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Libertá di Parola 3/2013 —— PANKA NEWS PANKA ROCK NON SOLO SPORT INVIATI NEL MONDO APPROFONDIMENTO ALTRE STRADE A giugno Pordenone ha ospitato il primo Forum in- ternazionale sul contrasto del consumo di sostanze psicoattive. Unico nel suo genere il progetto si intito- lava “Come costruire Altre Strade: la rete dei servizi informali” ed è stato pro- mosso dall’associazione “I Ragazzi della Panchina”, il Dipartimento FISPPA dell’Università degli Studi di Padova e il Diparti- mento delle Dipendenze dell’Azienda Sanitaria Ass6. a pagina 9 a pag. 18 Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire) PORDENONELEGGE.IT, DAL 18 AL 22 SETTEMBRE Interviste agli autori e recensioni dei libri in programma di Milena Bidinost a pagina 16 a pagina 15 a pagina 14 a pagina 2 IL PERSONAGGIO Siamo a settembre e la città di Pordenone anche quest’an- no si tinge di giallo, il colore della Festa del libro con gli autori, e apre le porte a scrit- tori, editori, giornalisti, filosofi, sociologi, artisti, scienziati. Da mercoledì 18 a domenica 22, nel centro storico cittadino e nell’ambito di una trentina di location, oltre 250 saranno i protagonisti italiani e stranieri della quattordicesima edizio- ne di pordenonelegge.it, una delle più prestigiose fiere del libro del panorama italia- no. Curata come sempre da Gian Mario Villalta (Diretto- re Artistico), Alberto Garlini e Valentina Gasparet, promossa dalla Camera di Commercio I.A.A. di Pordenone attraverso la propria Azienda Speciale ConCentro e la Fondazione pordenonelegge.it, e sostenu- ta da Regione Friuli Venezia Giulia, Provincia di Pordeno- ne, Comune di Pordenone, Fondazione CRUP, Pordenone Fiere, Banca Popolare FriulA- dria e Cinemazero, la mani- festazione ha tenuto a battesi- mo, nel 2009, la prima uscita del nostro periodico “Libertà di Parola”. Da allora, ogni set- tembre diventa per noi l’occa- sione per leggere, intervistare e recensire. Spulciando nel programma della manifesta- zione, i nostri ragazzi sono stati liberi di scegliere i titoli da re- censire e si sono cimentati con entusiasmo nel ruolo di redat- tori, finendo per sentirsi così parte di questo grande even- to. In particolare, la maggior parte delle recensioni sono state scritte da persone seguite dal Dipartimento per le Dipen- denze dell’Azienda sanitaria Friuli Occidentale. Le altre da- gli amici dell’associazione. Bobby Fischer, quando l'America battè la Russia a scacchi Eurosporting: 35 anni di grande tennis e non solo Springsteen infiamma la folla dello stadio Euganeo di Padova Marocco, una terra di fascino unico e di gente ospitale Nuova tesi di laurea sui Rdp L'associazione vista dal territorio a pag. 2

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Libertá di Parola. Trimestrale d'Informazione dei Ragazzi della Panchina di Pordenone

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Libertá di ParolaN°3/2013 ——

PANKA NEWS

PANKA ROCK

NON SOLO SPORT

INVIATI NEL MONDO

APPROFONDIMENTO

ALTRE STRADEA giugno Pordenone ha ospitato il primo Forum in-ternazionale sul contrasto del consumo di sostanze psicoattive. Unico nel suo genere il progetto si intito-lava “Come costruire Altre Strade: la rete dei servizi informali” ed è stato pro-mosso dall’associazione “I Ragazzi della Panchina”, il Dipartimento FISPPA dell’Università degli Studi di Padova e il Diparti-mento delle Dipendenze dell’Azienda Sanitaria Ass6.

a pagina 9

a pag. 18

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

PORDENONELEGGE.IT, DAL 18 AL 22 SETTEMBREInterviste agli autori e recensioni dei libri in programma di Milena Bidinost

a pagina 16

a pagina 15

a pagina 14

a pagina 2

IL PERSONAGGIO

Siamo a settembre e la città di Pordenone anche quest’an-no si tinge di giallo, il colore della Festa del libro con gli autori, e apre le porte a scrit-tori, editori, giornalisti, filosofi, sociologi, artisti, scienziati. Da mercoledì 18 a domenica 22, nel centro storico cittadino e nell’ambito di una trentina di location, oltre 250 saranno i protagonisti italiani e stranieri della quattordicesima edizio-ne di pordenonelegge.it, una delle più prestigiose fiere del libro del panorama italia-no. Curata come sempre da Gian Mario Villalta (Diretto-

re Artistico), Alberto Garlini e Valentina Gasparet, promossa dalla Camera di Commercio I.A.A. di Pordenone attraverso la propria Azienda Speciale ConCentro e la Fondazione pordenonelegge.it, e sostenu-ta da Regione Friuli Venezia Giulia, Provincia di Pordeno-ne, Comune di Pordenone, Fondazione CRUP, Pordenone Fiere, Banca Popolare FriulA-dria e Cinemazero, la mani-festazione ha tenuto a battesi-mo, nel 2009, la prima uscita del nostro periodico “Libertà di Parola”. Da allora, ogni set-tembre diventa per noi l’occa-

sione per leggere, intervistare e recensire. Spulciando nel programma della manifesta-zione, i nostri ragazzi sono stati liberi di scegliere i titoli da re-censire e si sono cimentati con entusiasmo nel ruolo di redat-tori, finendo per sentirsi così parte di questo grande even-to. In particolare, la maggior parte delle recensioni sono state scritte da persone seguite dal Dipartimento per le Dipen-denze dell’Azienda sanitaria Friuli Occidentale. Le altre da-gli amici dell’associazione.

Bobby Fischer, quando l'America battè la Russia a scacchi

Eurosporting: 35 anni di grande tennis e non solo

Springsteen infiamma la folla dello stadio Euganeo di Padova

Marocco, una terra di fascino unico e di gente ospitale

Nuova tesi di laurea sui Rdp L'associazione vista dal territorio

a pag. 2

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La fine dei ruoli famigliari nel libro di Massimo Recalcati. Ricordando la storia di Ulissedi Sonia

Genitori e figli dopo dopo il tramonto del padre

Il libro illustra il rapporto tra padre e figlio citando gli insegnamenti del primo al secondo su come poter ge-stire la propria vita. Ricchi e complessi i riferimenti pro-posti dall’autore, tra questi il complesso di Edipo, il film “Salò” di Pasolini finendo con il ricordo del ’68, perio-do di rivoluzione culturale e sociale. Recalcati propone riflessioni su come un pa-dre può guidare il proprio figlio in un oggi privo di valori che induce i giova-ni allo sbaraglio. Fra i tanti

temi proposti l’autore fa due denunce alla genitorialità paterna che mi hanno col-pito: la confusione dei ruoli che troppo spesso oggi carat-terizza l’educazione famiglia-re e il senso di possesso che induce il padre a esercitare un potere assoluto sui propri figli, negando loro la libertà di sviluppare la propria natu-ra. L’autore fa riferimenti an-che all’Odissea, in particolare alla figura di Telemaco, figlio di Ulisse, che ha aspettato per vent’anni un papà eroico, co-raggioso per le gesta, ricco di

valori uno fra tutti la famiglia, protetta nella lotta contro i Proci. Un Ulisse ricordato affet-tuoso anche nella “carezza”, un gesto pieno di significati e oggi quasi dimenticato. Un racconto, quello dell’Odissea, che mi ha sempre affasci-nato per la morale salda, la fermezza dimostrata da Ulisse nel mettere ognuno al pro-prio posto. La lettura mi ha suscitato parecchie emozio-ni, in particolare il ricordo di mio padre, mancato troppo presto. Una figura presente, accogliente, dai tanti inse-gnamenti morali che custodi-sco con gelosia tutt’ora che di anni ne ho sessantacinque. Sempre una parola buona,

con una grande capacità di ascolto e grande sensibi-lità. Dispiaciuto che dovessi iniziare a lavorare prestissi-mo, credeva nella cultura e nell’importanza che i figli avessero un’istruzione. Nel suo libro l’autore evidenzia come nei tempi d’oggi sia tutto uno scambio di ruoli: vi è una confusione anche do-vuta alla frenesia del quo-tidiano, divisi fra mille atti-vità, forse troppe. La lettura mi suscita questa domanda: quanto il tempo dedicato per riflettere con i figli? Un’a-simmetria necessaria quel-la fra padre e figlio dove l’ascolto diventa centrale, esso stesso un momento es-senziale dell’insegnamento. Come per Telemaco Ulisse è stato di esempio, sia nel racconto delle sue peripezie del lungo viaggio sia nella lotta affrontata per difende-re la sua famiglia dai Proci, anche per me è fondamen-tale riflettere sull’esempio di noi adulti e la valorizzazio-ne delle nostre esperienze come guida per i nostri figli.

E’ un binomio d’autore tutto dedicato al fiume Po quello che verrà presentato al pub-blico nell’ambito del festival pordenonese del libro. Si trat-ta di un libro appunto, “Mo-rimondo” (Feltrinelli, 2013), e di un film documentario, “Il risveglio del fiume segre-to”, il tutto per raccontare un viaggio lungo il nostro fiume Po, ma soprattutto attraverso un’Italia vista da un’altra pro-spettiva, quella dell’acqua. Il documentario è stato presen-tato anche all’ultimo Festival del Cinema di Venezia. Su entrambi i lavori la firma è quella di Paolo Rumiz, giorna-lista e scrittore triestino, già in-viato speciale per “Il Piccolo” di Trieste e oggi editorialista per “Repubblica”. Rumiz dalla metà degli anni Ottanta se-gue da vicino gli eventi nell’a-rea balcanica e danubiana. Durante la guerra di dissolu-

zione jugoslava raccontò il conflitto prima in Croazia e poi in Bosnia-Erzegovina, per il quale nel 1993 ricevette il Premio Hemingway. Nel 2001 fu inviato anche dal fronte afghano. Per il suo impegno giornalistico nei fronti di guer-ra nel 2006 fu insignito anche del Premio Lucchetta nella sua Trieste.

Rumiz, dopo tanta cronaca dal fronte e tanti racconti di viaggi, perché scrivere un li-bro e girarne un filmato de-dicato ad un fiume?Perché mi mancava un rac-conto d’acqua ed un raccon-to di fiume nei viaggi fatti per Repubblica. E poi perché il viaggio fluviale è forse quello più perfetto che ci sia, perché

il fiume ha una logicità di percorso che è sconvolgen-te, ti porta sempre dove lui vuole andare: è lui a decide-re la strada e non tu. Questo lasciarsi portare è qualcosa di unico, nessuno altro tipo di viaggio ti consente questo lusso.

Nei suoi numerosi libri, il viaggio è un elemento pre-dominante. Dove ci vuole portare con “Morimondo”?Anzitutto attraverso un grande fiume italiano pieno di leg-genda. Volevo che in qual-che modo si rompesse quella cortina di silenzio che c’è in-torno a questo fiume perché se ne parla tanto ma in realtà non lo conosce nessuno. Per-ché gli italiani gli voltano le

spalle, non gli si avvicinano, lo ignorano e questo nono-stante sia uno dei luoghi più belli d’Italia, uno dei più sel-vaggi: perché la cosa paz-zesca del Po è che è il cuore del territorio più abitato, più industriale, più adulterato d’Italia ma allo stesso tempo conserva una naturalità scon-volgente. Per cui diciamo che è assolutamente incredibile che milioni di italiani si metta-no in colonna per raggiunge-re le spiagge ed ignorino le centinaia e centinaia di rive magnifiche e deserte e spes-so sabbiose che il fiume offre, in libertà assoluta.

Le sue origini triestine la legano naturalmente all’e-lemento acqua. E’ affasci-nante un concetto che lei esprime durante questo suo viaggio riguardo al fiume come luogo libertario, sen-

Rumiz nel suo “Morimondo” osserva la “crisi di nervi” della terra ferma in un libro che è anche un documentario di Fabio Passador

VIAGGIO LUNGO LE LIBERE ACQUE DEL PO

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La vita di Iris, gli errori, i rimpianti e l’occasione di rimediare attesa per una vitadi Taty

“Piangi Pure”, storia di una donna

Iris è una donna sposata con un uomo, Antonio, che non ama, dalla cui unione nasce una figlia non volu-ta, Alice. Donna bellissima, narcisista, amante della lus-suria e della libertà. Lascia la famiglia e per un periodo di riflessione fugge in un’iso-la pensando di poter ripren-dersela. Dopo anni sente la necessità di ricontattare Alice. A causa di un ingan-no di Antonio, Iris rientra a Roma. Qui ritrova Alice in buona salute, ma scontrosa e piena di rabbia. Antonio

le mente per amore. Ma le loro strade restano divise: Iris infatti s’innamora di un altro uomo. Questa volta è lui che non ama, guardando di lei la solo bellezza esteriore e esibendola come un oggetto di possesso per poi abban-donarla. Da qui Iris inizia un periodo di riflessione sui suoi errori e sui numerosi rimpianti del passato, con una costante paura della morte. Trovando-si costretta a vendere la nuda proprietà della sua casa sen-te inoltre di aver messo un’i-poteca sulla propria vita. In

una visita alla figlia scopre che nel frattempo è diventa anche nonna: sua nipote è Melina, bellissima, interessa-ta alla lussuria e alla bella vita, cosciente anche lei di poter avere tutti gli uomini che vuole. Questo è per Iris un altro duro colpo, tale da farla cadere in una sorta di depressione. E’ però all’età di 79 anni che qualcosa cam-bia davvero. Incontra Carlo, psichiatra, al quale confida tutto il suo passato e i suoi tormenti. Da uomo intelli-gente le consiglia di scrivere sempre su dei foglietti le sue sofferenze. E’ per Iris una te-rapia potente e la vicinanza

di Carlo l’occasione di sen-tirsi nuovamente viva. Ar-riva così l’ultima parte del racconto, che non svelo ma che raccomando di leggere fino all’ultima riga. Quando l’ho fatto io, erano quasi le quattro del mattino quando chiusi il romanzo. Struggen-te il finale. “Piangi pure” è un romanzo che ho letteral-mente divorato tra la com-mozione. Vorrei scrivere tutte le emozioni che mi ha susci-tato leggendolo passo per passo, ma sarebbero trop-pe. Troppe le sfumature di Iris che mi hanno ricordato le mie. Non posso giudicare lei per avere abbandonato la propria figlia, ma posso comprenderne il percorso. Per un periodo l’ho fatto an-che io, seppure senza allon-tanarmi fisicamente, bensì cadendo nel vortice della dipendenza. Riprendermi il ruolo di madre è stato un percorso sofferto. Il ricordo di una vita agiata rovinata per amore ha ancora dentro di me segni indelebili. Ma questa è tutta un’altra storia.

za confini, che attira verso sé personaggi liberi e anar-chici. Sembra un luogo diffe-rente a quelli che lei raccon-tava nei suoi libri ambientati nei Balcani, dove spesso i fiumi sono i confini naturali tra gli Stati dell’ex Jugosla-via. Quali analogie e quali differenze ha trovato?Io cerco di ignorare i confini politici. Facendo così trovo che il mondo danubiano, che coincide spesso con quello balcanico, e quello padano si assomiglino enormemente, perché in entrambi i casi ab-biamo un grande fiume che va verso oriente. E’ il centro di una federazione, parlando in senso lato, di diversità, di pa-esi, di lingue, spesso di religio-ni che ne fa qualcosa di stu-pefacente. La cosa bella del fiume è che non appiattisce le diversità, pur essendo per tre quarti del suo percorso un fiume di pianura, e il Danu-bio fa la stessa cosa. Quindi pur attraversando territori che soffrono più degli altri l’attac-co della globalizzazione, esso rimane un luogo dove le di-versità coesistono molto bene: ogni paese ha il suo dialetto, i suoi cibi, i suoi detti ed ognu-no il suo modo di chiamare il fiume. E’ stupefacente come questo grande canale con-senta il miracolo di questa di-versità in un tempo in cui tutto si appiattisce.

