LDP 3/2012

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Libertá di Parola 3/2012 —— IL TEMA L'EVENTO INVIATI NEL MONDO ANIMALI APPROFONDIMENTO Padri distanti a pagina 18 Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire) L' EDITORIALE Il diritto di essere genitore di Pino Roveredo continua a pagina 11 a pagina 14 a pagina 13 a pagina 4 NON SOLO SPORT Nel tragitto della vita, per dare senso e movimento all’esistenza, s’imboccano strade, si tracciano percorsi, costruiscono storie. Percorsi fe- lici, infelici, sofferti, entusiasti, e dentro nascono storie im- portanti, racconti dispiaciuti, ricordi innamorati, e a volte epiloghi che muoiono den- tro lo sbadiglio, dove non c’è più niente da dire, dare, fare. E’ capitato anche a me e alla mia sposa che, dopo un matrimonio lungo trent’anni, dove abbiamo vissuto e con- vissuto sopra l’altalena della fatica e dell’orgoglio, ci siamo ritrovati davanti all’apatia di quel muro che rompe gli ab- bracci e ammazza la parola, così, per non distruggerci col peso faticoso o magari ran- coroso di una consuetudine, abbiamo messo un “punto” sul nostro racconto e chiuso la storia. Oggi, dietro a quel- la storia rimane la bellezza di tre figli, creature che per for- tuna hanno vissuto il distacco con una ragione maggioren- ne. Loro, senza una sentenza che stabilisca la condanna di un orario e una visita, pos- sono frequentare la libertà di vedere, incontrare e vive- re, entrambi i genitori. Ecco, nonostante la scossa imposta alla vita, alla fine ritengo di essere un genitore fortunato, un genitore che può goder- si il diritto degli affetti senza dover sottostare all’ottusità di un’imposizione. Purtroppo questa serenità non vale per molti altri genitori, soprattutto padri che, nella separazio- ne coniugale, spesso sono costretti a pagare un conto assurdo, e per niente umano. Quanti ne ho visti, quanti ne ho incontrati di quei padri, e quante disperazioni ho do- vuto raccogliere con la parte angosciata del sapere. Ho visto padri che, in nome di una Giustizia ingiusta, hanno perso l’abitudine del domici- lio e si sono dovuti adattare ai pernottamenti umilianti di dormitori pubblici, macchine rottamate, vagoni del treno. Ho visto padri stracciarsi il cuore e contare il tempo, per- ché la loro vita gira solo in quelle due ore a settimana, che un giudice senza occhi gli ha concesso per sfogare Alex Ci sono padri distanti per- ché indifferenti e ci sono padri distanti perché co- stretti a rinunciare ad es- sere dei buoni padri. Per colpa delle mogli e di un sistema giudiziario che, in Italia, ancora oggi fatica a riconoscere i diritti della paternità. E’ l’altra faccia delle separazioni, dove a farla da padroni sono le donne - madri e dove la giustizia sottrare agli uomini denaro, energia e l’affetto dei propri figli. Viaggio in una paternità sofferta. Teatro e carcere, continua il laboratorio dei Ragazzi Austria, il paradiso a due passi da casa Gatti randagi che inteneriscono il cuore A scuola di Judo al centro estivo LdP in distribuzione a Pordenonelegge a pagina 2 PANKALIBRI a pagina 17 Tina Merlin, biografia di una donna contro

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Libertà di parola il trimestrale di informazione de I Ragazzi della Panchina di Pordenone

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Libertá di ParolaN°3/2012 ——

IL TEMA

L'EvENTo

INvIATI NEL MoNdo

ANIMALI

APPRoFoNdIMENTo

Padri distanti

a pagina 18

disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (voltaire)

L' EdIToRIALE

Il diritto di essere genitoredi Pino Roveredo

continua a pagina 11

a pagina 14

a pagina 13

a pagina 4

NoN SoLo SPoRT

Nel tragitto della vita, per dare senso e movimento all’esistenza, s’imboccano

strade, si tracciano percorsi, costruiscono storie. Percorsi fe-lici, infelici, sofferti, entusiasti, e dentro nascono storie im-portanti, racconti dispiaciuti, ricordi innamorati, e a volte epiloghi che muoiono den-tro lo sbadiglio, dove non c’è più niente da dire, dare, fare. E’ capitato anche a me e alla mia sposa che, dopo un matrimonio lungo trent’anni,

dove abbiamo vissuto e con-vissuto sopra l’altalena della fatica e dell’orgoglio, ci siamo ritrovati davanti all’apatia di quel muro che rompe gli ab-bracci e ammazza la parola, così, per non distruggerci col peso faticoso o magari ran-coroso di una consuetudine, abbiamo messo un “punto” sul nostro racconto e chiuso la storia. Oggi, dietro a quel-la storia rimane la bellezza di tre figli, creature che per for-tuna hanno vissuto il distacco con una ragione maggioren-ne. Loro, senza una sentenza che stabilisca la condanna di un orario e una visita, pos-sono frequentare la libertà di vedere, incontrare e vive-re, entrambi i genitori. Ecco, nonostante la scossa imposta alla vita, alla fine ritengo di essere un genitore fortunato, un genitore che può goder-si il diritto degli affetti senza dover sottostare all’ottusità di un’imposizione. Purtroppo questa serenità non vale per molti altri genitori, soprattutto padri che, nella separazio-ne coniugale, spesso sono costretti a pagare un conto assurdo, e per niente umano. Quanti ne ho visti, quanti ne ho incontrati di quei padri, e quante disperazioni ho do-vuto raccogliere con la parte angosciata del sapere.Ho visto padri che, in nome di una Giustizia ingiusta, hanno perso l’abitudine del domici-lio e si sono dovuti adattare ai pernottamenti umilianti di dormitori pubblici, macchine rottamate, vagoni del treno. Ho visto padri stracciarsi il cuore e contare il tempo, per-ché la loro vita gira solo in quelle due ore a settimana, che un giudice senza occhi gli ha concesso per sfogare

Alex

Ci sono padri distanti per-ché indifferenti e ci sono padri distanti perché co-stretti a rinunciare ad es-sere dei buoni padri. Per colpa delle mogli e di un sistema giudiziario che, in Italia, ancora oggi fatica a riconoscere i diritti della paternità. E’ l’altra faccia delle separazioni, dove a farla da padroni sono le donne - madri e dove la giustizia sottrare agli uomini denaro, energia e l’affetto dei propri figli. Viaggio in una paternità sofferta.

Teatro e carcere, continua il laboratorio dei Ragazzi

Austria, il paradiso a due passi da casa

Gatti randagi che inteneriscono il cuore

A scuola di Judo al centro estivo

LdP in distribuzione a Pordenonelegge a pagina 2

PANkALIbRI

a pagina 17

Tina Merlin, biografia diuna donna contro

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Perché, qualcuno si chiederà, c’è un giornale come “Libertà di Parola” distribuito in giro per le vie del centro città, a ridosso dei principali luoghi in cui si svolge, da mercoledì 19 a domenica 23 settem-bre, una manifestazione di grande prestigio ed eco com’è da tredici anni Porde-nonelegge.it, festival del libro organizzato dalla Camera di Commercio in partnership con numerosi altri attori? Per affezione e stima al tempo stesso. E soprattutto perché Pordenonelegge ha tenuto a battesimo, oramai quattro anni fa esatti, proprio Ldp, il giornale dell’associazione I Ragazzi della Panchina e a quanto pare gli ha portato fortuna. La prima volta de I Ragazzi della Panchina al festival è stata proprio quel-la. Era giovedì 17 settembre 2009, ore 18.30 presso la vec-chia tipografia Savio, in via Torricella, in pieno centro cit-tadino e sul palco assieme alla neonata redazione c’era Pino Roveredo, scrittore caro alla manifestazione e direttore editoriale del giornale. Il terzo numero del trimestrale, tra i pochi free press della città, in-teramente ideato, prodotto e pubblicato dall’associazione che dal 2000 si affianca al Servizio per le tossicodipen-

denze della locale Azienda sanitaria nel recupero dei tossicodipendenti e non solo, era stato pensato proprio ad hoc con un approfondimen-to a quattro pagine in giallo come i colori del festival e con all’interno tante recen-sioni e interviste agli autori presenti in quell’edizione, rig-orosamente firmate dai raga-zzi. Penne non d’autore, ma sincere sempre, che all’epoca hanno trovato una ragione in più per buttarsi a capofitto nella lettura e tradurre sen-sazioni e pensieri in parole scritte. Perché Pordenoneleg-ge porta a fare anche questo. Nel 2009 fu importante es-serci dietro a questa vetrina di livello internazionale per portare a conoscenza del

grande pubblico la storia, ma soprattutto l’impegno di ques-ta associazione di Pordenone, presieduta da Ada Moznich, che fin dal suo nascere ha sempre trovato ostacoli sulla sua strada e per questo ha raggiunto successi dal valore doppio. Fu importante speri-mentare l’integrazione tra disagio e città condotta sul filo della cultura, com’è nello stile del gruppo. Eravamo a settembre e I Ragazzi della Panchina avevano già scritto nella loro agenda 2009 due date di quelle che hanno poi finito per segnare la storia del sodalizio. La prima era quella di novembre con la rappresentazione dell’opera teatrale di Pino Roveredo “La Panka” a Napoli, prima trasferta fuori regione e da at-tori di un gruppo di ragazzi ed operatori dell’associazione in tournée con la Compagnia instabile di Roveredo e con la commedia che ne ricostruisce fedelmente la storia, dalla panchina di via Montereale a Pordenone dove tutto iniziò. L’altra data era il 31 dicem-bre, termine ultimo prima dello sfratto dalla storica sede di viale Grigoletti. Davanti c’era l’incognita del dove an-dare. Passò un anno e la per-manenza nella casa fu proro-gata. Passò poi un altro anno ancora. Nel 2011 di nuovo la possibilità, grazie all’ospitalità concessa a I Ragazzi della Panchina dai curatori della manifestazione, Gian Mario Villalta, Valentina Gasparet e Alberto Garlini, di parlare alla gente di Pordenoneleg-ge. L’anno scorso il palco fu quello ancora più presti-gioso del ridotto del teatro Verdi. L’argomento invece fu la nuova commedia scritta e diretta sempre dall’amico Pino Roveredo dal titolo “La legge è uguale per tutti”, un affondo obbiettivo e non po-lemico nei meandri della gi-ustizia italiana vista da ambo i lati, dalla parte del giudice e del detenuto. Quella st-essa commedia ad ottobre

PoRdENoNELEGGE.IT

A SETTEMbRE PoRdENoNELEGGE LIbERTÀ dI PARoLA

In occasione del festival del libro, il giornale è in distribuzione gra-tuita nei distributori del centro di Milena bidinost

di quest’anno sarà il motivo per cui l’associazione porde-nonese riprenderà il volo per Napoli. Questa volta la nuova compagnia diretta da Guer-rino Faggiani la rappresen-terà addirittura all’interno del carcere di Poggioreale e nel quartiere di Scampia, centro europeo dello spaccio e del-la malavita. Una sfida che è conquista per un’associazione che dà voce al disagio socia-le. Un anno fa, tuttavia, sem-brò che la storia si ripetesse come due anni prima, questa volta però sulla sede non ci fu proroga e il 14 dicembre lo sfatto divenne esecutivo. Oggi I Ragazzi della Panchina sono più instabili che mai, accam-pati provvisoriamente in una stanza della Cooperativa Ita-ca di Pordenone in attesa di una sede provvisoria dal Co-mune che tarda ad arrivare e con l’unica certezza d’avanti: primavera 2014 fine dei lavori della nuova sede definitiva a fianco del Ser.T. Oggi, mentre la città si riempie di case edit-rici, incontri con l’autore, dibat-titi, e quanto più ogni anno il programma del festival made Pordenone sa offrire, I Ragazzi della Panchina non ci sono nel fitto programma di eventi targati Pordenonelegge. Ma ci sono nonostante tutto. E c’è soprattutto “Libertà di Parola”.

Redazione LDPIl giornale esce a marzo, giugno, settembre e di-cembre. Tutti possono par-tecipare agli incontri che si tengono ogni settimana a Pordenone o scrivere alla redazione per mandare il proprio contributo. In Ldp si scrive di tutto, purchè con toni educati. E' un giornale che dà la parola a vecchi e giovani, ricchi e poveri, di ogni sesso ed etnia. Per info www.iragazzidella-panchina.it, [email protected]. Nel blog tutti i numeri del giornale.

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SUL RING dovE LA FANTASIA E L’IMPRovvISAZIoNE SI FANNo GIoCo dELLA SCRITTURA Che fine faranno i quattro del Fight Writing, tra i 200 eventi del festival del libro?di Milena bidinost

