Via della Guglia 69/b, Roma SEMPLARI - GaffiAngeli...©G-TRIP è un marchio Gaffi editore in Roma...

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© G-TRIP è un marchio Gaffi editore in Roma S.r.l. Via della Guglia 69/b, Roma 00186 – www.gaffi.it Proprietà letteraria riservata, riproduzione in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata. IL VENDITORE DI STELLE Rolando D’Angeli In copertina illustrazione: iFIX Progetto grafico e impaginazione Daniele Giovagnoli [email protected] Finito di stampare nel mese di maggio 2013 nello stabilimento Eccigraphica s.r.l. di Roma V ITE E SEMPLARI V ITE E SEMPLARI

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  • ©G-TRIPè un marchioGaffi editore in Roma S.r.l.Via della Guglia 69/b, Roma00186 – www.gaffi.it

    Proprietà letteraria riservata,riproduzione in qualsiasi forma,intera o parziale, vietata.

    IL VENDITORE DI STELLE

    Rolando D’Angeli

    In copertinaillustrazione: iFIX

    Progetto graficoe impaginazioneDaniele [email protected]

    Finito di stampare nel mese di maggio 2013nello stabilimento Eccigraphica s.r.l. di Roma

    V ITEE SEMPLARI

    V ITEE SEMPLARI

  • VITE ESEMPLARI

    ROLANDO D’ANGELI

    IL VENDITOREDI STELLEVita di un impresariofuori dal comune

    Con le testimonianze diBobby Solo, Pupo, Umberto Tozzi,

    Loretta Goggi, Renato Zero,Maurizio Costanzo, Giorgio Assumma

    Presentazione diDARIO SALVATORI

  • C onfesso che aspettavo da tempo l’autobiografia diRolan do D’Angeli. L’aspettavo non solo per motivi pro-fessionali, ma anche per una serie di curiosità, verifichee immagini ascoltate per anni dal diretto protagonista. Ma unconto è carpirle a spizzichi e bocconi in una pausa o al risto-rante, in un viaggio o in un back-stage, tutt’altra cosa è veder-le finalmente raccolte. Addirittura cronologiche e disciplinate.Uno spaccato del mondo dello spettacolo che, ne sono sicu-

    ro, non incuriosirà soltanto gli addetti ai lavori, ma anche ilgrande pubblico, gli appassionati di musica, tutta quella gran-de fetta a cui arriva solo l’atto finale, talora non il più veritiero.La vicenda umana e professionale di Rolando D’Angeli parte

    da molto lontano, in una Roma che deve fare ancora i conticon il dopoguerra, che nella capitale è durato fino alla metàdegli anni Cinquanta.Una Roma di periferie e delinquenza minorile, dove i ragaz-

    zini sono sempre mal vestiti e spesso affamati, qualche voltadisposti a tutto. È qui che si sviluppa l’humus esistenziale delprotagonista, sfortunato anche nelle vicende familiari. Ma lariscossa arriva presto. Passa attraverso la passione per lamusica, in un momento in cui i ruoli (impresario, agente,manager ecc.) non sono così definiti. Rolando D’Angeli cogliel’attimo, intercetta artisti, qualcuno debuttante, altri da rilan-ciare e a tutti mette a disposizione la sua professionalità, ilsuo entusiasmo. Scopriamo come si costruiscono (qualchevolta come si inventano dal nulla) carriere destinate a durare;altre volte come si distruggono, spesso consapevolmente. Unmondo dove ormai poche cose sono certe, eppur bisogna

    PRESENTAZIONE

    di Dario Salvatori

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  • andare avanti, devastati dalla corruzione e dai senza talento,cioè la maggioranza. Un libro di peso sociologico che, scorpo-rato da aneddoti e bricconate da ambo le parti, potrebbeaspirare a diventare un testo di formazione per chi volesselavorare in questo ambiente. D’Angeli ha avuto la fortuna diesprimersi professionalmente in un momento in cui tutto gira-va a mille. Oggi come sappiamo la musica è cambiata, in tuttii sensi, ma non è detto che occorra necessariamente abdicare.Qui i colori della narrazione potranno sembrare ambigui, mala narrazione è vivace, di prima scelta, a volte durissima. Molticantanti escono con le ossa rotte, soprattutto umanamente.Forse ci saranno delle repliche, ma se tutto dovesse essereconfermato il quadro che ne esce è sconsolante, miserabile.Fortunatamente c’è anche molta allegria, aneddoti di primamano, dietrologia, capacità di far sorridere. Il che, con i tempiche corrono, non è poco.

    L’ antico fermento creativo fondato sulla dinamicadelle intese tra artisti e imprenditori, attraverso unastimolazione continua verso i gestori dei locali e glienti teatrali, sembrava dovesse durare per sempre. Cosìcome la sorpresa nel vedere quegli spazi popolarsi ad ognipassaggio di nuova linfa vitale: un sano e voglioso pubblicoalla ricerca di pure emozioni.

    Sulla barricata degli irriducibili… svettava Rolando D’Angeli!Versatile alla collaborazione con altri agenti, di svariate pro-venienze e calendari. Dal liscio al Pop. Dal rock soft allostruggente melodico italiano. Io l’ho osservato spesso nelmuoversi con disinvoltura e sicurezza. Quando la serietà e lapassione erano doti essenziali per raggiungere un alto rigoreprofessionale… D’Angeli era lì. Era presente. E se lo è ancorauna ragione certo che c’è: l’amore per il suo lavoro!

    IL PRIMO ARTISTA

    Una testimonianza di Renato Zero

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  • Da piccolo ero un sognatore. Leggevo i fumetti e diventavo l’eroe della storia.

    Guardavo un film e diventavo l’eroe del film. Ogni sogno che ho fatto, si è avverato un centinaio di volte.

    Elvis Aaron Presley

    Sigo en la carretera buscándoteal final del camino te encontraré [...]