Qual è la sensazione che ha provato il suo gruppo di viaggio nel discendere con lentezza un fiume che attra-versa la pianura più freneti-ca d’Europa? Esistono delle esperienze “altre” che grazie al fiume resistono al model-lo padano di “terraferma”?Ma sì, diciamo che nel mon-do di terra hai un modello molto più omologato, men-tre più ti avvicini all’acqua ed hai un assembramento di personaggi molto speciali, come se il fiume accettasse solo questo tipo di persone, le più originali. E poi è un fiume dove permane un forte sen-so del racconto e dell’oralità; è anche un fiume musicale: nell’Italia in cui nessuno can-ta più, sulle sponde del Po si suona, perché tutta la bassa è permeata di nebbia e di musica. Personaggi come il

pittore Ligabue sono conce-pibili solo lungo l’argine.

La barca, anzi le barche che avete utilizzato per que-sto viaggio rappresentano un mezzo ormai “alternati-vo”, come la bicicletta oppu-re il treno. Nel suo libro lei si definisce un alieno che arri-va dall’acqua ma non sono forse coloro che rimangono imbottigliati in ore di traffi-co, magari diretti al mare, i veri alienati?Ero chiaramente alieno per gli alieni, un ribaltamento di tutto. Infatti quando par-lo della storia del naufragio, cioè di quando normalmente si assiste da terra ai naufragi nell’acqua, noi invece guar-davamo dall’acqua un nau-fragio che avveniva in terra-ferma. Era incredibile come in un elemento di grande

libertà che è il fiume noi po-tessimo verificare con chia-rezza lo stato di crisi di nervi della terraferma stessa. Vede-vamo la follia della Padania con molta più lucidità che se l’avessimo percorsa via terra. Perché l’acqua è un elemen-to così libertario, così puro, che ti svincola dalle logiche e guardare questo teatrino da fuori ti provoca da una parte una profonda tristezza e da l’altra una gran voglia di ridere.

Attraverso i suoi libri, il suo orizzonte è sempre rivolto ad est, tanto che quest’av-ventura si spinge fin oltre alle foci del Po. Dove ci por-ta la sua corrente?Io credevo di conoscere il mare ma ho potuto dire di conoscerlo davvero soltanto dopo esserci arrivato al termi-ne di un fiume come questo. Perché una cosa è montare in una barca dalla casa in riva al mare, un’altra cosa è spingersi in un’avventura in mezzo alla terra ferma. Lì il senso del mare è come uno sperdimento finale, come metafora della morte in sen-so buono, non pauroso, nel senso dell’uomo che ritorna a far parte del tutto. L’arrivo del delta è qualcosa di incredibi-le. Il viaggio senza il mare non sarebbe stato completo e quindi siamo andati oltre.

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La Festa del libro terrà a battesimo “Il deserto negli occhi”, scritto da Ibrahim Kane Annour e Elisa Cozzarinidi Milena Bidinost

Con nel cuore il Sahara La storia di un tuareg rifugiato politico in Italia

“Ibrahim, tu sei uno imuhar, un uomo libero. Dio ti chiama ad affrontare le difficoltà del-la vita nel deserto. Ragazzo, noi imuhar viaggiamo con il dromedario perché seguia-mo il nostro destino di noma-di. La natura ci insegna tan-te cose, anche a soffrire. Ma ricordati: questa è la nostra ricchezza. Uno imuhar non conosce la povertà.” Così lo zio Haidara dall’alto del suo dromedario parlava al picco-lo Ibrahim Kane Annour, nel suo primo giorno di cammino tra le dune del Sahara. Così si legge tra le pagine de “Il deserto negli occhi”, scritto da un Ibrahim divenuto uomo e Elisa Cozzarini per le edizioni “Nuova dimensione”. E’ una storia vera, raccontata a quat-tro mani, che verrà svelata per la prima volta venerdì 20 settembre alle 19 al chiostro della biblioteca di Pordenone e in caso di pioggia all’audi-torium della Regione. Il lancio del libro avverrà nell’ambi-to di pordenonelegge.it. Lui,

Io ho accettato e abbiamo iniziato a incontrarci nei rita-gli di tempo, lui parlava e io scrivevo.

Ci puoi anticipare qualcosa su cosa leggeremo in “Il de-serto negli occhi”?Il libro è diviso in tre parti: nella prima Ibrahim ricorda la sua infanzia e gioventù in Niger, nella piccola oasi di Az-zel, punto di riferimento per le carovane, ad Arlit, con le sue miniere di uranio, e ad Aga-dez, la città rossa. Conosciamo la sua famiglia, ascoltiamo le storie di nonna Fatimata e facciamo assieme a lui l'e-sperienza dello spazio infinito, dei riti e feste tradizionali del popolo tuareg. Nella secon-da parte Ibrahim trova la sua strada come guida turistica e nella terza racconta i motivi della fuga in Italia, le difficoltà di ricostruirsi una vita.

Ibrahim e il deserto. Ibra-him e la città di Pordenone. Cosa si è portato in Italia di

quel mondo e come riesce a mantenerlo vivo nel Nord Est industrializzato?Non è un caso che Ibrahim sia arrivato a Pordenone: qui vive l'unica comunità tuareg d'Ita-lia. Ci sono persone che lui co-nosce da quando era piccolo, che vengono dal suo stesso villaggio. È solo ritagliando-si degli spazi insieme che gli uomini e le donne del deserto riescono a sopravvivere alla nostalgia della loro terra, dove lo scorrere del tempo si legge sulla sabbia. Ibrahim e tutti i tuareg tengono alla loro cul-tura e vogliono che i loro figli sappiano da dove sono venu-ti. Allo stesso tempo, la natura nomade permette di adattarsi al luogo in cui stanno, dialo-gare e conoscere molti italiani e altri stranieri a Pordenone.

Tu scrivi da anni di immi-grazione. Questa esperienza cosa ti ha fatto comprende-re di nuovo, che ancora non sapevi e che aiuti il lettore a vedere con occhi consape-

Un’inchiesta di Andrea Baranes sul nostro sistema finanziario malato e corrotto, dove non mancano proposte per cambiare rottadi O.M.

FINANZA PER INDIGNATI

L’autore è Andrea Baranes, presidente della Fondazio-ne Culturale Responsabilità Etica, della rete di Banca Etica. Impegnato attivamen-te nel giornalismo econo-mico e della sostenibilità,

oltre che in varie iniziative promuoventi un’eticità del consumo. I “Finanza per in-dignati” propone un’inchiesta piuttosto impegnativa che approfondisce i problemi ri-guardanti l’economia, la poli-

tica e l’ambiente. Già il titolo confrontato con la situazione attuale in cui viviamo mi scaturì d’istinto sentimenti di rabbia e, proprio come sug-gerisce esso stesso, “indigna-zione”. Più leggevo e più au-mentava la mia contrarietà nello scoprire questo sistema finanziario sul quale poggia la nostra società come mala-

to dalle fondamenta stesse. Un sistema fondato più sul denaro, non tenente conto dei diritti del cittadino ma uti-le solo a portare benefici ad un esiguo numero di popola-zione mondiale a discapito del resto.L’autore propone un cambia-mento radicale di rotta, ne-cessario per questo tuttavia diventa il prendere coscienza della reale entità del danno che ci stiamo autoinfliggen-do. L’autore definisce alcune soluzioni possibili, ma rileva anche come coloro i quali dovrebbero prenderne atto e avviare possibili movimenti di cambiamento non agiscano. Dalle pagine evinco che se la politica non fa il suo corso spetta ai cittadini la possibili-

Ibrahim, è un tuareg nato in Niger: faceva la guida turisti-ca nel deserto del Sahara fin-ché nel 2007 non fu costretto a fuggire e chiedere lo stato di rifugiato politico in Italia. Lei, Elisa, è giornalista pubblicista: scrive di immigrazione ed am-biente ed è pordenonese. Due paesi distanti e molto diversi i loro che a Pordenone si sono incontrati grazie a Mondo Tuareg, l’unica comunità tua-reg d’Italia.

Elisa, perché un libro su un uomo e il suo deserto? Com’è nato il progetto?Ho conosciuto Ibrahim nel 2007, appena è arrivato in Italia. All'inizio era convinto di poter rientrare nel suo paese e riprendersi la sua vita. Quan-do ha capito che non sareb-be stato possibile, mi ha chie-sto di aiutarlo a raccontare la sua storia in un libro, era un po' continuare il suo lavoro di guida turistica, in cui accom-pagnava e faceva conoscere la sua terra agli occidentali.

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Frizzante, giovane e di belle speranze. E’ l’opera prima di Marco Marsullodi Sara Rocutto

Scritta in tre mesi, conquista addirittura Einaudi

“Atletico minaccia Football Club” è una di quelle storie che ti vien da dire: «Allora vale la pena crederci». E’ per questo che, una volta letto, ho man-dato all’autore, Marco Marsul-lo, una manciata di domande per saperne di più. Nonostante la spiaggia e l'imminente Fer-ragosto ha gentilmente rispo-sto. A settembre sarà tra gli au-tori di pordenonelegge.

Il tuo è un libro da cui traspa-re la tua grande passione calcistica. A noi puoi dirlo: in campo sei più simile al can-noniere Sogliola, al panchi-naro Baffoni Jr o ti ritrovi me-glio nei panni dello stratega Cascione?In campo sono Trauma Zarrillo, quei difensori vecchio stampo coi piedi di lamiera. Prima di rompermi il crociato, però. Ov-viamente, giocando a calcio. Ora non so quando potrò tor-nare in campo, stiamo a ve-dere.

Tu scrivi che “La stagione più bella è sempre quella che verrà dopo. Nel calcio c’è spazio per la speranza.” Esi-ste ancora la speranza o ci crede solo l'allenatore Vanni Cascione?Io ci credo fortemente. Senza il mio modo carico di speranza di vedere il mondo non sarei mai arrivato a pubblicare con Einaudi. La verità, per me, è

Io di calcio non ne capisco niente. O meglio, ne capisco poco. Ma non occorre saper-ne un granché per prendere in mano “Atletico Minaccia Football Club” di Marco Mar-sullo (ed. Einaudi).Perché qui c'è sì di mezzo il calcio, ma anche un sac-co di altre cose: la famiglia, la squadra, la strategia e un mix di sfiga, fortuna e fan-tasia. E tutto è condito in un modo delizioso, allegro quan-to basta a far sorridere senza scadere nel banale, leggero come serve a far scivolare via le pagine anche ad agosto, quando fuori battono 40 gra-di. C'è Vanni Cascione, l'alle-natore, c'è una squadra che arriva in fondo al campionato forse anche grazie alle massi-me del suo coach. La prima regola del calcio secondo Cascione è: «La squadra gira se gira l’allenatore. I calciatori sono solo pedine di un gioco più grande di loro». Ci sono gli ostacoli di un campiona-to giocato in Campania, ci sono i tifosi che non manca-no di far trovare al mister il caffè pagato al bar. C'è una moglie stanca delle sconfitte e una figlia quattordicenne un po' magica e adorata dal padre. E poi c'è Murinho, la stella polare di Vanni Cascio-ne, il mito, il modello a cui affidarsi nei momenti di dif-ficoltà. Momenti che ci sono eccome quando in squadra occorre gestire un attaccante che ha paura del pallone e il portiere è un meccanico. «Ma il cervello, in certi momenti di calcio, è solo una succursale del cuore», insegna il mister. Una regola che è da tenere a mente anche fuori dal cam-po.Questo è anche un libro con una bella storia. L'autore, classe 1985, racconta nel suo blog (http://marcomarsullo.com/site/) di averla scritta in tre mesi, di averla spedita a varie case editrici e che poi la sua vita è cambiata con una telefonata di Einaudi Editore.

che chiunque si costruisce la sua fortuna.

Nella tua storia affidi a Chia-ra (il mio personaggio prefe-rito), la quattordicenne figlia di Cascione e a Nino, coi suoi 17 anni, piccoli compiti, ma fondamentali alle sorti del racconto. E' una coincidenza?Volevo dare a una ragazzina, il personaggio più improbabile parlando di calcio, la chiave di volta per la soluzione del problema. Perché spesso è così: sono le persone da cui ti aspetti meno ad avere il colpo risolutore in canna.