Prendente quattro giovani scrittori per età e per fama provenienti da tutta Italia, metteteli in un ring e fate partire il tempo, lasciandolo che scorra. Aggiungeteci l’in-grediente iniziale uguale per tutti e quattro; mescolate l’im-pasto con abbondante dose di ironia affidandovi in que-sto a due chef d’eccezione come i comici pordenonesi Andrea Appi e Ramiro Besa, in arte I Papu. E durante tutta la prossima ora occhio agli ingredienti segreti che utiliz-zeranno questi scrittori per costruire in diretta un raccon-to: la fantasia e l’improvvi-sazione. E’ questa la formula collaudata di uno dei tanti eventi del calendario di Por-denonelegge, quello che più di altri si basa su un connubio accattivante fatto di parole, giochi, divertimento. Come in ogni “combattimento” che si rispetti alla fine c’è un vin-citore, l’autore del brano che più accontenterà il gusto del pubblico. Come ogni com-petizione dopo la vittoria ar-riva la fama. Poco conosciuti al grande pubblico quando arrivano a Pordenone per fi-nire, del tutto ignari di cosa succederà sul palco, sotto le “grinfie” de I Papu, chi sono questi scrittori e chi soprattutto diventano dopo Pordenone-legge? Esordienti al seguito di case editrici minori, trenta-quarantenni che nella vita fanno altro (giornalismo, pic-

cola editoria e non solo) ma che nel romanzo si sperimen-tano spesso con interessanti risultati: tanti saliti nel Nord est per partecipare al festival dal centro e dal sud di Italia per sfida, divertimento e auto-promozione. Non scrittori per caso, dato che più o meno tutti hanno continuato a scri-vere, ma che in alcuni casi più di altri hanno avuto fortu-na o determinazione, condita da bravura. La lista sarebbe lunga, consideriamo perciò le ultime edizioni di Pordenone-legge. Una certa notorietà ad esempio ce l’ha Giorgio Fon-tana, classe 1981, sbarcato da noi nel 2007 con in mano un contratto con la Mondado-ri per il suo primo romanzo “Buoni propositi per l’anno nuovo”. Sono usciti poi “Nova-lis” per la Marsiglio e “Babe-le 56” per Terre di Mezzo nel 2008 e “La velocità del buio” per zona nel 2011. Fontana in questi anni è stato autore pro-lifero, fino all’ultima fatica let-teraria “Per legge superiore” (Sellerio 2011), romanzo sulla storia della crisi etica di un anziano magistrato giunto in un anno a tre edizioni, diritti acquistati in Germania, Fran-cia e Olanda, Premio lo Stra-niero 2012, Premio Racalma-re - Leonardo Sciascia 2012 e finalista al Premio Roma 2012. Massimiliano Virgilio, anche lui al Figth Writing nel 2007,

subito dopo divenne uno dei più promettenti scrittori napo-letani: “Più male che altro” (Rizzoli) è il romanzo con cui ha esordito nel 2008, mentre “Porno ogni giorno. Viaggio nei corpi di Napoli” (Later-za) uscì l’anno successivo. In quell’anno il festival del libro annoverava tra i suoi anche Cristiano De Majo, anche lui napoletano, esordiente con il racconto lungo “Sistema elefante” (Punctum 2007). Nel 2008 ha pubblicato con Francesco Longo “Vita di Isa-ia Carter, avatar” (Laterza) e insieme a Fabio Viola( che sarà a Pordenone nel 2010) “Italia 2. Viaggio nel paese

che abbiamo inventato” (mi-nimum fax). Nel 2010 è uscito il suo primo romanzo: “Vita e morte di un giovane imposto-re scritta da me, il suo miglior amico” (Ponte alle Grazie). Con lui c’era anche Flavia Piccinni, classe 1986, con alle spalle la vittoria al prestigioso Premio Campiello nel 2005 e un romanzo uscito nel 2007 “Adesso Tienimi”. Nel 2011 la scrittrice è tornata in libreria con Rizzoli e con un romanzo, “Lo Sbaglio”, dove gli scacchi sono un modo per leggere e capire il nostro destino. E’ fre-sco di stampa invece “Sophia si veste sempre di nero” (mi-nimum fax 2012) l’ultimo ro-manzo di Paolo Cognetti, au-tore di “Manuale per ragazze di successo” e “Una cosa pic-cola che sta per esplodere”, da noi sempre nel 2008. Nel 2009, nella quaterna c’era Matteo De Simone, piemon-tese, conosciuto ai seguaci del rock indipendente italia-no come autore, cantante e bassista del trio rock “Nadàr Solo” e al tempo stesso scrit-tore, con nel 2007 il romanzo “Tasca di pietra (Zandegù)” e da ultimo, nel 2001 per Hac-ca, “Denti guasti”. E’ entrata quest’anno nella lista degli autori Mondadori invece la padovana Laura Sandi che in “Biscotti al malto Fiore per un mondo migliore” rievoca i sapori dell’infanzia. E così via. Del resto il punto su ogni au-tore, piccolo o grande che sia, che ha calcato le strade ed i palchi di Pordenonelegge in questi tredici anni ha un ini-zio, ma faticherebbe ad ave-re una fine. Intanto l’appun-tamento con I Papu e il loro Fight Writing quest’anno è per domenica 23 settembre, alle 17 in piazza Cavour. Oc-chio questa volta a Silvia dai Pra’, Sacha Naspini, Alessio Torino e Francesco Targhetta.

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LAboRAToRIo TEATRo

Sono un detenuto del carce-re di Pordenone e mi chia-mo Mihai. Magari a molti di voi non importerà chi io sia, l’importante è che io ritorni il più tardi possibile in libertà. La libertà da cui chi la pen-sa così si sente libero di giu-dicare, come da uno “pulito”, senza conoscere la storia ed

il passato della persona che sta dietro alle sbarre per un errore commesso. Uno sbaglio però appartiene a chiunque: è come scivolare su una buc-cia di banana. Certo è anche che ci sono persone che en-trano ed escono dalla galera, ma, lo dico subito, non è il mio caso. Io mi chiamo Mihai

Stuleanec, sono di naziona-lità rumena e dal 2000 vivo in Italia. Prima ho studiato poi ho sempre lavorato. Adesso ho 27 anni, da quattro sono recluso e può anche sembra-re ridicolo dire che io abbia capito tante cose, ma è così, forse anche troppe per la mia giovane età. Le ho comprese

«Io, il detenuto che nel teatro si è rimesso in gioco»L’esperienza di Mihai Stuleanec all’interno della compagnia teatraledi Mihai Stuleanec

non solamente riguardo all’er-rore cruciale ed irreparabile che ho commesso, ma anche a proposito del genere uma-no: di noi umani che a volte non siamo degni di essere considerati tali. Potrei dilun-garmi a lungo su questo mio pensiero, ma preferisco rac-contarvi della mia esperienza

La lettera di una detenuta, pubblicata sul n.3/11 di “Li-bertà di Parola”, mi ha offerto l’occasione per riflettere sulla reciproca percezione delle relazioni che intercorrono tra la società libera e la umanità detenuta. La donna racconta-va i momenti seguenti al suo risveglio mattutino in cella, quando attenta a non distur-bare il sonno delle compa-gne si affacciava alla finestra per far scendere lo sguardo in strada sulle persone passan-ti da cui percepiva di essere ignorata (“penso che per loro noi non esistiamo”), lei rin-chiusa fra le mura del carcere e nascosta agli sguardi della società libera. Immagino quel-

la donna mentre sorseggia il suo caffè, la vedo così vera af-facciare il viso tra le sbarre, e riconosco in lei la condizione di smarrimento, di solitudine tante volte nominatami dai detenuti, che si sentono non pensati e quindi abbandonati da chi sta fuori. Quelle poche righe mi hanno ricordato la mia condizione privilegiata, che mi consente di entrare ed uscire liberamente dagli istituti, di accedere a tutti i lo-cali fino ad arrivare al cuore pulsante, le celle con i loro abitanti, e quindi di pensare i detenuti nella loro concreta condizione quotidiana di per-sone costrette dentro una cel-la, negli spazi comuni, nelle

giornate cadenzate dai ritmi temporali dettati dall’istituzio-ne. Ma tempo fa, prima che la professione mi desse modo di conoscere il carcere come uno dei tanti luoghi sociali in cui gravita parte della no-stra umanità, ed espressione della nostra società, non era questo il mio senso del carce-re; era in tutto simile a quello che l’immaginario collettivo ci rappresenta e cioè un luogo sconosciuto, non accessibile ai più, pauroso.Pochi mesi fa ho partecipato ad una visita col-lettiva guidata ai carceri ve-neziani, maschile e femminile; si è trattata di una felice inizia-tiva aperta a tutti i giudici in-teressati indipendentemente dalle funzioni esercitate ed a cui si sono uniti anche giova-ni laureati in giurisprudenza e finalizzata a consentire una diretta conoscenza, altrimenti preclusa, del carcere e del-le condizioni di vita interne, rese particolarmente penose dall’attuale condizione di so-vraffollamento. Ebbene, at-traverso gli sguardi sgomenti, intimiditi ed a volte timorosi dei visitatori, attraverso i loro commenti, le domande, i si-lenzi ho rivissuto le emozioni forti del mio primo ingresso in istituto da magistrato di sorve-glianza, 16 anni fa. Il timore di un luogo sconosciuto, uni-tamente alle condizioni più o meno degradate degli interni, i rumori, gli odori, i colori di pavimenti e pareti, tutto ave-va concorso nel rappresentar-mi la crudezza, l’asperità del luogo, ma la vera sorpresa venne dall’incontro attraverso le sbarre con gli sguardi dei detenuti, chiusi nelle loro celle;

si trattava di uomini e donne, in tutto simili ai liberi, ma na-scosti agli occhi della socie-tà, un’isola irraggiungibile e impensabile per la maggior parte dei liberi. Pur suggeren-do l’idea di esclusione dalla nostra società, di assoluta se-paratezza, il carcere appartie-ne intimamente ad essa, né è espressione. E’ essenziale quindi che come cittadini ci appropriamo di una realistica concezione di questa istituzio-ne, conoscendola sia nella sua realtà fattuale, che nelle attività che vi si svolgono e nelle finalità rieducative che vi si perseguono. Lo sforzo pro-dotto in questi anni dai tanti operatori che hanno lavorato per abbattere le mura ideali della Casa Circondariale di Pordenone ha prodotto ottimi risultati nel processo di inte-grazione del carcere con la città di Pordenone. Prova ne è l’affluenza alla serata di rap-presentazione dello spettacolo “La legge è uguale per tutti” e la partecipazione calorosa e divertita riservata. Lo spet-tacolo teatrale era già stato realizzato all’interno dell’istitu-to e la sua esportazione sulla scena della Chiesa di San Francesco con la partecipa-zione di un detenuto ha avu-to la duplice valenza, da un lato di consentire ai cittadini liberi di avvicinarsi alla real-tà umana carceraria e quin-di sentirla come parte della propria compagnie sociale, dall’altro di favorire nelle per-sone ristrette la percezione di essere pensate. Una serata quindi che ha avuto il pregio di divertire, colmando una di-stanza.

«Carcere e città sono espressione della stessa umanità»Cunial, magistrato di sorveglianza di Udine, allo spettacolo de I Ragazzi della dott.ssa Mariangela Cunial

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C. «Mi chiamo Caterina e sono stata invitata a far parte della compagnia da un caro amico che frequenta il Sert».F. «Io invece sono Floriana e lavoro presso il Servizio per le tossico dipendenze da circa due anni». C. e F. «Quando ci è stato pro-posto di partecipare alla ma-nifestazione teatrale dell’as-sociazione “I Ragazzi della Panchina”, ci abbiamo pensa-to molto. Avevamo molte per-plessità al riguardo. Alla fine però, un po’ per curiosità, un po’ per metterci in gioco, ab-biamo accettato. Fin da subito abbiamo capito di aver fatto una scelta giusta, perché da quel momento avremmo in-trapreso un cammino nuovo e diverso dalla nostra solita quo-tidianità: un’esperienza tutta da scoprire, un percorso a gra-dini da intraprendere tutti in-sieme, uniti come una piccola famiglia. Abbiamo trovato un gruppo di lavoro meraviglioso, privo totalmente di maschere e questo nonostante i vissuti di ognuno. Questo legame par-ticolare ci ha permesso quin-di di collaborare come amici nella realizzazione dello spet-tacolo teatrale, anteponendo comunque sempre le persone,

dandoci modo di scambiare l’aiuto al bisogno e scoprendo che ognuno poteva imparare qualcosa dall’altro».C. « Nella commedia ho in-dossato i panni della madre di una minore violentata, una donna distrutta dal dolore ma anche incattivita dalle costanti malevoli “voci” dell’opinione pubblica. Un ruolo per me dif-ficile da interpretare: una sfida, data la tragicità della storia. Quest’esperienza mi ha dato molto, il contatto con il pub-blico mi ha resa più fiduciosa di me stessa, dandomi anche

l’opportunità di conoscere ed apprezzare un mondo a me estraneo com’è il teatro, attra-verso il quale ho potuto “visita-re” esperienze di vita che nel reale posso solo immaginare esistano. Attraverso la recita-zione abbiamo sviscerato temi e problemi che la gente co-mune, può conoscere difficil-mente in prima persona. Ciò ha fatto sì che io ora guardi gli avvenimenti negativi del mio prossimo con occhi diversi, chiedendomi cos’è accaduto prima di ciò che oggi appa-re. Perché dietro la storia di ognuno di noi c’è sempre un passato, e solamente se lo co-nosci, puoi davvero sperare di comprendere chi hai di fronte. Mi auguro che questa crescita interiore avvenga per tutti. So che è utopia, ma sarebbe l’u-nico modo per non sentire “di-verso” chi fondamentalmente è solo uno di noi».F. « Io invece nella commedia ero il giudice, mai altro ruolo poteva essermi meno conge-

niale! Sentirmi il potere tra le mani, dover decidere la sorte di persone che mi vengono presentate nelle loro vesti peg-giori o peggio ancora, veder mistificare le loro malefat-te! Ho sentito sulla mia pelle, per quanto fosse solo teatro, il peso, i dilemmi, la difficoltà di dover applicare una legge che non sempre è aderente alla personale opinione che ognuno di noi ha. Cos’è un giudice? Colui o colei che di-spensa giustizia? Giustizia è fatta! Certo applicando le re-gole del codice, ma è dav-vero sempre giustizia? Questi dubbi mi sono rimasti dentro, e mi convincono sempre più che mai avrei potuto esercita-re questo potere. Sono consa-pevole che ogni buon giudice ha dalla sua una profonda conoscenza della legge ed un’etica personale a sostener-la, ma dormirà sempre sonni tranquilli? Giudice e giudicato, non vorrei trovarmi nelle vesti di nessuno dei due, ed è per questo che averlo vissuto nel teatro, spero mi abbia resa più cosciente». C. e F. «Dopo appena un mese dal nostro debutto ci sono state comunicate le date dei nostri prossimi spettacoli, que-sto ci rende entrambe felici perché la nostalgia dei nostri incontri del giovedì sera si fa sentire prepotente, ci manca-no quegli amici, compagni di viaggio per i quali proviamo un forte legame, che ha fatto di noi tutti, persone migliori! E per ciò, un grazie di cuore va a Guerrino, Chiara, Valentina e Giulia che ci hanno suppor-tato con la loro bravura e pa-zienza».

La nostra prima volta da attrici, tra realtà e recitazioneIl dietro le quinte dello spettacolo raccontato da due protagoniste di Caterina Traetta e Floriana Nardozi

di detenuto e di attore insie-me, uno degli attori improvvi-sati di “La legge è uguale per tutti”, opera e progetto che, grazie a I Ragazzi della Pan-china, sono stati realizzati sia all’interno che fuori dal carce-re in cui vivo. Farlo all’ester-no delle mura è stato meglio perché in questo modo ho avuto la possibilità di uscire per prendere parte alle pro-ve, respirando aria diversa di quella carica di tristezza e dolore che regna dietro alle sbarre. Non dico il dolore fisi-co, ma quello dell’anima, del cuore. La tristezza nell’animo è qualcosa che accomuna tutti, che si trova anche fuori, dove c’è la libertà. Penso a quella gente che ha una fa-miglia con bambini e in cui i genitori lavorano da sempre e che ad un tratto si ritrovano senza lavoro, senza la possibi-

lità di pagare il mutuo della casa o il finanziamento della macchina, di pagare i vesti-ti dei figli, la scuola e così le cose peggiorano. Ecco quelle persone hanno il cuore come una buona parte dei detenuti, hanno l’anima che piange e non sanno come fare per ti-rare avanti, e alcuni purtrop-po prendono la strada della delinquenza. Rubare, truffare: alcuni non fanno niente, al-tri prendono una pistola e la fanno finita. E perché? Perché tutto o in parte dipende dagli altri, dai “grandi”, dalle perso-ne che credono di essere mi-gliori di un detenuto o di un operaio. Ma io mi rivolgo alle persone, a tutte quelle perso-ne per bene e con potere di fare e disfare le regole e le leggi: voi volete davvero un mondo migliore per i figli di oggi e per quelli di domani?