    Julio Iglesias, R. Livi, R. Ferro

  • SommarioSommarioVIILuci e ombre .............................................................................................. 139Mike Francis .............................................................................................. 141Umberto Tozzi .......................................................................................... 148Royal Albert Hall ...................................................................................... 155La risalita di Tozzi .................................................................................... 159La seconda moglie: Monica .................................................................. 164VIIIAmedeo Minghi ........................................................................................ 167Un giorno di settembre .......................................................................... 168Minghi e Mietta. Una coppia da Festival ............................................ 178Un uomo venuto da lontano .................................................................. 180Non solo teatro ........................................................................................ 183IXNek .............................................................................................................. 187Un timido ragazzo dagli occhi di ghiaccio .......................................... 191Terremoto in famiglia .............................................................................. 196Ricomprare la mia casa .......................................................................... 204Nek: il primo traguardo .......................................................................... 206XLa lettera e un alloggio a Regina Coeli ................................................ 211La vetta più alta del successo .............................................................. 216La fine di una bella storia ...................................................................... 221Voi fate finta de sonà, io faccio finta de pagà .................................. 225XIGiorgia e… dintorni! Breve storia di una collaborazione mancata .... 227You can’t always get what you want .................................................... 231Una ciurma di artisti ................................................................................ 233Vita privata e uffici hollywoodiani ........................................................ 238XIIPensione e riposo del guerriero? No, grazie! .................................... 243Fabrizio Moro ............................................................................................ 244Gianni Fiorellino ........................................................................................ 248Perché Sanremo “era” Sanremo… ...................................................... 251Un cerchio che si chiude all’infinito .................................................... 253Testimonianze di Maurizio Costanzo e Giorgio Assumma ............ 259Note dell’autore e ringraziamenti ...................................................... 261

    Presentazione di Dario Salvatori .............................................................. 7Il primo artista, una testimonianza di Renato Zero .............................. 9IAiutati che il ciel ti aiuta… ...................................................................... 18I sogni son desideri… ................................................................................ 20Accattone .................................................................................................... 24Papa Roncalli, John Fitzgerald Kennedy, Al Capone… .................... 26«Senza musica, la vita sarebbe un errore» ........................................ 28Il Darling Club .............................................................................................. 34IIUn americano a Roma .............................................................................. 37Hollywood Party ........................................................................................ 40Incontri importanti .................................................................................... 42Il primo incarico .......................................................................................... 48Un venditore di riso e di cantanti .......................................................... 50Sul ring del Madison con Lino Banfi e Franco Franchi ...................... 55III«Il denaro è come il sesso: solamente quando è troppo è abbastanza» .... 59Ricomincio da… Zero ................................................................................ 61Bobby? “Solo” dieci anni insieme .......................................................... 65Lo spettacolo s’adda fa’! .......................................................................... 71IVIl primo ufficio .............................................................................................. 75Michele Zarrillo (Andrea) e la “Music Show International” .............. 77Sì viaggiare… con Bobby Solo ................................................................ 82V“Un impresario per amico” ...................................................................... 89Il Pupo… siciliano ........................................................................................ 91Sanremo val bene un… televoto? .......................................................... 96Australia ........................................................................................................ 98Dalla Russia con amore .......................................................................... 102Made in Italy .............................................................................................. 110Non gioco più ............................................................................................ 112VIAncora tu… Pupo .................................................................................... 117Toronto e il doppio cast .......................................................................... 119Loretta e Daniela ...................................................................................... 127

    IL VENDITORE DI STELLE Vita di un impresariofuori dal comune

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    IL VENDITORE DI STELLE

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    O gni vita è legata a un filo conduttore, un’immaginedi fondo che emerge periodicamente per ricordartichi sei e da dove provieni. Nel mio caso, si tratta diuna lampadina appesa al soffitto scrostato di una stanzaangusta e fredda. Mi sembra di vederla.È la visione di chi non può dimenticare la miseria e il

    costante senso di privazione sofferti.Nascere poveri non è una colpa. È una seconda pelle che ti

    rimane appiccicata e che nemmeno un abito buono puònascondere. Anche se vestiti a festa e ben pettinati, i poverisi riconoscono sempre. Ho dovuto reagire, non avevo altrascelta. Così facendo, il buco di via Eurialo 19 nel popolarequartiere romano dell’Alberone, non è riuscito a risucchiarminel suo ventre di morte. Sì, me la sono cavata, nonostante unterribile male che minacciava la mia giovane vita. Il suo nomeera poliomielite: una malattia che prende di mira il sistemanervoso centrale causando paralisi e arresti respiratori.Mi considero un miracolato. Di quelli che per tutto l’arco

    dell’esistenza si sentono in dovere di dimostrare qualcosa almondo intero.La mia è l’età dei bilanci, dei conti col passato, dei fantasmi

    che prendono forma. E se sono ancora qui lo devo a qualcu-no che tanti anni fa si è preso la briga di curarmi; senza maismettere di credere che un ragazzino malandato e condanna-to a una fine prematura, potesse farcela. Sono nato a Roma il 22 maggio 1946, e dopo soli dicias-

    sette mesi, per la precisione il 10 ottobre 1947, la tubercolo-si spezzò la vita di mia madre Domenica. Io e i miei fratelli

    Rolando D'Angeli con la nonna Pasqualina.Possi guadagna' cento scudi al minuto

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    IL VENDITORE DI STELLE

    Qui mi sottoposero a costanti terapie intensive. Il male avevacontagiato tutta la parte destra del corpo, dalla gamba finoall’occhio. Più che altro, si trattava di tentativi. Infatti, il vac-cino antipoliomielitico, il Salk, sarebbe stato scoperto e dis-tribuito non prima del 1957. Fu solo sette anni dopo, nel1964, che la malattia (grazie al Sabin) andò scemando finoalla definitiva scomparsa avvenuta all’inizio degli anni ’80. Comunque, più di ogni cura medica, credo sia valsa la fede

    in una possibile guarigione. Una fede incrollabile che Bernar-dina mi trasmise attraverso la compassione.Ero troppo piccolo per conservare i ricordi delle cure, delle

    corse in ospedale, di quei minuscoli visi rassegnati e con gliocchi spalancati al dolore. Tutti in fila, piccoli prigionieri senzacolpa, in attesa di una carezza o un sorriso che potessero leni-re la paura, la paura di sprofondare nel baratro di un’infanziaatroce. No, non ricordo. O, forse, non voglio ricordare.

    Oggi ho l’abitudine di guardarmi allo specchio, lo faccio spes-so. Una mania che affonda le proprie radici nel bisogno quo-tidiano di riconoscermi e affrancarmi dall’immagine che miporto dentro. Quella di un ragazzino menomato dalla polio-mielite, che faceva di tutto per farsi accettare dai propricoetanei e compagni di giochi. Oggi, grazie alle numeroseterapie, non zoppico, e il mio aspetto è quello di una personasana. Tuttavia, anni fa, vivevo un forte senso di inferiorità, epiù che deriso mi sentivo svantaggiato. Rispetto a me, tuttimi parevano più belli, più ricchi, più intelligenti. Più fortunati.Probabilmente è stata questa la molla che ha fatto scattareun desiderio di rivalsa. Vivevo la mia povertà con occhi aper-ti alla speranza. Certo, le mie aspirazioni erano ancora confu-se, ma sentivo di potercela fare.Eppure, ero un bambino scarmigliato, mal vestito ed emacia-to. Osservavo quei bellissimi pantaloni alla zuava impreziositida calzettoni a rombi che vestivano gli altri e li confrontavo aimiei, rammendati con toppe di fortuna. A scatenare l’invidia