Da qualche parte si dice che questo libro l'hai scritto in tre mesi: esiste davvero il raptus creativo? Le storie le trovi o sono loro a cercare te?Questo sì, l'ho scritto in poco più di tre mesi. Di norma sono abbastanza veloce a scrivere, perché il processo più lungo è immaginare la storia, conviver-ci per un periodo lungo mentre è ancora embrionale. Dopo, quando comincio a scrivere, bene o male è già tutta scritta nella mia testa.

Quale suggerimento daresti ai ragazzi che oggi hanno un sogno in testa?Sembra scontato: non arren-dersi. È questo quello che fa la differenza alla fine. La testar-daggine conta più del talento.

LA RECENSIONE

Atletico minaccia football clubEinaudi 2013

voli l’integrazione tra popoli diversi?Scrivere questo libro è stata una ricerca continua di com-prensione reciproca, un dialo-go lungo quattro anni. È stata una grande sfida, cercare di comprendere e tradurre la vita di un'altra persona, così diversa. Spero che questo la-voro possa servire a guarda-re il mondo dell'immigrazio-ne con curiosità, più che con paura, al di là delle ideologie.

La comunità tuareg di Porde-none porta con sé tradizioni, usi e costumi di un fascino unico. Il vostro libro è un omaggio anche al Sahara e al suo popolo?Una delle prime cose che mi ha detto Ibrahim è che un tuareg lascia la propria ter-ra solo se è costretto. Questo libro nasce dal suo attacca-mento al deserto, racconta un popolo che con fatica resiste, ma rischia di scomparire per le condizioni di vita sempre più difficili, l'instabilità politica della regione per gli interessi legati all'uranio e la minaccia islamista dal vicino Mali. Il li-bro ha l'ambizione di far co-noscere il destino dei tuareg e di lanciare un messaggio più ampio, per la difesa del dirit-to di ciascun popolo di vivere nella sua terra.

tà di difendere la democra-zia, avviando una econo-mia sostenibile, attuando scelte etiche nell’immediato e quotidiano, impegnando-si in prima persona per far si che la finanza non sia uno dei maggiori problemi ma uno strumento per poterli ri-solvere. Fra tutte le questioni mi ha colpito di più quella dell’ambiente con gli stati emergenti che vendono le quote dell’inquinamento a stati sovrani più industrializ-zati. Nemmeno l’ambiente pare essere di tutti. Suggeri-sco la lettura di questo libro a chi ama riflettere sui pro-blemi e le questioni sociali, prendendo atto che è una lettura della realtà fatta dal punto di vista dell’autore.

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Una legge la sancisce, ma la protezione dei dati personali è di fatto una chimera di Ferdinando Parigi

“DUE FIRMETTE: E’ PER LA PRIVACY”

L’articolo 1 della cosiddet-ta legge sulla privacy reci-ta: “Chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano”. Seguono circa trentacinquemila paro-

le, senza contare gli allegati. Il Libro dell’Apocalisse consta di circa 11mila parole in tut-to. Ne consegue che la legge sulla privacy è qualcosa di molto più che apocalittico: il

Decreto legislativo 30 giugno 2003 n° 196, in buona so-stanza, è un’immensa “sega” legislativa: 35mila parole per sancire un diritto di tutti che, nella realtà quotidiana,

nessuno riesce ad esercitare. Ad esempio, sapevate che “ai sensi dell’art. 7, comma 2, lettera d, noi tutti abbiamo il diritto di ottenere l’indicazio-ne degli estremi identificativi

Ho conosciuto la “Panchina” molti anni fa, ma all’inizio la vivevo in modo molto diver-so rispetto ad ora. Avevo al-tre cose per la testa e voglio essere sincero, le altre cose erano le sostanze e quando si hanno in testa queste tutto il resto diventa relativo. Pen-sandoci ora però, mi rendo conto di quanto fossero im-portanti le cose che al tempo ritenevo “relative”. Ad esem-pio avevo un pessimo rap-porto con mia mamma, per-sona cui voglio un mondo di bene, non avevo casa, vi-vevo da amici ed ho vissuto anche in strada. Per uno che non aveva più niente in tutti i sensi, la sede diventava un posto dove passare le ore del pomeriggio in maniera di-versa. Ho vissuto poi un’altra carcerazione di poco più di un anno, che è stata la mol-la che mi ha fatto scattare in testa il pensiero di cambiare ciò che fino a quel momen-to era diventato il mio unico modo di passare la giornata. Decisi cioè di non spacciare più, perché vedevo che fi-nivo in carcere sempre per quello stesso motivo ed ero veramente stufo di sprecare cosi la mia vita. Sono uscito e ho ricominciato a frequen-tare la sede, ma questa vol-ta con un altro spirito. Dopo l’ultima “scimmia”, ho detto basta anche alle sostanze e, con la voglia di cambiare, ho trovato sia negli opera-tori e ragazzi che incontravo in sede, sia nella dottoressa che mi seguiva, le persone che mi appoggiavano nella mia scelta. Da lì ho chiuso con eroina e cocaina ed è stata una svolta epocale. In sede mi sentivo appoggiato e supportato nelle mie scelte, questo l’ho notato soprattutto nei rapporti con le persone che diventavano sempre più

«All’inizio la sede era un luogo dove ammazzare il tempo. Oggi è per me l’occasione di apprez-zare la gente e migliorare me stesso»di M.M.

LA MIA STORIA CON I RAGAZZI DELLA PANCHINA

profondi e veri, non mi senti-vo più un tossico che anda-va lì ad ammazzare il tempo. Ho ricominciato ad avere un rapporto con mia mamma, la persona a cui tengo di più: lei con il passare del tempo si è convinta che questa volta poteva essere la volta buona e così ha ricominciato poco a poco a darmi fiducia. Ve-deva che non mancavo mai e constatava che mi stavo impegnando. Ora ho di nuo-vo un buon rapporto con lei, non vorrei mai che cambias-

se e visto che so che dipende da me, non voglio tradire la sua fiducia e ricadere. Le vo-glio tanto bene e rendendo-mi conto di quanto mi aiuta ed è importante per me so che non voglio perderla mai più. Anche in sede ho trovato persone che mi hanno dato fiducia e ho fatto il possibile per non deludere nemme-no loro. Mi sono impegnato in attività alle quali prima avevo sempre detto di no e dicendo sì mi sono messo in gioco a 360 gradi: uscite in

montagna, castagnate orga-nizzate per il quartiere, prove settimanali per l’attività di teatro (che mi piace molto) sono state e continuano ad essere occasioni per vive-re e condividere esperienze con gli altri. In particolare ho molto a cuore il legame che si è creato con il grup-po di Napoli tramite il teatro. Questo gemellaggio mi ha arricchito di nuove amicizie e storie di vita. Il progetto “Legati ma liberi” mi ha per-messo di fare l’esperienza di una scalata indoor e molte altre uscite montanare da ri-cordare. Attualmente ho una piccola casa, è un piccolo appartamento popolare ma è il mio nido e sono conten-to di averlo. Mi sento diverso come persona, mi interessa molto di più il mondo che mi sta attorno e uso il tempo per viverlo, cosa che non avevo mai fatto prima. Per sentir-mi veramente completo mi manca solo un lavoro, anche part-time, perché tante al-tre cose le ho trovate e sono belle, anzi bellissime! Lo stare con le persone in maniera di-versa, pulita, il fare le cose in gruppo, trovare il bello nelle uscite che facciamo. Ora lo stare in sede non lo vivo più come prima quando forse facevo solo scorrere il tempo. Ora trovo bello confrontarmi con le persone, anche il solo gioco assieme lo vivo in ma-niera diversa. Insomma la sede per me è diventata un punto d’incontro bello, di cre-scita e sinceramente l’anno scorso che è stata chiusa mi è mancata molto. Ora è riaper-ta, cambia solo la via, sono stato contento di ridipingerla quando siamo entrati e mi sento parte di questo posto che per certi versi è insostitu-ibile. Ho ritrovato me stesso. Ragazzi, vi voglio bene.

Tom Murphy

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Vicino a casa mia c’è un prato a cui si accede attraverso un vecchio cancello; quel giorno il cancello era spalancato e un uomo, forse coreano o vie-tnamita, vestito poveramente, entra nel prato all’insegui-mento di un gatto. Si sa che i gatti non hanno la nozione di proprietà privata e vanno dove vogliono, e l’orientale dietro, di corsa! Il proprietario si avvicina e gli chiede che cosa ci faccia lì. «Seguo gatto» risponde quello. «E perché lo insegui?». «Io mangio», dice l’o-rientale con assoluto candore. Il proprietario lo caccia via borbottando qualcosa che non odo bene. Siccome ab-biamo una certa confidenza come vicini di casa, mi av-vicino e gli chiedo che cosa volesse quel signore. «Quale signore?- ribatte lui - Io non ho visto signori qui». «Quello che è appena andato via», aggiun-go. «Ah – risponde lui – quello secondo lei era un signore?». Non continuo il discorso, vista la piega che ha preso. Ma dopo un po’ è lui stesso a ri-prendere. «Com’è in Inghilter-ra?». Lui sa che vivo a Londra da due anni, qui mi vede ra-ramente. «Là non c’è proble-ma, tutti sono signori allo stes-

L'ANGOLO DELLA FRANCA

Il racconto di una piccola storia vera in tre tempi di Franca Merlo

Crescere in umanità si può e ad ogni età della vita

so modo, inglesi o immigrati, anche extracomunitari – gli faccio così sapere-. Per le stra-de si vedono persone di tutte le razze agghindate nei modi più impensati, vi sono coppie miste, figli ibridi. Là è norma-le. Il Regno Unito ha ricevuto molto dall’immigrazione, per loro è stata una risorsa». Ri-mane pensoso, ci salutiamo e via. Ci rivediamo qualche giorno dopo e mi parla di fia-be che lui inventa per il nipoti-no. Me ne racconta qualcuna e rimango ammirata dalla costruzione fantastica, dalla trama che si snoda con natu-ralezza e mi affascina, anche se da un pezzo non ho più l’età delle fiabe. Mi colpisce soprattutto l’attenzione al mon-do dei diversi e degli svantag-giati. Abbiano per protagoni-sti animali o sassolini parlanti, quelle fiabe portano in scena esseri che vivono avventure straordinarie pur essendo fuo-ri dalle righe. Vivono incom-prensioni e difficoltà, ma alla fine rivelano delle potenziali-tà che nessuno prima aveva loro riconosciuto, trovano la loro strada, il loro posto nel mondo. Rifletto sul fatto che quest’uomo ha una figlia down. La segue con grande

attenzione ed affetto, l’ha del tutto accettata nella sua diver-sità e capisco che vorrebbe trasmettere anche agli altri qualcosa di grande e bello, il succo della sua esperienza e del suo mondo interiore. Al-lora mi domando: come mai quest’uomo non riesce a fare l’equazione e comprendere che anche gli stranieri qui, i clandestini, i poveracci all’ap-parenza così poco “signori”, anche loro sono dei diversi che bisogna cercar di capi-re piuttosto che disprezzare? Poi giorni fa il terzo atto della storia. Attualmente sull’ester-no di casa mia lavorano due imprese. Il mio vicino vede scarti di lamiera e polistirolo sparsi nel cortile e dice a mio figlio: «Guarda che devi dire a quei romeni di pulire, mica devi pulire tu!». E mio figlio: «Guarda che è stata l’impresa degli italiani, non l’altra». L’uo-mo rimane perplesso, come in pausa meditativa, finché se ne esce con una frase che ci

lascia di stucco: «Eh, che cos’è il pregiudizio! Ho sbagliato, ecco, ho proprio sbagliato». Una persona così mi verrebbe da abbracciarla. Fossimo tutti capaci di riconoscere senza scuse i nostri errori, di impara-re dalla vita. Un vero signore, bisogna dirlo! E allora penso alle vie misteriose della Prov-videnza, che rispettando i no-stri tempi e le nostre possibilità di comprendere ci fa attraver-sare esperienze a volte dolo-rose, ma ricche di significato e di bellezza, se accogliamo la vita per quello che è, rinun-ciando agli schemi prestabiliti. Forse quel padre sta comin-ciando a fare l’equazione. E’ sempre la Vita a condurci passo dopo passo, esperienza dopo esperienza, verso una consapevolezza e un’umani-tà sempre maggiori. Non c’è nulla di totalmente negativo, anche le esperienze più tre-mende possono nascondere qualcosa di positivo, a nostro favore.

del titolare, dei responsabili e del rappresentante desi-gnato ai sensi dell’art. 5, com-ma 2”? Ecco, adesso che lo sapete, esercitatelo, questo sacrosanto diritto! Neanche Dio in persona riuscirebbe a capire qualcosa, in tutto ‘sto casino. Credo che non esi-sta un solo cittadino italiano in grado di sapere di che cosa stiamo parlando. E’ una cosa surreale. E’ una presa in giro. Con tutti i problemi di sopravvivenza di cui stia-mo soffrendo, il Parlamento della Repubblica Italiana (Camera più Senato: in tutto 945 teste) trova il tempo di partorire una simile idiozia. Vi invito a confrontare tutto ciò con la realtà quotidiana. Mi riferisco in particolare ad internet. Secondo un calco-

lo approssimativo basato su dati Istat, nel 2012 più del 50 per cento delle famiglie ita-liane possedeva un pc con-nesso al web: circa 30 milioni di persone hanno accesso a dati della più varia natura, ri-guardanti milioni di altre per-sone. Chiunque sappia na-vigare nel web, con un po’ di intuito riesce ad ottenere indirizzi fisici, numeri di cellu-lare, reddito, curriculum, data di nascita, luogo di residen-za, codice fiscale eccetera, di tantissime altre persone. Tan-to per fare un esempio che mi riguarda, incrociando al-cune coordinate reperite sul web, sono riuscito a conosce-re l’indirizzo dell’abitazione, l’indirizzo email personale e i numeri telefonici della segre-teria personale e dell’appar-

tamento del Vicario genera-le di Sua Santità (il vice del vice di Cristo in Terra, in altre parole). Non è una balla, è la pura e semplice verità. L’ho fatto per esercizio, e per rendermi conto che grazie a una banalissima connes-sione e usando un cellulare potrei svegliare nel cuore della notte l’Eminentissimo e Reverendissimo Cardinal XY, annunciandogli, in veste di comandante della Guardia Svizzera, l’improvvisa morte di Papa Francesco. Ma sa-rebbe veramente il classi-co “scherzo da prete”. Evito. Non è tutto: ogni nostro sms, ogni email ed ogni esplora-zione del web è soggetta a un filtraggio sistematico da parte dei gestori di telefonia mobile e degli internet pro-

vider, a scopo commerciale, per bene che vada. E non parlo degli arcinoti cookies del web, che sono dichiara-ti e ammessi. Se in un’e-mail di contenuto ultra-personale spiego ad un amico che il peso eccessivo mi dà dei problemi, pochi minuti dopo, navigando nel web mi ri-trovo la pubblicità di diete miracolose, pancia piatta, eccetera. Lo stesso discorso si può applicare a qualsiasi altro argomento. Invito tutti a provare per credere. I social network (Facebook registra-va oltre 1 miliardo di utenti al dicembre 2012), ormai sono specializzati nel trafficare coi dati personali altrui. Ma allora, perché tutti insistono con ‘sta storia della privacy? Semplice: perché non esiste!