Perché se così, signori, allora bisogna pensare alle famiglie di tutti, di tutti quelli che hanno figli e non sono dei privilegia-ti, di tutti coloro che sudano e che meritano di avere un posto nella società e nel mon-do del lavoro. Spero di non esservi sembrato presuntuoso, sto semplicemente esprimen-do il mio pensiero. A me da un po’ di tempo mi è stata data la possibilità di sfidare me stesso con il teatro, met-tendomi in “gioco” di fronte a tante persone. Per uno come me molto timido e con poco piacere, anzi senza il piacere, di socializzare, è stata una sfi-da che ho affrontato con tutta la voglia ed il coraggio di cui c'era bisogno. Devo dire che ho fatto bene ad affrontare questa gioiosa e piacevole esperienza. Ho conosciuto del-le belle persone, di quelle che

ti danno quella gioia di vita senza chiederti “cosa” e “per-ché”, insomma senza giudica-re ma che ti aiutano a capire tanto, o forse niente dipende tutto da te. È la seconda volta che “recito” e partecipo al tea-tro con I Ragazzi della Panchi-na. La prima nel 2011 per la rappresentazione della com-media all’interno del carcere con altri detenuti; la seconda quest’anno quando in quali-tà di rappresentante di “quel mondo” fuori dalle mura c’ero solo io nella compagnia del laboratorio teatrale de I Ra-gazzi della Panchina. Vi assi-curo che non mi hanno fatto pesare questo fatto, eravamo una squadra in cui ognuno aveva il suo ruolo sul palco. Si scherzava e si rideva insieme senza emarginazioni indivi-duali Eravamo semplicemen-te un gruppo di amici.

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Estate, caldo, sole, tempo di ferie. Si, le ferie pagate, che dal 1954 (allora erano due settimane) sono diventate un diritto dei lavoratori. Adesso invece le ferie sono un ro-vescio; più della metà degli italiani non andrà in ferie e per alcuni saranno giorni di dubbi ed incertezze perché l’azienda forse non riaprirà. L’Italia ha la disoccupazione all’11% complessivo (a cui vanno aggiunti esodati e “ras-segnati”) ed è vicina al 35% per quella giovanile. L’euro e l’Europa in generale sono in sofferenza; in alcuni stati la di-soccupazione è al 20% e più (media eurozona 10%), Spa-gna e Grecia si trovano con la disoccupazione giovanile oltre il 50%. Rigore e auste-rità sono il piatto quotidiano per molti stati. In Portogallo, in

base ai nuovi accordi “dettati dalla crisi” ci saranno: meno ferie, meno festività, più ore lavorate e nessun aumento di salario, drastica riduzione del welfare e tagli ai sussidi di di-soccupazione. Non va meglio alla Spagna, che nel giro di pochi anni è passata da un’e-conomia in crescita alla situa-zione attuale; perdita di posti di lavoro, perdita del potere di acquisto, tagli a Welfare e spesa pubblica; manifestazio-ni e proteste si susseguono e indicano un forte malconten-to. L’Irlanda, che pochi anni fa era chiamata “tigre celtica”, da un’economia in crescita sta scivolando in recessione e così i consumi. La Grecia sta peggio di tutti perché ha i nostri stessi problemi (debito pubblico elevato, corruzione ed evasione fiscale) ma al

cubo. La B.C.E. è intervenuta ed il fondo sal-va stati è stato parz ia lmen-te usato (219 mld) per copri-re i buchi (ac-quisto di titoli) di alcuni stati ma non ha migliorato di molto la situa-zione. Gli stati virtuosi non sono contenti di accollarsi parte dei de-biti degli “sfi-gati” (P.I.I.G.S.) ma sanno che salvare e rafforzare l’euro è necessario per avere stabilità ed a fronte di nuovi interventi B.C.E., chiedono controlli sul bilancio (tipo amministra-zione controllata). La stretta creditizia si fa sentire sempre più e ovunque; le piccole e medie imprese, che hanno fatto la ricchezza di nord-est e Brianza, sono in difficoltà o chiudono. Molte aziende in generale sono in bilico e non sanno se riapriranno dopo le ferie perché senza finanzia-menti non possono garantire il proseguo dell’attività. Com-pleta il quadro il paradosso dell’ILVA, che da anni inqui-na il territorio ma non può

fermarsi perché troppi posti di lavoro vanno persi e la side-rurgia italiana finirebbe k.o. La crisi, tanti stati e una ricetta sola: sacrifici, rigore, austerità, aumento dell’età pensionabi-le (che rallenta il già difficile inserimento dei giovani nel mercato del lavoro), un au-mento delle ore lavorate in generale ed un netto taglio ai diritti dei lavoratori. Sem-bra di essere tornati a trenta o quaranta anni fa?? Proprio come il detto: “Chissà come mai, sempre in culo agli ope-rai” Con questo vi lascio e vi auguro (per chi può e per chi non può) buone ferie e… ab-basso lo spread!

vacanze estive al tempo della recessione globaleDa 1954 sono un diritto dei lavoratori, ma quest’anno pochi hanno avuto le ferie pagatedi Manuele Celotto

CELox

La cura che non curaLe aspettative deluse di un utente del Ser.T, nell’era delle nuove dipendenzedi Gino dain

In vita mia ne ho viste ab-bastanza e credo di avere sufficiente esperienza per riconoscere le strutture che servono al cittadino/uten-te, distinguendole da altre che anziché aiutarlo, a vol-

te rischiano a mio parere di creargli ancora più difficoltà. Un esempio? Il Servizio per le tossicodipendenze delle Aziende sanitarie, utilizzando l’acronimo, i Ser.T. Li conosco bene, per esserne tutt’ora un

utente, e quella che racconto è di sicuro la mia esperienza, il mio punto di vista. Quando furono istituiti questi presidi per le persone che avevano problemi di dipendenza da varie sostanze, pareva che si fossero aperte le porte su un futuro più certo e migliore di cura e prevenzione del feno-meno. Ero presente a quel tempo e a guardare indietro oggi capisco, con rammarico, che le aspettative sono sta-te deluse, o per lo meno le mie. Nel tempo infatti molte di quelle energie e potenzia-lità con cui era nato questo importante servizio sanitario pubblico si sono disperse, for-se per logiche gestionali, forse per politica. C’è l’ho non con l’istituto del Ser.T, ma con al-cune persone che lavorano in alcuni Ser.T, o che vi vengono messe dall’alto. Sono convin-to che le persone giuste va-dano messe nei posti giusti, in base alle loro competenze e capacità. Bisogna farlo so-prattutto quando si lavora su salute e vita della gente, an-che se si tratta di un “tossico”. Secondo me, invece, alle vol-te all’interno del Ser.T, che si tratti di dipendenza da droga

piuttosto che da alcool, l’uten-te non viene preso nel modo più giusto e questo rischia di creare ancora più danni. E’ così che un buon servizio sa-nitario, rischia di diventare un servizio che crea difficoltà. Credo che nel tempo abbia prevalso la politica della ri-duzione o del contenimento del danno, piuttosto che del recupero del paziente/utente. Oggi poi le cose sono molto diverse da quelle che si vi-veva la mia generazione. Oggi il ventaglio delle dipen-denze possibili si è ampliato enormemente e forse – ma è sempre un mio pensiero – servirsi solo di protocolli me-dici non basta più. La mia è una denuncia, ma al tempo stesso un appello: al perso-nale che lavora nei Ser.T da un lato e dall’altro anche a quei genitori che si ritrovano ad affrontare un problema di dipendenza in cui incappa-no i loro figli. Ve lo dice uno che ha esperienza: serve di più, soprattutto oggi, di fredde applicazioni di protocolli. Ser-ve forse capire che la dipen-denza non è una semplice malattia del corpo, da dover semplicemente curare.

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Nessuno consiglierebbe ad un altro di bere la propria urina, “nel quadro di una vita sana e di un’alimenta-zione corretta”. Eppure si dà il caso che, se ti trovi perso nel mezzo del deserto maga-ri da solo e senza un goccio d’acqua, la tua urina ti torna utile, e il berla può aiutarti a portare a casa la pelle. A me è successo qualcosa di mol-to simile con l’eroina, e devo solo a lei il fatto di essere an-

cora, bene o male, al mon-do. All’età di sedici anni, non conoscevo, letteralmente non conoscevo neanche in modo vago, il significato di parole come “serenità, sicurezza, cal-ma, libertà, sollievo, pace”. Le persone normalmente for-tunate, le persone che oggi sono persone adulte ed equi-librate, difficilmente potranno capirmi. Ma una spiegazio-ne va pur data, la verità va pur detta. La verità è che al

tempo dei miei sedici anni ero solo e disperato. Ero in mezzo al deserto. Colpa mia? Colpa di una società stanca e malata? Che ne so. Il mio problema era sopravvivere. Io non ho scelto di farmi di eroina, io ho dovuto farlo: o così, o avrei accumulato tre o quattro scatole di barbiturici e avrei fatto calare finalmen-te il sipario su una vicenda umana che non meritava di essere protratta. Quando non hai un goccio d’acqua, pur di sopravvivere bevi la tua urina. Quando non trovi pace, requie, riposo, serenità, sicurezza ed altro, sei bell’e pronto per farti di eroina. E così è andata. Quando ho fatto il primo tiro (io la ina-lavo, avendo scarso accesso venoso e il terrore degli aghi) ero perfettamente informato sui rischi cui andavo incontro. Ma nel mio caso i benefici su-peravano i costi. La roba mi dava la possibilità di provare sensazioni di intenso piacere (quelle che un giovane sano

e sereno trova nello sport), mi conferiva quel senso di si-curezza e di disinvoltura che un’infanzia “sbagliata” mi aveva precluso. La roba mi permetteva di bypassare un senso di inadeguatezza e di inferiorità dolorosissimo e in-validante. Con la roba avevo il coraggio di guardarmi allo specchio malgrado i miei chili di troppo. Nelle condi-zioni in cui versavo, che cosa altro avrei potuto fare, se non usare eroina? Avrei forse po-tuto ammirare la magia di un tramonto? Avrei forse po-tuto camminare a piedi nudi su un bel prato? O forse avrei dovuto trascorrere i miei po-meriggi tra libri di scuola e oratorio? Ho bevuto il mio pi-scio. Se fossi stato meno solo, se qualcuno mi avesse aiuta-to, non sarei mai arrivato a questo. “Ognuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole. Ed è subito sera”. Non è certo farina del mio sacco, ma ammettetelo: ci stava.

Nel deserto dei miei sedici anni, l’eroina fu l’unica a dissetarmiLa “roba” mi regalava sensazio-ni di pace e serenità. Duravano poco, ma era meglio di nientedi Ferdinando Parigi

«Caro Coky, grazie a te sono diventata grande»Dall’incontro tra due solitudini, un’amicizia durata 14 anni tra un cane e una bambinadi daniela Russo

Scorgo dentro di me i ricordi più belli, e a capo di tutto ci sei tu caro amico di sempre, continui a persistere nonostan-te sia un anno che non ci sei più. Ti ricordi il giorno che ci siamo conosciuti? Io ero venu-ta in cerca di te a causa della mia solitudine, e da bimba di 10 anni che ero, avevo biso-gno di un amico che condivi-desse con me le giornate di-ventate sempre più pesanti a causa delle prese in giro che subivo a scuola. Ma soprattut-to, avevo bisogno di qualcuno che mi accettasse per quella che ero, senza fare caso ai miei chili di troppo, o a quei fanali che portavo sulla fac-cia. Così, accompagnata da mio padre, l’unico probabil-mente ad intuire il mio disa-gio, arrivai davanti a quell’e-norme cancello. L’abbaiare dei cani mi confondeva. Da quello che sentivo dovevano essere in molti, tutti senza un amico, quindi la mia sensibi-lità fu messa a dura prova.. avevano tutti bisogno di me! Quando aprirono il cancello non ero più così sicura di vo-

ler entrare, ma la mia voglia di incontrarti era tanta, così mi feci coraggio ed entrai. Fui travolta da un senso di ango-scia, mi chiedevo se ti avrei mai trovato in mezzo a tutti, ma soprattutto come ti avrei ri-conosciuto? Con la signora at-traversarsammo un corridoio lungo e grigio che sembrava si intonasse al mio stato d’ani-mo. Mi presentò gli esemplari più vispi, che secondo lei era-no più adatti ad una bimba della mia età. Ma cosa ne poteva sapere di me quella signora, non mi conosceva quindi come poteva sapere chi sarebbe stato giusto per me? Io non cercavo un giocat-tolo, io volevo un amico. Ma dopo aver sorpassato decine di box e centinaia di cuccioli bisognosi di affetto, è proprio lì che ti vidi, indifeso e treman-te, arruffato su te stesso con lo sguardo vuoto, di chi non sa cosa l’aspetta. «Voglio quel-lo!», esclamai con voce sicura, ma la signora mi disse che tu non eri adatto a me. Questo a causa della storia tragica che ti portavi dentro. Mi raccontò

che eri stato chiuso ass ieme ai tuoi due fratellini dentro un sacco nero buttato in un cassonetto. Ma questo non mi spaventò, anzi, mi die-de la forza di ribadire: «Vo-glio quello!». La signora sentì quell’autorità più grande di me imporsi, e si sentì proba-bilmente messa alle strette, non aveva altra scelta. Anco-ra prima che tu fossi mio già avevi fatto di me una bambi-na che in quella circostanza ha saputo tener testa a chi, ancora una volta, mi aveva creduta inadatta alla situazio-ne. Ti mise tra le mie braccia, con un’espressione perplessa, anche perché detto tra noi, non eri proprio bello, eri più che altro un tipo! Sentivo il tuo cuore battere forte su di me, e in quel preciso istante

capii che eravamo diventati una cosa sola. Tra di noi non c’era un padrone, vivevamo l’uno dell’altra, e a me non interessava più se a scuola

i bambini non giocavano con me, tanto io avevo te, che mi aspettavi ogni giorno, con quell’entu-siasmo che solo tu riu-scivi a trasmettermi, mi hai sempre fatta senti-re importante. Siamo stati assieme 14 anni, siamo cresciuti as-sieme, mi hai inse-gnato ad amare, in ogni attimo della mia vita c’eri tu. Quando piangevo ti sten-devi accanto a

me e intrufolavi la tua testolina tra il cu-

scino e il mio viso. For-se lo facevi per condivi-

dere con me quel dolore, e quando sentivi che mi ero calmata balzavi giù dal letto, scodinzolavi e con quella fac-cetta buffa mi dicevi: «E’ ora di andare a giocare!». Tu sei sta-to la forza che probabilmente non avrei mai avuto, se non ti avessi incontrato. E così caro amico dell’uomo, ora mi ritro-vo qui, quasi donna, ad im-pregnare questa pagina di te, salandola con le mie lacrime, lacrime a cui tu hai dato sa-pore. Caro Coky chissà come sarebbe stata la mia vita sen-za di te, questo non lo potrò mai sapere, so solo che nono-stante la tua morte, continui a vivere dentro di me, e questo mi fa capire che non sarò mai sola. Grazie amico per avermi reso una persona migliore.