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    Bianca e Giuliano fummo crudelmente deprivati di una figurafondamentale, di un supporto inestimabile per la famiglia. Mamma era di origine marchigiana. Una donna generosa e

    fiera, come la sua terra. Una persona instancabile, una grandelavoratrice. Mio padre Nazareno, invece, era nativo di RoccaSinibalda di Rieti, e gestiva un piccolo bar situato nella stessapalazzina dove abitavamo. Visto che era gravemente malato dicuore, mamma lo aiutava a portare avanti l’attività. Gli introi-ti, tuttavia, erano insufficienti al mantenimento di un’interafamiglia. Nel secondo dopoguerra la povertà era uno stile divita che non risparmiava nessuno. Di conseguenza, bisognavarimboccarsi le maniche affinché sulla tavola, insieme al pane,ci fosse anche il companatico. E, mamma Domenica, non siperdeva certo d’animo. Infatti, per racimolare qualche soldoin più, non esitava a pulire le case dei vicini.Anche se di lei non ho ricordi se non attraverso le fotografie

    o i racconti dei parenti, la mutilazione affettiva la sento anco-ra viva, come una ferita mai rimarginata. Subito dopo la suamorte, mia sorella Bianca fu mandata in un collegio a Rocca diPapa, nella zona sud di Roma, mentre nostro fratello Giulianosi trasferì a pochi chilometri di distanza, nel paesino di RoccaPriora (Colli Albani). Una totale disgregazione che avrebbeportato alla rovina ciò che restava della nostra sfortunatafamiglia. La vita però, e questo l’ho imparato negli anni a veni-re, non ti infligge mai un grande dolore senza offrirti lo stru-mento per fargli fronte. Il mio aveva un nome di donna: Ber-nardina, la giovanissima sorella di mamma. Ebbene, se oggisono qui a testimoniare la mia storia, lo debbo soprattutto alei. Infatti, per un puro atto d’amore, rinunciò alla propria gio-vinezza e ai propri sogni, e sposò mio padre nel 1952.Quando mi ammalai di poliomielite, Bernardina, con la

    forza dei suoi ventisei anni e con la spinta emotiva dell’amo-re che nutriva per me e mio padre, tentò l’impossibile. Iniziòcosì un calvario, una quotidiana via crucis verso l’OspedaleBambin Gesù, il più conosciuto centro pediatrico romano.

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    IL VENDITORE DI STELLE

    Nostro padre, per rimpinguare la misera economia del bar, sidedicava anche al commercio del latte. Questo veniva distri-buito ogni mattina, direttamente dalla Centrale, all’interno digrossi contenitori in alluminio. Il ricavo era comunque scarso eurgeva una trovata per incrementare ulteriormente le entrate.All’insaputa di tutti, trascorreva diverse ore al giorno nella

    ghiacciaia. Con la destrezza di un consumato falsario di ban-conote, sollevava i coperchietti in metallo, toglieva un quartodi latte, aggiungeva lo stesso quantitativo di acqua, e richiu-deva i tappi con l’aiuto di uno spago, insomma, fu l’inventoredel latte scremato. L’indomani, io e mio fratello Giuliano ciritrovavamo, ogni volta meno sorpresi, un numero più consi-stente di bottiglie di latte per il negozio.Tutto questo, forse, potrà far sorridere qualcuno, esatta-

    mente come si può sorridere davanti alle marachelle di unbambino. Oggi, le cosiddette truffe, hanno poco a che vederecon l’arte di arrangiarsi tipica di quegli anni.Nel secondo dopoguerra si viveva un momento di grande

    confusione, dovuta essenzialmente all’incapacità della classepolitica.Il 2 giugno del ’46, dopo soli trentacinque giorni di reggen-

    za, si andò a elezioni anticipate. Re Umberto II, figlio di Ema-nuele III di Savoia, andò su tutte le furie e gridò allo scandalodei brogli. Ritiene la presa di potere del governo De Gasperiun atto rivoluzionario, oltre che assolutamente arbitrario.Prenderà la strada dell’esilio, abbandonando il suolo italiano.L’economia era ridotta ai minimi termini. Alcide De Gaspe-

    ri, il primo di luglio, fu costretto a dimettersi anche se gli siconcederà la possibilità del secondo incarico, cui ne segui-ranno altri due. Nel frattempo, Enrico de Nicola venne eletto capo provvi-

    sorio dello Stato. Tuttavia, l’evento più rilevante di quell’an-no è rappresentato dal lungo e significativo discorso di DeGasperi a Parigi. L’America si commuove davanti alla “paro-la di un vinto che si sentiva e si poteva sentire vincitore”. Si

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    poi, era soprattutto la possibilità dei coetanei di mangiarepastarelle, una tentazione troppo onerosa per le tasche dellamia famiglia. Ancora oggi, ogni volta che mi trovo a passaredavanti a una pasticceria, l’impulso di entrare a comprarle èirresistibile.

    Aiutati che il ciel ti aiuta…

    Era una massima ricorrente negli anni del dopoguerra, quan-do le famiglie, pur di vincere la fame, ricorrevano a piccoliespedienti non propriamente legali, ma molto ingegnosi edefficaci.D’altro canto, i disoccupati in Italia raggiungevano il milio-

    ne, nonostante un buon inizio di ripresa industriale. Di conse-guenza, si diffondeva un crescente malcontento che avrebbeportato a numerose dimostrazioni di massa. Oltretutto, c’eraun disperato bisogno di carbone; sottratto all’uso domesticoa vantaggio dei trasporti ferroviari. Per non parlare dellagrande limitazione di corrente elettrica che generava nonpochi disagi alle famiglie. Per fortuna, dagli Usa arrivavanoenormi quantità di derrate che evitavano tragiche conseguen-ze per la popolazione.Bernardina, la mia seconda mamma, mi raccontava che con

    la farina proveniente dall’America si confezionava un panespugnoso e bianchissimo. La carne di cui ci si nutriva era pre-valentemente quella delle scatolette, stesso discorso per glispaghetti già conditi nei contenitori di latta. Lo zucchero eraconsiderato una rarità, alla pari del caffè, e veniva centellina-to come un vino d’annata.Nel 1946 lo stipendio medio di un operaio non superava le

    diecimila lire mensili: salario che non permetteva alcunlusso. Un pacco di riso costava 60 lire, la pasta 120, il quo-tidiano 4 lire, mentre 30 lire era il costo della bottiglia dilatte da un litro.

