LDP 2/2012

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Libertá di Parola 2/2012 —— IL TEMA IL RICORDO PANKANEWS INVIATI NEL MONDO APPROFONDIMENTO È qui la "Festa"? Alla fine, della festa non resta più nulla, la musica techno ha bucato la notte, migliaia di persone han- no ballato per ore, ma per tutto il mondo è come se non fosse successo niente. Dagli anni Ottanta in tutta Europa i Rave Party trac- ciano un mondo parallelo dove musica e sostanze annullano l’individualità e creano una grande unica collettività. Che si incrocia con il resto del mondo solo quando acadde la trage- dia. a pag. 17 Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire) L' EDITORIALE Depressione di Pino Roveredo continua a pagina 2 a pagina 14 a pagina 8 a pagina 8 a pagina 2 PAKAROCK Caro quello stato d’animo che, come il ritmo di un’e- voluzione meteorologica, ti scandisce il tempo della vita: ieri sole, oggi pioggia, doma- ni nebbia, oppure tempora- le, e poi, come da proverbio, forse, la calma del sereno. In quelle evoluzioni, c’è chi, ignorando la noia e il brivi- do, si chiamerebbe l’estate per tutta la vita, e chi, dal destino, riceve invece l’inve- stitura stabile dell’inverno, e lì, tra gelo e dolore, anche le giornate discrete diventano belle giornate. Stati d’animo che vengono percossi dal- le grandinate, e si riposano nella convalescenza dell’ar- cobaleno, oppure sognano sotto le notti riempite di stel- le, partoriscono con la luna piena, o aspettano il rumore dell’alba per capire il valore dell’esistenza. Stati d’animo che si fanno abbracciare dall’umido di una tristezza, e poi si allungano come l’a- bitudine degl’umori, umori che non parlano e si sento- no chiedere sempre la stessa cosa: “Come stai? Cosa ti sen- ti? Come stai? Cosa ti senti?… …”Cosa mi sento? Guardi, non mi sento assolutamente niente, ed è talmente tanto quel niente che mi sento ad- dosso, che spesso non riesco nemmeno sentirmi quando mi lamento. Sta maledetta di una depressione è come un muro di ghiaccio che mi spacca la vita in due! A vol- te capita che vorrei cantare, gridare, ma ogni volta che mi arrampico su quella bar- riera gelata, scivolo e preci- pito giù nel mio solito silenzio. Qualche volta, sì, mi capita di bestemmiare sul telefono che non chiama, e quando chiama, maledetto perché ha chiamato! Parlare sì, vor- rei, forse, ma come si fa, se sono mesi e mesi che non ri- esco a trovare la scintilla per mettere in moto la voce! Il mio dottore mi ha detto di tirarmi su, di trovarmi degli amici, di andare a ballare, cantare, divertirmi, e che tem- TRISTEZZA VATTENE VIA ADDIO E GRAZIE ROBERTO BOCCALON NUOVA SEDE NEL 2013, INTANTO C'È L'EX ASILO SLOVENIA, LA LEGGEREZZA DEL VIAGGIO FENOMENO GOTYE, IL NUOVO STING NON SOLO SPORT MEDUNA, LA SPIAGGIA SOTTO CASA a pag. 18 a pagina 9

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Libertà di parola il trimestrale di informazione de I Ragazzi della Panchina di Pordenone

Transcript of LDP 2/2012

Libertá di ParolaN°2/2012 ——

IL TEMA

IL RICORDO

PANkANEws

INVIATI NEL MONDO

APPROFONDIMENTO

È qui la "Festa"?Alla fine, della festa non resta più nulla, la musica techno ha bucato la notte, migliaia di persone han-no ballato per ore, ma per tutto il mondo è come se non fosse successo niente. Dagli anni Ottanta in tutta Europa i Rave Party trac-ciano un mondo parallelo dove musica e sostanze annullano l’individualità e creano una grande unica collettività. Che si incrocia con il resto del mondo solo quando acadde la trage-dia.

a pag. 17

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

L' EDITORIALE

Depressionedi Pino Roveredo

continua a pagina 2

a pagina 14

a pagina 8

a pagina 8

a pagina 2

PAkAROCk

Caro quello stato d’animo che, come il ritmo di un’e-voluzione meteorologica, ti scandisce il tempo della vita: ieri sole, oggi pioggia, doma-ni nebbia, oppure tempora-le, e poi, come da proverbio, forse, la calma del sereno. In quelle evoluzioni, c’è chi, ignorando la noia e il brivi-do, si chiamerebbe l’estate per tutta la vita, e chi, dal destino, riceve invece l’inve-stitura stabile dell’inverno, e lì, tra gelo e dolore, anche le giornate discrete diventano belle giornate. Stati d’animo che vengono percossi dal-le grandinate, e si riposano nella convalescenza dell’ar-cobaleno, oppure sognano sotto le notti riempite di stel-le, partoriscono con la luna piena, o aspettano il rumore dell’alba per capire il valore dell’esistenza. Stati d’animo che si fanno abbracciare dall’umido di una tristezza, e poi si allungano come l’a-bitudine degl’umori, umori che non parlano e si sento-no chiedere sempre la stessa cosa: “Come stai? Cosa ti sen-ti? Come stai? Cosa ti senti?……”Cosa mi sento? Guardi, non mi sento assolutamente niente, ed è talmente tanto quel niente che mi sento ad-dosso, che spesso non riesco nemmeno sentirmi quando mi lamento. Sta maledetta di una depressione è come un muro di ghiaccio che mi spacca la vita in due! A vol-te capita che vorrei cantare, gridare, ma ogni volta che

mi arrampico su quella bar-riera gelata, scivolo e preci-pito giù nel mio solito silenzio. Qualche volta, sì, mi capita di bestemmiare sul telefono che non chiama, e quando chiama, maledetto perché ha chiamato! Parlare sì, vor-rei, forse, ma come si fa, se

sono mesi e mesi che non ri-esco a trovare la scintilla per mettere in moto la voce!Il mio dottore mi ha detto di tirarmi su, di trovarmi degli amici, di andare a ballare, cantare, divertirmi, e che tem-

TRIsTEZZA VATTENE VIA

ADDIO E GRAZIE ROBERTO BOCCALON

NUOVA sEDE NEL 2013, INTANTO C'È L'EX AsILO

sLOVENIA, LA LEGGEREZZA DEL VIAGGIO

FENOMENO GOTYE, IL NUOVO sTING

NON sOLO sPORT

MEDUNA, LA sPIAGGIA sOTTO CAsAa pag. 18

a pagina 9

po un mese, sicuramente mi passerà tutto. Ma dico, cosa, è scemo?... Ma se avevo il desiderio di amici, balli e di-vertimenti, lui crede che me ne starei qui a perdere tem-po con una stanchezza che vuole saltare oltre un davan-zale?… Una stanchezza che mastica pietre senza sentire il gusto, che mangia chili d’ore senza che passi il tempo, che divora chilometri e chilome-

tri di sigarette e di dita gial-le senza provocare un colpo di tosse, una stanchezza che s’ingoia strade lunghe di pen-sieri che pensano sempre la stessa cosa: ma quand’è che finisce questa storia? Quan-do, che così mi preparo per ricominciare un altro giro. Sì, ricominciare un altro giro, o un altro tormento per andare incontro alla gente. La gente che mi spinge senza toccar-mi, la gente che mi guarda senza vedermi, la gente che mi parla senza dialogare, insomma, una gran folla di niente! Qualcuno sa dirmi com’è fatta questa gente, come…La gente che me la tolgo dalla vista con pastiglie po-

IL TEMA

L' EDITORIALE

Depressionedi Pino Roveredo

segue dalla prima pagina tenti, e dopo me la sogno sopra cuscini senza sonno! Nottate di occhi aperti consu-mate con la testa dentro la televisione, televisione che mi copre con le aste dei tap-peti orientali. Tappeti di tutti i colori, grigi, neri, vivi, morti, tappeti che piangono, tap-peti che ridono! Tappeti che vengono pestati dalle bibite ubriache, dalle compagnie di canzoni e da gente igno-rante e stupida che urla: viva la vita, viva la vita, viva la vita!… Ma basta, ma smette-tela!Ieri il temporale, oggi la nebbia, domani… speriamo tanto che arrivi la pioggia, magari quella leggera, leg-gera…