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L'AGGIoRNAMENTo

Dopo che nell’ultimo nume-ro del nostro giornale avevo puntato il dito sul lassismo che caratterizza molti “frequentato-ri della domenica” del fiume Meduna, a Cordenons, sulla loro poca educazione dimo-strata con l’abbandonare ri-fiuti lungo il suo corso, e sulla constatazione del disinteresse dell’amministrazione comu-nale a combattere certi com-portamenti a tutela di questo ambiente naturale, ecco ora invece una buona cosa da segnalare. Verso la fine di lu-glio infatti hanno per la prima volta fatto la loro comparsa in alcuni punti d’accesso al fiu-me, quelli cioè di maggior

affluenza da parte dei ba-gnanti, alcuni cassonetti per l'immondizia. Questa è una assoluta novità, ad oggi è la prima volta che in Meduna appaiono dei bidoni della spazzatura. Un bel gesto det-tato dalle esigenze della no-stra epoca che, oltre all’utilità in sé, evidenzia una volontà da parte dell’amministrazio-ne territoriale competente di affrontare o quantomeno ar-ginare il problema. Una bella e semplice iniziativa che co-stringe alla sensibilizzazione chiunque incroci un punto di raccolta dei rifiuti (a buon in-tenditor..) e per forza di cose non saranno pochi; gli “stra-

Rifiuti in Meduna, non hanno più scuse i bagnantiDa luglio a Cordenons sono arrivati i cassonetti per l’immondiziadi Guerrino Faggiani

Stavo mangiando è più volte ti sei avvicinata al mio tavolo per vedere se era tutto appo-sto, ed io non perdevo l'oc-casione di sorriderti. Erano i primi di marzo di quest'an-no. Quel giorno ero in quel locale con mia madre e il suo compagno e mi ricordo di averle subito detto che eri una bella ragazza. Non sapevo però neanche il tuo nome. Fu una stupenda coin-cidenza che tu staccassi il turno di lavoro nel momento in cui io terminai di pranza-re. Appena te ne uscisti dal locale, io con fare maldestro ho chiesto ad una cameriera come ti chiamavi. Mi rispose: «Si chiama Stefania». Rimasi fermo ed imbambolato, con un sorriso da ebete stam-pato in faccia come se mi aspettassi che mi dicesse un altro nome, che ne so!!!. Ora, ripensandoci, credo di esser-mi vergognato un pochino e a quel punto uscii anche io. Tu camminavi a testa bassa, guardando il cellulare, ed io

nieri” non endemici tutti, in quanto non in possesso della conoscenza del territorio, e costretti all’ammucchiata dei luoghi più frequentati ed im-mediati da raggiungere, ove fanno bella mostra i cassoni. E’ un’dea che meriterebbe fortuna anche negli altri ver-santi del fiume e non solo in quello cordenonense, a patto però che vengano regolar-mente svuotati e non “dimen-ticati”. Il continuo deposito li trasformerebbe in montagne di rifiuti in decomposizione, la medicina si rivelerebbe peg-gio del male. Tutto questo per una forma di nostra civiltà e rispetto, e per l’ambiente in

cui viviamo, un po’ come te-nere pulita casa propria. John Fitzgerald Kennedy e Benito Mussolini dicevano che era dovere di ognuno lasciare alle future generazioni il mon-do come lo avevano trovato, un dovere che sulla carta non ha contrari, ma che purtrop-po nella realtà, alla prova dei fatti, ci costringe al controllo e alla vigilanza per ottene-re risultati solo parziale. E’ un dovere del resto, che se rispet-tato frenerebbe il nostro incal-zante incedere verso l’autodi-struzione che, ormai possiamo dirlo con certezza, è solo una questione di tempo, il tempo delle future generazioni.

che ti seguivo con lo sguar-do. Dentro di me speravo in un segno che mi facesse vincere la mia timidezza per venire a parlarti. Pochi istan-ti dopo, ti sei fermata per ri-spondere al telefono. A quel punto io – e giuro che non so ancora dove ho trovato il coraggio di farlo – ti rag-giunsi e, con aria sicura, ti guardai negli occhi e ti dis-si: «Piacere, mi chiamo luca». «Piacere io Stefania». A quel punto, lo confesso, mi sono

sentito estremamente vulne-rabile, perché se ti guarda-vo troppo a lungo mi sentivo male. Eri e sei stupenda. Con un altro sforzo titanico sono ri-uscito a dirti: «Mi piacerebbe molto uscire a bere una cosa assieme a te». Tu mi rispon-desti: «Non saprei, non ti co-nosco nemmeno». A quella frase credo di aver fatto una faccia da cane bastonato, perché subito dopo tu mi hai invitato al tuo compleanno, che festeggiavi due giorni dopo in un locale ad Azzano Decimo. Accettai, felice. Quel giorno ero parecchio agitato e mi feci mille storielle in te-sta; pensavo e ripensavo a cosa dirti. Ovviamente, una volta alla festa, ti ho detto tutto tranne quello che real-mente volevo dirti. La cosa più bella di tutta la serata e stata quando ti sei avvicinata

a me e mi hai chiesto se mi andava di fare una foto as-sieme. Ero così contento per questo tuo gesto ed il giorno dopo su Facebook l’ho trova-ta tra le altre e l’ho guardata per ore. Ero già innamorato di te. Un paio di giorni dopo siamo usciti assieme e mi sei piaciuta sempre di più. Sia-mo andati a Pordenone e mi ricordo che abbiamo parlato per ore e io non volevo più andarmene. Poi ci siamo av-viati alla macchina e ti ho re-galato una rosa, ricordi? Sei diventata tutta rossa e mi hai abbracciato. Nei giorni se-guenti abbiamo continuato a vederci e siamo ritornati nel locale dove hai festeggiato il tuo compleanno. Lì ho in-contrato una mia amica, la Elena, tu eri seduta sui diva-netti e con la musica alta non sentivi quello che ci stavamo dicendo. Me lo chiedesti ap-pena usciti dal locale. Io ti raccontai che la mia amica voleva sapere se uscivamo insieme. Io le avevo risposto di no. A quel punto, mi hai guardato con aria smarrita. Allora ho ricambiato il tuo sguardo e ti ho spiegato: «A lei ho detto che non usciva-mo assieme, ma che sei la mia ragazza». E tu, con i tuoi occhioni nocciola, mi hai guardato e mi hai baciato. Era il 18 marzo la sera più im-portante della mia vita. (l.g.)

Ti ricordi amore la prima rosa?«Arrossii il giorno che ti conobbi. Fu l’inizio della felicità»

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L'APPRoFoNdIMENTo

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Padri distanti

«Come riuscirò a sopportare la nostalgia, a non farmi uccidere dalla rabbia, ad evitare la solitudine e soprattutto a farmi capire dalla controparte?». Sono solo alcune delle domande con cui molti padri, anche nella nostra provincia, si addormentano la sera, magari da soli, in un letto che non condividono più con la moglie, in una casa in cui non vivono più con i loro figli. Non meno logoranti sono i punti di domanda che li accompagnano sulla gestione economica della famiglia, sulla divisione dei beni e degli spazi e soprattutto sull’educazione dei figli da portare avanti a distanza. Sono queste le domande di un padre separa-to che troppo spesso non sa dove “andare a sbattere la testa”. Il numero di padri tenuti lontani, loro malgrado, dai figli per libero arbitrio della madre aumenta proporzionalmente all’aumento delle separazioni, tanto più se giudiziali: in molti di questi casi a farne le spese è l’uomo. “E’ un fenomeno sociale - spiega Lo-redana Colosimo, presidente dell’associazione Genitori Separati LaDDeS Family F.V.G di Pordenone e mediatrice familiare – che anche da noi si sta definendo. La donna si è emancipata e non sempre risulta essere la parte debole della coppia, soprattutto se è madre ed usa i figli come arma di ricatto o di vendetta. Lo testimonia la storia stessa della nostra associazione: fondata da me nel 2000 come “Libera associazione donne divorziate e separate”, già nel 2001 alla luce del lavoro sul campo siamo in-tervenuti sullo statuto diventando un’associazione per la famiglia separata, rivolta quindi anche ai figli e ai loro padri”. LaDDeS Family Fvg è attualmente l’unica associazione del Pordenonese volta a dare consulenza e supporto alle coppie, sposate o di fatto, che si separano. Offre un punto di ascolto e consulenza legale gratuiti, un gruppo di aiuto, servizio di mediazione fami-liare (anche in collaborazione con i servizi sociali di Ambito) e interventi di aiuto alla genitorialità. In regione LaDDeS Family Fvg ha fatto da apri pista alle esperienze di Udine (associazione

Gesif, Genitori separati insieme per i figli) e di Trieste (associa-zione Mamme e papà separati) con cui collabora ospitando nella propria sede di via De Paoli, una filiale del gruppo friula-no e a breve anche di quello triestino. Dal 2001 ad oggi sono stati più di un migliaio i contatti registrati alla LaDDes, di cui 600 sono le persone, uomini e donne, che sono state prese in carico dall’associazione. Una cinquantina in media all’anno. «I nostri utenti – spiega Colosimo – sono per lo più coppie che si possono rivolgere a noi prima, durante e anche dopo la fase di separazione. Non abbiamo ancora mai seguito nessuna coppia in cui entrambi i coniugi siano stranieri, ma in aumento sono quelle miste. Quanto invece all’età – aggiunge – se un tempo non c’erano distinzioni, negli ultimi anni sono per lo più coppie tra i 40 e i 50 anni». E’ aumentato soprattutto il numero di padri che, a seguito dell’approvazione della legge 54/2006 sull’affido condiviso, chiedono aiuto per rivedere le condizioni di separa-zione stabilite dai giudici e l’affidamento dei figli minori. In casi di elevata conflittualità con la moglie molti uomini arrivano alla LaDDes accusando i colpi della lontananza dai figli e delle con-seguenze economiche della separazione. Se ogni separazione infatti dal punto di vista psicologico è un lutto, perché finisce un progetto di condivisione, dal punto di vista economico diventa anche causa di impoverimento. «Di punto in bianco – fa notare Colosimo – ci si ritrova a pagare da soli affitti, mutui e bollette di casa, a volte il mantenimento alla moglie, magari la babysitter per accudire i figli perché costretti entrambi a lavorare più di prima, senza nemmeno contare le spese legali, se la separazio-ne non è consensuale”. Non sono questioni di poco conto, dato che contribuiscono a disorientare. Nel casi peggiori, il rapporto conflittuale con il coniuge, la perdita di contatto con i figli, le lungaggini del sistema giudiziario, le difficoltà economiche e di gestione del tutto finiscono per soffocare.

di Milena bidinost

mikebaird

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«Il papa’ non c’e’ per colpa della mamma»

Fu per mia scelta che mi se-parai, ma pur a distanza di anni resta la sensazione di avere perso una parte di me, quel bambino che fino al giorno prima coccolavo perché si addormentasse e che poi, di punto in bianco, mi sono ritrovato a cercare, invano. Per mesi, all’inizio del-la mia storia di separazione, non riuscii nemmeno più a sentire la sua voce al telefono, perché mi veniva negato da parte di una madre che non capiva, né del resto lo sa fare ora, che questo modo di com-portarsi fa male a lui. A nostro figlio. Ho provato ad andare a trovarlo a casa, ma l'unica cosa che trovavo erano ore di insulti da parte di lei, in alcuni casi anche schiaffi e percosse, tanto che per evitare il peg-gio ero costretto ad uscire di gran fretta da casa. Per pro-teggergli gli occhi e il cuore, ho così scelto di non vedere mio figlio fino a quando un

giudice non mi avesse dato degli orari di visita all’inter-no dei quali riuscire a fare il padre. Mio figlio oggi ha cin-que anni. Io sono un papà separato, la mia ex moglie non è cambiata e, sebbene io stia un po’ meglio, sono an-cora ben lontano dal trovare la serenità che cerco per me e il piccolo. La mia storia va avanti da anni, tra aule di tri-bunale, servizi sociali e ore e ore di discussione spesso inu-tili con mia moglie. L’ordinan-za sulla quale tanto facevo affidamento è arrivata, dopo mesi. Fu una delusione. Mi è stato imposto dal giudice di fare un percorso di mediazio-ne familiare, per il bene del bambino, ma dopo poche sedute mi sono reso conto che i servizi sociali cercavano solo di smontarmi il cervello. Mi sono sentito come carne da macello, sottoposto a continui ricordi, e vuoto perché nes-suno mi capiva. Avrei voluto

incazzarmi e dire loro che l'u-nica cosa che mi interessava era di poter passare un po' di tempo con mio figlio. A vol-te piangi mentre pensi al tuo piccolo che è in una situazio-ne difficile e che non riesci a proteggere perché ti viene negato, arbitrariamente da sua madre, anche il diritto di vederlo. Mi viene fatta una guerra continua e martellan-te: spesso non mi viene dato in visita il bambino, nemme-no appellandomi all’ordinan-za del giudice. Sono continue le accuse, le bugie, le offese nei miei confronti: sensi di col-pa che ogni tanto fanno an-cora effetto. Perché al centro viene messo sempre lui, mio figlio. Troppe, troppo lunghe ed inutili in questi anni sono state le udienze di fronte al giudice, nella speranza di poter ottenere anche solo mezz'ora in più da dedicargli. Fossi stata io la madre, avrei sicuramente ottenuto più giu-stizia. Un padre, invece, per lo Stato è solo una macchina da soldi. Sono emotivamen-te molto stanco. Cerco con-tinuamente soluzioni e vivo alla giornata perché dietro l'angolo i problemi mi ven-gono creati puntualmente, sul nulla. Alle volte anche il mio avvocato mi lascia l'ama-ro in bocca, perché sembra poter fare poco per risolvere i miei problemi. Tutta questa

Quel tempo insieme che troppe volte ci viene negato«Da anni cerco in aule di tribunale la tranquillità che mi serve per essere un buon padre»

situazione condiziona il poco tempo che sto con mio figlio, perché divento iperprotettivo per evitare che si faccia male, così da risparmiare a lui soffe-renza e ad entrambi la solita scenata di sua madre sulla mia incapacità genitoriale. Ho bisogno di tranquillità per poter essere un buon padre, ma non sembra che sia arri-vato questo tempo. Cerco così di vivermi i momenti assieme quasi senza respiro perché mi sembra di togliere tempo a lui. Ad ogni incontro è un ricominciare d’accapo, è un conoscerlo nei suoi piccoli progressi di vita come fosse la prima volta. Poi, dopo poche ore, proprio quando ci stiamo rilassando entrambi arriva il momento in cui lo devo riac-compagnare a casa. Il mio umore cambia, mi sento tri-ste e comincio a sperare che la prossima volta mi venga dato in visita e che non ci sia piuttosto un’altra scusa bana-le ad impedirmelo. La mia ragione per andare avanti è il tempo insieme a lui. Per quanto poco, mi riempie sem-pre il cuore. Vederlo dormire al mio fianco, fargli il bagno, coccolarlo e stringerlo sino a fargli perdere il fiato, giocare con lui, mangiare insieme … mi fa sentire finalmente com-pleto. Soprattutto quando mi guarda e mi dice «papi ti vo-glio bene». (c.s.)