Tom Murphy

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EL CANTON DE GUERI

Incontri pericolosi- E l’ora nane, atu ciapà la giornata ogi? -- No tant ma un piat de mi-nestra lo go ciapà, ho fat un lavoret pa la Rinela Ciprian e l’ora par ogi son a posto, e ti cosa combinitu?- - Mi son sta qua de le ragas-se del dispensario. E l’ora prima de andar a casa go dita: peta che vado in oste-ria a bagnarme el bec, e così son vignuo a farme n’ombra. Ti invece me par che te son qua da un toc drio l’ocio baio che te ga. -- E si, ma ades l’è ora che vadi a casa. - - Vegno co ti che son de stra-da, bon giorno a tutti, oste segna. Andemo Nane. Ocio a le machine stemo sul mar-cia pie, spetemo el verde par attraversar. E l’ora no, ghe disevo a le ragasse del dispensario, che l’è tutta na magnadora tra de lori politi-ci. Welfare i lo ciama, la di-stribusion dei beni, ma no se sa ben a chi però che i vien distribui. E intanto lori i gira co le auto blu e i se taia anca i cavei gratis, e noi lasemo de-bito in osteria. Ma l’è poc che te fae finta de capir Nane tanto no ghe crede nissun. Ades ti te capisi sol che el let - - No no go capio invece. Pri-ma qua e la, dopo coi va al governo iè come tuti i altri. - - Bravo, compagni de meren-de te digo. Ara che intant che

l’era al governo, el ministro de le finanse Trecimedilava-redo el se ga fato la casa coi nostri schei. -- Coi nostri schei?? - - Si caro. -- Ma che stamberga se alo fat? -- Ti no sta preocuparte che’l sa lu come che se fa, te credi de insegnarghe ti. -- Be magari qualcosa su le case. - - Cio Nane ara ch’el semafo-ro più verde de cusì nol di-venta, andemo. -- Pronti pronti, Gigi vara la sul marciapie, un capel, te serve-lo? - - Cosa nane? Gatu le le trave-gole? Quel li no l’è un capel, l’è na merda no te vedi? -- Ma cosa ditu su? Vara che te sbagli, l’è un capel tipo quei militari. - - Nane no sta dir monae, var-da ben, come falo a eser un capel? - - Eppure son sicuro de quel che digo.- - Ben e l’ora satu cosa che faso? Tanto go già capio che finchè che no savemo no an-demo via, la assagio così ve-demo subito cosa che l’è. - Ma statu schersando?-- No no laseme far..“-slurp slurp-“ E no Nane, no l’è un capel, ho rason mi. - - Ma no ghe credo no pol esser. - - Alora assagela anca ti mo

che te vedi. - - No me pare na roba tanto ben fata, ma se l’è per saver, per la siensa.. “-slurp slurp-“ E si cio, no l’è dubi, l’è proprio merda. -- Te avevo dita. E pensa Nane, pensa che se stava per pestarla. - Ocio ocio che ghe giremo intorno… oh mi scusi signora se ghe sono venuto adoso, ho fato per scansare la m.. -- Ma insomma ma stia atten-to no!? Mi ha pestato anche un piede!. - - Mi dispiace tanto mi perdo-ni signora non l’ho fato apo-sta. -- Signorina prego, professo-ressa Boncompagni. -- Alora permetta che mi pre-senti anch’io vero: Celemprin Giovanni, Nane per gli amici, ripetente cronico. Piacere di conoscerla. -- Non posso dire altrettanto. - - Sapesse quanto mi dispiace, aspetti che l’aiuto a sistemar-si.. -- Ma cosa fa metta giù le mani ma come si permette ma è impazzito??!! - - Sono mortificato non so come sia potuto sucedere, non l’ho proprio vista, stavo scansando la m.. -- Sii non l’ho vista non l’ho vi-sta.. ma non mi faccia parlare va! Mi pare che lei in questo momento vede poche cose! -- Poche ma doppie vero. - - Ecco appunto, e allora vada a casa con buona pace di tutti e si faccia un caffè come si deve, così avremo il piace-

re di riaverla tra noi in condi-zioni più presentabili. -- Ero dei granatieri signorina, terzo reggimento quinto bat-taglione matricola 12 65 1 sempre ai suoi ordini. Anche se a vedermi adesso così un po’ ben messo non si direb-be, ai miei tempi avevo una certa portansa vero. Ma so ancora come ci si comporta con le donne. --“Come ci si comporta con le donne”, ma la smetta, lei non sa neanche di cosa sta par-lando. E non mi penda così vicino che ha un alito terribi-le! -- Mi scusi tanto devo aver mangiato qualcosa che non andava. -- Vada a casa invece di cion-dolarsi per le strade e si siste-mi un po’. E la prossima volta cerchi di stare più attento. - - Perché porco mondo, ha in-tenzione di ripassare? -- Stia tranquillo che se la vedo cambio strada. -- Ma prego allora che le fac-cio strada io, si accomodi pure, passi in sicuressa. Gigi spostete fa pasar la signora. Attenta alla merda vero, che poi magari se non la avviso pensa pure male di me. -- Per questo è troppo tardi. - - Ecco fatto signorina adesso non c’è più pericolo, prego vada pure, è stato un piace-re conoscerla vero, e mi scusi tanto ancora signorina Bona-mici. -- Boncompagni prego. -- Eee.. boncompagni-bona-mici, ma che pignola che è!

«Elemosino affetto da quando sono nata, perché mai nessuno mi ha insegnato come si ama» di Tina

La mia grande sete d’amore che mai si sazia

Vorrei sapere cosa si prova ad essere amati, vorrei riem-pire quel vuoto immenso che da sempre mi porto dentro, vorrei vivere sicura come gli altri perché a qualcuno im-porta di me. Io dono sempre tutta me stessa agli altri, ma in cambio ricevo sempre un pugno di mosche. Amavo i miei genitori ma a cinque anni mi hanno abbandona-to perché per loro l'eroina era più importante di me e da grande, quando finalmente li ho ritrovati, me l'hanno con-

fermato. Mio padre è morto un mese dopo il nostro in-contro, di overdose; mia ma-dre invece mi ha sputato in faccia che, all’epoca, voleva abortire e che ci ha provato prendendosi a pugni la pan-cia e ingoiando svariati far-maci. I miei genitori adottivi erano convinti che riempirmi di soldi e vestiti costosi fosse il modo per dimostrarmi il loro amore, senza mai però allun-garmi un bacio, una carezza. Poi, quando a quindici anni ho avuto un'overdose, loro

diedero la col-pa al mio Dna bastardo e mi dissero che per loro ero morta. Ho pas-sato la vita a donare amore a chiunque mi facesse sentire un po' impor-tante, elemo-sinavo così un po' di affetto. Ma quelle che riceve-vo in cambio erano tutte prese in giro, perché poi mi hanno sem-pre abban-donata tutti. Persino mia figlia preferi-sce i "nonni" a me e mio ma-rito la sua moto, i suoi fottuti amici. Guardo le coppie che si amano, che assieme rido-no o si confortano, anche se litigano non superano mai il limite di umiliare l' altro, e le

famiglie dei miei amici dove ci si può confidare e aiutare a vicenda. Li guado e mi sento sempre più sola, sola e vuota come una ruota bucata, ab-bandonata tra quei rifiuti che nessun vuole più.

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L'APPROFONDIMENTO

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Come costruire “ALTRE STRADE”La rete dei servizi informali

Lo scorso 7 giugno, a Pordenone, si è tenuto il convegno “Come costruire Altre Strade: la rete dei servizi informali”, primo Forum internazionale sul contrasto del consumo di sostanze psicoattive. Il progetto, unico nel suo genere, è stato promosso grazie alla collaborazione tra l’associazione “I Ragazzi della Panchina”. il Dipartimento FISPPA dell’Università degli Studi di Padova e il Di-partimento delle Dipendenze dell’Azienda Sanitaria Ass6, Friuli Venezia Giulia Occidentale. I lavori si sono svolti all’ex conven-to San Francesco di Pordenone. L’obiettivo del convegno è stato quello di accreditare i servizi per il contrasto al consumo sia in termini di efficacia che in termini di interazione fra gli stessi, il territorio e i servizi formali/istituzionali, arrivando alla condivisio-ne di alcune linee guida per il contrasto al consumo. L’evento ha visto la partecipazione di associazioni e Ong sia nazionali che internazionali che nelle loro attività collaborano con enti pubblici e privati: il Ser.t di Casavatore (Napoli Nord); la Coo-perativa Parsec (Roma); il Proyecto Vida y Esperanza (Bolivia) e l’associazione Alborada (Spagna). Il Convegno è iniziato con i saluti da parte delle autorità: il presidente della Provincia di Pordenone, Alessandro Ciriani; il direttore generale Ass6, Giu-seppe Tonutti; la direttrice del Dipartimento Dipendenze, Roberta Sabbion; il sindaco di Pordenone, Claudio Pedrotti. A seguire i saluti e il benvenuto da parte del presidente dell’associazione “I Ragazzi della Panchina”, Ada Moznich. I lavori sono proseguiti con l’intervento del professore Gian Piero Turchi dell’Università degli Studi di Padova, il quale ha sottolineato l’esigenza di mo-dificare l’assetto dell’architettura dei servizi per rispondere alle richieste del territorio, in cui quest’ultima si inserisce. A seguire l’intervento dell’operatore Stefano Venuto in merito ai 18 anni di lavoro svolto dall’associazione “I Ragazzi della Panchina”. Il dott.

Vincenzo D’Auria e il dott. Pietro Scurti hanno presentato l’espe-rienza di lavoro del Ser.t di Casavatore (Napoli Nord): al loro intervento è seguita la presentazione della Cooperativa Parsec, per la quale, tuttavia, non è stata possibile la presenza di un rappresentante della stessa nella giornata del convegno. Suc-cessivamente al pranzo si è assistito allo spettacolo teatrale or-ganizzato dal laboratorio teatrale de “I Ragazzi della Panchina” dal titolo “La legge è uguale per tutti?”. Lo spettacolo presentava in forma allegorica le incongruenze tra le esperienze vissute dai protagonisti e ciò che viene poi discusso in tribunale e come ciò incida sia sui “giudicati” che sui “giudicanti”. Infine si è ascoltata la presentazione del lavoro svolto in Bolivia dall’associazione Vida y Esperanza e quello in Spagna dall’associazione cittadi-na di lotta alla droga, programma Alborada. La prima a stretto contatto con la “strada” lavora giorno per giorno per il recupero dei giovani dalle strade di Cochabamba; la seconda articolata in una serie di servizi e strutture terapeutiche, opera a contatto sia con le istituzioni del territorio che con i cittadini stessi. I lavori del Convegno si sono chiusi con una tavola rotonda aperta a tutti i partecipanti, attraverso cui ci si è potuti confrontare sui temi toccati nei singoli interventi ed in particolare sulla costituzione di una rete tra servizi nazionali e internazionali, che operano nell’ambito del contrasto al consumo di sostanze psicoattive il-legali. Rete che diventa quanto mai necessaria per arrivare ad operare in modo concertato laddove le singole realtà non po-trebbero inserirsi. Il convegno si è posto, dunque, come un’occa-sione di condivisione di prassi già messe in campo e di “altre” proposte, in un ottica di promozione della salute e si riproporrà con scadenza biennale con l’obiettivo di porre delle linee guida per il contrasto al consumo delle sostanze psicoattive illegali.

di Cristiana Ferri e Valeria Gennuso. Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA)

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In 30 anni Alborada è passata da comunità terapeutica a rete di centri multidisciplinaridi Jesús Cancelo Martínez, Psicologo Clinico Responsabile Aclad Alborada

SPAGNA. Cure e prevenzione partono dal territorio

L’Associazione Cittadina di lot-ta contro la droga Alborada è un’organizzazione non go-vernativa che da anni lavora per il governo della Spagna e della Galizia, realizzando