«Soffriva di depressione». Sem-pre più spesso si sente risolve-re con queste poche parole, in tv o nei giornali, casi di violenza, di eccidi familia-ri o comunque episodi turpi, riducendo in questo modo a una “malattia” la causa del tutto. Sempre più spesso del resto questa società im-pone al singolo la fatica di non sapere come adattarsi ai cambiamenti che stanno avvenendo nel mondo del lavoro, nelle relazioni sociali, nell’educazione delle nuove generazioni; la fatica tanto più di affrontare le difficoltà economiche e dello stare co-munque al passo con i tem-pi. Ma, anche laddove fosse quella la ragione del fatto, la depressione non è un cuo-re che funziona male o un arto mancante ed etichettare come malate delle persone toglie, a chi malato magari non è, la responsabilità socia-le. Al tempo stesso non dà al problema, quello della pato-logia depressiva da un lato e dall’altro degli stati depressivi che da essa si differenziano, l’attenzione che invece meri-ta. La diagnosi e la cura spet-tano perciò ai professionisti: la

Quella tristezza che non se ne vuole andareAbusata o sottovalutata, la depressione quando c’è è una malattia di Roberta sabbion

depressione è infatti un pro-blema medico, psicologico e sociale al tempo stesso. Par-lare di “depressione” significa riferirsi ad uno stato di soffe-renza psichica, caratterizza-ta da un abbassamento del tono dell’umore. Sembrereb-be apparentemente normale attraversare periodi in cui, per effetto dell'abbassamento del nostro tono dell'umore, diven-tiamo più tristi del solito, la re-altà ci appare soltanto grigia e percepiamo ostilità nei no-stri confronti, ci sentiamo stan-chi, scoraggiati, amareggiati e irritati, ma è quando questa tristezza diventa duratura, as-sociata ad un profondo pes-simismo, quando la realtà ci appare oscura e la vita priva di senso, che stiamo entran-do nella depressione, intesa come patologia. I sintomi sono molteplici, investono sia la sfe-ra psichica che quella fisica e possono essere associati ad una componente ansiosa, ad un rallentamento motorio e ideativo, ad un diffuso senso di malessere fisico come, ad esempio, emicrania, disturbi gastroenterici e altre manife-stazioni somatiche, in qual-che caso si rilevano ideazioni

deliranti, caratterizzate dalla percezione di imminenti cata-strofi e fallimenti, ma è possi-bile anche vi siano alterazio-ni comportamentali, in ultima analisi è giusto precisare che non sempre è possibile sepa-rare in modo evidente i vissuti depressivi dall'episodio de-pressivo maggiore. Spesso è difficile comprendere quanto male stiano le persone che soffrono di depressione; que-sto probabilmente è uno dei motivi di scontro con i fami-liari che spesso i pazienti ri-feriscono, perché è un luogo comune che «basta un po' di buona volontà o un po' di sforzo e tutto si risolve». Quan-do compaiono situazioni come quella descritta e sono presenti da alcune settimane 3 o 4 dei sintomi elencati, è sempre preferibile rivolgersi al medico di medicina ge-nerale, che di solito ha gli strumenti per capire e inter-venire in maniera adeguata. In caso contrario può consi-gliare una visita specialistica, al finde di definire il corretto trattamento, che può essere farmacologico, psicoterapico o l’associazione di entram-bi. Più si attende e si pensa di poter risolvere da soli la situazione, più si entra in un vortice all’interno del quale si vedono sempre meno so-luzioni fino a giungere alla sensazione di non avere più vie di uscita. In questo caso la soluzione è più complessa e può arivare a richiedere an-che un ricovero. Per questo è fondamentale chiedere aiuto presto, superando le resisten-ze. Rivolgersi ad uno specia-lista non equivale ad essere "matti", al contrario, è proprio per non diventarlo che biso-gna contattarlo presto, per-ché comunque stare meglio si può.

IDENTIKITSintomi e stati d'animo che potrebbero indicare la pre-senza di un malessere più complesso, degno di ap-profondimento. Per parla-re di episodio depressivo maggiore è necessaria la presenza di almeno cin-que di essi• depressione deltono dell'umore, sentimenti di tristezza, di incapacità a svolgere qualsiasi compito e di inutilità con perdita di speranza rispetto al futuro;• sentirsi in colpa,rimuginare sul passato e sentirsi colpevoli per aver commesso degli errori, cre-dere di non meritare più la fiducia degli altri;• ritenere la vita unpeso e pensare al suicidio come all'unica soluzione di tutti i problemi;• insonnia con diffi-coltà ad addormentarsi e risveglio mattutino precoce con la sensazione di non volersi alzare, per non af-frontare un nuovo giorno;• taloraipersonnia• mancanza di sti-moli, diminuzione dell'inte-resse verso tutto, anche gli avvenimenti positivi non suscitano alcun interesse;• difficoltàaconcen-trarsi, ansia, irrequietezza, tensione, sensazione di di-minuzione della lucidità mentale e di perdita della memoria;• palpitazioni, cram-pi, secchezza della boc-ca, eccessiva sudorazione, nausea, perdita o eccessi-vo aumento dell'appetito;• digestione lunga,pesantezza agli arti note-vole diminuzione del desi-derio sessuale;perdita di energia e facile affaticabilità, mal di schie-na, disturbi mestruali, per-dita di peso, preoccupazio-ne per la propria salute;

Negli ultimi tempi, complice una delusione sentimentale, ero parecchio depresso. Par-lando della cosa con un ami-co di Padova, che è stato de-presso per anni, è emerso che l’agopuntura avrebbe potuto aiutarmi. Piuttosto perplesso sulla cosa, e più che altro per far contento il mio amico, ho cercato sul web “agopuntura a Pordenone”. Ho trovato il nominativo di un medico che conoscevo, gli ho esposto per email il mio caso e questi mi ha indirizzato ad una sua col-lega con esperienza specifica nel trattamento dei disturbi dell’umore tramite agopuntu-ra. Ho chiesto e subito ottenuto un appuntamento con questa persona dai modi gradevo-li, che subito mi è sembrata competente e comprensiva. A lei ho raccontato un po’ del-la mia storia e le ho spiega-to il mio disagio. Le donne, si sa, hanno una marcia in più, quando si tratta di ascoltare e di comprendere gli altri. Que-sta donna ha una marcia in più anche come terapeuta, essendo, tra l’altro, laureata in Medicina e Chirurgia e aven-do all’attivo otto anni di espe-rienza come agopunturista. “Tolga pure scarpe e calzini,

scopra il torace e si distenda sul lettino”, mi dice la prima volta che mi visita. Eseguo. La dottoressa prende misure e fis-sa dei punti con una penna sulla mia pancia, poi, con la punta di una matita, preme in diversi punti sulle orecchie chiedendomi dove sento più fastidio. Fatto ciò, senza pro-curarmi quasi alcun dolore mi infila degli aghi sottilissi-mi nelle caviglie, nei polsi, in due punti della pancia, nel-le orecchie e sulla fronte. Al momento di infilare l’ago nel polso sinistro, mi avvisa che sentirò una piccola scossa, poi un formicolio, poi nulla. E così accade. «Qui sentirà un po’ di fastidio», mi avverte prima di pungermi nella caviglia de-stra. Anche questo si verifica puntualmente. La dottoressa