Figli orfani di cuore, fragili nella vitaNella guerra tra genitori a farne le spese sono loro, i bambinidi Milena bidinost

Esistono diritti e doveri tra co-niugi separati, alcuni durano fino al divorzio altri restano per sempre. Dura ad esempio per i successivi tre anni dalla sentenza il dovere di cura e di assistenza dell’altro in caso di bisogno; fino al loro 18anno di età il dovere di contribuire al mantenimento dei figli se-condo le sostanze di ciascu-no; mentre dura per sempre il diritto principale del figlio,

tanto più se minore, di vedere parimenti entrambi i genitori. Così a volte non accade. «E’ una questione di intelligenza del padre e della madre – commenta Loredana Colosi-mo, presidente della Laddes Family FVg di Pordenone – quella di capire che la priorità va data sempre e comunque ai figli. Ed è anche un dovere morale di legali, giudici, con-sulenti tecnici, servizi sociali,

mediatori familiari avere que-sto obbiettivo in mente. Perché se così non è a pagare – sotto-linea –, e nel senso più doloro-so del termine, saranno i figli». Esiste infatti una sindrome ri-conosciuta, la P.A.S. (Sindrome da alienazione genitoriale), dalla quale il minore va pro-tetto, ma nella quale troppo spesso cade. La P.A.S. ha dei sintomi classificabili ed è la conseguenza di un “lavaggio del cervello” che il genitore, per lo più quello con l’affida-mento esclusivo o principale, fa nei confronti del figlio per screditare l’altro genitore. “Suc-cede spesso nelle separazioni giudiziali con grande con-flittualità – spiega Colosimo – dove i genitori sono impe-gnati assieme ai loro avvocati a farsi la guerra, mentre i figli crescono senza uno dei due». L’affidamento esclusivo è tutto-

ra molto utilizzato nella realtà italiana: oltre il 90% degli af-fidamenti vanno alla madre ed il padre ha spesso la per-cezione di essere dalla parte del perdente di una causa persa. «Tuo padre non ti vuo-

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«Il papa’ non c’e’ per colpa della mamma»

Quando da soli non ce la si fa e la distanza da lui fa maleLa separazione, la solitudine, la depressione e la droga. Storia di un padre in difficoltà

Mi chiamo Fabio ho 35 anni e un figlio di 7. Cinque anni fa, dopo altrettanti di con-vivenza, mi sono trovato in una situazione che non ho saputo affrontare nella ma-niera più corretta: la separa-zione. Mi sono ritrovato senza moglie, senza amici e senza mio figlio e soprattutto sen-za la libertà e la possibilità di vederlo ogni volta che ne avevo voglia. In altre paro-le da un giorno all’altro mi sono ritrovato da solo. Mia moglie ha fatto la sua scel-ta, ma per quanto riguarda gli “amici” dai quali mi sarei aspettato una mano ho ri-cevuto solo pugnalate alla schiena. A complicare le cose c’è anche la legge, che viene applicata a senso uni-co, cioè nella maggior parte dei casi il padre non conta niente, se non per pagare il mantenimento del figlio. Ti ritrovi cioè a fare il padre

part-time nonostante l’affida-mento condiviso. Puoi vede-re tuo figlio solo due fine set-timana al mese e, se avanza tempo, qualche ora durante la settimana, sempre se la madre è d’accordo; diversa-mente le cose si complicano in quanto il bambino viene usato come merce di scam-bio. La frase più ricorrente che ti senti dire è: «Se non mi dai i soldi, non vedi tuo figlio”. Una frase che diventa emblematica nella situazio-ne di mancanza di lavoro, cioè se sei disoccupato. Da quando la legge sulla sepa-razione è stata modificata, non si paga più il manteni-mento della moglie, ma del figlio. Ciò ha comportato la trasformazione del mancato pagamento in reato penale. La quota dell’assegno vie-ne decisa da un giudice in base allo stipendio, ma sen-za tenere conto che il padre

deve pur vivere in quanto oltre al mantenimento del figlio ha altre spese per il suo mantenimento, quali: la casa, la macchina, le bol-lette, le assicurazioni e così via. Nel migliore dei casi ci si ritrova a tornare da mam-ma e papà. Ho letto sui gior-nali che proprio per questa situazione molti padri sono stati costretti a mangiare alla mensa dei poveri, perché sa-lassati dall’assegno di man-tenimento. Ritornando al mio vissuto, dopo un po’ dal-la separazione sono entrato in depressione. Non vedevo più nessuno, non mangiavo e uscivo solo quando ero con mio figlio. Stavo tutto il tempo in casa a piangermi addosso, nonostante i miei genitori cercassero di aiutar-mi. Tale aiuto lo vedevo solo come un fastidio e ciò mi al-lontanava sempre di più da loro. Vivevo alternando mo-menti di rabbia a depressio-ne. Di lì a poco ho iniziato a usare eroina che fino a quel momento odiavo; l’ho usata per non provare più senti-menti. Per un po’ stavo bene, riuscivo a fare tutto senza pensare ai problemi, ma il conto da pagare ben presto si è presentato. Non è tarda-ta la dipendenza dall’eroina, quindi la continua corsa per procurarmela facendo di tut-to per avere soldi. Mio figlio

ha risentito parecchio sia per la separazione sia per il mio stato; ha iniziato ad avere problemi all’asilo; è diventa-to introverso; ha iniziato ad avere problemi di adatta-mento e alimentari, proble-mi di cui non mi rendevo conto, non mi accorgevo che a suo modo mi imitava. Ad un certo punto i rapporti con le persone cominciarono a ruotare solo intorno alla dro-ga. Il processo di guarigione è iniziato quando mi sono reso conto dei problemi che causavo a me, a mio figlio e a chiunque mi stesse vicino. Pian pianino mi sono riavvi-cinato alla famiglia, che mi ha dato una mano portan-domi al Sert, dove ho trovato persone competenti che mi hanno reso il percorso più semplice, proponendomi dei programmi adatti alla mia persona. Mi sono riavvicina-to anche ad una amica che mi ha aiutato a recuperare rapporti con persone esterne ad un certo giro, fondamen-tale quando si cerca di fare un cambiamento del gene-re. Adesso sto cercando di recuperare il rapporto con mio figlio con non poche difficoltà, comunque ora gli stessi problemi non mi sem-brano più insormontabili, ma li considero sfide che ogni giorno cerco di affrontare nel miglior modo possibile. (f.g.)

l’amore urgente dei figli. Ho visto padri lavoratori che, per le pretese esagerate di una sentenza, devono muovere la loro fatica in cambio di uno stipendio senza incasso, e di conseguenza sono con-dannati a sopravvivere col residuo degli spiccioli. Ho vi-sto padri lottare e ammalarsi dentro un’indifferenza, e den-

tro il castigo assurdo di un in-ferno, sospirare la salvezza di una “fine”. Ho visto il potere di certe assistenti sociali che, con l’arroganza potente di un giudizio, hanno stravolto il diritto di un affetto con la velocità di un assenso e di un dissenso. Ho visto ango-sce, disperazioni, lacrime e tragedie, posarsi sui piatti di una ragione, e infilarsi con la preghiera e la supplica nella speranza di una coscienza sociale, senza però riuscire a smuovere di un millimetro l’istinto naturale della pietà. Ho visto una generazione di bambini perdersi nello smar-rimento di una in affettività, senza comprendere la colpa del distacco, e crescere poi col disturbo ossessionante di quel dubbio, e di tutte le feri-te e cicatrici che segneranno il tragitto di una vita adulta.

L' EdIToRIALE

Il diritto di essere genitoredi Pino Roveredo

segue dalla prima paginale, ci ha abbandonati, ci ha traditi, è un incapace …»: la lista delle “gocce” che cadono dentro la testolina di un bam-bino può essere lunghissima, tanto quanto lo sono gli anni di durata dei processi. «La re-sponsabilità in questo caso è anche del nostro sistema giu-ridico – denuncia Colosimo –. Più si perde il tempo nelle aule di tribunale, più gli anni passano e i figli crescono in questa sorta di violenza psi-cologica, destinati a diventare adolescenti con un equilibrio precario e a rifiutare il geni-tore debole, che rischia così di perderli». Ecco perché alla LaDDes Family Fvg l’alterna-tiva alle battaglie legali è la mediazione tra genitori. «E’ un percorso che può essere più o meno lungo e difficile – dice la presidente – ma che è l’uni-ca alternativa possibile»

LaDDes Family Fvg

Dove. In via De Paoli 19 a Pordenone, presso la Casa del Volontariato Socio-Sa-nitario. Come. Telefonando al n. 340.2765255 (consu-lenza psicologica) o al n. 349.0818956 (consulenza legale) o consultando il sito www.centromediazio-nefamiliare.it. Quando. Dal lunedì al venerdì, dalle 19 alle 20, per un primo con-tatto telefonico ai fini della individuazione dei servizi utili; ogni mercoledì sera in sede dalle 20.45 per parte-cipare al gruppo di aiuto. Perché. Per essere guidati da professionisti lungo un percorso volontario di riso-luzione delle conflittualità in caso di separazione

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Ciao papi, è da molto che non parliamo, perché la mamma ha deciso di non volermi più né vedere né sentire, obbligandoti a fare lo stesso. Tu, non potendo altrimenti, hai accettato le sue con-dizioni. Okay, siamo d’accordo, sono sempre stata una ragazzina ribelle, ma ho dovuto in qualche modo difendere la mia fragili-tà. Dopotutto non avrei mai immaginato, che dal momento che decisi di intraprendere la mia vita, mi avreste escluso totalmente dalla vostra, trattandomi come un’estranea che per un po’ ha vis-suto sotto il vostro tetto. Poco tempo fa, parlando con mio fratello, sono venuta al corrente della vostra separazione. Un brivido mi ha attraversato la schiena, non ci potevo credere! La domanda poi sorse spontanea: «Perché hanno deciso di non dirmi niente?». Non mi sono meravigliata della vostra separazione, perché era abbastanza scontato che prima o poi sarebbe successo. È da quando ricordo di esistere che vi avrei voluto separati, perché i vostri modi di stare assieme mi procuravano stati di ansia. Ricor-do che hai provato ad andare via tantissime volte, quasi non le

IL VISIONARIO Minori non accompagnati

È un business in crescita, quello dei minori che viaggiano da soli in aereo. Negli aeroporti di tutto il mondo sono riconoscibili per-ché indossano una tracolla con la sigla UM (Unaccompained Minor). Fiducioso, il Signor T.V. si è rivolto ad una nota compag-nia aerea per permettere ai suoi due figli di 13 e 9 anni, avuti da due precedenti relazioni, di rag-giungere le rispettive madri a Parigi e a Londra, con scalo a Francoforte. Ma nella città ted-esca qualcosa non deve essere andato per il verso giusto, per-

ché i due viaggiatori in erba sono stati sì consegnati a des-tinazione alle sue due ex com-pagne, ma non alle rispettive madri. “ This is not my son!” es-clamò la prima. “Ce n’est pas mon fils!” le fece eco l’altra. Fu un rapido susseguirsi di urla, imbarazzo, tante scuse da par-te della compagnia aerea e poi normalità ripristinata, entro le proverbiali 24 ore. E il pove-ro padre? Le ha ovviamente sentite da entrambe le sue ex. “Fuck!”, “Merde!”. Quando si dice la lingua madre!!

Jnpet

conto. Una di quelle è stata quando mio fratello stava per na-scere o almeno così sostiene lei. Dice che eri con un’altra donna, a questo io non ho mai voluto credere, ma se era davvero così, mi chiedo: perché sei sempre tornato indietro, papà? A questa domanda realizzo solo ora la risposta: lei ti ha sempre tenuto in pugno, facendoti tornare indietro con ricatti quasi sempre buttati sul fattore economico. Sentendoti il peso della sconfitta e trovan-doti con le mani legate, hai dovuto cedere e ritornare, altrimenti lei te l’avrebbe fatta pagare. Era troppo per le tue tasche quello che chiedeva, non ti avrebbe mai concesso il lusso di una vita dignitosa. Una delle ragioni a tutto quanto è successo, sono i debiti che tu hai fatto di nascosto da tutti noi, per non farci man-care niente, e poi, alla mamma piacciono le cose belle e tu per non negargliele hai consapevolmente sbagliato. Ricordo che hai sempre lavorato molto, in fabbrica durante la settimana, nelle mattine dei weekend come imbianchino e di sera con il tuo complesso davi sfogo alla tua passione, riuscendo anche a gua-dagnare qualcosa. Anche mamma ha sempre lavorato molto, solo che a differenza tua, ha sempre voluto sostenere un tenore di vita al di sopra delle nostre possibilità. E così è iniziato il vortice dei prestiti, e poi ancora prestiti, poi altri prestiti per coprire i presti-ti, e quello che guadagnavi era gran parte della banca. Come stavi papà? Come passavi le tue notti? Riuscivi a dormire? Con il tempo i sacrifici hanno solcato il tuo viso indebolendo sempre di più il tuo cuore, che ora non ti permette più di lavorare. Ho sa-puto che la tua pensione basta appena per coprire le spese dei tuoi errori, e che a distanza di 30 anni non sei ancora riuscito ad avere la vita indipendente che tanto sognavi, e mamma ti tiene ancora in pugno. Separati si, ma sotto lo stesso tetto! (d.r.)