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    IL VENDITORE DI STELLE

    L’isolamento del collegio faceva sì che Giuliano provasseuna forte curiosità per il mondo esterno. In qualità di fratellominore, cercavo di saziarne la sete di conoscenza.Il fine settimana, quando rientrava a casa, passavamo ore e

    ore giocando e divertendoci nella cantina del bar. Un belgiorno, col suo ciuffo perentorio come un punto esclamativo,mi disse: “Non ho mai visto i pompieri!”.Allora, gli consigliai di sdraiarsi dentro la finestra a bocca di

    lupo che dava su via Appia. Andai alla ricerca di piccoli pezzidi legno e carta di giornale e, con un fiammifero, appiccai unfuocherello attorno a lui… Nel giro di pochi minuti il fumoinvase la strada e, in tempi altrettanto rapidi, la sirena deipompieri si sovrappose al rumore del traffico. Mi sentii fierodi me stesso come mai prima. Certo, mio fratello rischiò dibruciare vivo, ma finalmente poteva affermare con orgoglio diaver visto i pompieri da vicino.Peccato che questa sensazione di quasionnipotenza ebbe

    vita brevissima: mia madre Bernardina, preso coscienza delloscampato pericolo, mi assestò una lunga serie di ceffoni. Dopo il periodo lampo trascorso in via Appia, il bisogno

    impone alla mia famiglia una nuova scelta di vita. Quella diabbandonare l’amata Roma per migrare nelle Marche. Moricoè una piccola frazione di San Ginesio in provincia di Maceratache conta circa trecento anime. Tra le viuzze del paesino siincontrano poche case, oltre a un paio di spacci alimentari,l’immancabile chiesa e una scuola. A differenza della Capitale,la vita scorre con lentezza, e i lavoratori non fanno rumore.Passano inosservati come viandanti silenziosi: i visi sereni,

    anche se invecchiati precocemente. Qualche chiacchiera albar, il quotidiano una volta la settimana, le notizie allaradio… quella dei vicini più fortunati. Non arrivavo ai dieci anni d’età e, mio malgrado, venni tra-

    scinato a scuola dai miei genitori. Mi sentivo una vittimaincompresa; come il burattino di collodiana memoria, rifiutavotutto ciò che avesse a che fare con i libri. Lo confesso, a scuo-

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    torna a casa con cinquanta milioni di dollari in tasca, cui sene aggiungeranno altri quattrocentotrentacinque con ifondi UNRRA. La marcia verso il cosiddetto “boom econo-mico” può dirsi iniziata.

    I sogni son desideri...

    I sogni son desideri di felicità. Così inizia una famosa canzon-cina di un altrettanto famoso film disneyano. Un bambino,con tutta probabilità, non si chiede mai se sia felice o triste.Forse, fino a una certa età, non conosce nemmeno il signifi-cato delle parole legate agli stati d’animo. Allora, vive leemozioni in modo naturale, passando con estrema facilità dalriso al pianto. Io ero un bambino consapevole di possederepoco. La situazione di costante precarietà che ha caratteriz-zato tutta la mia infanzia e gran parte della giovinezza, mi hapermesso di spalancare la mente ai sogni più ambiziosi.Insomma, l’esperienza della povertà, a conti fatti, si è rivela-ta la mia vera ricchezza.

    Da via Eurialo, ci eravamo trasferiti in via Appia dove miopadre aveva preso in gestione, insieme ai miei zii, un bar neipressi dell’Alhambra, nota sala cinematografica dell’epocaoggi rimpiazzata da una importante boutique. Oltre all’indole raminga di piccione viaggiatore, la stessa

    che in futuro mi avrebbe portato a girare il mondo a tempo dimusica, in me emerge progressivamente uno spirito goliardi-co ingovernabile. Il primo bersaglio delle mie insane trovate èstato Giuliano. Mio fratello era discreto e dolce, il classicosimpatico “ciccione” dai maglioni a righe orizzontali che allar-gavano ancor più il suo già abbondante girovita. Era, insom-ma, il mio esatto opposto. Canzonandolo, mi divertivo a chia-marlo Superbone, come il noto personaggio del Monello, pervia di quel comune ciuffo biondo all’insù.

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    IL VENDITORE DI STELLE

    chiodo arrugginito o un manico d’ombrello potevano tor-narci utili.Indimenticabili erano le gare con le biglie di vetro dai colori

    variopinti che, dalle mie parti, chiamavamo “borgioni”. Inuti-le dire che davamo vita a un mercato molto attivo per scam-biare le biglie più rare e colorate con i nostri doppioni.Il “coccuzzaro” poi era un gioco di equilibrio, a squadre,

    che metteva in moto i muscoli; infine, con una cartolina e unamolletta da bucato fissate ai raggi di una bicicletta, riprodu-cevamo il suono di quel ciclomotore che mai avremmo potu-to comprare.

    Il fabbro del paese si chiamava Mimì, soprannominato Testasecca. Era un omino piccolo di statura, un po’ in sovrappesoe di una certa età, che mi aveva preso a benvolere. Di lui, piùche l’aspetto fisico, ricordo la stessa maglietta stinta e glistessi pantaloni consunti che indossava sia in estate sia ininverno. E l’odore di ferro che avvolgeva la sua persona e chenon scompariva nemmeno la domenica, quando si ripuliva esi rimetteva a nuovo per andare a Messa accompagnato dallafamiglia.Nell’angusto e umido laboratorio del fabbro, mi davo da

    fare per tenere in ordine e raccogliere i residui di ferro cadutidurante la lavorazione. Mimì, vista la mia tenera età, non pre-tendeva molto e chiudeva un occhio sulle mie imprecisioni.Per questi lavoretti guadagnavo quindici lire la settimana;

    una piccola rendita per una grande soddisfazione: ogni dome-nica mattina acquistavo i formaggini quadrati della Ferreroche contenevano le figurine dei calciatori e riempivo, insiemeai miei compagni di giochi, l’amato album della Panini.Per i miei genitori il periodo trascorso al paese non fu per

    niente florido. Si lavorava poco… ma la solidarietà di parentie amici era commovente e apriva uno spiraglio alla speranza:galline, uova, ortaggi erano i doni della generosa comunità.La mia seconda madre, tuttavia, essendo abituata a una vita