Ho iniziato a scrivere su fogli sparsi, una scrittura di getto che non ha mai pensato di trasformarsi in libro. Le pagi-ne erano come uno specchio per il bisogno di ripassare il mio vissuto con una scrittu-ra libera senza bugie. In uno specchio uno non si nascon-de, come fa a nascondersi… rileggendolo, mi stupivo di ciò che avevo scritto. In un secondo momento ho realiz-zato che la mia testimonian-za, la mia esperienza, il mio racconto poteva essere utile a qualcuno, qualcuno che si riconosce in questa sofferenza, malessere, dolore e grazie a questo può sentirsi meno solo. Anche se fosse servito ad una sola persona per me sarebbe stato importante. Questo libro è il racconto di un viaggio, di un sogno che vola alto, un viaggio a N.Y. che dura quasi quattro anni di grande eufo-ria di luci sfavillanti, di vita da

film, un’occasione per toccare il successo nella città dove tut-to è possibile. Fino a quando quel cielo che ho tanto inse-guito e sognato in un attimo si ribalta (da qui il titolo), il mio vuoto interiore esplode e inizia un’altra storia, una storia di sof-ferenza, dolore che non avevo mai conosciuto, incontrato. Ar-riva la depressione bipolare, un grave disturbo dell’umore che porta a dei picchi di up and down molto forti, di eu-foria e depressione profonda. A lungo avevo lottato con un male ancora più oscuro della depressione, fin da bambina sono stata ingabbiata nell’im-magine della figlia perfetta, la prima della classe e nell’im-magine allegra e spensiera-ta che gli altri hanno sempre avuto di me. Sembra che in questa nostra società dobbia-mo per forza essere tutti i primi, persone di successo per essere amati, chi arriva secondo non

è contemplato figuriamoci gli ultimi in classifica. N.Y. ave-va esasperato questo biso-gno di inseguire il successo, per quanto parlino sempre e dicono di insegnarci il team work, il lavoro di squadra, non avevo mai incontrato un ambiente più individualista e competitivo. E proprio in que-sto ambiente, tra le luci brillan-ti della grande mela la mia estrema sensibilità e fragilità non ha retto, ed è esplosa nel modo più tragico( tentando

su e giù tra gioia e dolore«N.Y., la carriera, il crollo emotivo. La mia storia allo specchio»di Antonella Gatti Bardelli

di togliermi la vita). Ora dirò una cosa che sembra quasi paradossale, questa malattia così pesante, dolorosa, soffer-ta è stata la mia guarigione perché mi ha permesso di fare un altro viaggio, molto più importante molto più pro-fondo, un viaggio all’interno di me stessa e di comunicare attraverso la scrittura quello che avevo taciuto al mondo per trent’anni di vita. Oggi in qualche modo il cielo è torna-to al suo posto, questo nuovo percorso, cammino, viaggio e la grande sensibilità che por-ta con sé mi dà la possibilità di entrare in contatto con le persone di gioire e anche di soffrire empaticamente con i loro stati d’animo, storie, rac-conti, incontrando, vedendo e ascoltando gli altri per ciò che sono senza maschere e bugie. E’ per questo che nel libro dico che a questa malattia, se pur tragica devi imparare anche a voler bene perché ti apre spiragli sconosciuti della vita, un’estrema sensibilità che si trasforma in forza, e una in-sperata creatività artistica. La bellezza di questa scrittura è diventata sorpresa e grande gioia quando Pino Roveredo e poi Elisabetta Sgarbi hanno trasformato queste parole allo specchio in libro.

Il cielo capovoltodi Antonella Gatti BardelliBompiani 2012

sembra sapere molto bene il fatto suo. Io cerco di collabora-re rilassandomi il più possibile. Una lampada termica mi pro-cura un piacevole calore sul-la pancia. Dopo avermi così “agghindato”, la dottoressa mi avvisa che mi lascerà solo per un po’. Come lei esce dallo studio, il mio rilassamento si fa più profondo e piacevole. Pas-sa del tempo e il mio respiro si fa più lento. Nella stanza c’è una luce perfetta e si sentono cinguettare degli uccellini in lontananza. Il mio rilassamen-to diventa puro benessere e io mi lascio andare. Sponta-neamente, chiudo gli occhi. E’ una condizione davvero gradevole, quella in cui mi trovo a questo punto. Passa un tempo che non saprei quanti-ficare, ma che valuto in dieci-

quindici minuti circa, e la dot-toressa rientra. In realtà è stata fuori per circa tre quarti d’ora, ma a me è sembrato molto ma molto meno. Estrae uno ad uno gli aghi e mi invita a rivestirmi. Una sensazione di benessere, di calma, di armo-nia con l’esterno mi pervade. E’ qualcosa di molto diverso e di molto più profondo rispetto allo sballo procurato dalle dro-ghe. Non è uno sballo, è una condizione positiva e molto piacevole, del tutto naturale. Una condizione che permane come intensità per qualche ora. Domani farò la mia quin-ta seduta. Sento che mi giova e ho deciso che non voglio sapere niente dell’agopuntura (anche perché sapere molto sugli psicofarmaci mi ha sem-pre condizionato negativa-mente). Mi affiderò alle cure della dottoressa e stop, perché sento chiaramente che mi sta facendo bene. Per provare i benefici dell’agopuntura è op-portuno rilassarsi al momento di farla, tutto il resto lo fa il me-dico, anzi, lo fanno gli aghi se sono correttamente posiziona-ti. Una precisazione d’obbligo: il servizio sanitario nazionale paga soltanto l’agopuntura fatta a scopi analgesici.

AGHI sULLA PELLE PER TORNARE A sENTIRMI BENE Dopo anni di cure, la positiva esperienza con l’agopunturadi Ferdinando Parigi

Noi siamo quelli degli anni Ottanta che quando è uscito The Final Cut dei Pink Floyd non si aveva nemmeno fini-to le superiori. Cyndi Lauper cantava Time after time, ma alla fine ha consegnato il regno pop a Madonna e le ragazze se ne andavano in giro col rossetto sexy fucsia e le spalline sotto il top in pizzo. A San Lorenzo ci si trovava in jeans per giocare a calcio, le domeniche passate al circolo a tifare Roma, la tua forza la nostra fede, bevendo birra a 300 lire. Via Sabelli non muo-re mai, in delirio ogni fine set-timana di vittoria, e poi il 15 maggio ‘83 Campioni d’Italia, con gli automobilisti impazziti e noi a ripetere le diagona-li di Conti sul 3 a 1 contro il Torino. Al Sud si usava il Su-per Santos arancione, che per lo meno non era di cuoio come gli altri palloni, ma di gomma, e allora non glieli sfasciava i vetri a quei poveri disgraziati costretti a passare di lì. Si stava bene a vivere la strada, il ritrovo degli sbarbati, seguaci dell’A-team e Super Car, ore trascorse nel garage a montare il portapacchi an-teriore sulla Vespa e la sella lunga del Ciao. Così a sfotte-

Da figli degli anni di piombo ad adolescenti degli anni di fangoUna generazione a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta di Mina Carfora

re i Laziali per tutta Roma ci si andava in due sullo stesso mezzo e alla sera, che pareva non finisse mai, con la fidan-zata stretta alla pancia per arrivare al Gianicolo, nella speranza di un primo bacio sulla bocca. Quando abbia-mo ascoltato A kind of magic dei Queen era tramontato anche il Tetris e quelli della nostra età non ci andavano più nelle sale giochi . E’ suc-cesso che qualcosa è cam-biato. Eravamo cresciuti, non troppo, ma eravamo cresciuti. Alle ragazze spuntavano le

tette e ai ragazzi non basta-va solo alzarle le gonne per vedere che c’era sotto. E’ suc-cesso che da figli degli anni di piombo ci siamo svegliati adolescenti negli anni di fan-go. Montanelli li chiamava così, e siccome era poco con-formista e qualche anno pri-ma gli avevano sparato alle gambe, noi tutti più tardi gli abbiamo creduto, come poco prima si era creduto nella permanente e in Top Gun e Tom Cruise. Si navigava tra il benessere economico, l’inizio dello sviluppo tecnologico e la politica immischiata in af-fari corrotti e malavitosi. Era-no i primi anni della droga, della P2 di Gelli e Berlusconi scoperta e mai bandita, dello stordimento della classe bor-ghese venuto a galla senza ideali. Per le strade si cam-minava più smunti e pallidi, trascinando ogni passo come in una nuova fatica, verso un altro giorno di allucinogena spossatezza. Se negli anni Set-