Separati in casa, sotto il peso dei debiti«Dopo 30 anni, caro papà, non hai la vita che desideri e mamma ti tiene ancora in pugno»

Figli che non vengono ascoltati«Mamma, voglio andare a vivere con papà»Non sempre la legge sa giudicare ciò che è meglio per un figlioSi dà spesso per scontato che, in una famiglia, quando i genitori si separano il figlio o addirittura i figli vadano ad abitare con la madre Molte volte lo si fa senza prendere in considerazione la volontà dei bambini perché reputati troppo piccoli per prendere una decisione e facilmente influenzabili. E’ successo così anche a me. Non me la sento di firmarmi con nome e cognome, per non fare torto a nessuno dei miei genitori, ma ho deciso ugualmente di raccontarvi la mia esperienza. I miei genitori hanno iniziato a litigare quando avevo all'incirca 5 o 6 anni e, pur non facendolo

davanti a me, io ero consapevole di quello che sarebbe potuto succedere di li a poco. Infatti, compiuti 7 anni, i miei si separarono e ovviamente senza prendere in considerazione le mie volontà, perché molte volte si crede che un bambino non sia un essere pensante. Io avrei voluto rimanere con mio padre e non solo perché avevo tutti gli amici e gli interessi qui, ma perché avevo un bellissimo rapporto con lui. Come stabilito dalla legge, mio pa-dre aveva il diritto di tenermi nei week end. Infatti, ogni venerdì veniva a prendermi, anche con la pioggia, la neve ed il traffico più intenso lui era li. All'età di 10 anni, ho dovuto farmi coraggio e guardare mia madre negli occhi, dicendole che volevo tornare con il mio papà. Per quanto volessi andarmene e stare con lui non è stato per niente facile dirlo a mia madre. Ora ho 23 anni e mia mamma, da quando sono tornato a stare in casa con mio papà, viene a trovarmi una volta al mese, se va bene, pur avendo anche lei lo stesso diritto di vedermi nei week end. Ormai non ne sento la mancanza, perché sono un ragazzo adulto, ma quand'ero più piccolo avevo bisogno di lei. Quindi, concludendo, mi viene da dire che bisognerebbe dar maggior fiducia ai padri e maggior voce in capitolo ai figli, perché questi tal volta con la loro innocenza riescono a giudicare meglio degli adulti. (l.g.)

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INvIATI NEL MoNdo

A tre ore da casa, un altro modo di essere Cinque giorni di vacanza nella valle Rauris, nell’Austria dove ogni cosa è al suo posto e la gente è accoglientedi Ferdinando Parigi

Sapevo che l'Austria è un paese molto bello, ero stato a Vienna e mi era piaciuta. Non credevo però che esi-stessero al mondo paesaggi tanto incantevoli come quello che ho trovato visitando una zona snobbata dai più: la Raurisertal, o valle di Rauris, a sud-ovest di Salisburgo, in mezzo al parco nazionale di Hohe Tauern. Non sono mai stato in America, né in Asia, né in Africa, conosco abba-stanza bene solo l'Europa, e vi posso garantire che non esistono nel nostro continente degli scenari maestosi e dolci come quelli dell'Austria. Ma soprattutto, credo che non esi-sta al mondo un popolo tanto nobile come quello austriaco. Sapevo che la zona di Sali-sburgo è la più bella di tutte, e ho digitato "zimmer Salzburg" su Google. E' uscito un mare di opzioni. Ne ho scelta una e sono stato fortunato, cosa che mi capita molto raramente. Il mio budget era ovviamente limitato, quindi ho scelto una zimmer da 29 euro al giorno, colazione compresa. La "pen-sion Schwab" di Taxenbach ha tanto di sito web con foto e tutto. Ho preparato le vali-gie, fatto il pieno di benzina e sono partito. La strada è faci-lissima: Udine, Tarvisio, Villach e poi dritto su verso Salzburg. In tre ore e mezza arrivo a destinazione, attraversando

un paesaggio disteso e sug-gestivo come pochi. La signo-ra della zimmer non conosce una parola di inglese e mi accoglie parlando in tedesco, che per me è cemento. Alcu-ni ospiti austriaci che oziano all'ombra mi accolgono con grandi sorrisi e mi osserva-no compiaciuti, come se io fossi bello da vedere. Dalla mia camera il panorama è mozzafiato. Disfo le valigie e mi fiondo nel centro del pa-ese di Taxenbach. Lì incrocio due bambine, biondissime e bellissime. Mi guardano in-curiosite e mi salutano con un "hallo!". Di solito, in Italia, la mia corporatura e il mio aspetto generano timore nei più piccoli. Qui no, chissà per-ché. Entro nel primo bar che

trovo e anche qui mi accol-gono sorridendo, con un sa-luto tipico del luogo. E' una parola brevissima, che non comprendo, ma rispondo con un "guten tag" (buongiorno). Ordino in modo improprio un "café normàl" e la ragazza del bar capisce che non vo-glio un espresso ma un caffè dei loro. E' evidente che questi austriaci sono tutto meno che "crucchi", come ci si aspette-rebbe. Sono seduto fuori dal bar e in quella passa una ragazza molto graziosa. Mi guarda e, sorridendo, mi fa "tag!". Mi chiedo se sogno o son desto: in Italia le ragazze carine se la tirano da morire e ti ignorano, per bene che vada. Qui invece la gente è cordiale, persino le ragazze belle. Rientro in zimmer e mi accorgo di aver dimentica-to a casa alcuni farmaci per me indispensabili. Panico. Mi informo su dove trovare un medico ma non ci capiamo, sicché esco quasi sconvolto e vado nella direzione che mi sembra essere quella giusta. Incappo in un posto di bloc-co della Polizei, mi fermano perché correvo, e ho una fol-gorazione: al poliziotto faccio, in inglese. «Ho bisogno di un medico subito! Dove posso trovarlo?». Qui accade l'incre-dibile. I due agenti decidono di mollare il posto di blocco e aiutarmi in ogni modo. Dopo un po' mi danno indirizzo e numero di telefono del medi-co, con ogni indicazione uti-le a trovarlo. Nella mia testa, la convinzione che questo è un popolo di “santi”, a partire dalla Polizei, che tutti mi ave-vano detto essere severissima ed implacabile. In Austria ho trovato un paese diverso dal nostro. Ho visto gli scoiattoli, i castori, ho visto la Wasserfalle, una cascata talmente alta e possente che ho avuto paura di lei e me ne sono andato; ho visto ragazzi cercatori d’o-ro sulla riva di un fiume, con

tanto di bacinella. Familiariz-zare con i valligiani è facile e immediato, basta essere edu-cati, rispettosi e socievoli. Io ho cercato di esserlo, e sono sempre stato largamente ri-compensato. Qui il senso civi-co è altissimo: tutti rispettano i limiti di velocità, non ho visto un pezzo di carta volare sulla strada, né un mozzicone di si-garetta, né ho sentito suonare un clacson. Ciascuno rispet-ta l'ambiente come se fosse casa sua, non esiste sporcizia, non esiste segno di degrado, il patrimonio storico e quello naturale sono tutelati e valo-rizzati in ogni modo. Anche la casa più sperduta è provvista di strada asfaltata. In ogni dove c’è un bed&breakfast e si può star certi che i prez-zi sono contenuti e adeguati all'offerta. Ogni casa di mon-tagna, per quanto sperduta, ha un piccolo cartello verde che indica il nome della fa-miglia e la direzione da pren-dere per raggiungerla, ogni sentiero ha un cartello giallo che ne indica la lunghezza e il punto di arrivo. La burocra-zia è ridotta all'osso. Nei loca-li pubblici, giovani e anziani bevono insieme. Non ho visto parcheggi a pagamento e non esiste la figura del vigile urbano: non ce n'è bisogno. Ma anche l'Austria ha i suoi difetti. Il "nero" è abbastanza diffuso, il patrimonio storico è un centesimo del nostro, uno sgradevole odore di cucina ristagna un po' dappertutto e manca la cultura del man-giare bene. Ovviamente qui non esiste l'elasticità mentale, non esiste la disinvoltura, non esiste l'arte di arrangiarsi che ci rende unici al mondo. Loro non hanno avuto Leonardo, né Galileo, né tanti altri, e quando noi avevamo Giulio Cesare loro erano sostanzial-mente barbari. Ma questo è un altro discorso. Per me, co-munque: Austria e austriaci 10 e lode.

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Andrew Bossi

Andrew Bossi

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Soprattutto nei mesi estivi, ai bordi delle strade che i va-canzieri percorrono alla ricer-ca del benessere e del diver-timento, non è raro imbatterci in situazioni di abbandono, che compromettono la vita dei nostri animali domestici. I più fortunati vengono salvati e portati nei rifugi di acco-glienza, come quello gestito dall’associazione Dingo di via Mameli a Cordenons, dove grazie all'impegno dei volontari, molti animali ritro-vano la salvezza da un de-stino tragico, che sembrava aver ormai segnato la loro vita. I 180 gatti attualmente presenti al rifugio rappre-sentano la gran parte degli ospiti. Nel 2011 Dingo ne ha

Gatti e randagismo, problema di tutti riconosciuto da pochiAl Rifugio Dingo di Pordenone sono ancora pochi gli aiuti che arrivano dai Comunidi daniela Russo

accolti 134, provenienti da di-versi comuni della provincia

di Pordenone. La spesa che l'associazione ha sostenuto per la gestione del ricove-ro, l'anno scorso, è stata di 27.535,06 euro. Di questi, qua-si 7mila sono serviti ad ac-quistare cibo, sabbia per le lettiere e fieno per gli anima-li da cortile. Con 3.900 euro sono state coperte le spese veterinarie e lo smaltimento. Il pagamento delle bollette invece ha pesato sul bilancio dell’associazione per 1.562 euro e la gestione generale del rifugio è costata 15.106 euro. Sono le cifre di un gesto di amore nei confronti degli amici animali che i volontari della Dingo stanno portando

La mia battaglia contro l'indifferenza degli uomini Così nasce una colonia di gatti. Il caso di via Cojazzi a Roveredo in Pianodi daniela Russo

Un giorno di agosto, passan-do in macchina davanti al cantiere delle scuole elemen-tari di via Cojazzi, a Roveredo in Piano, ad un certo punto vidi sbucare un gruppetto di gattini. Intenerita, mi fermai. Guardai oltre la rete di recin-zione e mi accorsi che vi era-no delle ciotole vuote: infilai il braccio e cominciai a bat-terle per attirare l’attenzione di quei mici, così da guardali più da vicino. Ne arrivarono tanti, di tutte le età, molti di più di quanti ne avevo visti pas-sando. Fui quasi spaventata dalla fame che dimostravano di avere, così decisi di aspet-tare l’arrivo di qualcuno per chiedere spiegazioni. Dopo un po’ arrivò in effetti una si-gnora con in mano diverse scatolette di cibo per gatti. Mi raccontò che in quella zona,

quattro anni, prima erano sta-te abbandonate due gatte non sterilizzate e, dato che le istituzioni trascurarono il pro-blema, successe che poco per volta il numero dei gatti au-mentò. Ad oggi ne abbiamo contati 25. Rattristata e scon-volta, l’indomani su suggeri-mento della signora Franca, volontaria dell’associazione Dingo di Pordenone, avvisai i vigili del Comune di Rovere-do in Piano. In un primo mo-mento questo fatto sembrava non interessare. Non mi arresi e così mi rivolsi al responsa-bile dell’anagrafe canina, descrivendogli il disagio in cui vivevano questi gatti e fa-cendo appello all’importanza di bloccare queste nascite continue. Alcuni dei mici era-no ammalati e c’era anche il rischio che portassero infe-

zioni. Il responsabile mi mise davanti due soluzioni: o far emettere un ordine pubbli-co che impedisse alla gente di andare loro a portare del cibo, oppure fare riconoscere il gruppo come una colonia felina. Scelsi, naturalmente, la seconda strada. Inoltrai così una richiesta al servizio veterinario dell’Assl, affinché

si prendesse in carico il pro-blema e si occupasse delle sterilizzazioni usufruendo dei contributi che la Regione de-stina a tal fine. Dopo pochi giorni, mi incontrai con una veterinaria dell’Azienda sa-nitaria che mi rispiegò l’iter. Nel momento in cui scrivo sono ancora in attesa di una chiamata che mi annunci che si deve andare sul posto, catturare i gattini e portarli al distretto sanitario per la ste-rilizzazione. Spero avvenga presto. Nel frattempo da qual-che giorno condivido la mia vita con Stuard, uno di quei tanti mici sfortunati, che sono riuscita ad avvicinare e a por-tare a casa. Fu lui, quel giorno di agosto, che attirò per primo la mia attenzione e che mi rese così motivata a portare avanti la mia battaglia contro l’indifferenza degli uomini.

avanti sul territorio da anni. Un gesto che costa denaro e che non tutti i Comuni in-teressati, sostengono con un loro contributo. I fondi che nel 2011 sono arrivati dalle amministrazioni comunali da cui questi animali abbando-nati arrivavano hanno co-prendo meno di un quarto del totale dei costi. In questo modo Dingo viene messa economicamente in difficol-tà, sentendosi costretta a li-mitare le accoglienze. Spesso abbiamo sentito parlare di canili, che a differenza della Dingo ricevono sovvenzioni per ogni ospite entrante, con-siderando solo l'abbandono dei cani come rischio per la tutela dell'ambiente e della salute pubblica. Così nella realtà non è. L’appello della Dingo agli enti di competen-za è infatti quello di consi-derare anche l'abbandono del gatto come problema di randagismo, riguardante tutti i cittadini, e di contribuire alle spese di mantenimento e cu-stodia degli animali, come prevede anche la legge re-gionale 39/1990. Lo scopo è garantire la giusta dignità di esistenza ad ogni orfano che varca quel cancello, perché ogni vita, indistintamente da quale essa sia, è preziosa e va rispettata.