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    la ero un somaro coi fiocchi. I compiti mi facevano venire l’or-ticaria e il mio unico impegno consisteva nel collezionare unaserie di due e quattro. L’unica volta che portai a casa un belsette in storia, fu un vero evento. Mia madre Bernardina cimise non poco a riprendersi dallo shock, ma subito dopo uscìdi corsa a comprare una bottiglia di Spuma Appia, surrogatodella più famosa Coca Cola e del Chinotto. Ripensandoci, lastoria era l’unica materia che riusciva a non annoiarmi. Nonche la studiassi, ma in classe ero molto interessato alle lezionie questo mi permetteva di assimilarne i contenuti.A dire il vero, mi rimanevano impresse anche le bacchetta-

    te poco clementi con cui il maestro mi fustigava il dorso dellemani; usava i listelli delle persiane della finestra. Ce n’era unain particolare che si smontava e rimontava con molta facilitàed era, manco a dirlo, la sua preferita. Sono convinto che, aparte il suo legittimo, autorevole desiderio di raddrizzare laschiena a me e ai miei compagni di classe, ci fosse in lui uncerto gusto sadico nel riprodurre lo schiocco che le bacchet-tate facevano risuonare sulle mani. Oggi, se un insegnante sipermettesse di dare un semplice scappellotto a un alunnoindisciplinato, si beccherebbe una bella denuncia da partedei genitori con l’appoggio del “telefono azzurro”. Ai mieitempi, lo stesso ragazzino, si sarebbe preso una doppiarazione di schiaffoni da parte di papà e mamma. Con questonon voglio dire che i metodi di una volta siano migliori. Maun’educazione troppo morbida, permissiva e lassista non hamai tirato su una gioventù con le spalle larghe, in grado di farfronte alle difficoltà della vita. La povertà svuota le tasche, ma attiva il cervello e la crea-

    tività. Anche nel gioco. E noi, figli del dopoguerra, abbiamosviluppato fin da piccoli questa inclinazione. Di sicuro, seavessimo avuto la possibilità di utilizzare i giochi raffinati dicui dispongono i bambini oggi, non ci saremmo divertiti dipiù. I giocattoli venivano riciclati da qualunque oggettoriuscissimo a recuperare nel nostro quartiere. Anche un

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    IL VENDITORE DI STELLE

    mio padre decise di giocare l’ennesima carta puntando su unnuovo trasloco, tirammo tutti un sospiro di sollievo.

    La zona di Centocelle era, soprattutto ai miei tempi, un con-centrato di povertà e delinquenza. Per comprendere appienoquesto mondo a sé stante, questo angolo di vita perifericodove la sopravvivenza era legata a mezzucci di fortuna, occor-re salire sulla macchina del tempo e tornare agli anni Cin-quanta. Solo il cinema quindi, l’unica grande time machinecreata finora dall’uomo, può aiutarci in questo viaggio.

    Accattone è stato il primo film diretto da Pier Paolo Pasolininel 1961 con la collaborazione di Franco Citti, attore protago-nista, doppiato dalla splendida voce di Paolo Ferrari. Credosia, in assoluto, il film più adatto a questo salto temporale, lapellicola che più di ogni altra immortala la vita marginale deiquartieri periferici capitolini. Il Pigneto, la borgata Gordiani, eappunto Centocelle, costituiscono la scenografia naturale incui il film viene girato.Cercare di rivedere con gli occhi di oggi il commovente

    dramma esistenziale del regista friulano, può rendere l’ideadi quello che fosse il mio mondo. Tra i giovani personaggi delfilm, emarginati dalla società e votati alla sconfitta primaancora di gareggiare, potevo esserci anch’io insieme a tantialtri miei compagni di scorribande.Parte del film venne girata proprio nei luoghi in cui noi

    ragazzi giocavamo. Pasolini era un frequentatore abituale delPigneto dove selezionava personaggi di strada preferiti agliattori professionisti.Centocelle confinava con via Tor de Schiavi, oltre che con la

    borgata Gordiani, una zona piuttosto vasta con enormi palaz-zi gialli che spiccavano sul verde dei prati disseminati dibaracche. La povertà si toccava con mano. Credo che nessunodovrebbe rimanere indifferente davanti alla miseria, anche se,facendo finta di nulla, spesso si preferisce chiudere gli occhi.Nel 1958, periodo in cui, dopo la seconda bocciatura conse-

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    spartana e avendo come obiettivo principale il ritorno allagrande città, non si fece molte remore a rivendere gran partedi quei doni.Il carretto del signor Cozzoni sostava nella piazza del paese

    tutte le domeniche. Un appuntamento al quale i contadinilocali, se volevano vendere i prodotti dell’orto, non potevanomancare. Inoltre, per i più curiosi, compreso il sottoscritto,era un vero spettacolo assistere al mercanteggiare delle parti.Osservavo mia madre che, con fiero cipiglio e il busto avvoltoin camicette a fiori o in larghi scialli frangiati di lana, riuscivasempre a strappare i prezzi migliori. Il signor Cozzoni provavaa resistere, certo, ma ogni volta capitolava… era solo que-stione di tempo. Di sicuro, però, come tutti i commerciantinavigati, non ci rimetteva mai, e quando l’indomani avrebberivenduto gli stessi prodotti nei mercati della Capitale, il suoguadagno sarebbe stato netto.Trent’anni dopo, cercando un ufficio per la mia attività

    d’impresario a Roma, risposi a un annuncio d’affitto dellamoglie di un certo signor Cozzoni. Sì, era lo stesso che moltianni prima permise a me e alla mia famiglia di ritornare nellagrande città. Mi piace pensare che quest’uomo d’affari diprovincia, dai modi un po’ rozzi, fosse un angelo accorso innostro aiuto sotto mentite spoglie.

    Accattone

    Il ritorno a Roma rappresentò la realizzazione del piccologrande sogno di Bernardina. Le occasioni di lavoro si concre-tizzarono ancora una volta nella gestione di un bar. Il nuovoindirizzo era in via Costantino Corvisieri, nei pressi di via XXIAprile. Ricordo che mio zio Silvestro, reduce dal fallimento diuna sua precedente attività, utilizzava il bar come rifugio persfuggire ai creditori e a un possibile arresto. Questo clima diallarme si rifletteva su tutta la famiglia, tanto che, quando

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    IL VENDITORE DI STELLE

    tre icone una diversa dall’altra, tre sguardi che m’incutevanouna certa soggezione. Forse necessitavo di riferimenti auto-revoli per costruirmi un’identità personale.Il mio animo, da sempre ribelle, non poteva per questo non

    predisporsi a umiltà di fronte all’incarnazione della Fede:Giovanni XXIII. Il suo famoso discorso della Luna dell’11 otto-bre 1962, tenutosi in occasione della serata di apertura delConcilio, quando il Papa Buono venne chiamato a gran vocead affacciarsi su una piazza San Pietro gremita di fedeli, miera entrato nel cuore toccandone le corde più vulnerabili.Con tutta l’umiltà e il garbo di cui era capace, Giovanni