tanta gli eroinomani erano una setta segreta, la decade successiva segnò l’ascesa dei tossicodipendenti di piazza. C’erano più pusher che ac-quirenti. Non potevi fare due metri che ne avevi tre, quattro addosso a venderti eroina o coca. Era cosa per pochi, ci ha imbruttito tutti, noi benestanti senza denti superportatori di epatite, distesi sulle panchine a tutte le ore e additati dal verso del “Fate schifo!”. Allo-ra ci pareva che lo Stato se ne fottesse, si conosceva già il buco dell’ozono, ma di noi niente, nessuna prevenzione. Meglio un popolo contento e stupido per dare il bentornato al proselitismo! Ho visto ami-ci vendersi la carne perché ormai si erano venduti tutto, persino l’ultima collezione di dischi di Battisti. Ne ho visto altri piegarsi sotto la crisi, con le bave alla bocca, contorcer-si come dannati in cerca di un’altra dose di dio assassino. E poi i più sensibili spezzarsi sotto il peso di una corda tesa o di un buco piantato dritto in gola. Chi di noi non si è preso l’Aids o non si è suicidato o non è morto di overdose è un sopravvissuto. Noi siamo i so-pravvissuti di una generazio-ne di derisi, abbandonati al morso velenoso di un proble-ma incompreso, amici della Disco Music e dei capelli coto-nati, vittime ignare del conta-gio e con le speranze infrante sotto l’ultimo buco. Noi siamo solo quelli che hanno avuto la forza e la fortuna per so-pravvivere, arrendendoci alle prescrizioni di metadone e alla noia di aver perso in una dose la nostra giovinezza.AbertLousvine

ZIO FRANCO

E CONTINUO AD AsPETTAREIn attesa di un segnale del potere, tacendo il mio vero esseredi Franco De Marchi

Come mai aspetto? Cosa aspetto? Non è da me aspet-tare, anche se la vita stessa mi fa aspettare tutto. Biso-gna però fare i conti con una realtà che troppo spes-so, in certi posti, esula dalla realtà stessa, mai, come in questi ambienti il diavolo fa le pentole ed i coperchi. In questo distretto giudiziario mi sono accorto, anche sulla mia pelle, che la legge non solo non è uguale per tutti, ma viaggia su binari indefi-niti. Questo benedetto o ma-ledetto codice. Bistrattato od

amato a seconda di come vanno a finire i processi o le richieste di alternative alla pena, perché si trova in mani e nelle coscienze di persone che non hanno idea delle conseguenze delle pene che comminano! E quindi ora mi trovo ad aspettare una data, quando fino a poco tempo fa correvo per raggiungerla, ora invece aspetto che mi venga incontro ed il mezzo, nel senso del tempo interme-dio, lo riempio con il poco o niente che a fatica tiro fuori dal me stesso, non il vero me

stesso. Questa volta, una del-le rare volte, metto l’anima sul tavolo. Mi costa scrivere queste righe, in quanto si ha sempre bisogno di una ma-schera di supporto. Ed aspet-to, aspetto troppe cose ed i tempi si allungano. Un cenno dell’avvocato, un program-ma delle assistenti sociali, dal medico. Queste cose aspetto, ma più di altri aspetto me stesso, aspetto di tirarmi su da questo fosso, aspetto chi può o potrebbe darmi una mano, ma chi? Ora come ora è va-lido il detto del: «Chi è dentro

è dentro, chi è fuori è fuori». Peccato che in questa situa-zione non ci sia un “libera tut-ti”. Non vi è la “tana”. A meno che per ”tana” non si inten-da una branda, in cui non si veda l’ora che la luce venga spenta, in modo da buttare fuori quella lacrima che per tutto il giorno hai negato agli altri e a te stesso. Perché non vi sono alternative a que-sto inutile aspettare? Perché le brande debbono essere sempre posti umilianti? Fateci aspettare con fiducia un inse-rimento vero, ma basta con questi effimeri contentini che ti fanno pesare solamente il senso del potere. Il senso di autodeterminazione viene cancellato.Ed allora al posto dell’essere vi è il contestatore o l’agitato-re, da reprimere. Ma per ar-rivare alla valanga basta un sassolino: chi è che lo lancia?

DICONO DI NOI

Sono una lettrice di Ldp, che è rimasta molto colpita da quanto letto nell’ultimo nume-ro sul tema degli “sbandati”. Penso che ciò che è stato fatto dalla vostra associazione sia una cosa bellissima, perché ha dato la possibilità alla gente di riconoscere un pro-blema che prima rimaneva nascosto per semplice pau-ra e ignoranza. Mi permetto di parlare di ignoranza non perché mi senta chissà chi, ma perché un periodo della mia vita ho subito anche io l’emarginazione che vivono “i ragazzi”, avendo sempre avuto la lucidità di calarmi nei panni della gente che si sentiva “minacciata” da que-ste presenze, che non sempre si comportavano in modo civile. Volevo soffermarmi su due parole chiave che sono state usate precedentemen-te: “normali” e “diversi”. E’ da tutta la vita che sento questa discriminazione ed è proprio questo che ha fatto alzare muri che sembravano indi-struttibili, ma che a quanto pare sono ora riuscitiaa butta-re giù solo con la conoscenza. Non essendo una giornalista, posso prendermi la libertà di schierami a favore dei “ragaz-zi” e contro tutta quella gente

che ha sempre cercato rifugio nello spostare il problema da una parte all’altra della città, pensando bene di difender-si da esso alzando una cor-netta e cercando protezione dietro a semplicissimi numeri “1.1.3.”. Numeri che non sono mai stati in grado di risolve-re il problema, eppure è il loro lavoro. E mi schiero con-tro anche tutta quella gente che è rimasta nascosta nelle proprie case, all’interno delle proprie famiglie e nelle loro vite apparentemente perfette. Ma non è così che si affron-tano le cose. Personalmente

penso che il problema sia di chi lo manifesta, non dei ra-gazzi che cercano solo un ri-trovo per non essere soli. Anzi prima lo avevano, ma le isti-tuzioni hanno ben pensato di chiuderlo rovinando una del-le cose belle che erano riusciti a costruire nel tempo. Ma la cosa positiva è che non de-mordono e continuano a farsi sentire e questo giornale né è la prova. Ho sempre visto ma-dri passare davanti a questi ragazzi con la testa bassa a passo veloce e stringendo forte a sé i figli, come se si volesse sfuggire da quel pro-blema che dura pochi metri, il tempo di sorpassare quella panchina per poi tornare alla luce, nella salvezza della loro mondanità. Penso che queste persone non potranno mai essere libere, anche solo di poter passeggiare, finché non riusciranno a superare i limiti mentali. Capisco e riconosco che il ruolo nonché dovere di una madre è proteggere i fi-gli e lo rispetto, ma signore vi chiedo: «Siete pronte a pren-dervi la responsabilità della consapevolezza di insegnare la cosa giusta alle vostre “ca-recreature”, senza considera-re la possibilità di far trovare rifugio ai vostri piccoli nella vostra conoscenza e ad apri-re voi in primis le braccia al mondo e insegnare loro ad accogliere la sofferenza e l’emarginazione, le diversità che ora come ora caratteriz-zando il mondo d’oggi?». A voi la scelta; è molto più faci-le essere “normali”, svegliarsi alla mattina, andare al lavo-ro, tornare a casa, trasgredire massimo con qualche siga-retta, mangiare e andare a dormire senza sentire il peso dell’avere sbagliato niente e costretti condividere in si-lenzio, e senza fare troppo ru-more, altrimenti la gente del vicinato rischia di svegliarsi. Io mi inchino davanti alla

