, nel tempo, si disse qualche volta chela sua mamma era stata tanto male. Nell’anima, intuì, ma si sforzava di capi-re in quale parte del corpo davvero si trovasse. Nella pancia, forse, nella testa,forse, nelle gambe… Se ci fossero ferite e sangue come le infinite volte che MariaGrazia, piccola, correndo era caduta e si era sbucciata le ginocchia. Avrebbe ri-pensato al nonno che la rimproverava perché era stata “precipitusa”, sempre sue giù per le scale, e poi però, paziente, il giorno dopo le arrotolava i pantaloni finsopra le ginocchia...

“Sinni iu, la ferita se ne è andata” le diceva facendo comunque attenzione anon sfiorarle con la stoffa la carne ancora viva. “Domani non ti farà più male.”

Maria Grazia pensava in fondo che anche la bella signora dai capelli neridoveva essere caduta tante volte. Ma aveva sofferto così a lungo che non c’era

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altro da chiedere o da spiegare se non fantasmi da seppellire. Pensieri orridi,stanze solitarie e fredde, sbarre alle finestre e brutti uomini in camice bianco,quelli che nei film mettono le cose tonde appiccicate sulla testa con tanti fili, co-me negli esperimenti. Ore e giorni ad aspettare con l’eco di tutte quelle voci chele rimbombavano nelle orecchie. Grida che venivano dalla sua bocca e che labella signora non poteva riconoscere. Sin quando un uomo, anch’egli un dotto-re, ma con il sorriso dolce, liberò la sua mamma da quel groviglio di fili. E leparlò nel fondo dell’anima. Per farla guarire…

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POSTFAZIONE

Adriana mi ha chiesto un breve commento e, dato che faccio la psichia-tra, dopo aver letto le pagine del libro certe parolone mi sono cadute sul fo-glio come sassi: depressione, psicosi, allucinazioni uditive, fatuità, schizo-frenia. Parole che hanno diritto all’esistenza perché designano fatti cliniciben noti ma al lettore diranno poco.

Allora pulisco la pagina e ricomincio daccapo ringraziando AdrianaPannitteri che non ha creduto, o non ha creduto del tutto, che la pazzia siaespressione di malvagità. Non è segno del male neppure quando porta acompiere il più inconcepibile dei delitti, l’uccisione dei propri figli piccoli.È malattia, una malattia che gli psichiatri chiamano psicosi e che comportala perdita totale del rapporto con la realtà. Devo precisare: non tanto delrapporto con la realtà del supermercato e dell’orario dei treni quanto laperdita del senso della vita, del valore della vita umana.

Dal male bisogna difendersi, qualcuno dice va punito, mentre la malat-tia riguarda unicamente la medicina. Le malattie vanno comprese nel lorooriginarsi. Si tratta di curarle, guarirle, prevenirle.

Il racconto di Adriana è anche il tentativo - rispettoso mi pare - di saperedi più su come si origina questa malattia che è la psicosi gravissima. Unaprima cosa che veniamo a sapere è che non sono malattie che si creano daun giorno all’altro. La dicitura “raptus” che i giornalisti usano sempre èsbagliata e fuorviante.

Ci sono, in ognuna delle storie riportate, lunghi periodi in cui il rappor-to con la realtà, e in particolare con quella del proprio bambino, pian pianos’alterava, fino a un punto di non ritorno raggiunto il quale bisognava uc-cidere “per non farlo soffrire” o perché “non andava bene, era il diavolo”. Èagghiacciante sentire come a volte le uniche ad accorgersi del cambiamen-to catastrofico in atto fossero le future assassine che facevano sforzi dispe-rati per chiedere aiuto.

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Perché le risposte non ci siano state è un lungo discorso.Le persone non specializzate sanno troppo poco di questi problemi.

Grazie anche alla tv sappiamo come sono fatti gli anelli di Saturno e ilGrand Canyon ma non c’è informazione sulle malattie della mente trannei soliti luoghi comuni: “il raptus” o “era in cura per depressione”. A tuttoquesto fa riscontro una miriade di luoghi comuni sulla “mamma che èsempre la mamma”. Un ipotetico senso innato della maternità, come se ilrapporto con la nascita, con la realtà del neonato e del bambino piccolofosse un fatto ovvio e non una delle situazioni certamente più belle ma an-che più complesse e impegnative di tutta l’esistenza.

Da parte degli addetti ai lavori, poi, s’incontra una strana scissione. Cisono quelli che dicono chiaro e tondo, angosciando tutti, che purtroppo c’èun assassino potenziale in ciascuno di noi. Il male, appunto - dicono - èdentro di noi e non c’è niente da fare.

Altri sostengono che la pazzia non c’è, al massimo è una stranezza, e co-munque i matti non sono mai pericolosi. Ed è vero che muoiono molte piùpersone nel traffico che per mani di persone psicotiche. Tuttavia i delittiper psicosi accadono e la gente non si capacita: come può accadere che?....

Per questo penso che esiste un legittimo interesse della società affinchési faccia ricerca psichiatrica. Cosa che in Italia avviene poco per il malfun-zionamento delle Università e per via della riforma psichiatrica del 1978che da un lato ha avuto il grande merito di pretendere modi civili nel rap-porto con i malati ma - purtroppo - ha anche affermato che la malattiamentale in fondo non esiste. E non si può fare ricerca su quello che nonesiste.