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IL PERSoNAGGIo

Quando si dice l’ingratitudine. La storia di Alan Turing lascia un certo amaro in bocca, un senso di occasione mancata lo si avverte, con lui in primo luogo. Alan Mathison Turing era un inglese vissuto nello scorso secolo (Londra 1912 – Wilmslow 1954), dal carattere eccentrico, non molto brillan-te negli studi, ma con una grande passione per la ma-tematica. Era bravo e questa materia gli “riusciva” benissi-mo. Quando la sua mamma, come ancora a quelli della mia generazione capitava, lo richiamava al dovere delle lezioni con il perentorio: «Pri-ma i compiti poi a giocare», lui rispondeva all’ordine, ma una volta terminati, finalmen-te libero di divertirsi, si dedi-cava alla matematica. Dun-que una passione fuori dal comune che crescendo gli di-venne sempre più totalitaria. Niente di strano che la ma-tematica gli fungesse anche

La sua scoperta non bastò per farsi accettare come omosessuale Alan Turing morì suicida nel 1954. Fu tra i grandi matematici del Novecentodi Guerrino Faggiani

da veicolo per piaceri perso-nali. Forse gli si dedicava così strenuamente perché aveva ben pochi altri modi per ave-re soddisfazioni dalla vita. Era omosessuale e ai suoi tempi non era facile esserlo, soprat-tutto nelle relazioni sociali. La matematica non chiedeva niente e neanche si faceva opinioni e lui ci mise l’ani-ma ed il cuore. Si diplomò a stento, il latino e la religione non gli andavano a genio, ma i calcoli astronomici e la fisica erano la sua passione. Nel 1931 venne ammesso al King’s College dell’Università di Cambridge, dove final-mente poté rincorrere le sue voglie. Si laureò nel 1934 con il massimo dei voti, insignito anche del premio Smith che era ad appannaggio dei mi-gliori studenti ricercatori di fi-sica e matematica. Continuò ancora gli studi alla Princeton University ottenendo un Ph.D, titolo accademico che rap-

presenta il più alto grado di istruzione universitaria. Duran-te la seconda guerra mon-diale Alan Turing non esitò a mettere le proprie capacità al servizio del dipartimento delle comunicazioni inglese; assieme a Marian Rejewski pesò in modo determinante nell’esito del conflitto e gra-zie ad alcune nozioni di base pervenute dall’intelligence, e alla loro elaborazione con “la macchina di Turing” (lontana antesignana del computer), riuscirono a decriptare la al-lora considerata inattacca-bile macchina Enigma, che i nazisti usavano per le loro comunicazioni, svelandone i segreti. Alan Turing, anno-verato tra i più grandi mate-matici del XX secolo, logico, crittografo e comunemente definito il padre della scienza informatica e dell’intelligenza artificiale, è morto suicida nel 1954 dopo aver ingerito una mela avvelenata con cianu-

ro di potassio, inequivocabil-mente spinto nel gesto dalle discriminazioni omofobe e persecutorie a lui riserva-te dal governo inglese. Solo molti anni dopo, il 10 settem-bre 2009, quasi costretto da una campagna internet, il governo inglese tramite il suo primo ministro Gordon Brown, presentò pubbliche scuse e gli riconobbe i giusti meriti. Ma il comunicato risultò più un atto d’ufficio che da vera ammenda, sfiorando un de-lirio demagogo sulla libertà dei popoli giusti che ricorda-va i tempi duri della guerra. La frase conclusiva basti per tutte: «Così, per conto del go-verno britannico, e di tutti co-loro che vivono liberi grazie al lavoro di Alan, sono or-goglioso di dire: ci dispiace, avresti meritato di meglio». Neanche alle scuse ha ab-bassato la testa, ma alzata per il fiero gesto. A Padova dicono: “no go paroe”.

La macchina elettromec-canica Enigma fu messa a punto nel 1918 dall’ingegne-re tedesco Arthur Scherbius (1878 – 1929). Aveva più o meno le dimensioni di una macchina da scrivere ma pesava 12 kg. Era dotata di due tastiere, una vera e propria, l’altra con i tasti sostituiti da lette-re che si accendevano ad ogni battuta di tasto corri-spondente. Il tutto era gestito da tre rotori interni, ovvero tre dischi che avevano in rilievo le 26 lettere dell’alfa-beto tedesco. Dopo un ten-tativo fallito di commercia-lizzazione, Arthur Scherbius nel 1926 trovò fortuna per la sua macchina nella marina militare tedesca, ed in segui-to anche nell’esercito e tutto l’apparato nazista. Più volte perfezionata da Scherbius,

Enigma risultava veramente di inestricabile comprensione, tanto che nel 1931 Hans-Thilo Schmidt, impiegato tedesco che aveva accesso alla mac-china, fornì ai francesi due prototipi di manuali d’istru-zione, con i quali tentarono di sbrogliare il sistema della macchina. Ma il progetto si ri-velò così complesso da indurli dopo poco ad abbandonare il tentativo. La Polonia ve-dendo lontano e sentendosi in pericolo, chiese ai francesi tutto il materiale su Enigma, e con i migliori accademici del-la nazione formò un gruppo guidato dal matematico Ma-rian Rejewski. Che con una macchina da lui progettata chiamata Bomba, riuscì a penetrare Enigma, intuendo che i tre rotori erano impo-stati in base ad una chiave di regolazione. Le regolazio-ni cambiavano ogni giorno, ma la Germania fece l’errore

di programmarle e metterle in un calendario, quindi la vera chiave era quel calen-dario. In seguito la Germania migliorò Enigma aumentan-do le combinazioni possibili. Bomba non fu più in grado di supportare tale complessi-tà e alla vigilia dell’invasio-ne della Polonia, il progetto venne trasferito in Inghilterra. Dove a Bletchley Park, si riu-nirono i migliori matematici della nazione, che riuscirono a riprogettare Bomba au-mentandone la capacità di elaborazione. Ma i tedeschi migliorarono ancora Enigma, e gli inglesi ancora a rincor-rere. Si instaurò così tra i due servizi di intelligence militari, una vera e propria guerra fredda in una calda. Solo co-lui che è passato alla storia come Alan Turing il genio, ri-uscì a scoprire Enigma in ogni suo anfratto, svelando così anche migliaia di messaggi

del passato intercettati ma mai decriptati, scoprendo i segreti delle forze armate te-desche e dell’apparato na-zista. Una vittoria straordina-ria che ha fortemente ifluito sull’esito della guerra

Enigma

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PANkARoCk

Tutti hanno il proprio idolo. C'è chi ama un cantante in par-ticolare o un campione del calcio o del basket. Io invece adoro Johnny Deep. E in asso-luto il mio attore preferito e vo-glio raccontarvi cosa mi piace di lui e qualche curiosità che

PANkAMovIE

Io AdoRo JoHNNY dEEPIl ragazzo ribelle che scoprì il cinema per caso. Attore eclettico dal fascino irresistibiledi Luca Gaspardis

magari non tutti sanno. John-ny Christopher Deep secondo è nato il 9 giugno 1963 nel Kentuchy ed è il più piccolo di quattro fratelli. Da bambino era molto attaccato al nonno, che mori poco dopo il suo set-timo compleanno. Questo lutto

fece scattare qualcosa dentro di lui. Infatti dopo l’ennesimo trasloco con la famiglia, John-ny diventò un ragazzo scontro-so e chiuso: allo studio finì per preferire la sperimentazione delle droghe. Più tardi infatti avrebbe dichiarato che all'età di 16 anni aveva già provato ogni tipo di droga non tanto per qualche forma di dipen-denza, ma per curiosità. Nel 1984, dopo essersi separato dalla prima moglie, conobbe Nicolas Cage che riconobbe in lui una "faccia da attore" e lo incoraggiò ad intraprende-re la carriera della recitazio-ne. Poco tempo dopo Johnny riuscì ad ottenere un provino per l'horror "Nightmer on elm street" e gli fu data una parte da studiare in una notte. La mattina seguente al provino, l’ingaggio: fu così che la sce-na più incredibile del film ha proprio lui come protagonista. In seguito il grande Oliver Sto-ne lo scelse per la parte di un soldato nel film "Platoon" del 1986 che vinse ben 4 premi Oscar. Grazie l'esperienza di Platoon ambientato nella jun-gla vietnamita, la passione di Johnny per il cinema crebbe a tal punto di diventare una scelta di vita. Inizia cosi ad avere molta fama e notorietà ed insieme ad esse arrivano i

soldi che Johnny usa per colti-vare la sua passione che oltre alla recitazione e la musica. Infatti non dimentichiamoci che Johnny ha suonato come chitarrista in "Fade in out" de-gli Oasis, ed è membro della band "P" che vede la presen-za del bassista "Flea" dei Red Hot Chili Peppers. Reciterà poi in molti altri film e tra quelli che preferisco sicuramente c'è "Edward mani di forbice" che lo vede come attore protago-nista, e “Blow” dove interpreta la vita di George Jung, traffi-cante di droga degli anni ‘70 e protetto di Pablo Escobar. Oltre a questi film, tutti cono-scono la grande versatilità di Jhonny che riesce a passare tranquillamente da un film in bianco e nero ed impegnato ad un personaggio simpa-tico come Jack Sparrow in "I Pirati Dei Caraibi". Oltre ad essere un grande attore è un personaggio che ad ogni pre-sentazione dei film e ad ogni red carpet lascia tutti a bocca aperta con le sue apparizioni e la sua bellezza. Basti pen-sare che le sue fan vanno dai 12 ai 40 anni. Insomma tutte lo amano per il suo aspetto fi-sico e il suo modo di fare, ed io personalmente continuerò a seguirlo e ad amare i suoi film.

alotofmillion

NEGRITA, LA CARICA dEL RoCk

di Fabio Passador

La ricca estate dei concer-ti live in Friuli Venezia Giulia non ha distratto i molti fans dei Negrita, la band aretina che da diciott'anni, dall'uscita del loro primo disco omoni-mo, è tra i migliori protagoni-sti della musica italiana. Era il 1994 e dalle radio echeg-giava l'orecchiabile ritornello di Cambio il primo singolo ufficiale dei Negrita. Ed è pro-prio con il loro cavallo di bat-taglia che si accende lo show di una delle poche band che in Italia offre ancora un spet-tacolo rock degno di tale eti-chetta. Il tour invernale ha fat-to registrare sold out per ogni data, ma anche gli spettacoli estivi come quello di Majano sono stati presi d'assalto da vecchi e nuovi ammiratori di Pau e compagni. D'altronde è proprio nelle esibizioni dal

vivo che danno il meglio di loro, regalando a chi li ascol-ta due ore di generoso rock dai taglienti riff di chitarra di Drigo e Cesare, all'inarresta-bile balletto con il suo bas-so di “Ciccio” Li Causi e la possente presenza scenica di Pau. L'atmosfera si scalda subito sotto il palco con uno dei brani estratti dal nuovo al-bum Dannato vivere intitolato Fuori controllo che descrive la rabbia dei giovani davanti all'incertezza del proprio futu-ro, così come nella successiva Il libro in una mano la bom-ba nell'altra, un vero testo di denuncia nei confronti del potere economico e politico che prende di mira soprattut-to l'ipocrisia del clero e le sue ricchezze davanti a drammi come la guerra e la fame. Immobili, un'altra canzone

contenuta nel loro ultimo la-voro, sembra essere quasi la risposta che la band dà di sè e del resto della società da-vanti ad un mondo difficile da cambiare, dove speranza e lotta sembrano aver lascia-to spazio a rassegnazione ed indifferenza. Oltre a dar spa-zio alle nuove canzoni come Brucerò per te e Un giorno di ordinaria magia nella scalet-ta trovano il loro posto pietre miliari della storia dei Negri-ta come Mama Maé, In ogni atomo che ci riportano ai pri-mi successi dei nostri benia-mini toscani, passando dalla carica rock di A modo mio e Transalcolico, invocata anche dal pubblico, al quale Pau si concede con un ballo tribale

all'ombra di uno spettacolo di luci coloratissime. Dall'inti-mismo femminile di Magno-lia e Bambole all'autentico sound sudamericano che ha contagiato il gruppo negli ultimi lavori in studio come la rivisitata Rotolando verso Sud e Radio Conga, i Negrita ci regalano due ore abbon-danti di intensità, balli, cori e perché no, anche degli spunti di riflessione su noi stessi ed il mondo che ci circonda. Nei vari bis concessi ai numero-si fans, la conclusione con i brani Ho imparato a sognare e l'inno finale Gioia infinita rappresentano una sorta di augurio ad un futuro migliore, senza rinunciare ai sogni, alla felicità ed al suo rumore.

Tappa a Majano per la band toscana

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PANkALIbRI

donne che non temono di essere fuori modaDall’autrice di “Donne che cor-rono coi lupi”, un'altra perla di vita sempre attualedi Franca Merlo

La vicenda di Alex Schwazer, trovato positivo al doping alle recenti Olimpiadi, mi ha ri-chiamato alla mente un libro. In quel fatto ho visto lo spec-chio della nostra società, ho letto la fragilità di tanti giova-ni che sono diventati dipen-denti dalla propria immagi-ne, costretti ad esibirsi sempre saldi e vincenti, finché non ce la fanno e cercano la scorcia-toia, non ce la fanno e crolla-no. E’ difficile amarsi davvero, aver cura di sé e della pro-pria vita, a costo di andare contro corrente. Per contrasto, la vicenda mi ha richiama-to il libro di Clarissa Pinkola Estés, La danza delle grandi madri, che esalta la forza len-ta e perenne di vecchie don-ne che non temono di essere fuori moda. Donne che sono rimaste “dei boschi” in una società che vuole tutti omolo-

gati e “civili”. Donne che non sono state fiaccate dalle diffi-coltà e dalle ferite della vita, ma hanno trovato in se stes-se la forza di rinascere. Sono anziane profughe magiare disperse dall’Ungheria alla Russia dopo la seconda guer-ra mondiale e infine appro-date nella grande famiglia di Clarissa, in America. L’autrice è quella psicologa iunghiana che anni fa ebbe un gran-de successo con Donne che corrono coi lupi. In questo successivo libro racconta l’ir-ruzione di quattro anziane “di-vine e pericolose” nella sua vita di ragazzina condannata alla noia del conformismo. Pericolose perché trascinatri-ci: «Quando una vive piena-mente, così fanno anche gli altri». Queste vecchie, come nelle fiabe, le hanno aperto una porta segreta «un luogo

abitato dall’anima che era, continua ad essere, lontano da ogni cultura secondo la quale bambini-donne-anzia-ni dovrebbero essere visti e non sentiti (…) dove è possi-bile vivere una vita riempita dalla passione e informata dalla ragione (…) a evitare che precipitassi nel niente di una conformità accuratamen-te coltivata». Con linguaggio magico e suggestivo, che ri-chiama le storie narrate intor-no al fuoco, l’autrice ricorda: «Era alle feste di matrimonio che le anziane davano libero sfogo ai loro poteri di streghe buone, di incontenibili vec-chie donne pericolose». La narrazione è spesso sul filo dell’umorismo e del parados-so: «E’ una vecchia tradizione. Quando una figlia si sposa, le anziane tentano di uccidere lo sposo prima che raggiun-ga il talamo nuziale. E come arma usano la danza. In quella particolare notte d’e-state, di quel preciso matrimo-nio, cibo, danza e vino ave-vano raggiunto il culmine. La sala aveva il buon odore del sudore fresco di duecento cit-tadini naturalizzati e della pri-ma generazione di figli nati in America». E fu allora che le quattro grandi madri … ma no, non vi tolgo il gusto del-la sorpresa, se voleste legge-re il libro. Posso solo dire che

le quattro vecchie scatenate, attraverso le danze magiare “fecero fuori” ventiquattro bal-di giovani, venticinque con lo sposo. Allora la più anziana si consultò con le altre, che annuirono e convocarono la sposa. «La ragazza era bel-lissima – scrive Pinkola Estés - come un centrino di mer-letto bianco bordato di per-le. - “Dolce angioletto, questo stallone dunque è tuo marito? Avrà sempre energie per por-tarti a cavalcare. Lo abbiamo provato per te!” - Le anziane donne buttarono indietro la testa mostrando i denti d’oro, emisero un grido a quattro voci e per poco non cade-vano dalla sedia. La sposa si illuminò e arrossì felice». Un libro adatto alle donne gio-vani e vecchie, che secondo l’autrice, dovrebbero essere in dialogo tra di loro, perché per essere se stesse al meglio hanno bisogno l’una dell’al-tra. Come nei miti e nelle fia-be, dove la vecchia indica la strada e dà l’amuleto o la for-mula magica. Un libro adatto anche agli uomini, perché «il compito fondamentale del-la grande madre non è che questo, e tutto qui: vivere la vita in tutta la sua pienezza. Non a metà. Non a tre quarti. Non un giorno da pecora e il giorno dopo da leone. Ma piena di vita, ogni giorno”.