L’organizzazione Vida y Esperanza è un centro civi-le senza scopo di lucro, in cui lavorano e partecipano persone e professionisti che hanno un fine comune, mi-gliorare la qualità della vita dei cittadini di Cochabamba (Bolivia). La missione dell’or-ganizzazione è di sviluppare

un lavoro di prevenzione, as-sistenza e integrazione sociale della tossicodipendenza. Nel 1980, a causa di una serie di cambiamenti sociali e politi-ci, la droga, principalmente

l’eroina, si diffuse in Spagna, provocando una serie di gra-vi problemi di salute (decessi per overdose, malattie infetti-ve, ecc.), sociali (disgregazio-ne della famiglia, dropout, di-soccupazione, ecc.) e penali (insicurezza, furti, ecc.). Questo fenomeno colse di sorpresa le istituzioni pubbliche, e furono la società civile e un gruppo di cittadini, che si organizza-rono in modo altruistico, ad affrontare il problema per pri-mi. Visto il successo di questa iniziativa, lo Stato decise di lasciare alle organizzazioni, come Alborada, il compito di affrontare la tossicodipen-denza, sovvenzionando tutti i progetti, in modo che l'atten-zione potesse essere univer-sale, libera e di qualità. La scommessa di Alborada è offrire questo tipo di assisten-za a gruppi di persone spesso caratterizzati da bassi livelli di reddito, disoccupazione, doppia diagnosi, Aids, disa-bilità e situazioni sociali gravi. Dal 1982 Alborada è cresciu-ta, passando dall’essere una piccola comunità terapeutica ad una rete di centri (Unità di assistenza, Centro Diurno, programma di prevenzione e il Centro Giovanile, con qua-si 60 professionisti), formando così una squadra multidisci-plinare. Nel corso di questi 30 anni abbiamo visto la crea-zione di piani nazionali e re-gionali per la pianificazione e il coordinamento delle risor-se, la nascita e la successiva

epidemia dell’Aids, il cam-biamento delle modalità di somministrazione dei farmaci, il trattamento con sostanze da sostituzione come il metadone e lo sviluppo di programmi di riduzione del danno, il calo del consumo di eroina e l'in-fezione da Hiv, l'aumento dei casi di doppia patologia e di emergenza sociale, l'aumento del consumo di altre sostanze come cocaina, droghe sinteti-che e alcol negli spazi urba-ni, e una crisi economica che ha peggiorato ancora di più la grave disoccupazione tra i nostri utenti. Ma il fenomeno che deve essere sottolineato è soprattutto il cambiamento nel modo di intendere e di lavorare nella tossicodipen-denza, che ci ha permesso di avvicinare gli utenti al centro, la standardizzazione delle cure da parte della società, la sensibilizzazione e l'adesione al trattamento di un nume-ro maggiore di pazienti. Gli obiettivi sono stati classificati e diversificati, in modo che tut-ti i casi abbiano un posto e tutti possano migliorare attra-verso questo nuovo modo di intendere l'intervento. I motivi principali per cui le organiz-zazioni come Alborada sono sopravvissute, hanno a che fare con i seguenti principi: facile accessibilità per i pa-zienti, efficacia nella risoluzio-ne dei problemi, l'efficienza nella gestione delle risorse, il coordinamento con le altre entità, continuità nel tratta-

azioni di prevenzione sani-taria integrata, formando un team multidisciplinare che lavora con le fasce di popolazione più vulnerabili. L’obiettivo primario è quello di fornire assistenza comple-ta attraverso la prevenzione, la diagnosi e l’attuazione di interventi nel campo dell'e-

ducazione sanitaria e della sociologia. La metodologia utilizzata dall'organizzazione può essere inquadrata in un approccio multidisciplinare che si può raggruppare in aree di azione: Psicologia; Formazione Educativa; Giu-ridico Legale; Etico-morale. L’organizzazione lavora con

fasce di popolazioni diverse: da un lato con 45 bambini e adolescenti (studenti) che variano tra i 6-16 anni, che frequentano l'Unità Educati-va. Si lavora nell’ambito del-la prevenzione in materia di consumo di droga, essendo una fascia di popolazione vulnerabile, sia nei rapporti

BOLIVIA. Alternative alla strada per i giovaniLavoro, sport, pet therapy e servizio militare tra gli strumen-ti usati da Vida y Esperanzadi Valeria Gennuso e Magali Torres Reyes, Psicologa Asociación Vida y

Esperanza

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La Cooperativa Parsec, fin dalla sua costituzione (1996), ha sviluppato un ventaglio di servizi e progetti rivolti a persone con problemi di di-pendenze patologiche e ai loro familiari. Tra i principali c’è il C.D. Scalo San Lorenzo, servizio di accoglienza diur-no a bassa soglia (dal 2000), finanziato dall’Agenzia Capi-tolina sulle Tossicodipenden-ze, e il C.A.D. Scarpanto, ser-vizio di accoglienza diurno a bassa soglia (dal 1994), fi-nanziato dalla Regione Lazio attraverso il F.N.L.D. Dall’espe-rienza avuta si è delineato un modello di intervento basato su tre punti-obiettivi: la cura della persona, del territorio e l’integrazione sociale del consumatore. La cura del-

mento e velocità di risposta in tempi di crisi e di ricaduta, e il buon livello di soddisfazione percepita dall'utente. Inoltre, ci proponiamo di fornire un buon servizio, sulla base dei seguenti elementi: la compe-tenza professionale e la for-mazione scientifica e tecnica, la diligenza, la cortesia, la consulenza, l'intuizione, l'af-fidabilità, la fiducia, la crea-zione, l'interesse, la flessibilità, l'empatia, la conoscenza del-le aspettative utente, ascolta-re e sapere quali sono i do-veri e il servizio offerto. Inoltre Alborada è immerso da anni in un processo di migliora-mento continuo, cercando di soddisfare i criteri di qualità individuati per il corretto fun-zionamento di una squadra e di migliorare l'ambiente di lavoro: sviluppo di un catalo-go delle funzioni di ciascuna categoria professionale, pro-muovere la formazione e la ricerca, dare rinforzo verbale e feedback, saper delegare funzioni, sviluppare un ma-nuale delle procedure (pro-tocolli, ecc.), fornire informa-zioni aziendali su misura per i membri del team, valutare la professionalità di tutti, un trat-tamento equo nel condivide-re il carico di lavoro, valutare la forma clinica e periodica ogni paziente, condividere con l’equipe la presa di deci-sioni e migliorare le condizio-ni di lavoro: ore, salari, struttu-re, la promozione del lavoro interno e attrezzature.

ROMA. Per l'emancipazione dalle sostanzeNella periferia della capitale la cooperativa Parsec investe sulla collaborazione con quartieri e scuoledi Luca Scopetti, Assistente Sociale Cooperativa Parsec

la persona è raggiungibile attraverso, pensieri, azioni e buone prassi, considerando la persona e la dipenden-za un microcosmo parte di un macrocosmo, superando logiche e processi assisten-ziali, offrendo un ventaglio di servizi che non si limiti all’accoglienza, all’ascolto e al sostegno ma che possano stimolare all’emancipazione o ad un uso consapevole delle sostanze. Si è adottato come strategia di intervento la riduzione del danno, un approccio né etichettante né discriminante e libero da ogni forma di pre-giudizio. Un sistema volto a migliorare la qualità di vita dell’utente, realizzabile soprattutto grazie al coinvolgimento coopera-

tivo di servizi socio-sanitari. Promuovere maggiori co-noscenze e competenze al gruppo di utenti, facilitando lo scambio di informazioni tra essi. Identificare e formare un peer (educatore alla pari), per un maggior scambio di informazioni che spesso si tra-mutano in competenze e poi in buone prassi. Integrare la RDD con la prevenzione, faci-litare l’empowerment perso-nale scovando e sviluppan-do il potenziale e le risorse di ognuno. Per quanto concer-ne la cura del territorio e di conseguenza la relazione tra quartiere, tossicodipendente e cittadinanza è bene inizial-mente identificare una picco-la porzione di territorio ed ini-ziare a comprenderne risorse e criticità. Una delle princi-pali criticità, riscontrate nei “nostri” territori (Roma centro/nord), è sull’uso di sostanze nei cortili e la presenza di un gruppo di consumatori nelle aree adiacenti alle scuole. Si è ritenuto opportuno fin da subito coinvolgere in una tavola rotonda le associazio-ni di quartiere e le istituzioni scolastiche nel tentativo di circostanziare il fenomeno e analizzarlo; ne è nato un in-tervento di prevenzione rivol-to agli studenti e alla creazio-ne di figure peer nel gruppo di consumatori. Inoltre si è identificata insieme, una nuova area dove poter trova-re la giusta privacy nell’atto del consumo, un ambiente pulito perché “gestito” dagli stessi utenti coadiuvati dagli operatori, un area non iso-lata e adiacente al centro cosi da favorire lo scambio di materiale sanitario sterile ed i riporti dell’usato. Il ter-zo obiettivo è l’integrazione sociale del consumatore nel territorio. Nonostante tagli e riduzioni, l’integrazione socio-lavorativa rimane ancora l’o-biettivo ultimo di un progetto teso all’emancipazione dalle sostanze. Progetti raggiun-gibili solo attraverso investi-menti mirati e specifici ed in grado, nel medio tempo, di portare ad un risparmio col-lettivo in termini economici e di costi sociali. Non solo sus-sidi sociali o social card ma anche progetti di inserimento lavorativi; un tirocinio o una borsa lavoro, ben pensata e strutturata secondo le esigen-ze dell’utente, avviata in si-nergia tra Municipio, Sert ed il Centro diurno può essere la risposta più efficace al biso-gno economico e di integra-zione del consumatore.

economici che sociali, prove-nendo per lo più da famiglie con basso reddito. Inoltre si lavora con 40 ragazzi di età compresa tra 8-18 anni, ex inalanti oppure in fase di ri-abilitazione. Il team di lavoro è multidisciplinare composto da professionisti, psicologi, giuristi ed educatori, che per-mettono di tenere conto dei tre livelli di prevenzione. L'or-ganizzazione sostiene il lavo-ro svolto dai ragazzi in stra-da, dando loro gli strumenti di lavoro, come ad esempio i ragazzi che puliscono le au-tomobili in strada. Infine con gli adolescenti che si trovano in fase di riabilitazione, si uti-lizza la terapia occupaziona-le, in particolare si lavora con gli animali; si utilizzano ad esempio i cavalli come risor-sa, ciò permette di avvicinarli al mondo dello sport; risulta utile anche il servizio militare che permette agli adolescen-ti di acquisire il senso del ri-spetto e della norma.

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L’attuale rete dei servizi per il contrasto al consumo di so-stanze psicoattive illegali si basa sul costrutto di “tossico-dipendenza” che viene con-siderato alla stregua di una patologia organica: si cerca di individuare le cause or-ganiche e sociali della sua insorgenza. Il termine “tossi-codipendenza” è costituito da due parti, “tossico” e “dipen-denza” che appartengono a due piani conoscitivi diver-si. Il primo deriva dal latino e indica il “veleno”, ovvero una sostanza che produce degli effetti sull’organismo. Tale termine ha fondamento scientifico in quanto ha il suo riferimento su basi organiche, trattando del “corpo che vie-ne avvelenato”. Il secondo termine, “dipendenza”, as-sume, invece, il senso del: “ trarre origine, essere causato”, “essere sottoposto all’autorità, al potere altrui”. Trattare la “di-pendenza” alla stregua di un fatto “organico” non ha fon-damento scientifico, in quan-to non vi è l'attestazione di un legame di causa-effetto “em-pirico” tra l'assunzione della sostanza illegale e la “conse-guente dipendenza da essa”. Il lavoro sulla “dipendenza” ha comportato la sostituzione della sostanza illegale con farmaci antagonisti, in virtù della focalizzazione sul “vele-no” e sulla situazione di “pote-re” della sostanza sulla perso-na: dunque se si è “soggetti” alla sostanza serve sostituirla. Ciò in termini operativi non cambia la realtà del “consu-mo” in quanto non cambia la posizione del consumatore rispetto alla sostanza. Proprio in virtù di questa ambivalen-za, tale termine ha assunto nel corso del tempo definizio-ni diverse passando da “uno stato di intossicazione” a “uno stato di dipendenza fisica e psichica”, mettendo l’accen-to talvolta sull’“intossicazione”

e dunque sulla “sostanza”, e talvolta sulla “dipendenza” e dunque sul soggetto che as-sume la sostanza illegale. In particolare la “dipendenza” viene ad essere configura-ta come una caratteristica intrinseca del “soggetto/con-sumatore”. Il manuale “DSM- IV” la definisce, infatti, come un “pattern maladattattivo di uso di sostanze che porta ad un deterioramento clini-camente significativo o an-goscia”. In questa definizione ci si concentra sui concetti di “tolleranza” e di “astinenza”; il primo legato all’adattabilità dell’organismo alla sostanza psicoattiva illegale; il secon-do invece agli effetti “fisici” ma anche “psichici” della non assunzione della sostanza psi-coattiva illegale. Sulla “crisi di astinenza” si sono costruiti interventi finalizzati alla ridu-zione della stessa, attraverso l’assunzione di farmaci “atti a compensare la mancanza della sostanza nell’organi-smo”. Il termine “dipendenza” viene dunque usato in modo scientificamente inappropria-to per “spiegare la sindrome di astinenza”, anch'essa una dicitura che non trova fonda-mento scientifico, in quanto non sussiste un collegamento diretto tra la “sindrome di asti-nenza” (chiamata “sindrome” proprio a fronte del fatto che non se ne conoscono le “cau-se”, come nel caso della sin-drome neoplasica), e il corpo che ne sarebbe “soggetto”. La definizione scientifica del sud-detto processo risulta essere “il normale smaltimento me-tabolico del livello di tossicità della sostanza”. Il concentrar-si sulla “sostanza”, sulla sua assunzione o meno e sui suoi effetti, nonché il sostituire con un farmaco l’assunzione del-la sostanza illegale, ha con-tribuito a mantenere uguale a se stessa la configurazione del “consumatore di sostan-

ze”, siano esse legali o illegali, ovvero non si è riusciti a pro-durre uno scarto rispetto all’ “essere” , all’identificarsi come un consumatore etichettabile come “tossico” o “ex-tossico” (di per sé la particella “ex” nulla toglie alla forza dell’eti-chetta stessa). Questo passag-gio ha fornito al consumatore la possibilità di continuare a consumare (“Sono un tossico, sono dipendente, soffro della sindrome di astinenza e quin-di mi serve la sostanza”). Tale commistione ha portato la ri-cerca scientifica a focalizzarsi sulle sostanze sostitutive della sostanza illegale, piuttosto che a lavorare rispetto a come aiutare l'organismo a smaltire la sostanza. Porre l'attenzione della comunità scientifica ri-spetto alle modalità di smal-timento della sostanza rende-rebbe il consumatore non più “vittima” della “dipendenza”, bensì parte attiva della co-munità, persona responsabile delle proprie scelte e non “in balia” di un processo che non può controllare.Tutto ciò si è generato all’in-terno di una concezione no-motetica della salute, dove la salute (intesa come benes-sere globale della persona) viene inglobata dalla sanità (intesa come benessere me-ramente fisico), e ci si concen-tra sugli aspetti della “tolleran-za” e dell’” astinenza” legati alle reazioni del corpo. Sorge l’esigenza di passare ad una concezione dialogica della salute, dove è la sanità ad es-sere sussunta dalla salute. A tale fine la proposta è quel-la di passare dall’assunzione di cornici conoscitive per cui ci si riferisce ad un ente e a legami causa-effetto ai pro-cessi dialogici e dunque alle produzioni discorsive della comunità. Ciò permette il pas-saggio da una Architettura dei Servizi Nomotetica (AdSN) ad una Architettura dei Servi-zi Generativa (AdSG); nella prima l’utente viene preso in carico in quanto “malato” o “disturbato” e viene ricono-sciuto attraverso un’etichetta; l'obiettivo è la prevenzione ovvero il controllo delle va-riabili per evitare l’evento-malattia (es. si forniscono farmaci in sostituzione della