Non che negli altri paesi vada poi tanto meglio. Si cercano nuove mole-cole per gestire meglio la psicosi e se certi farmaci placano la mente co-sciente si deduce che è la mancanza di queste molecole a causare la pazzia.Come dire: se mi ubriaco dimentico che non posso sopportare il Signor C.Concludo che il Signor C. mi sta antipatico perché di solito non c’è abba-stanza alcool nel mio cervello!

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Forse, però, non siamo costretti ad accontentarci di affermazioni cosìtristi.

Un momento per me particolarmente toccante nel racconto di Adrianaè la scena della bambina quando nota che la Signora Concetta, proprietariadella focacceria, non c’è più.“La bambina - cito testualmente - per qualcheragione profonda aveva da tempo iniziato a pensare che le persone appari-vano e scomparivano senza molte spiegazioni. Un po’ c’erano un po’ nonc’erano”. Non c’erano. Assenza è forse la parola chiave che può aprire leporte a una ricerca che non ha bisogno di postulare malattie geneticamen-te determinate.

Concetta è scomparsa e non c’è nemmeno la bella signora dai capelliscuri. Queste banali constatazioni diventano ricerca quando si fanno dueconsiderazioni.

La prima: quale può essere la reazione all’assenza di chi si sente abban-donato? E se fosse una reazione interna catastrofica? Nel caso peggiore,dentro, scompare l’immagine della persona che non c’è e viene annullatotutto l’amore e tutto l’odio che si aveva per lei. Il rimedio è ancora più vio-lento dell’aggressione subita. Tu per me non sei mai esistito. Ma non basta,così la ricerca sta su una gamba sola. La seconda considerazione è che dob-biamo approfondire la parola assenza.

Può essere assente anche chi materialmente c’è. Questo accade quandonon dà le risposte giuste, o quando, per esempio, non coglie le esigenze delbambino che non vuole solo pasti nutrienti e tutine morbide ma pretendelo spessore umano degli altri.

Quando questo spessore non c’è - negli adulti attorno, nella società, nelpensiero dominante - noi psichiatri parliamo di anaffettività e dissociazio-ne nascoste in persone perfettamente funzionanti. Ed è lì che nasce la ma-lattia mentale: quando il bambino per difendersi dal disumano negli esse-ri umani, s’annulla dentro. Buio, vuoto, cocci scomposti. Poi, una voltagrandi, non sarà facile affrontare i propri figli che chiedono a loro voltaun’umanità perduta da tempo.

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Sono grata ad Adriana che ci racconta di tragici fallimenti ma ci raccon-ta anche di una bambina che, come ogni bambino, pretende e cerca il rap-porto, studia il mondo e le persone e pare proprio che sappia il fatto suo.Come dire che, anche quando “le focaccerie sono vuote”, si può continuarea pretendere che le cose valide debbano esserci. Si troveranno, si ricreeran-no, perché questa è la verità degli esseri umani. E se questo io non lo so più,prenderò tutti gli aerei possibili e immaginabili alla ricerca di qualcunoche mi faccia ritrovare il mio mondo e un originario amore e Fulippu e igiardini di arance.

Annelore Homberg*

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* Annelore Homberg è psichiatra e psicoterapeuta e vive a Roma. È docente in-

caricata presso l’Università di Foggia e si occupa in particolare delle depressioni

maggiori e di psicoterapia delle psicosi. È redattrice della rivista di psichiatria e

psicoterapia Il sogno della farfalla (Nuove Edizioni Romane)

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RINGRAZIAMENTI

Ho molti ringraziamenti da fare e non sono scontati.In primo luogo ringrazio le madri ricoverate nell'Ospedale psichiatrico

di Castiglione delle Stiviere che hanno creduto nell'onestà del mio lavoro ehanno avuto il coraggio e la forza morale di raccontarmi le loro storie. Lamia gratitudine va alla Direzione della struttura, ai medici e agli assistenti,che mi hanno accolta con fiducia.

Un saluto a Cleo che mi ha offerto i dipinti che impreziosiscono questalibro.

Ad Annelore Homberg, la psichiatra che ha curato la postfazione, sonograta per le sue parole speciali anche quelle non scritte.

E ancora vorrei ringraziare non una persona ma la Sicilia, la terra che conle sue suggestioni mi ha regalato i personaggi veri o immaginari raccontatidalla bambina Maria Grazia.

E un grazie speciale al mio editore Alberto Gaffi, allo scrupoloso editorGianluca Spadoni, e all'amico Roberto Di Giovan Paolo che mi hannoaccompagnata in questa avventura.

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INDICE

PRIMA PARTE - La bella stagione pag. 7

SECONDA PARTE - La brutta stagione » 71

Postfazione di Annelore Homberg » 117

Bibliografia » 121

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Copertina: quadro di CleoDesign: ab&c - Roma 06 8308613 - [email protected]

Impaginazione: Roberta ArcangelettiStampa: Edizioni GR srl - via Carlo Ferrario 1 - Besana in Brianza (MI)

0362 996728 - [email protected]

Finito di stampare nel mese di maggio 2006 su carta ecologica Glicine da 90 grammi della linea Natura, della Cartiera Verde della Liguria,

carta riciclata di alta qualità prodotta da maceri di diversa estrazionesenza sbiancamento al cloro e possibile disomogeneità cromatica

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