    XXIII impartì un ordine preciso: «Tornando a casa troveretei bambini. Fategli una carezza e dite: “questa è la carezzadel Papa”».Ecco, la parola magica, quella che ancora oggi ha il potere

    di sciogliermi in un pianto commosso, è proprio “carezza”.Quella che non ho mai ricevuto e che ho tenuto dentro, pertutti questi anni, come il desiderio più bello e autentico. Lastessa carezza che cerco in ogni donna che incontro. Al centro di questo “trio” improbabile di cui nemmeno mia

    madre riusciva a capacitarsi, c’era il volto solare e sorridentedi John Fitzgerald Kennedy, primo presidente degli Stati Unitidi religione cattolica, eletto nel 1960, carica che mantennefino al suo assassinio avvenuto il 22 novembre 1963. Una presidenza molto breve la sua, ma ricca di avvenimenti

    che segnarono una svolta epocale in diversi ambiti: la costru-zione del Muro di Berlino, la conquista dello spazio, l’affer-marsi del movimento per i diritti civili degli afroamericani,senza dimenticare i retroscena della guerra del Vietnam.Quando venne assassinato a Dallas per mano di Lee Harvey

    Oswald, a sua volta ucciso due giorni dopo, avevo diciassetteanni. Ricordo come anche nella periferia romana dove vivevo,lo sgomento e lo stupore segnarono i visi di tutti, bambinicompresi. Ricordo come fosse ieri quando, al bar di via deiGelsi a Centocelle, appresi la notizia. Stavo ascoltando una

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    cutiva, avevo abbandonato l’Avviamento Tecnico Industrialedella scuola Francesco Baracca di Tor Pignattara, ero alleprese con bande che facevano letteralmente a sassate. Comesempre, c’era chi le dava e chi le prendeva. La mia banda nonpoteva che far parte della seconda categoria. Anni dopo avreiritrovato uno dei miei peggiori nemici, Giovanni Traversa, conl’uniforme addosso. Oggi è uno stimato colonnello dell’Armadei Carabinieri ed è stato proprio lui, durante un concertoche organizzai in occasione di un evento di beneficenza, ariconoscermi. Non è incredibile ritrovarsi in un contesto tantolontano dalle nostre guerre di quartiere?Di mio, non mi sporcavo certo le mani con furtarelli o scippi

    come molti dei miei amici. Mi limitavo a raccogliere il ferro, ilcarbone, il rame e le cicche delle sigarette, dalle quali ricava-vo buste di tabacco da rivendere, anche se, per far parte dellabanda, qualcosa dovevi pur dimostrare. I gesti, quelli plateali,da “duri”, rappresentavano inevitabili riti d’iniziazione.Ogni ragazzo è capace di ritagliarsi uno spazio tutto suo,

    anche in mezzo alla guerra più cruenta. È questa la sua veraforza. Noi giocavamo a nascondino nelle grotte (le chiamava-no “fungaie”) che si creavano naturalmente nel sottosuolo diquella zona. Ci trovavamo di tutto, persino residui bellici,elmetti e divise con cui davamo credibilità alla nostra imma-gine di ribelli.Tanti anni dopo avrei scoperto che in quei palazzoni gialli

    della borgata Gordiani, vivevano due futuri musicisti nei qualimi sarei imbattuto: Andrea Zarrillo e Giampiero Artegiani. Neparlerò più avanti.

    Papa Roncalli, John Fitzgerald Kennedy, Al Capone...

    Un terzetto a dir poco curioso campeggiava sul letto singolodella mia stanza di adolescente. Tre fotografie senza cornicené vetro, appese a tre chiodi un po’ sbilenchi. Tre personaggi,

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    servizio di leva e, pur di partecipare al Festival di Sanremo,chiese e ottenne una dispensa speciale firmata dall’allora Mini-stro della Difesa Giulio Andreotti. In coppia con l’amico LittleTony, presentò il brano 24.000 baci. Già in questa occasionecominciò a provocare i benpensanti dell’epoca con le sue tipi-che trovate. Si presentò sul palco voltando le spalle alla plateae si girò solo dopo il cambio di tempo dell’orchestra: lasciòtutti a bocca aperta. Per me, fu amore a prima vista.Adriano mi folgorò perché, imitando Elvis, dimostrò di esse-

    re il primo a capire che il Re del Rock avrebbe avuto un impat-to senza precedenti sulla cultura musicale dell’intero pianeta.Al bar di via dei Gelsi, proprio di fronte al Commissariato di

    Centocelle, lo stesso che i miei genitori avevano preso ingestione in quel periodo, i poliziotti utilizzavano il Jukeboxper ascoltare ripetutamente, nei momenti di pausa dal lavoro,un successo tutto italiano: Malatia, canzone romantica incisanel 1958 da un giovanissimo e timido Peppino di Capri cheiniziava a farsi apprezzare con il suo rock melodico targatoNapoli. All’occhialuto cantautore preferivo The Pelvis e con-trastavo marescialli e appuntati a colpi di Tutti frutti oppure diRock around the clock di Bill Haley and his Comets, uno deipezzi più noti della storia del rock.Nel 1964 appare, sempre al Festival di Sanremo, un altro

    epigono di Elvis. Il ciuffo impomatato, le ciglia evidenziate dalrimmel, la gamba nervosa e soprattutto una voce calda e moltomaschile che, più di ogni altra, ricordava quella dello statuni-tense: Bobby Solo. La sua Lacrima sul viso non vinse. Fu esclu-sa dalle votazioni perché cantata in playback a causa di unabbassamento di voce dell’interprete. Ma nel giro di due mesiil disco vende un milione e mezzo di copie. Un successo chelancia il cantante romano nell’Olimpo dei big canori in tempirecord.Ne divento subito un fan e inizio a coltivare il culto per il

    look alla Presley, facendomi cucire i vestiti dal sarto: giacchesenza risvolto, camicie turchesi e scarpe Lotus e le immanca-

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    canzone di Elvis Presley (Hard Headed Woman), del genererock molto ritmato che impazzava proprio in quel periodo.Fissavo il Jukebox a muro – così erano i primi modelli − conaria adorante, e mi dimenavo a suon di musica. Improvvisa-mente, la voce sgradevole di un uomo che sventolava un gior-nale, si sovrappose a quella del mio idolo: “Hanno uccisoKennedy, hanno ucciso Kennedy!”. Rimasi immobile, incredu-lo, con lo stomaco saturo di dolore, come m’avesseroammazzato un parente.Una stella, quella di JFK, che non ha mai smesso di brillare.