sostanza illegale); l’intervento è subordinato alla volontarie-tà dell’utente, infatti è quest’ul-timo che si dirige verso il ser-vizio; l’esperto stabilisce la normalità e la patologia; si individuano delle procedure. Al contrario in una AdSG il focus dell’intervento è la co-munità-paese, ovvero tutte le voci dei cittadini che concor-rono a mantenere inalterato il riferimento all’etichetta “tos-sico”; in virtù di quanto detto precedentemente si propone l’abbandono del termine “tos-sicodipendente” in favore di “consumatore di sostanze”; ci si concentra sulla promozione della salute, dunque la sanità diventa una delle possibilità della salute e ciò implica che, laddove non vi è “sanità” vi può essere salute e la si può promuovere. E’ il servizio che va all’utente e si condivido-no prassi comuni, si mira al lavoro di rete nella comunità come strategia per raggiun-gere l’obiettivo del cambia-mento della biografia della persona. L’adozione di una AdSG permette l’incremento dell’efficacia degli interventi, il focus non è sull’estinzione di uno stato patologico che solo l’esperto può attuare, bensì sul cambiamento biografico, ovvero il cambiamento del-le produzioni discorsive che concorrono a generare la realtà “tossico”. E’ l’utente stes-so il primo esperto di questo cambiamento, e ciò implica un incremento dell’efficienza nella gestione, trattandosi di una gestione condivisa dei processi in atto; è il servizio ad andare dall’utente e non il contrario. Non si parla più di “presa in carico”, ovvero l’u-tente non deve essere portato altrove e “curato”, al contra-rio si punta al mantenimento e al lavoro di rete sul e nel territorio stesso che porta dun-que all’abbattimento dei co-sti dei servizi e all’incremen-to dei benefici per l’utente e per il territorio. A fronte di quanto argomentato diventa utile, all'interno della cornice di un'Architettura dei Servizi Generativa, la costituzione di agenzie e di realtà informali, come l'associazione I Ragazzi della Panchina: operando di-rettamente nel e sul territorio, il loro intervento ha rilevanza scientifica e assurge ad uno status che fino ad oggi non è stato erroneamente rico-nosciuto. Ecco che assumono importanza iniziative come quella del Convegno Altre Strade che, favorendo la pro-mozione della rete informale, risulta utile per i consumatori di sostanze psicoattive e assu-me rilevanza scientifica dan-do un apporto innovativo alla comunità stessa.

Il ruolo della comunità nel contrasto al consumo Proposta operativa per i servizi che si occupano del contrasto al consumo di sostanze psicoattive illegali. Un'alternativa a quella vigente di Gian Piero Turchi, Università degli Studi di Padova,Dipartimento di Filoso-

fia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA)

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PANKA NEWS

Penso non si arrivi mai a caso alla “Panchina”. Chi per ne-cessità, chi per conoscere al-tre persone, chi per ricercare se stesso: decine e decine di “chi” tutti con motivazioni di-verse convergono in questo posto e lo riempiono di colori e sfumature. Dietro ogni per-sona c’è un perché, che la muove e la porta a mescolar-si con il via vai di vite e di esperienze che ogni giorno varcano la soglia della sede dell’associazione “I Ragazzi della Panchina” e costituisco-no la vera essenza del grup-po. Il personale mio “perché” sono stati la formazione e lo studio. Sono uno studente al terzo anno di Educazione Professionale e ho scelto di svolgere il mio tirocinio finale qui, all'associazione “I Ragaz-zi della Panchina”. Sono stato mosso dal voler capire come funziona questa realtà che si classifica come anomala nelle modalità di contrasto al consumo di sostanze, ma so-prattutto volevo cogliere qua-le valore ha per il territorio di Pordenone la presenza dei Rdp. Questo stesso interroga-tivo mi ha spinto anche nel percorso di tesi e ho cercato la risposta sul territorio stesso: spesso gli sguardi dall’ester-no sono i più ricchi di spunti e riflessioni utili per mettere in gioco noi stessi e migliorarci. Partendo da questo assun-to, ho tentato di “dare voce” a Pordenone, intervistando delle figure chiave in termini di responsabilità decisionale come il sindaco Claudio Pe-drotti, il vice presidente della Regione Sergio Bolzonello, ex sindaco della città, il pre-sidente del Tribunale Fran-cesco Pedoja e il primario del Dipartimento per le Di-pendenze di Pordenone Ro-berta Sabbion. Il dialogo dei RDP con questi enti e servizi è fondamentale per condivi-dere un fine e allacciare due mondi talvolta distanti come

istituzioni e strada, pubblico e privato. Per valorizzare la storia del gruppo ho inter-vistato persone presenti fin dal 2001 e testimoni dell’e-voluzione dell’associazione dall’esterno come Graziella Zambon, vicina dell’ex sede di viale Grigoletti, ed Enza Santo, coordinatrice degli in-fermieri dell’ambulatorio del Ser.T. Inoltre mi sono rivolto a chi opera quotidianamente in città, come la Cooperativa Sociale Itaca nella persona di Samantha Marcon (respon-sabile di ambito minori), l’e-ducatrice Elisa Cozzarini per la Cooperativa “Nuove Tecni-che”, Michele Tonus vice pre-sidente dell’associazione “La

Festa in Piassa”, Matteo Boz-zer presidente associazione San Vincenzo De Paoli, Don Luca Bernardello responsa-bile dell’oratorio Don Bosco e Vittorio Cereser e Claudio Lazzarini, poliziotti di quartie-re nell’area dei Rdp. Il risul-tato di tutto questo lavoro è uno sguardo comprensivo di molti punti di vista che arric-chiscono la “valutazione” su “I Ragazzi della Panchina” e sul loro operato. Dalle interviste si evince in primo luogo una grossa modifica strutturale in-terna dell’associazione avve-nuta durante i suoi 18 anni di vita. Per dirla con le parole di Enza Santo: «Il maggiore cam-biamento è stato il partire da un gruppo di ragazzi consu-matori di sostanze per diven-tare associazione strutturata». Si è delineata così, secondo il sindaco Pedrotti, «una strut-tura capace di adeguarsi in itinere in base ai tempi, con l’attenzione ai modi di porsi e ai nuovi mezzi di comunica-zione con i quali si può rag-giungere il territorio anche non fisicamente». Per Michele Tonus infine «le iniziative che questo gruppo ha realizzato in questi anni sono il miglior monitor per dare testimonian-za di come l’associazione sta vivendo, sta crescendo e si sta ampliando». Oltre ad indaga-

re la percezione della cresci-ta interna dei Rdp, ho posto diversi quesiti riguardanti il rapporto tra l’associazione ed il territorio e i fattori che l'han-no influenzato positivamente e negativamente. Una rifles-sione importante riguarda il fattore negativo del pregiu-dizio, della paura dell’ignoto, del diverso. Questo elemento è stato evidenziato da ogni soggetto intervistato e si pone come dimensione di gran-de importanza sulla quale agire e sulla quale i Rdp si stanno già adoperando da diverso tempo. Di questo ne danno testimonianza le pa-role di Roberta Sabbion: «Ciò che sta ostacolando di più è il pregiudizio, su questo Ser.T e Rdp insieme. Stiamo lavo-rando in maniera capillare. E’ infatti nell’esperienza diretta con piccoli gruppi che il pre-giudizio si supera». Ancor di più è significativa l’esperienza della pordenonese Graziella Zambon, inizialmente ferma oppositrice all’insediamento dell’associazione sul territo-rio. Attraverso la conoscenza diretta della “Panka” ha mu-tato totalmente opinione, fino a definire idilliaco il rapporto costruito con loro e identifi-cando l’ignoranza come il peggior ostacolo all’integra-zione. Tra i fattori che hanno

favorito la relazione Rdp-Por-denone sono emerse l’aperta mentalità pordenonese verso l’associazionismo, la capaci-tà dell’associazione di porsi come interlocutore che lavora in sinergia con gli altri e il met-tere in atto attività e proposte condivisibili dal punto di vista culturale come il giornale, le varie rappresentazioni tea-trali, i convegni e i momenti pubblici. Quanto alle prospet-tive future del sodalizio è stata sottolineata la necessità di in-vestire sempre maggiori risor-se ed energie per incontrare le esigenze dei nostri giovani. Concludo ringraziando chi si è prestato per questo lavoro e riporto una frase secondo me significativa della mentalità dei RDP: «Incontrare le per-sone è ancora la droga più potente».

Parte da una raccolta di interviste il lavoro di un educa-tore sul rapporto tra associazio-ne e città. Tra i protagonisti isti-tuzioni, servizi e cittadinidi Andrea Lenardon

LA MIA TESI DI LAUREA SUI RAGAZZI DELLA PANKA

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INVIATI NEL MONDO

Tre settimane zaino in spalle e una tappa speciale nella quotidianità di una famiglia di Casablancadi Cristina Colautti

COSÌ INCONTRAI IL MAROCCO

Viaggiare, scoprire, perdermi in luoghi a me sconosciuti, mi ha sempre regalato emo-zioni uniche, mi ha sempre fatto sentire viva e libera. Per questo, ogni volta che mi è possibile, prendo e parto, le quattro cose indispensabili con me, minima organizzazio-ne e tanta voglia di divertir-mi, sperimentarmi ed incon-

trare nuove realtà. Nell’estate 2007, la mia destinazione fu il Marocco. Sei amici, zaino in spalla e tanto entusiasmo: furono gli ingredienti di que-sto viaggio che porto ancora dentro di me come se fosse ieri. Siamo partiti da Berga-mo, prima tappa Siviglia, e da lì abbiamo proseguito fino alla costa per imbarcarci nel traghetto che ci ha condotti in Marocco. Quindi a Ceuta, documenti alla mano, ab-

biamo attraversato la frontie-ra di quello Stato, al limitare tra Africa ed Europa, che ci avrebbe ospitati per tre setti-mane. Nulla di pianificato in anticipo, sia chiaro, l’avventu-ra è il nostro pane quotidia-no e l’equilibrio nel gruppo il difficile e talvolta mancante companatico. Abbiamo attra-versato questa terra da nord

a sud, passando per l’azzurra Chefchaouen, visitando le cit-tà imperiali di Fes e Meknes, e poi giù fino a Marrakech. Deviazione condivisa nel gruppo: un piccolo tour tra le dune del Erg Chebbi, la lin-gua di deserto, che fa da con-fine tra Marocco ed Algeria. Indimenticabile l’escursione a dorso di cammello, che ci ha condotti in un accampamen-to berbero dove, dopo aver ri-posato sotto un tappeto di stel-le, abbiamo atteso il sorgere del sole tra le dune. Il nostro itinerario ci ha quindi portati a Marrakech, una città a mio avviso magica; un brulicare di persone, suoni e colori, che si confondono e ti confondo-no. Il labirinto della Medina, dove contrattare il prezzo di qualunque oggetto è obbligo e divertimento, le luci ed gli odori che invadono piazza Jemaa el fna al calar del sole, quando questa si riempie di tavoli e bancarelle assiepati di turisti e locali che si appre-stano ad assaporare i piatti più tipici, questi tra gli spaccati

più incantevoli al mio sguar-do. Lì a Marrakech, a farci da guida, Omar, un amico e compaesano, che ogni estate ritorna nella sua terra per tra-scorrere un po’ di tempo con la sua famiglia, un ragazzo che ha scelto, per studiare e lavorare, la vita dell’immi-grato e tutte le difficoltà che questa comporta. Insieme a lui, abbiamo così proseguito una piccola parte del nostro viaggio in Marocco, per poi dividerci e rincontrarci in se-guito: lui ha raggiunto la fa-miglia a Casablanca, noi ab-biamo trascorso alcuni giorni tra Essaouira ed El Jadida. In queste località, lambite dall’o-ceano, ci siamo beatamente rilassati in spiaggia e la sotto-scritta, incurante del sole tro-picale, si è anche procurata una bella scottatura. Ultima tappa del viaggio: Casablan-ca, dove Omar e la sua fa-miglia ci hanno ospitati nella loro casa. Siamo stati trattati davvero in modo splendido. La madre del nostro amico ci ha, infatti, accolto offrendoci il thè alla menta, accompa-gnato da diversi dolci tipici, per poi rimpinzarci a cena con vassoi colmi di cous cous e carne ed infine metterci a disposizione la sua casa per poter comodamente riposare la notte precedente alla no-stra partenza. L’occasione di poter entrare nella casa di questa famiglia e poter con-dividere, anche se per poco, i suoi spazi e tempi è stato, per me, uno dei momenti più si-gnificativi di questo viaggio. Ho avuto modo di osservare quasi “dal di dentro” una real-tà per diversi aspetti lontana dalla mia e scoprire alcune caratteristiche di un quotidia-no, invece, piuttosto similare. L’ospitalità della famiglia di Omar, congiuntamente alla gentilezza ed alla disponibi-lità riscontrate nelle persone in molte altre situazioni, mi

hanno fatto riflettere rispetto a come non sempre le per-sone, ed io per prima, siano in grado di accogliere con tranquillità e naturalezza l’al-tro, chiunque esso sia. Forse a maggior ragione l’altro più di-verso da noi per colore della pelle, per usi e costumi, per il modo di vestire e comportar-si e, perché no, per il modo di pensare. Un altro talmente vicino nel quotidiano, da non accorgercene. L’incontro con l’Altro come primo significa-to del viaggio, del mio viag-gio. L’incontro e scontro con i miei compagni d’avventura, che forse proprio in quella esperienza ho potuto cono-scere un po’ meglio, l’incontro con la famiglia e gli amici di Omar, l’incontro con tutti co-loro con cui ci siamo fermati a scambiare qualche paro-la, l’incontro con mille volti e mille sguardi. Un’incontro con loro, possibile specchio in cui osservare e comprendere me-glio me stessa e i miei limiti di essere umano, un incontro che migliora. Un’incontro quo-tidiano che spero non abbia mai fine, come la mia voglia di viaggiare e scoprire il mon-do e chi lo popola.