“Quella del Vajont” della Cier-re edizioni è una biografia appassionata e documentata di “Tina Merlin, una donna contro” voluta e scritta da Adriana Lotto, docente uni-versitario e presidente dell'as-sociazione che a Belluno por-ta il nome della giornalista di Trichiana (Bl), e che esce ven-tuno anni dopo la sua morte. Tina Merlin (1926-1992), cor-rispondente e poi giornalista de “L’Unità”, morì a sessanta-cinque anni: il suo nome è rimasto legato nella memoria collettiva alla sua denuncia, iniziata nel 1956, contro i ri-schi che stavano correndo gli abitanti della valle del Vajont (Bl), a causa dei lavori di co-struzione dell'omonima diga. Fu una battaglia che questa donna coraggiosa e solitaria continuò a combattere per

Ritratto di una donna contro

recensione di Fabio Passador

L’altro volto di Tina Merilin, giornalista che lottò per la gente del Vajont

tutti gli anni della sua vita, vincendo le istanze presenta-te ai tribunali, ma senza riusci-re ad evitare quella tragedia che, il 9 ottobre 1963, costò la vita a duemila persone e di cui il prossimo anno ricorre il cinquantesimo anniversario. Figlia di un padre emigrante e di una madre forte ma pe-rennemente nostalgica e ulti-ma di sei fratelli, il suo nome di battesimo era Clementina. Scorrendo le pagine della sua biografia la si conosce bam-bina e poi, appena sedicen-ne, la si segue a Milano dove fu costretta a trasferirsi con la sorella più grande Ida, per lavoro. Qui però Tina è insof-ferente per la mansione che deve svolgere, quella di servi-tù per una famiglia benestan-te. Due anni più tardi, dopo l'8 settembre, si unisce alla lotta

partigiana, nello stesso batta-glione comandato dal fratel-lo Toni, che morirà qualche giorno prima della Liberazio-ne in un agguato dei nazisti. Questo episodio segnerà per sempre la vita di Tina: entre-rà infatti nel Partito Comunista Italiano, ricoprendo incarichi importanti nella FGCI, nell'U-DI, arrivando ad essere eletta consigliera provinciale a Bel-luno, ma per il suo carattere rigoroso e sincero, sarà amata ed altrettanto odiata da molti. Tina la comunista, ma soprat-tutto Tina e la sua vocazione per il giornalismo di inchiesta, vicino agli ultimi e contro le ingiustizie, nata per caso gra-zie ad alcuni articoli che scris-se su e giù per la valle per

“L'Unità”, che la giovane Tina insegue con passione, tanto da riuscire ad entrare ormai adulta nelle redazioni di Mi-lano, Vicenza e Venezia. In “Quella del Vajont” Adriana Lotto traccia un ricordo più profondo ed intimo di quello che il regista Renzo Martinelli, nel suo “Vajont” del 2001, re-galò al grande pubblico: Tina Merlin non fu solamente una figura isterica ed incompresa del giornalismo e della poli-tica del Novecento, ma gra-zie a questo libro ci ritorna indietro anche la donna for-te e tenera allo stesso tempo; altruista, tanto che la sua vita privata fu secondaria rispetto alle battaglie contro le ingiu-stizie del mondo. Un carattere, quello di Tina Merlin, vicino allo stereotipo della gente di montagna: ruvido ma schiet-to. L'imprescindibilità dei va-lori comunisti e cristiani allo stesso tempo nell'aiutare il prossimo, il diseredato, l'op-presso ne hanno fatto una persona combattiva ed altret-tanto sensibile, la cui intimità è tutta da scoprire in questo libro completo, che ci regala il ritratto vero di una donna d'altri tempi.

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- Che si fa questa sera?- Non so, non c'è mai niente da fare a Pordenone! Invece a volte qualcosa si può trovare, anche in perife-ria. Come nei mercoledì sera di luglio, nel quartiere di case Ater di via Pontinia, dove il Centro di aggregazione giovanile "Spazio X" del Co-mune di Pordenone, gestito dalla Nuove Tecniche socie-tà cooperativa, ha proposto una "Scuola di arti marziali" gratuita e aperta ai cittadini di ogni età. I quattro appunta-menti sono stati possibili gra-zie alla partecipazione volon-taria degli atleti, con i genitori e i responsabili della Polispor-tiva Villanova, il tutto sotto la guida del maestro Edoardo Muzzin, più conosciuto in città

NoN SoLo SPoRT

A scuola di arti marziali in via PontiniaLa nuova proposta di "Spazio X" per l’estate, lezioni di Judo e Nor-dic walkingdi daniela Russo e Elisa Cozzarini

come Dudu.Il prato tra i palazzi Ater, vicino al centro polifunzionale, è sta-to ricoperto dai tatami, cioè i materassi sottili usati nel judo, su cui cadere, che servono anche per delimitare le aree di gara. Qui hanno combat-tuto e si sono esibiti gli atleti pordenonesi, disciplinati nei loro kimono bianchi, facendo provare qualche mossa an-che ai giovani spettatori. Per gli adulti, la proposta è stata il Nordic walking, uno sport che si pratica all'aria aperta e, ri-spetto al camminare, mette in moto anche braccia e spalle, grazie all'uso di bastoncini. La "Scuola", aperta a tutta la cittadinanza, per la pro-mozione dei sani valori dello sport e del volontariato, ha coinvolto soprattutto i residen-

ti del quartiere, che in queste quattro serate non hanno do-vuto spostarsi in centro alla ricerca di qualche proposta estiva. Con curiosità, in molti si sono avvicinati ai tatami, per un piacevole momento di condivisione tra genera-zioni diverse, dai bambini agli anziani. Coinvolgente ed emozionante è stata soprattut-to l'esibizione di "judo show", una performance innovativa, realizzata a ritmo di musica da un gruppo di atleti gio-vanissimi, che a due a due si fanno forza uno con l'altro per volteggiare su loro stessi, ca-dendo con leggerezza e co-ordinazione sorprendenti. In silenzio, gli occhi degli spetta-tori hanno seguito fissi e atten-ti i movimenti dei ragazzi, fino all'inchino finale. Da tradizio-ne nelle arti marziali l'inchino è il saluto che si fa prima e dopo un incontro, con cui gli atleti dimostrano disciplina e rispetto reciproco. Subito dopo è scoppiato un fragoro-so applauso, spontaneo, e gli atleti hanno spezzato le righe per correre orgogliosi dai ge-nitori, che li aspettavano per abbracciarli e complimentar-si. La voce del maestro Dudu, che ha accompagnato le quattro serate con commenti

e spiegazioni sul judo e la fi-losofia delle arti marziali, ha concluso gli appuntamenti a via Pontinia con un invito a tutti a partecipare ai mondiali di judo, dal 20 al 23 settem-bre al Palazen di Pordenone. Un evento importantissimo, per la Polisportiva e per la cit-tà, in cui tra l'altro sono stati coinvolti, nel servizio d'ordine, anche i ragazzi del Centro di aggregazione "Spazio X". Lo sport ha creato così, in questa calda estate di crisi, un pon-te tra due quartieri periferici della nostra città: è la dimo-strazione che ogni tanto qual-cosa da fare lo trovi anche a Pordenone. Basta saperlo cercare e, magari, proporre. Per info sulle attività sportive: [email protected]. Sul Centro di aggrega-zione giovanile: [email protected]

Alla base del judo c'è il principio jita kyoei, espres-sione che, tradotta dal giapponese, significa “tutti insieme per progredire”. Il judo, infatti, è un'arte mar-ziale basata sul confronto e contatto fisico con l'altro, con cui si combatte nel massimo rispetto reciproco. In questa disciplina non si può imparare né miglio-rare allenandosi da soli: di fronte bisogna sempre avere un’altra persona, che combatte e cade a terra perché l'avversario possa imparare.Questa visione dello sport, basata sulla stretta relazione con l'altro, si presta naturalmente a una forte sinergia con l'im-pegno nel sociale. Succede da Pordenone a Napoli. In un territorio difficile come quello di Scampia, Gianni Maddaloni, padre di Pino Maddaloni, medaglia d'o-ro alle Olimpiadi di Sidney 2000, ha una palestra che per molti ragazzi rappresen-ta l'unica àncora di salvez-za, un baluardo di legalità. Il binomio sport e solidarie-tà anima da sempre anche

JUDO E IMPEGNO SOCIALEla Polisportiva Villanova, fondata nel 1979 a Porde-none dal maestro Edoardo Muzzin, assieme a un grup-po di amici. «Sin dall'ini-zio la regola è stata di far partecipare tutti, anche chi non poteva permettersi di pagare la retta mensile - af-ferma Muzzin - la sfida alla fine degli anni Settanta era creare una base per l'ag-gregazione nel quartiere di Villanova, dove al tem-po non c'era nemmeno la chiesa, si rischiava che na-scesse un ghetto, con tante famiglie ai margini». Oggi quella scommessa è sta-ta vinta e la Polisportiva è cresciuta, arrivando a 400 atleti, ma lo spirito rimane quello di andare oltre alle attività sportive, creando momenti di aggregazione e condivisione. «Rispetto all'i-nizio, adesso è sempre più difficile coinvolgere gli atleti e le famiglie nel volontaria-to - continua Muzzin - tutti hanno vite frenetiche, sem-bra non ci sia il tempo di fermarsi a riflettere su dove stiamo andando». Ecco per-ché l'impegno continua.

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LDP - LIBERTÁ DI PAROLAGiornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi

Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009

Direttore ResponsabileMilena Bidinost

Direttore EditorialePino Roveredo

Capo RedattoreGuerrino Faggiani

RedazioneDott.ssa Mariangela Cunial, Andrea Picco, Franca Merlo, Ada Moznich, Ferdinando Parigi, Manuele Celotto, Fabio Passador, Luca Gaspardis, Elisa Cozzarini, Daniela Russo, Caterina Traetta, Floriana Nardozi, Mihai Stuleanec, Gino Dain, Fabio Garofalo.

EditoreAssociazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Viale Grigoletti 11, 33170 Pordenone

Creazione graficaMaurizio Poletto

ImpaginazioneAda Moznich

Stampa Grafoteca Group S.r.l.Via Amman 3333084 Cordenons PN

FotografieFoto a pagina 1, 9/13, 15, 16 http://commons.wikimedia.org/wiki/Main_PageFoto a pagina 2 di Saa RaccuttoFoto a pagina 3 di Gigi Cozzarin (dal sito di Pordenonelegge.it)Foto a pagina 4 e 5 Fabio Passador Foto a pagina 8 di Guerrini FaggianiFoto a pagina 14 di Milena BidinostFoto a pagina 18 di Elisa CozzariniDove non citate cura della redazione

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Hanno collaborato a questo numero

——————————————Guerrino FaggianiSe è vero che della nascita non ci si ricorda nulla, chiedetelo a lui, vi saprà raccontare ogni secondo, è rinato nel 2007! Da cinque anni con la Panka ca-valca la vita, non tanto per sal-tare gli ostacoli, ma proprio per abbatterli

——————————————Milena BidinostIl direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immer-gersi nella bolgia dell’Associa-zione con delicatezza e costan-za, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un arti-colo! Ma confidiamo nella sua amicizia

——————————————Franca MerloPresidentessa onoraria dell’As-sociazione affronta la vita come una eterna sperimentazione. Oggi è a Londra, più avanti.. si vedrà. Non manca mai di commentare il blog, non man-ca mai di sentirsi Panchinara, ovunque sia.

——————————————Pino RoveredoPenna in mano, foglio davanti agli occhi, cuore e cervello per riempire gli spazi, colorarli. To-scano, non di origine ma fede-le compagno tra le labbra, a profumare parole da sentire o leggere.

——————————————Elisa CozzariniBici gialla per passare inosser-vata, capello corto per non ri-schiare mai di non osservare. Fedelissima firma di LDP, pre-senza eterea in una fossa di leoni.

——————————————Andrea PiccoSceglie di vivere anche lavo-rativamente la sua Gorizia per-ché, a pochi metri di distanza, la benzina costa molto meno! Se la storia è partenza e slancio verso il futuro, lui la rappresen-ta per questo luogo, indelebil-mente

——————————————Manuele CelottoScrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante que-sto difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricor-do di antichi fasti e disavventu-re inenarrabili

——————————————Fabio PassadorAttualmente panchinaro di lus-so! Come ogni giocatore di cal-cio dal baricentro basso, non gli si può chiedere di aspettare i cross in area per colpire di te-sta, ma offre dinamismo, scatto breve e bruciante, dribbling secco e magnifici assist

——————————————Daniela RussoGiovane Amica di vecchia data. Spirito etereo e garbato si è incendiata alla notiazia dello sfratto. Ma quando la rabbia diventa potenza, si è capaci di qualsiasi risultato. Lei si è sfoga-ta con penna e foglio ed ora... non può più fermarsi!

——————————————Luca GaspardisE’ il più piccolo della compa-gnia ma non certo per l’altezza! Quando ci ha incontrati per la prima volta sembrava impau-rito anche della sua ombra, adesso è diventato un fiume in piena! Siamo sicuri che abbia molte cose da dare, anche se per ora non ricorda dove le ha messe!

——————————————Ferdinando ParigiVoce tonante, eleganza innata, modi da gentiluomo che si tro-vano raramente, la nostra nuo-va penna si fa sempre notare, tanto che le sue mail sembrano lettere direttamente uscite da un romanzo dell’800

——————————————Ada MoznichDelle quote rosa lei se ne infi-schia, non le servono! Essere presidente donna di un’asso-ciazione di tossici è da solo un miracolo in termini. Si ama e si teme nello stesso istante, tiene tutti e tutto sotto controllo, anche il conto in banca: - Ada ci ser-virebbe una penna.. “scrivi con il sangue che le penne costa-no..!”

——————————————Gino DainProbabilmente l’unica persona al mondo capace di arrivare così vicino alla morte da poter-la guardare in faccia per dirle: “..ci vediamo un’altra volta!”. Non basterebbe un libro per raccontare tutte le cose che ha combinato e che sta facendo, ma per noi resta Ginetto, finissi-mo rappresentante di una ge-nerazione di fenomeni

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buona lettura,buona culturaI ragazzI della panchIna

campagna per la sensibilizzazione e integrazione socialeDei ragazzi Della pancHina con il patrocinio Del comune Di porDenone