gente che fa sacrifici per so-pravvivere in questo mondo, e non è facile nemmeno per loro combatterlo ogni giorno ma è proprio qua il punto: in modo diverso siamo tutti nel-la stessa barca, è questo che ci accomuna. Io paragono la mia vita ad un filo: è difficile camminarci sopra restandoci in perfetto equilibrio, ma è anche vero che basta un sof-fio per cadere nel vuoto. Se però chi riesce a restare sopra tende una mano allora ecco che ci arricchisce di più come quando senti di essere stato utile a qualcuno ed è così che ci si sente vivi, perché è come se salvando una persona sal-vi anche una piccola parte di te, un piccolo tesoro che potrebbe far di te una perso-na migliore, perché tutti noi formiamo il mondo e ognu-no lo completa dando qual-cosa. Non voglio sembrare una saccente arrogante che pensa di avere la verità in tasca perché so di non aver visto ancora niente e che la mia salita è ancora molto lun-ga e ripida, ma parlo perché le cose le ho vissute da figlia trovatasi a combattere contro l’ignoranza dei suoi genitori che, non per colpa loro, han-no cercato di proteggerla nel modo sbagliato e, da perso-na curiosa come sono, che ha sempre chiesto il perché di ogni cosa, il perché mi im-pedissero di conoscere i retro-scena. Mentre loro mi liquida-vano semplicemente con un bel: «Perché ti ho detto di no». Come se loro fossero onnipo-tenti, creatori del cielo e della terra, e di tutte le cose visibi-li e invisibili, ed io nella loro paura ho trovato la mia forza, la voglia di conoscere e di scegliere con la mia testa ciò che è giusto e ciò che è sba-gliato. È la voglia di guardare il mondo a 360 gradi e dal basso verso l’alto e sapendo dentro di me che l’alto sta so-pra ognuno di noi ed è infi-nito quindi irraggiungibile ed è questa immensità che noi possiamo goderci solamente alzando lo sguardo che dob-biamo riconoscere che siamo tutti alla pari e che nessuno può permettersi di giudicare l’altro. Ora posso dire di avere ripagato i miei genitori di tutto l’insegnamento che mi è stato dato, dando loro la possibilità di conoscere un mondo nuo-vo e di non avere paura, per-ché è solo così che si impara a vivere. Vorrei lanciare un messaggio a tutti i figli dei ge-nitori paurosi: «Non arrende-tevi perché voi potete donare loro la libertà”. Con affetto.

se il problema sta solo nella testa di chi lo denunciaLa lettera di una nostra lettrice che, dall’incontro con “Caracreatura” di Pino Roveredo, ha trovato la forza di reagire ad una vita di ottusitàdi Daniela Russo

Iniziano in salita i primi passi nel mondo di Mauro, “ragaz-zo” del 1964 di Pordenone, perdendo il padre all’età di tre anni e con una madre co-stretta a caricarsi sulle spalle tutto il peso dell’assenza di un marito e dell’educazio-ne di due figli, Mauro e suo fratello più grande di lui di cinque anni. Mauro ricorda

Spesso e volentieri ci capita di sentir parlare di Monti che, insieme all’economia e alle borse, ha ampio spazio su giornali e notiziari. All’inizio Monti aveva un forte consen-so; è riuscito a ridare credibili-tà all’Italia e ne ha aumenta-to il peso politico in Europa e questo non era facile né scon-tato. Adesso che la sua squa-dra è chiamata a decisioni scomode e difficili il consenso ha cominciato a calare e le critiche ad aumentare. Però prendersela con Monti non aiuta né migliora la situazio-ne; Monti non ha la bacchet-ta magica e non può risolvere in pochi mesi cose che si tra-scinano da anni. Se siamo ar-rivati a questo punto, dobbia-mo chiederci cosa non è stato fatto prima. La domanda è: «Quand’è stata l’ultima volta che abbiamo pensato come

CELOX

Monti, capro espiatorio di dieci anni di erroriSe in Europa qualcuno sente di meno la crisi è perché si è preparato per tempo. Il mea cul-pa di un italianodi Manuele Celotto

Italia??» Tanto! Sono passati più di dieci anni, dovevamo entrare nell’euro, sistemare i conti e rientrare nei parametri di Maastricht. Abbiamo fatto dei sacrifici e raggiunto l’ob-

biettivo, ma abbiamo pagato una parità altissima per aver giocato troppo a lungo con la lira debole (favoriva le espor-tazioni e faceva tirare l’eco-nomia). Coi conti eravamo messi abbastanza male e l’in-gresso nella moneta unica ci ha salvato da una strada che portava verso la bancarotta. Però ci siamo accontentati così, come se bastasse l’euro a risolvere tutto. Le dinamiche dell’economia e del mercato del lavoro stavano cambian-do; quello era il momento di iniziare a fare riforme ed ade-guarci. Flessibilità, globalizza-zione, delocalizzazione non erano solo termini che entra-vano nel nostro lessico quoti-diano, ma nuove realtà con cui confrontarci. In questi dieci anni poco o nulla è cambia-to. Serviva maggior flessibi-lità? Ebbene è stata creata

una flessibilità alla “come je pare” e adesso flessibilità è sinonimo di precarietà. So-gniamo il posto fisso perché ci consente di vivere tranquil-li e progettare un futuro, ma non abbiamo una visione positiva del futuro. L’Italia sta oltre il 100° posto nella gra-duatoria di fiducia nel futuro (poco meglio di corruzione ed evasione fiscale); ai primi posti la Danimarca (bassissi-ma corruzione ed evasione fiscale; un caso?) dove non esiste alcun articolo 18 ed il posto fisso non è idea che venga presa in considerazio-ne. In Danimarca il mercato del lavoro è molto flessibile; si entra e si esce abbastanza spesso, ci sono sussidi e corsi di riqualificazione e perdere il lavoro non è una catastrofe come succede da noi. È vero che loro sono in pochi ed è più facile far andare bene le cose, ma la crisi c’è e pesa in tutta l’Europa; se qualcuno la sente di meno è anche per-ché si è preparato per tem-po. Se il tracollo della Grecia (che trascinerebbe a fondo anche Portogallo e Spagna) mette a rischio tutta la zona euro, significa che il proble-ma coinvolge l’Europa intera. Quindi le basi non sono i bi-lanci e l’euro; se si vuole dav-vero un’Europa unita non si può prescindere da un’Euro-pa con più potere legislativo, esecutivo e via dicendo, che adotti politiche, leggi e modi d’intervenire tali da evitare situazioni come questa.

sua mamma come una don-na “con la palle” grazie alla quale oggi è ancora vivo, ca-pace di affrontare situazioni enormi con solidità apparen-te ma, senza accusa, ricorda anche di una casa con poco affetto, con pochi abbracci e con tanta solitudine, con dolori che ognuno doveva affrontare da sé. Mauro af-

fronta questo mondo donato-gli, costruendosi un carattere introverso, alzando una bar-riera protettiva fatta di distan-ze relazionali, cercando di nascondere, schiacciandola nell’intimo più profondo, una necessità d’affetto che scava e svuota giorno dopo gior-no. Nel ’78 inizia a lavorare e l’ambiente lavorativo gli permette di ampliare le co-noscenze: iniziano anche i primi approcci alle sostanze. Per Mauro il sentirsi in gruppo, il ricevere in qualche modo quelle considerazioni e quel-le attenzioni che in casa non c’erano, erano gratificazioni. Lui era il più piccolo della compagnia che si ritrovava in piazza XX Settembre e in poco tempo l’eroina, che ini-ziava in quegli anni a fare il suo ingresso a Pordenone, uti-lizzata quasi per curiosità dai più grandi, incominciò ad allungare i sui “amorevoli ab-

bracci”. Mauro si lascia “bea-tamente” trasportare verso il baratro. Nell’80 viene preso in carico dal Ser.T di Porde-none per iniziare una terapia metadonica a scalare, ma i vari tentativi sono risultati fal-limentari. I soldi in tasca sono garantiti dalla stipendio, ma le buste paga svaniscono sempre più velocemente. Ini-zia così a spacciare. Per qual-che anno riesce a mantenere nascosta questa sua crescen-te dipendenza alla madre ed al fratello, fino all’83 circa, quando gli vengono trovate in casa delle siringhe.Aperto il vaso di Pandora, an-che la madre inizia a prende-re contatti con il Ser.T: vuole-va aiutare suo figlio e questo rappresentò la salvezza per Mauro, perché il controllo fa-miliare gli evitò il peggio e gli permise di mantenere il lavo-ro. Questo equilibrio instabile, tuttavia, viene squarciato nel

LA TEsTIMONIANZA

storia di una storiaDa piccolo pochi abbracci e tanta solitudine. Poi la droga, l’Hiv, e la possibilità di un riscatto lasciata andare per pauradi stefano Venuto e Mauropa64