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PANKA ROCK

In scena allo stadio Euganeo di Padova lo spettacolo di “Born to run”. Bruce Springsteen infiamma la folladi Fabio Passador

Tre ore di festa in compagnia del Boss

Quando un’amica ti chie-de di andare a vedere un concerto di Bruce Springste-en, non puoi non prendere in seria considerazione tale proposta. E così sono andato a comprarmi i biglietti, sicuro di aver scelto il concerto più importante dell’anno. Nono-stante il tempo inclemente, che però ha solo bagnato leggermente il manto dello stadio Euganeo di Padova, siamo lì insieme a quaranta-mila persone con d’avanti un colpo d’occhio straordinario. Si tratta del “Boss”, è più che doveroso essere in tanti. Ci dicono che abbia suonato alcuni brani appena arriva-to allo stadio per omaggiare i numerosi fans già presenti in prima fila e questo la dice lunga sullo spessore umano del rocker americano. Ma le soprese non finiscono qui. Ci stiamo bevendo tranquil-lamente una birra, quando all’improvviso compare sul palco Springsteen in persona: compagnia della sua chitarra acustica inizia sulle note inten-se di “The gost of Tom Joad”, al termine della quale entra tutta la band ed è lì che co-mincia ufficialmente il concer-to. Succede sulle note di “Long walk home”, un brano di re-cente uscita che è una sorta di confessione dell’autore sul sapore magico del ritorno a casa dopo tanto tempo pas-sato in giro per il mondo. L’at-mosfera è caldissima, il Boss è

in una forma smagliante, da fare invidia a qualche giova-ne d’oggi, e la scaletta musi-cale continua all’insegna del buon rock e delle richieste che Springsteen raccoglie dai car-telli nelle prime file. La prima è una meravigliosa “Something in the night”, sulle calde note che escono dal piano di Roy Bittan. C’è spazio anche per alcune canzoni dell’ultimo la-

voro “Wreckin’ Ball”, ma il nu-meroso pubblico si esalta let-teralmente all’annuncio che tutti speravano: in un perfet-to italiano il Boss ci dice che stasera verranno suonati tutti i brani dell’album “Born to run”, una pietra miliare della storia della musica rock. Per un’ora, seguendo una rigorosa scalet-ta pari al disco, si susseguono i meravigliosi otto brani più

amati dai suoi fans, conclu-si con una indimenticabile versione di “Jungleland”. Non siamo lì per partecipare ad un concerto preconfezionato di una qualunque rockstar : siamo nel pieno di una festa tra amici. Sul palco, insieme alla band, all’orchestra ed al padrone di casa assoluto, si susseguono semplici ap-passionati invitati dallo stesso Springsteen a cantare con lui: il primo è un bimbo dal-la perfetta pronuncia ingle-se e dall’ottima intonazione, con il quale duetta sulle note di “Waiting for a sunny day”, strappando numerosi applau-si dal pubblico. Poi sale un personaggio davvero insolito, con se porta il suo strumento artigianale (forse in acciaio) simile ad un pezzo di lavan-dino, che si mette a suonare con due cucchiai accompa-gnando la band in una elet-trizzante “Pay me my money down”. La festa si conclude con i migliori cavalli i batta-glia tra cui “Born in the Usa” e “Dancing in the dark”, che infiamma un pubblico tutt’al-tro che stanco e che ben ha sopportato la leggera pioggia caduta dal cielo di Padova. La sensazione che ti accom-pagna, mentre saluti la band in un interminabile applauso, è quella di aver partecipato a qualcosa di memorabile e che giova all’umore per un bel paio di giorni, quasi tera-peutico.

PANKA NEWS

Ad agosto l’associazione era presente con due stand ai fe-steggiamenti di Villanovadi Stefano Venuto

Quarta Festa in Piassa per Rdp

Anche in questo 2013 si è rin-novata, per il quarto anno consecutivo, la collaborazio-ne tra I Ragazzi della Panchi-na e gli organizzatori della Festa in Piassa di Villanova di Pordenone. Assieme agli educatori dell’associazione ci sono stati anche quelli del Di-partimento per le Dipendenze della provincia di Pordenone. Abbiamo allestito due stand all’interno dell’area giovani della festa (Skate Park), il pri-mo di carattere informativo, dove erano a disposizione per

chiunque ed in forma assolu-tamente gratuita, giornali Li-bertà di Parola, libri, volantini informativi riguardanti alcol, sostanze psicotrope, malat-tie sessualmente trasmissibili, nonché profilattici, alcol test monouso. Davamo inoltre an-che la possibilità di misurare il proprio tasso alcolemico attra-verso strumenti di misurazio-ne professionali. Nel secondo stand a disposizione abbiamo allestito una scenografia per dare vita al torneo “… Ma quante ne sai?”. Con tanto di

pulsanti e segnali luminosi, cuffie stile “lascia o raddop-pia”. Qui i partecipanti si sono cimentati nel rispondere ad una batteria di domande di cultura generale ed anche specifiche su alcol e sostan-ze. Si scontravano due alla volta, chi si prenotava per pri-mo poteva dare la risposta e se corretta si aggiudicava un punto. Chi, alla fine delle venti domande, totalizzava il pun-teggio maggiore, continuava la rincorsa verso la vittoria. Il vincitore della serata guada-

gnava un bonus per panino e bibita analcolica. Insomma, si è proposto un momento lu-dico di altissimo livello, ma si è realizzata anche una straor-dinaria opera preventiva, di promozione alla salute e di riduzione del rischio rispetto al consumo di alcol e sostan-ze psicotrope. Qualche dato per chiudere: 79 questionari realizzati, 98 alcol test effettua-ti, 400 profilattici distribuiti, 100 giornali e volantini informativi divulgati, 12 tornei “..Ma quan-te ne sai?” portati a termine.

luiginter

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NON SOLO SPORT

Il torneo "Atp Challenger Friu-ladria Crèdite Agricole tennis cup - internazionali del Friuli Venezia Giulia" è l'evento di punta dell'Eurosporting. Ogni anno diversi atleti provenienti da tutto il mondo si incontra-no a Cordenons per dare vita a questo splendido torneo: il tutto si svolge in otto giorni di tennis intenso ad ottimi livelli. La competizione si suddivide in torneo di qualificazione e torneo ufficiale, globalmente partecipano circa una settan-tina di tennisti, 28 dei quali sono già iscritti per diritto di classifica al tabellone princi-pale. Tutti gli altri si giocano i quattro posti in palio nel tor-neo di qualificazione. Paralle-lamente al torneo di singolo si svolge anche il doppio con un tabellone formato da 16 coppie. L'organizzazione di un evento del genere è sempre molto complesso, quest’anno però, dopo la scomparsa di Edi Raffin, è stata ancor più impegnativa e la figlia Sere-na insieme al resto dello staff hanno dovuto spendere ogni grammo di energia, lavo-rando intensamente perché questo evento al quale Edi teneva molto potesse avere luogo. Claudio ci dice che è per rispettare un’idea, l'idea che Edi aveva del torneo come momento culminan-te della stagione, un evento

importante, bello, organizzato al meglio perché fosse il fio-re all'occhiello della società. «Lo facciamo soprattutto per lui – dice Serena - per dare continuità alla sua idea». Eb-bene quest’anno, dal 10 al 18 agosto, tra i partecipanti c’era anche Gianluigi Quinzi, giovane talento reduce dalla vittoria di Wimbledon Junior. Grazie all’Eurosporting che ci ha messo in contatto con lui, abbiamo potuto intervistare questa giovane promessa del tennis italiano.

Come ti sei avvicinato al mondo del tennis?Inizialmente ho fatto altri sport: go-kart, ma soprattut-to sci, perché mia mamma è stata una campionessa di questa disciplina. Successi-vamente, a causa della pe-ricolosità dello sci, abbiamo deciso di cambiare. La mia famiglia ha un circolo tenni-stico, passato dalle mani di mio nonno a quelle di mio padre, quando avevo cinque anni mio padre mi ha dato in mano una racchetta, da lì,

si sono resi conto che gioca-vo bene, che “la mettevo di là della rete”. Così ho iniziato a giocare. Cosa ti piace di più del gio-co del tennis?Mi piace molto l’adrenalina, amo stare in campo, giocare le partite, sono un buon com-petitore. Allenarsi è importan-te, ma preferisco molto di più giocare le partite, mi piace l’atmosfera che c’è in tutti i grandi tornei, l’incitamento del pubblico che ti applaude e ti supporta. Che consigli daresti ai ra-gazzi che hanno iniziato da poco a giocare a tennis?Dare il massimo, anche se perdi qualche partita devi stare sempre lì, non mollare, bisogna crederci sempre, al-lenarsi ogni giorno con inten-sità e non contestare mai l’al-lenatore, accettare con umiltà gli insegnamenti e le fatiche giorno dopo giorno, alla fine i frutti vengono. Cosa hai provato quando hai vinto Wimbledon Junior?Ho provato un’emozione grandissima, sono stato molto contento. Non mi ricordo più nulla perché l’emozione è sta-ta molto forte. Mi ricordo solo di quando ho vinto, all’ultimo punto l’avversario ha tirato

Nel 1978, a Cordenons, na-sceva l’Eurotennis Club. Tutto ebbe inizio da un match tra

due mostri sacri del tennis come Borg e McEnroe tra-smesso alla tv. Tra i molti spet-

tatori da casa c’era Edi Aldo Raffin. Quel giorno rimase letteralmente folgorato dai due campioni e si innamorò del tennis. La grande passio-ne per questo sport lo portò a chiedere al padre i terreni vi-cino a casa al fine di costruire dei campi da gioco. Il tempo e la dedizione totale verso il tennis fecero il resto e ora, a trentacinque anni di distan-za, anche se Edi non è più tra noi, il suo spirito e la sua forza vivono con l’Eurospor-ting. E’ questa la società figlia dell’Eurotennis club, che porta avanti quella che è una filo-sofia sportiva, ma soprattutto una mentalità a 360 gradi, aperta a tutti, senza distinzioni precon-cette di etichetta o ruolo. In fondo così era Edi Raffin, un uomo di valore ca-pace di premiare l’impegno e il duro lavoro a prescin-dere dallo stato so-ciale, dal passato o dalle difficoltà della persona. Durante la nostra intervista con la figlia di Edi,

Serena Raffin, e con Claudio Bortoletto, maestro e direttore della scuola tennis, abbiamo notato con piacere una simi-litudine di pensiero nell’ap-procciarsi alle persone tra Edi e “I ragazzi della Panchina”. Gli intervistati, parlandoci del fondatore, ci hanno raccon-tato della sua disponibilità dimostrata più di una volta in passato e senza pregiudizi ad accogliere nella sua strut-tura dei ragazzi consumato-ri di sostanze, guardando e valorizzando il lavoro da loro svolto. Prima dell’intervista abbiamo avuto la possibilità di visitare tutto il complesso dell’Eursporting e siamo ri-

Per il padre dell'Eurosporting lo sport era una filosofia di vitadi Alain Sacilotto e Andrea Lenardon

NON SOLO TENNIS NEL CUORE DI EDI RAFFIN

La ricetta del campione Gianluca Quinzi, reduce dalla vittoria al Torneo di Wimbledon Junior. Ad agosto in gara per Atp Challenger di Andrea Lenardon

« Allenarsi sempre, fare ciò che dice l’allenatore e non mollare mai»

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un dritto sotto la rete. In quel momento ho capito che ave-vo vinto e mi è sembrato un sogno. Sogni di vincere gli U.S Open e il tuo idolo indiscusso è Rafa Nadal. Ma quanto a te, qual è il tipo di gioco che più ti piace e più ti si addi-ce?Mi piace molto giocare sul cemento, gioco meglio sulle superfici veloci e preferisco il gioco tecnico rispetto a quello fisico. Com’è la vita da atleta?Inizialmente è stata molto dura, quando ero piccolo mi

mancava molto la famiglia e piangevo perché sentivo la mancanza dei miei cari. Adesso sto bene, mi sono abi-tuato alla distanza e ai sacrifi-ci, dopo diversi anni di attivi-tà ti puoi godere veramente questo sport. E’ da tanto che non vado ad una festa, per fortuna qualche volta riesco ad uscire con gli amici, ma comunque il coprifuoco è al massimo a mezzanotte, per-ché il giorno dopo ci si deve allenare. In cosa può migliorarsi l’I-talia, per competere ancor meglio con i campioni degli altri stati?