    In un ragazzo quale ero io, il mito fece subito breccia. Comedimenticare la celebre frase che inaugurò il suo discorso daneopresidente: «Non chiedete cosa può fare il vostro Paeseper voi, chiedetevi cosa potete fare voi per il vostro Paese».Alla destra del Presidente degli Stati Uniti troneggiava il fac-

    cione di Alphonse Gabriel Capone, meglio conosciuto come AlCapone o come Scarface, per via della vistosa cicatrice sullaguancia sinistra infertagli da Frank Galluccio (altro nome notonel mondo della mafia italo-americana) dopo un commentopesante riferito alla sorella di quest’ultimo. Perché proprio AlCapone, simbolo del gangsterismo americano? Semplice, lasua figura era sinonimo di potenza e di trasgressione, proprioquello che andavo cercando con tutto me stesso.

    «Senza musica, la vita sarebbe un errore» (Nietzsche)

    La mia vita è sempre stata scandita dalle leggi del penta-gramma. Come per la maggior parte dei miei coetanei, il miomito era la più grande icona pop del XX secolo: Elvis AaronPresley. Il Re del Rock’n Roll, colui che, a colpi di bacino,dirottò un’intera generazione su un nuovo pianeta musicale.Eppure i primi dischi che ascoltai furono quelli di Peppino diCapri, Mina, Tony Dallara, Claudio Villa e, naturalmente,Adriano Celentano. All’epoca, il Molleggiato stava prestando il

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    Credo che leader si nasca e sono altrettanto convinto che,prima o poi, questa particolare caratteristica emerga e pre-valga a dispetto delle difficoltà imposte dalla vita.

    Proprio in questo periodo, la mia famiglia si trasferì di nuovo.In via Furio Colombo mio padre prese in gestione l’ennesi-

    mo bar sotto casa. Tuttavia, le condizioni di salute già preca-rie peggiorarono a vista d’occhio: il cuore batteva a faticacome le lancette di un orologio scarico. A causa delle gravicomplicazioni respiratorie, doveva portarsi dietro la bombolad’ossigeno. Lo guardavo con una sensazione d’impotenzache non riuscivo a perdonarmi. Non eravamo mai andatimolto d’accordo. Consapevole di averne deluso le aspettati-ve, mi accorgevo pure che s’era rassegnato. Di lì a poco,avrei rivissuto l’inesorabile dramma della perdita. Le mie pre-ghiere non sarebbero servite perché nessuno, lassù, si sareb-be preso la briga di ascoltarmi. Andandosene, si sarebbe tra-cinato via tutta la leggerezza dei miei anni più verdi. Accaddeil quindici agosto 1963. Avevo solo diciassette anni.Mi affidai, ancora una volta, al potere salvifico della musica

    stordendomi di note. Eppure sentivo che stavo perdendo unaltro pezzo importante della mia anima.Mio padre era ancora lì, tra le sue cose, gli abiti semplici

    che odoravano di lavoro, racchiusi in bell’ordine nel solitoarmadio a due ante insieme a quelli di mia madre. Come senon fosse successo nulla. Lo vedevo dietro al bancone del baralla macchina del caffè, gli occhi attenti a cogliere i minimidettagli, ma sempre con la testa altrove, pronta a escogitarequalcosa di nuovo che potesse incrementare i suoi miseriguadagni. Ma non c’era più, se non nel mio cuore. Avreidovuto cavarmela da solo e iniziare a crescere.Lo ripeto, era la musica a consolarmi. Una passione alla

    quale non avrei potuto né saputo rinunciare. L’attrazione cheprovavo era troppo forte per essere repressa e ignorata.Ormai, “ascoltarla”, non mi bastava più: la volevo vivere,

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    bili Superga. Molti anni dopo, da semplice fan di Bobby Solo,sarei diventato il suo impresario, e questo fatto è l’ulterioreconferma che le coincidenze della vita sono davvero la tramadi un destino.

    Nei primi anni ’60 ero un adolescente che amava leggere ifumetti di Tex Willer, il grande Blek e Capitan Miki e, perpoterli avere freschi di stampa, dalla periferia migravo versoil centro della città, alla stazione Termini. Era un mondo fre-netico e colorato, che ben si accordava con i miei anni rug-genti e ribelli. Trovai un lavoro proprio in quella zona, sottoai portici, al bar Falcioni, e fui davvero felice di misurarmicon la grande città. Lavoravo tantissimo; se ci ripenso,avverto ancora la fastidiosa sensazione dei crampi alle maniper tutte le tazzine da caffè lavate. D’inverno, dopo un’inte-ra giornata passata con le mani nell’acqua, il freddo me lefaceva sanguinare. Guadagnavo soprattutto grazie allamance. Il mio carattere vivace, gioviale e ironico mi permet-teva di attirare le simpatie e la generosità dei clienti. L’unicoproblema era la mia scarsa inclinazione all’obbedienza.

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    Rolando D’Angeli, giovanissimo, dietro al banconedel Bar di via Furio Camillo 81

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    nuto da molti come il primo pezzo hard rock della storia.Poi, il mitico The house of the rising sun uscito nel 1964 eportato al successo dal gruppo degli Animals. E, ancora,una canzone francese di Hervè Vilard che quell’anno cantic-chiavano tutti: Capri c’est fini. Io suonavo la chitarra ed erola voce solista, oltre a divertirmi facendo le imitazioni diattori caratteristi come Memmo Carotenuto, Totò e TinaPica. Inizialmente, Renato mi prestava la sua chitarra Eco.In seguito, vendetti quella acustica per una Gibson Epipho-ne, ottima per un’impostazione rock/blues. Feci una pazziae, oltre alla chitarra, acquistai un Vox AC 30, lo storicoamplificatore usato dai Beatles. Mi sentivo un dio, ma que-sta sensazione di totale euforia ebbe vita breve. Come ènella mia natura, non amavo sottostare alle decisioni dichicchessia e, dopo poco tempo, rinunciai alla band e alleesibizioni in pubblico.Non stavo mollando, sapevo che la musica avrebbe fatto