BertholdD

La Juve ha appena vinto il campionato; finalmente una gioia dopo anni di patimenti e delusioni. Ma il desiderio è la coppa dalle grandi orec-chie. Già, quella coppa sem-bra maledetta. Era il 1972, c’erano le tv in bianco e nero, io ero ancora un bam-bino e le formazioni erano per noi una filastrocca man-data a memoria. Quell’anno la Juve giocava la finale di coppa campioni contro l’A-jax. Peccato che il sogno duri poco; dopo una decina di minuti segna Rep e finisce lì, 1-0. Troppo timida ed ine-sperta la Juve, troppo forte quell’Ajax. Di anni ne pas-sano davvero tanti; è il 1983 la Juve si gioca la finale di coppa Campioni, ad Atene, contro l’Amburgo. Nel mezzo la prima gioia europea: la coppa Uefa 1977 contro l’A. Bilbao. Questa volta la Juve è fortissima (6 campioni del mondo più Boniek, Platini e Bettega) ed è arrivata im-battuta; l’Amburgo non ha grandi nomi in squadra né sembra in grado di reggere il confronto. Invece dopo una decina di minuti Magath gela le speranze bianconere e io mi becco una delusione terribile. L’anno dopo, vittoria in coppa delle Coppe (2-1 al Porto) e anche in campiona-to. Si rigioca per la coppa dei Campioni. Nel frattempo la vita mi aveva portato verso altri lidi; ero finito in Libia con un contratto di un anno. Lì le possibilità di seguire il cam-

pionato e le coppe europee era ai minimi termini; il se-gnale tv si prendeva solo nei mesi estivi, giornali niente, il “guerin sportivo” era l’unica fonte disponibile. Però laggiù guadagnavo abbastanza bene e forse potevo regalar-mi un sogno: vedere la Juve

in finale di coppa Campioni. Tutto va come desideravo; la Juve arriva in finale contro il Liverpool ed io, sono riuscito a trovare un biglietto per an-darci. Arrivo, riparto; il sogno, Bruxelles, la coppa. Il volo è un charter carico di gioia ed entusiasmo e tutti con la

segreta ma visibile speranza che sia la volta buona. Pas-seggiata, pub, poi allo stadio. Controlli, entrata; mi guardo in giro. Qualcosa non torna; la curva è divisa in tre spic-chi e due sono occupati da tifosi del Liverpool. A divider-ci hanno messo una dozzina di poliziotti dalla parte degli inglesi ed una rete che sem-bra farsi più insignificante ad ogni urlo dei tifosi dei reds. L’atmosfera si surriscalda e nel giro di venti minuti spari-scono i “police”. Prevedo guai, mi sposto. È un attimo. La rete viene tolta ed inizia l’inferno. Cariche, urla, panico, gente schiacciata da chi cercava di scappare e polizia non per-venuta. Il tempo passa al ral-lentatore, poi tutto si calma; ci sono dei morti, parecchi sem-bra. Ho l’impressione che sia passata un’eternità quando i capitani delle due squadre fanno un annuncio; la partita viene giocata. Tutto è così ir-reale, “Show must go on” …. il rigore, il pallone sul dischetto e Platini che dà un calcio a decenni di delusioni con un solo gesto. Tiro, goal! Mi sale un urlo di gioia e liberazione poi mi guardo in giro; a parte quei quattro o cinque che ho vicino, tutti gli altri sono ingle-si e in quel momento mi sale una vampata di odio contro gli inglesi, lo stadio, il calcio, il mondo intero….. sono stato quasi vent’anni senza anda-re allo stadio (eccetto che per il Pordenone) e adesso del calcio mi frega assai poco.

Heysel 1985, al centro della strageFinale di Coppa Campioni Liverpool- Juve: la mia prima e ultima volta allo stadiodi Manuele Celotto

Simone Zappella

’84 quando a Mauro viene diagnosticata l’infezione da Hiv. Mauro parla con gli occhi lucidi quando ricorda quei giorni. «Si era troppo giovani e troppo ingenui – racconta - non conoscevamo nulla del virus e ci sentivamo troppo forti per pensare di essere a rischio! Teste di c…o, erava-mo tutti delle grandi teste di c…o!». La consapevolezza della malattia vissuta in que-gli anni, dove i sieropositivi erano visti come appestati, la visione del futuro di colpo di-ventato nulla, il rapporto con le ragazze divenuto impossi-bile, una situazione famiglia-re devastata, ha ripetutamen-te portato Mauro al pensiero del suicidio. Inizia subito la cura antiretrovirale al Cro di Aviano e fortunatamente il fisico risponde molto bene, contro ogni aspettativa. Con-tinua a lavorare e questo è ancora una volta un’àncora

di salvezza. Inizia diversi per-corsi in comunità terapeuti-che (Udine, Vicenza, San Par-tignano) ma al rientro dalle comunità, le uniche amicizie costruite negli anni preceden-ti, lo riportavano dopo poco tempo agli errori di sempre.Nel 2000 conosce in chat una ragazza della zona di Teramo. Questa relazione “virtuale” si consolida nel corso di un anno circa. Lei non si lascia intimorire dalla verità che Mauro prende ad un cento punto il coraggio di raccon-tarle e lui decide di “cambia-re aria”. Si trasferisce a casa di lei ed inizia a lavorare in una carpenteria. Convivono due anni, nei quali riesce a sca-lare il metadone ed a ripren-dere la patente. La relazione si consolida e i due iniziano a parlare di responsabilità, di impegni, di futuro. Mauro a quel punto però comincia a fare i conti con se stesso, con

il suo modello familiare e con le proprie paure e ci ricasca : riprende a fare uso di sostan-ze. Si trovò così ben presto messo con le spalle al muro: la sua donna, Teramo, il la-voro, la vita da costruire o le sostanze? E’ l’ennesimo bivio preso in contromano, l’enne-sima occasione persa. «Come ogni persona incapace di amarsi – oggi dice - la scelte cadono sempre verso le vie più bervi da prendere per evitare il dolore di guardarsi allo specchio». Nel 2004 è di nuovo a Pordenone, più solo di quando era partito. Anco-ra Ser.T ed ancora tentativi in comunità, ma la strada intra-presa questa volta è in cadu-ta libera, senza ritorno. Nel 2007 entra in comunità a Vi-cenza per scontare in forma alternativa una condanna al carcere e ci resta fino al 2009. Rientra a Pordenone “pulito”, non viene più preso in carico

dal Ser.T, ma la sua vita non cambia direzione e pur conti-nuando a lavorare, le sostan-ze continuano a sostituire arti-ficialmente ogni suo bisogno d’amore.Oggi Mauro è un cassainte-grato, ancora due anni ed anche questo vitalizio sarà finito. L’Hiv è sotto control-lo, ma certamente il fisico paga inesorabilmente, mese dopo mese, il prezzo ad una malattia che non fa sconti. Continua ad abitare con sua mamma, ma rispetto ad un recente passato, sta cercan-do un equilibrio che sempre più spesso trova. La storia di Mauro è la storia di tanti, magari di chi mentre pas-seggiamo per le bancarelle del mercato ci sfiora per sba-glio la spalla. Sicuramente è la storia di quei ragazzi che come Mauro sono capaci di scrivere un giornale che dà loro libertà di parola.