L’Italia e la Federazione Italia-na Tennis mi hanno dato tan-to e mi stanno aiutando mol-to. Sto bene in questo paese e mi sto allenando cercando di fare tutti i giusti passaggi. Penso che ognuno debba tro-vare la sua strada, ascoltare il suo allenatore, fare quello che dice lui. Ogni giocatore ha i suoi tempi. L’Italia è un buon paese per il tennis dal punto di vista delle strutture e della scuola tennistica, infatti ci sono molti buoni giocatori. Chi è diventato un campione non ha fatto niente di parti-colare, non è stato aiutato da nessuno, si è allenato, allena-to e allenato, ha ascoltato il suo team e ha fatto tanti sa-crifici. Grazie Gianluigi, mi piace-rebbe tu potessi dire qual-cosa a un caro amico che sta passando un momento difficile a causa di una ma-lattia.Certo, le malattie non sono mai belle, io stesso ho avuto un tumore benigno da piccolo e sono stato fortunato perché è andato tutto bene. Anche se non è facile bisognerebbe evitare di focalizzarsi sullo sta-re male e pensare che si può stare bene. Come nello sport bisogna avere tenacia, non mollare mai, per il resto un grande in bocca al lupo!

masti colpiti dalla molteplicità degli impianti e dall’attenzio-ne nel rendere accessibile la struttura ad ogni tipo di disa-bilità. Questo non è scontato e conferma ancora una volta la sensibilità verso l’esterno. L’Eurosporting si propone sul territorio di Cordenons con un approccio multidisciplinare, puntando in primis sul tennis, ma mantenendosi comunque aperto verso gli altri sport. Du-rante tutta l’estate vengono organizzati dei campi sportivi, dove i bambini dai sei ai tre-dici anni hanno la possibilità di provare diverse discipline: tennis, calcetto, basket, palla-volo, ping pong, squash. Pos-sono inoltre divertirsi con gio-chi, disegni e piscina. I camp sono un’ottima occasione per sperimentarsi nei vari ambiti e cercare lo sport più adatto. L’associazione di viale del Be-nessere a Cordenons ha capi-to l’importanza fondamentale dell’attività fisica e dello sport, è per questo che riteniamo che l’azione da loro svolta sia molto preziosa per il territo-rio. Durante il nostro incontro, rispondendo alla domanda su quali prospettive future ab-

bia il nostro tennis nazionale, Serena e Claudio ci hanno illustrato una panoramica po-sitiva e in via di sviluppo del tennis giovanile. Infatti i mi-gliori risultati stanno arrivan-do proprio dall’under18, nella quale abbiamo due italiani tra i primi cinque del mondo. Anche per quanto riguarda strutture e impianti l’Italia pri-meggia e questo porta diversi atleti stranieri ad allenarsi da noi, aumentando la visibilità e l’adesione a questa discipli-na. L’Eurosporting ha ricevu-to la certificazione di qualità dell’insegnamento dagli ispet-tori della Federazione Italiana Tennis, è stata riconosciuta quindi come una scuola di alta qualità dell’insegnamen-to. Claudio ci ha spiegato che

la il momento propedeutico per iniziare a giocare a ten-nis va dai quattro ai cinque anni e la pratica avviene in maniera graduale, le attrez-zature, il campo, le situazioni di insegnamento crescono proporzionalmente al fisico e alla tecnica del bambino. Da parte nostra, speriamo che la partecipazione a questo splendido sport possa cre-scere sempre di più e siamo sicuri che le proposte dell’as-sociazione per i più giovani arricchiscono le nostre zone, abituando a un sano modo di stare insieme e ritrovando il piacere dell’attività all’aria aperta. Per concludere vo-gliamo rendere omaggio a Edi attraverso una frase a lui cara: “Fiero di essere folpo!”.

La realtà dell'Eurosporting affonda le sue radici nel 1978 quando Edi Aldo Raf-fin fonda l'Eurotennis Club, situato a Cordenons in via Primo Maggio. Dopo 25 anni di storia l'Eurotennis si amplia e si trasferisce in Viale del Benessere pren-dendo il nome di Eurospor-ting. Attualmente la socie-tà è dotata di impianti e attrezzature all'avanguar-dia e propone una lunga serie di attività sportive che valorizzano il territorio di Cordenons. L'approccio dell'Eurosporting non si ferma solo al tennis, ma si espande ad altre disci-pline puntando sull'im-portanza dello sport e sul benessere della persona. La struttura dispone di 15 campi da tennis, 8 al co-perto, 2 in erba sintetica e 5 in terra rossa tra i quali vi è il campo centrale do-tato di tribune della ca-pacità di 2500 persone. Vi sono inoltre 2 campi per lo squash, 4 campi di calcet-to indoor e 2 outdoor, per il relax e l’esercizio fisico si possono trovare: piscina con giochi d’acqua, area fitness e wellness attrezza-te in maniera completa per una totale cura della persona. Dal 2009 la socie-tà ha aperto i suoi orizzon-ti prendendo in gestione lo storico tennis club di Trevi-so e, nel 2011, aprendo un parco acrobatico forestale ad Auronzo di Cadore.

35 anni di storia

Gregoire BurquierVincitore Toreneo 2013

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IL PERSONAGGIO

Di origini umili, arrivò alla fama nel 1972 strappando ai russi il dominio nella disciplina. Morì in Islanda, all’età di 64 anni di Manuele Celotto

Bobby Fischer, il geniale e schivo re degli scacchi

Siamo nel 1972, l'Islanda e la sua capitale Reykjavik sono al centro dell'interesse; si gio-ca il campionato mondiale di scacchi. Ma facciamo un salto indietro nel tempo per capire meglio quel momen-to. Il mondo era diviso in due blocchi: comunismo e capita-lismo, Usa -Urss. C'era il muro di Berlino e la guerra in Viet-nam, l'Ue era solo un'idea vaga e lontana, avevamo l'inflazione al 12 per cento, le televisioni erano in bianco e nero con un paio di canali. Nel cacio dominava l'Ajax di Crujff. Erano tempi in cui idee e divisioni erano più nette, il lavoro non mancava, il sin-dacato era forte ed unito e “precario” era una parola sconosciuta ai più. In estate si vedevano tante api, lucertole, lucciole e rondini. Si, era tuttu-naltromondo! C'era la Guerra Fredda, le due superpotenze cercavano di superarsi in nuove sfide (conquista dello spazio, record sportivi, meda-gliere olimpico), adesso, nel 1972, a Reykjavik, anche la “sfida del secolo” a scacchi.

A contendersi il titolo il cam-pione ci sono Boris Spasskji e lo sfidante Bobby Fischer, americano di nascita. I russi avevano un dominio incon-trastato negli scacchi (unico “intruso” era Bent Larsen), di-sponevano di fondi illimitati ed in patria avevano una vita agiata, erano famosi e benvoluti come un calciatore da noi. Ben diversa la realtà per B.F. Cresce senza padre, la madre deve fare due la-vori per mantenere lui e la sorella, viene da un quartiere povero e si trova a riempire i suoi momenti di solitudine con gli scacchi; l'interesse per gli scacchi in poco tempo di-venta una passione-ossessio-ne. B.F. non coltiva interessi al di fuori della scacchiera e sembra neanche desiderarli; diventa campione Usa a 15 anni ed è dominatore incon-trastato in patria (otto volte campione nazionale). Nei diciotto mesi che precedono la sfida, vince vari tornei e sconfigge i maestri russi, tra cui l'ex campione del mondo Petrosian arrivando a venti

vittorie di seguito. Diventa fa-moso per il suo gioco brillan-te e fantasioso, ma anche per la sua “capacità” di mollare tutto di colpo e per i motivi più futili. B. F. con il suo carattere e le sue richieste (il premio vit-toria, la misura delle caselle della scacchiera, ecc) mise a dura prova gli organizzatori della sfida, che restò in dub-bio fino all'ultimo. Sembra che per convincerlo ad an-dare a “rappresentare il mon-do libero” gli telefonò l'allora segretario di stato Usa H. Kis-singer. Il campionato inizia; le partite vengono trasmesse in diretta e molti paesi seguono il confronto. La prima partita sembra una patta, ma B.F. per un'ingenuità la perde. Alla seconda partita minaccia di abbandonare tutto perché le telecamere gli impediva-no la giusta concentrazione; alla fine non si presenta ed è partita persa. Ormai sullo 0-2 sembra impossibile che B.F. possa vincere la sfida, in-vece vince la terza partita e non si ferma più diventando campione del mondo; la vit-toria lo rende “famoso quan-to Gesù Cristo” e per lui, soli-tario e amante della privacy, è quasi una dannazione. La vittoria ha anche un risvolto propagandistico in quel cli-ma di Guerra Fredda. Torna in patria accolto da eroe, ma non ama la folla ed il suo ca-rattere schivo e difficile lo por-ta a fare una vita ritirata. Si isola, non rilascia interviste e non gioca più partite ufficiali, quasi temesse di “sporcare” la bellezza del titolo vinto. Dopo tre anni deve difendere il tito-lo contro lo sfidante russo A. Karpov, ma dopo aver fatto ammattire gli organizzatori con un lungo tira molla di richieste non si presenta e perde il titolo. Sembra l'ulti-mo atto di una persona che si vuole eclissare, persa tra dubbi interiori e paranoie

varie. Invece B.F. torna a far parlare di sé nel 1992 quan-do, dietro lauto compenso (era rimasto senza soldi), viene organizzata la rivincita contro B. Spasskji La sfida è solo un lontano ricordo della loro grandezza scacchistica. Si gioca in Jugoslavia, paese sottoposto ad embargo Onu e questo costa a B.F. la revoca del passaporto Usa, il rischio estradizione e confisca dei beni. Dopo di che è un mesto vagare in incognito tra vari stati, finché a Tokio non viene fermato perché in possesso di passaporto scaduto. Gli viene in soccorso la piccola Islanda che gli offre la cittadinanza e lo accoglie con tutti gli onori come se il tempo non fosse mai passato. Ma nel giro di poco tempo muoiono sia la madre che la sorella e lui, solo e malato, si spegne po-chi mesi dopo. Persona ge-niale con gran talento per gli scacchi, ma dal carattere ec-centrico e difficile, scacchista amato e riconosciuto come il più grande di tutti i tempi, a lui ed alla sfida che giocò con Spasskji è dovuta la po-polarità che raggiunsero gli scacchi. Muore a Reyykjavik a 64 anni e, ironia della sorte, visse tanti anni quanti le ca-selle della scacchiera.

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LDP - LIBERTÁ DI PAROLAGiornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi

Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009

Direttore ResponsabileMilena Bidinost

Direttore EditorialePino Roveredo

Capo RedattoreGuerrino Faggiani

RedazioneAndrea Picco, Franca Merlo, Tina, Ferdinando Parigi, Manuele Celotto, Ada Moznich, Andrea Lenardon, Max Moras, Alain Saciolotto, Gian Piero Turchi, Cristiana Ferri, Valeria Gennuso, Jesús Cancelo Martinez, Magali Torres Reyes, Luca Scopetti, Cristina Colautti, Fabio Passador, Stefano Venuto, Sara Rocutto, Sonia,Taty.

EditoreAssociazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone

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Questo giornale é stato reso possibile grazie al contributo del Comune di Pordenone

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La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 14:00 alle 19:00

Hanno collaborato a questo numero

——————————————Guerrino FaggianiSe è vero che della nascita non ci si ricorda nulla, chiedetelo a lui, vi saprà raccontare ogni secondo, è rinato nel 2007! Da cinque anni con la Panka ca-valca la vita, non tanto per sal-tare gli ostacoli, ma proprio per abbatterli

——————————————Milena BidinostIl direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immer-gersi nella bolgia dell’Associa-zione con delicatezza e costan-za, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un arti-colo! Ma confidiamo nella sua amicizia

——————————————Franca MerloPresidentessa onoraria dell’As-sociazione affronta la vita come una eterna sperimentazione. Oggi è a Londra, più avanti.. si vedrà. Non manca mai di commentare il blog, non man-ca mai di sentirsi Panchinara, ovunque sia.

——————————————Pino RoveredoPenna in mano, foglio davanti agli occhi, cuore e cervello per riempire gli spazi, colorarli. To-scano, non di origine ma fede-le compagno tra le labbra, a profumare parole da sentire o leggere.

——————————————Manuele CelottoScrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante que-sto difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricor-do di antichi fasti e disavventu-re inenarrabili

——————————————Ferdinando ParigiVoce tonante, eleganza innata, modi da gentiluomo che si tro-vano raramente, la nostra nuo-va penna si fa sempre notare, tanto che le sue mail sembrano lettere direttamente uscite da un romanzo dell’800

——————————————Ada MoznichDelle quote rosa lei se ne infi-schia, non le servono! Essere presidente donna di un’asso-ciazione di tossici è da solo un miracolo in termini. Si ama e si teme nello stesso istante, tiene tutti e tutto sotto controllo, anche il conto in banca: - Ada ci ser-virebbe una penna.. “scrivi con il sangue che le penne costa-no..!”

——————————————Andrea LenardonTirocinante, educatore, psico-logo, operatore psichiatrico, giocatore di calcetto da tavolo, giocatore di Ping Pong, amico. Si arriva alla Panchina per un motivo, si fanno mille altre cose, si vivono mille mondi, diventi mille vite. Il tirocinio finisce ed un po’ non finisce mai, se ne andrà dalla Panka ed un po’ non se ne andrà mai.

——————————————Gian Piero TurchiHa introdotto nel gruppo lo scarto di paradigma, tanto che per un po’ in sede, dove l'uni-co scarto conosciuto è quello di briscola, ci si salutava chieden-do: come sta il tuo paradigma? Dicono abbia studiato a Palo Alto. Chiedetegli come va, do-vrebbe rispondere Cosmico!

——————————————Stefano VenutoMimica facciale e gestualità ne fanno un perfetto attore! Lui però ha deciso di rinunciare alla fama per concedersi a noi. Magistrale operatore, tanto da confondere le idee e mettere il dubbio che lo sia veramente, penna delicata e poetica del blog, chietegli tutto, ma non appuntamenti dopo le 19.00!

——————————————Fabio PassadorAttualmente panchinaro di lus-so! Come ogni giocatore di cal-cio dal baricentro basso, non gli si può chiedere di aspettare i cross in area per colpire di te-sta, ma offre dinamismo, scatto breve e bruciante, dribbling secco e magnifici assist

——————————————Alain SacilottoAvete presente l'espressione "Bronsa coverta"? Eccola qua la nostra nuova penna! La sua timidezza nasconde un infuo-cata sete di sapere! Dietro ogni ostacolo c'è un domani, dentro ogni persona ci può essere una miniera di gemme preziose. Lui ne è l'esempio: forza, corag-gio, acume e personalità da vendere. Del resto solo così si può essere amanti del verde evidenziatore e innamorati fe-delmente dei colori Giallo-Blu del Parma Calcio. Che dire...Chapeau!

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La fiLosofia insegna ad agire, non a parLareseneca

i ragazzi deLLa panchinacampagna per la sensibilizzazione e integrazione socialeDe i ragazzi Della pancHina con il patrocinio Del comune Di porDenone