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    respirare, toccare con mano. Scelsi lo strumento che meglio siadattava al mio modo di essere e sentire. Quello che miavrebbe permesso di sfogare il dolore e la rabbia. Con i gua-dagni del bar Falcioni, acquistai una chitarra acustica. Quindicercai un maestro che potesse svelarmi ogni segreto, oltre aistruirmi sulla tecnica. La scelta cadde su Fernando Chierici,un severo insegnante di chitarra classica, noto per aver inven-tato un suo personale ed efficace metodo di apprendimento. Ilcosto di una lezione era piuttosto alto: diecimila lire all’ora.Certo, significava dar fondo a tutti i miei guadagni, ma mi

    sentivo particolarmente motivato e quando, una volta la set-timana, entrando nel suo studio in Corso Vittorio Emanuele II,annusavo l’odore buono degli spartiti ammonticchiati acasaccio sugli scaffali e del legno delle chitarre, mi davo gran-di arie da musicista consumato e mi vedevo già calcare i piùfamosi palcoscenici di fronte a una folla in delirio.Non dovette passare molto tempo prima che il maestro di

    musica si accorgesse che non sarei potuto diventare unsecondo Segovia, nemmeno con tutta la mia buona volontà.Un giorno mi prese in disparte e mi parlò senza mezzi termi-ni ma con tono paterno: “La prassi musicale accademica non è per te, figliolo. Ti

    consiglio di andare a suonare in qualche banda”.Lo ascoltai senza batter ciglio. In cuor mio sapevo che

    aveva ragione e non persi altro tempo. Conobbi Renato DeAntonis, eccellente chitarrista. Mi permise di fare praticanella sua band I Visconti. Non ci misi molto a convincerlo,forse colpito dal mio entusiasmo.L’ambizione di un ragazzo su tre, era quella di formare un

    complessino con gli amici di quattro elementi, sul modellodei Beatles. Chitarra, basso, tastiera e batteria. Spessomancava una preparazione musicale adeguata, ma c’era lavoglia di sperimentare sul campo la propria passione e con-frontarsi con gli altri.Con I Visconti suonavamo You really got me dei Kinks, rite-

    ROLANDO D’ANGELI

    Rolando D’Angeli, al centro, con la sua band “The Blood Bank Men”

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    IL VENDITORE DI STELLE

    dove mi riunivo con gli amici per ballare e passare il tempoin piacevole compagnia.Mi congedò regalandomi diversi dischi dei Renegades,

    Rinaldo Ebasta, Anna Identici, sperando che compilassi,diligentemente, i borderò della Siae per i diritti d’autore.Non li compilai ma, in compenso, intuii una cosa fonda-

    mentale che mi avrebbe aiutato in tante situazioni negli annia venire e che amo riassumere, ancora oggi, in un motto:“nella vita o c’hai i sordi o sei simpatico, sinnò nun te filanessuno”… Ecco, se non fossi risultato simpatico al signorPalleri (ex impiegato dell’Empals e approdato a Roma ametà degli anni ’60 alla Ariston dopo un’esperienza edito-riale milanese per la storica casa editrice Curci), di sicuronon m’avrebbe regalato alcun disco. E non m’avrebbe offer-to l’opportunità, di lì a poco, di ospitare il gruppo dei Rene-gades, proprio nel Darling Club.Il signor Palleri volle prima fare un sopralluogo per evita-

    re di portare allo sbaraglio un gruppo che, in Italia, grazieanche a un pezzo da Hit Parade, Cadillac, stava vivendo unmomento di grande popolarità. La serata si rivelò un suc-cesso. Sulle pareti del Club, grandi striscioni e manifestiinneggiavano alla band di Birmingham capeggiata dal bion-do Kim Brown, mentre una folla entusiasta e colorata diragazzi e ragazze confermava a me, ma soprattutto al pro-moter della Ariston, che ci sarebbero state altre seratecome quella.Se ho appeso definitivamente la chitarra al chiodo lo devo

    a Gianfranco Palleri che, un giorno, mi disse: “Perché nonfai l’impresario invece di suonare? Meglio avere un promet-tente impresario in più che un pessimo musicista”.Seguii il suo consiglio e da quel momento in poi continuò a

    coinvolgermi nell’organizzazione di altre serate, questa voltapresso il Circolo dei Marchigiani di cui lui faceva parte.Una mattina, era il periodo di Carnevale, mi chiamò dicendo-mi che il proprietario dell’Hotel Universo, lo stesso dove anni

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    parte della mia vita: sarei rimasto dietro le quinte a manovra-re, come un bravo burattinaio, i fili del successo altrui. Suc-cesso che avrei condiviso con i miei artisti come un buonpadre che gioisce per le vittorie dei propri figli.

    Il Darling Club

    Avere una cantina dove giocare a carte, ascoltare i dischi,ballare e pomiciare con le ragazze, era il sogno di ogni ragaz-zo della mia generazione. E siccome, quanto a inventiva, nonero secondo a nessuno, trovai uno squallido garage in affittoal numero 68 della Circonvallazione Appia. Ventimila lire almese da dividere con un pugno di amici e tanto “olio di gomi-to” per pulire, disincrostare, stuccare, tinteggiare. E ancora,arredare con divani, sedie e tavoli rimediati qua e là, darestaurare a dovere. Qualche manifesto colorato alle pareti,qualche lampadina rossa per la giusta atmosfera ed ecco che,lo squallido garage, si trasformò nel Darling Club! Di lì a poco, il Darling diventò una tappa obbligata per i

    ragazzi della zona anche grazie al passaparola, tanto che sirese necessaria una provvista di dischi dei cantanti e gruppipiù in voga. Visto che i soldi scarseggiavano come al solito,una sera suonai al citofono della Ariston Records, nei pressidi Piazzale Clodio. Mi aprì il responsabile delle edizioni musi-cali, oltre che promoter degli artisti sotto contratto. Unsignore che, prima di farmi sedere di fronte a lui, mi osservòcon una certa curiosità. Forse gli avrò fatto tenerezza; s’intui-va che ero il classico ragazzo di strada a caccia di dischi acosto zero per la sua cantina.Si chiamava Gianfranco Palleri, e ancora non sapevo che

    quest’uomo mi avrebbe chiarito le idee su ciò che sarebbestato il mio futuro d’impresario.Quella sera gli raccontai semplicemente che amavo la

    musica, che suonicchiavo in un gruppo e che avevo un posto

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    addietro mio padre aveva lavorato come garagista, volevaquattro band per i suoi alberghi. Avendo suonato con il miogruppo in diversi locali come il Saint Moritz di via Sicilia, lePleiadi in via Sistina e il Black & White sul barcone lungo ilTevere, non ebbi difficoltà a rintracciare l’elenco degli artisti.Ogni orchestra mi costava centocinquantamila lire e la riven-devo a duecentocinquanta o trecentomila. Ebbene, il maggio-re guadagno si poteva ricavare stando dietro le quinte ecoordinando il lavoro.L’idea di fare l’impresario mi aveva travolto. Vendetti la

    Gibson e pure il Vox accumulando i soldi necessari all’acqui-sto di un’automobile.Quando entrai in un autosalone uscendone con una splen-

    dida spider verde scuro, la Austin Innocenti 950, mi sentiipadrone del mondo. Sentivo che mi stavo affrancando dallamiseria e dalla sofferenza che segnarono la mia infanzia e laprima giovinezza. L’immagine della lampadina appesa a un filo, icona della

    mia povertà, si offuscò fino a scomparire. Al suo posto, comeper magia, apparve un magnifico ed enorme lampadario incristallo che rifletteva la luce attorno a me e a quella chesarebbe stata la mia nuova vita.

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