Nell’ormai lontano venerdì 16 dicembre 2011 si consu-mava, all’interno di un clima surreale, l’ultima giornata di apertura della storica sede dell’associazione "I Ragazzi della Panchina" in Via Grigo-letti 11 a Pordenone. Da quel-la data in poi, un susseguirsi di incontri ufficiali ed ufficiosi, articoli sui giornali, plenarie, conferenze stampa, hanno prodotto dei risultati significa-tivi, che permetteranno all’as-sociazione di riprendere le attività con rinnovato ardore e competenza. Non è questo lo spazio per sindacare sulle tempistiche, sulle incompren-sioni e malumori, si è già det-to e scritto molto, ma parliamo della realtà. In questi 6 mesi senza sede, siamo stati ospitati dalla Coop. Itaca, che è riu-scita a ricavare un ufficio tutto per noi (grazie a chi ha ristret-

to il suo spazio per donarcelo) all’interno dei suoi locali in vicolo Selvatico. Nelle ultime settimane finalmente, ci sono arrivate ottime notizie riguar-danti il futuro. La prima, in or-dine temporale, è stata reca-pitata ad opera dell’Azienda sanitaria Ass6, che ha deciso, dopo varie valutazioni di or-dine tecnico-finanziarie, di co-struire ex-novo una sede per l’associazione. La struttura sor-gerà all’interno di un terreno già di proprietà dell’Azienda sanitaria, a ridosso dell’attua-

le struttura che ospita il Dipar-timento per le Dipendenze, in via Interna. Si valuta che per la fine del 2013 si possa en-trare, chiavi in mano. Questo è, per l’intero movimento, un risultato straordinariamen-te importante, carico di una quantità di valori simbolici enormi. L’ultimo tassello, arri-vato a dare più senso ad un mosaico fino a poco tempo fa molto confuso, è stato posto dal Comune di Pordenone. Ci sono stati concessi ad uso gratuito degli spazi, all’interno

dell’ex asilo nido non utilizza-to da diversi anni, di proprietà del Comune e ubicato in via Selvatico. Il Comune si è in-caricato di rendere agibili gli spazi, attraverso il rifacimen-to del bagno, della doccia e verificando la funzionalità degli impianti nonché impe-gnandosi per lo sgombero dei materiali ancora giacen-ti. Noi ci impegneremo nella pittura dei muri e nella cura del luogo. L’Ass6 ha poi deci-so di prendersi l’onere del pa-gamento delle utenze. A fine giugno per “I Ragazzi della Panchina” si prospetta quindi una ripartenza, tra un anno e mezzo l’inizio di una nuova vita. Grazie a tutti coloro che si sono adoperati e che si ado-pereranno per fare in modo che tutto ciò accada e un gra-zie a tutti noi, che nonostante tutto, siamo ancora “vivi”.

FINE 2013, NUOVA sEDEIntanto l'associazione sarà ospitata nell'ex asilo di via Selvaticodi stefano Venuto

Dopo la lunga battaglia per l’assegnazione della sede di via Grigoletti, a Pordeno-ne nel 2000, noi “ragazzi” e i coniugi Boccalon eravamo diventati vicini di casa, loro malgrado, e arrivavamo lì accompagnati, nostro mal-grado stavolta, da una pessi-ma fama. I primi giorni sem-bravamo sbarcati su Marte: nessuno in giro, solo occhi a scrutarci dalle persiane del condomino di fronte. Il ghiac-cio si ruppe quando deci-demmo di ridipingere il can-cello e le inferriate: la signora Graziella uscì con quattro bir-re che con imbarazzo fui co-stretto a chiedere di commu-tare in aranciate. Le regole, si sa, sono regole. Interpretai quel gesto come un via libera e da quel giorno iniziai a fre-quentare il suo negozio. Ina-spettatamente, le prime resi-stenze si sciolsero quasi subito,

e ricordo che fu un fulmine a ciel sereno sapere che erano stati proprio loro i primi fir-matari della petizione contro l’apertura della sede. Quella bottega era la vera piazza del quartiere, il luogo in cui si potevano capire gli umori di chi abitava lì intorno. Così qualche volta mi capitava di andare in bottega con un secondo fine, tastare un po’ il polso della situazione. Ricordo in particolare la sera della vi-gilia della presentazione alla città della ricerca dell’Univer-sità di Padova. La signora Graziella era già di sopra e la bottega era vuota, ero l’unico cliente. Il signor Roberto vinse la sua riservatezza e mi con-fidò che da quando il dottor Alessandro Zamai gli aveva chiesto di parlare era in diffi-coltà. «Vorrei dire che…», iniziò a confidarsi con me e fece un discorso bellissimo, che con

grande sincerità metteva a nudo le sue paure prima e la sua fiducia poi per qualcosa che allora non conosceva, che temeva avrebbe sconvol-to la sua quotidianità di uomo mite. Disse che firmare quella petizione gli sembrò la cosa più giusta, ma che, una volta aperta la sede, giorno dopo giorno, come una goccia che scava la roccia, il dubbio ave-va eroso la sua rabbia e gli assalì la coscienza, fino a non farlo dormire. Pensava alle famiglie di quelle persone, alle sofferenze dei volti. «Da credente - mi disse - mi sono affidato a Dio». Così, quando il dottor Zamai gli propose di scrivere quella famosa lettera al direttore dell’Ass6 in cui di-ceva di aver cambiato idea, vide dietro a quelle righe la possibilità di un gesto ripa-ratore che avrebbe spazzato via la diffidenza reciproca e

l’avrebbe fatto stare meglio. Fu proprio così. Tornando a casa, in treno, provai una sensazione strana. Io, così lon-tano dalle pratiche religiose, e quell’uomo eravamo stati toccati nel profondo da un’e-sperienza che ci aveva co-munque cambiato l’esistenza. Anche lui era talmente coin-volto da metter in gioco tutto se stesso, da “dare l’anima”. Credo che Roberto Boccalon apprezzasse proprio questo in noi, l’onestà profonda del-lo sforzo quotidiano. Per nove anni ci siamo visti tutti i giorni. La storia poi, la conosciamo tutti. Chiude la bottega, poi chiude anche la sede, ora la cronaca di questa triste noti-zia. Roberto Boccalon non c’è più. In me resta il ricordo di un signore, perché lui un si-gnore lo era veramente. Era una brava persona. Era, in-somma, un Uomo.

ADDIO E GRAZIE ROBERTOVicini di casa della sede dei Ragazzi, i coniugi Boccalon furono i primi a firmare la petizione contro di noi. I primi a cambiare idea.di Andrea Picco

IL RICORDO

PANkANEws

L'APPROFONDIMENTO

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Ci si ritrova di notte, negli edifici abbandonati delle periferie urbane postindustriali, tra i sassi delle grave o in aperta cam-pagna, l'importante è essere nascosti, lontano da tutto. Si entra in un'altra dimensione, alla ricerca della libertà estrema dai vincoli della società e del sé. Le sostanze psicoattive e la musica techno, ripetitiva, senza inizio e senza fine, fanno il resto, portan-do i raver fuori dalla realtà, rompendo le coordinate di spazio e tempo, dal tramonto all'alba e oltre. I raduni più grandi posso-no durare anche alcuni giorni. «È la folla che danza, una folla in cui la personalità individuale è come dissolta», scrive Geor-ges Lapassade nel suo "Dallo sciamano al raver. Saggio sulla transe". I partecipanti, insomma, vanno ai rave per perdersi, formando insieme uno «sfondo» senza figure, che secondo l'au-tore è l'equivalente della musica techno, dove la melodia, cioè il ritmo e gli arrangiamenti armonici, sono assenti. Questi party hanno iniziato a diffondersi in tutta Europa negli anni Ottanta e sono per lo più illegali. L'organizzazione è sotterranea, solo i raver sanno dove e quando ci si trova, come in un club esclu-sivo. Funziona il passaparola, spesso sul web o via cellulare, e le informazioni sono molto vaghe, la stessa ricerca del luogo è emozionante, una caccia al tesoro ad alta trasgressività. Alla fine, della festa non resterà nulla, la musica techno avrà bucato la notte, decine, migliaia di persone avranno ballato per ore, ma per tutto il mondo sarà come se non fosse successo niente. Le notizie sui mass media arrivano solo quando accade la tra-gedia: nell'agosto di un anno fa vicino a Genova un 28enne è morto e una ragazza è entrata in coma, a luglio 2009 nel Salento hanno perso la vita due ragazzi. E nell'estate del 2010 a Duisburg, in Germania, durante la Love Parade, un grande

Rave Party.... è qui la "Festa"?rave autorizzato dal 1989, sono morte 19 persone, tra cui una ragazza italiana, calpestate nella calca. Allora tutti si accorgo-no, per qualche giorno, che esistono i giovani, i party illegali, le droghe. Poi non se ne parla più. Proprio per questo, anche in un momento in cui l'argomento non fa notizia, abbiamo de-ciso di dare spazio al fenomeno dei rave nel nostro giornale, facendo parlare direttamente i giovani pordenonesi che par-tecipano o hanno partecipato. Il loro racconto, sincero e senza filtri, è prezioso, perché ci spinge a gettare uno sguardo al di là dei giudizi, nel tentativo di comprensione di qualcosa che ac-cade molto vicino a noi. Nella nostra società, infatti, gli stati di «coscienza marginale», come li definisce Lapassade, vengono confinati nell'oblio, ma esistono, e sono riscoperti solo dalle per-sone che consideriamo, appunto, marginali. Alcune società, in-vece, riescono a integrare gli stati modificati di coscienza senza negarli, inserendoli in contesti rituali, alla ricerca di un rapporto diretto con il mondo invisibile, come fanno gli sciamani dalla Mongolia all'Australia, dall'America all'Africa del Sud, o i mara-butti del Marocco, i santi musulmani, che l'Islam ufficiale nega. Nel 1980, in un'intervista al magazine Rolling stone, il professore della transe, come chiamano Lapassade i raver più colti d'Eu-ropa, dichiarava: «In una società "scoppiata" e irta di difese, abbiamo dimenticato una certa saggezza e un'arte di vivere e di essere al mondo. Non stupisce allora se in mancanza di una tradizione o di una cultura in grado di dare orizzonti a certi tentativi di "uscire" in un reale più largo, più libero e più felice, questi poi diano luogo al consumismo, all'isteria, all'uso mortale delle droghe, a un cattivo uso del proprio corpo e a un cattivo uso della transe, insomma allo spettacolo di una falsa transe».

di Elisa Cozzarini

Cid Costa Neto

Il movimento nasce alla fine degli anni ’80 negli Sati Uniti ed in Europa. Per quanto riguarda il vecchio continente, lo stimolo arriva dell’ Inghilterra, dove si sviluppa agli inizi degli anni ’90 grazie al movimento degli Spiral Tribe. Quest’ultimo prende vita dall’unione di diverse persone che, accomunate dalla passione per la musica elettronica, sono unite anche dalla volontà di far emergere la cultura di strada. La loro pro-venienza dal movimento hippy e psicadelico degli anni 70, fa sviluppare tutto il movimento della Tribe sul concetto di viag-gio, inteso come libertà di movimento in liberi stati. Nasce il concetto di Traveller, che si muovono da città in città, di Sta-to in Stato, con furgoni, roulotte, camion, che diventano case, luoghi di aggregazione, studi di registrazione e via dicendo. La filosofia era quella dello scambio, della comunità che sor-regge i membri, per cui venivano ospitati, si attaccavano alla corrente pubblica per produrre musica, occupavano spazi in disuso, soprattutto vecchie fabbriche dismesse. In questo viag-gio, con queste contaminazioni, nasce un genere musicale, la Tekno, da distinguere dalla Techno che ormai era diventata ad uso e consumo dei locali, dei club. Il movimento così com-posto è un movimento culturale antiproibizionista, naturalista. Viene sdoganato, sempre grazie alla Spiral Tribe, il termine di “Free Party”, che stava ad intendere lo spirito libero, la libertà di espressione individuale e musicale che doveva contraddi-stinguere questi raduni. Il movimento così sviluppato muove i sui confini all’interno di vari elementi: occupazione di spazi abbandonati delle grandi città e la loro autogestione tem-poranea (Taz, Zone Temporaneamente Autonome); attacco alle forme di produzione commerciale delle discoteche; auto-produzione come concetto di massa (dalla produzione stessa della musica alla creazione di una vera e propria microeco-nomia alternativa); approccio empatico e comunitario; ricerca di una consapevolezza comune, grazie alla condivisione di conoscenze su un uso creativo e sovversivo della tecnologia.

BIOGRAFIA DEI RAVE PARTY

«E’ un movimento culturale antiproibizionista, che fonda le sue radici nello spirito comuni-tario, empatico, del buon sen-so e delle responsabilità, verso se stessi, gli altri, la natura». E’ questa la definizione di Rave Party che apprendiamo da tre ragazzi pordenonesi, frequen-tatori e per questo conoscitori in prima persona del movi-mento dei Rave Party o del-le “Feste”, come le chiamano

loro. Li abbiamo incontrati per farci raccontare aspetti e curio-sità di questo mondo, illegale sì ma spesso descritto dalla cronaca attraverso luoghi co-muni che inducono al giudi-zio senza che prima vi sia la conoscenza. Ad esempio, per-sonalmente non sapevamo che esiste una sorta di deca-logo di buon comportamento ai Rave, il Tekalogue, oppure che tra le regole non scritte di

chi frequenta c’è il rispetto per l’ambiente che impone a tut-ti, a festa finita, di ripulirlo dai rifiuti. Ma facciamo un passo alla volta, partiamo dall’inizio dell’intervista ai ragazzi.

Chi sono gli organizzatori dei Rave, come ci guadagnano?«Chi organizza, raramente va in pari con i costi, ci perde! Le Feste sono organizzate da Tri-be, come vengono chiamati nell’ambiente i gruppi orga-nizzatori, che possiedono dei Sound System, cioè i materiali tecnici quali casse (muro), sin-tetizzatori, drum machine, ge-neratori di corrente. Chi deci-de di fare questo investimento è spinto dalla volontà di fare musica, di organizzare una fe-sta per il piacere stesso della festa. Le entrate derivano dal bar ed eventualmente dal chiosco per il cibo, se la festa dura più di una sera. Nulla di più, visto che non esiste un bi-glietto di ingresso».

Se io decido di vendere cibo, posso farlo?«Ma certo che sì! Non c’è un titolare della festa: l’occupazio-ne degli spazi e la vendita di bevande, cibo, vestiti, qualsia-si cosa, è libera. Non ci sono buttafuori e comunque solo in rarissime occasioni accado-no risse, casini. Anche rispetto alla scelta del luogo, chi ha il Suond, cerca posti lontani dal-le abitazioni, isolati, per evitare

disturbi ed anche per control-lare l’arrivo degli sbirri».

Appunto, e le forze dell’ordi-ne?«Diciamo che nei Rave grandi non ci entrano perché davan-ti a mille o anche 3mila perso-ne non è che puoi molto. Arri-vano nelle Feste piccole e solo se riescono a capire prima dove verrà realizzata, si posi-zionano per non farti entrare, ma anche in quel caso, se ar-rivano 10 camion, 50 macchi-ne, gente ovunque, dopo un po’ mollano, riesci a sfondare».

Come si sa quando e dove si tiene un Rave?«Ci sono dei siti internet che ti informano. In genere trovi un flyer con scritto la zona dove verrà fatta (es. Piemonte), la data, il nome dell’evento e raramente il nome di chi suo-na e poi un numero per info. Questo numero resta attivo per pochi giorni, chi riesce a prendere info poi le fa girare ai suoi contatti ed ogni con-tatto ai suoi e così via. Quindi, nel giorno indicato parti, te-nendoti in contatto con gli altri e ci arrivi. Il viaggio stesso fa parte della Festa!»

Quindi un Rave dura sempre alcuni giorni?«Di solito si tiene in un weekend, ma in certe organizzazioni più grosse, con più Tribe, ci si può stare anche per 4-5 giorni, an-

MUsICA, REGINA DEI RAVE

Da frequentatore dei rave ad educatore. Matteo, nome di fanta-sia che utilizziamo per raccontare la sua storia, oggi fa l’educa-tore con gli adolescenti in Lombardia. «La prima volta che sono andato ad una festa - racconta - era nel 1997, andavo ancora a scuola. Dal 98-99 al 2002 andavo alle feste quasi ogni settima-na, poi dal 2002 al 2006 sempre meno. Ho iniziato per curiosità, spinto dai racconti degli amici che ci andavano». All’inizio per Matteo le feste erano un sogno. «Una realtà che andava oltre l’immaginazione! All’inizio era questo, un mondo completamente libero che ti offriva tutto il possibile a livello di sostanze. Solo suc-cessivamente arriva la consapevolezza della macrostruttura che c’è sopra - la rete, il contesto, il dj bravo - e impari a gustarla». Fino al 2003 fare festa in questo modo per Matteo era la cosa più bella del mondo. Tutto ruotava attorno a quel momento, la festa era totalizzante e si viveva la settimana per arrivare al weekend. «Alle feste – dice Matteo - le ragazze erano tutte bellissime, si era tutti amici, la musica era fantastica, le location erano fighissime e c’era libertà assoluta e tolleranza totale!». Per fortuna nessuno del-la compagnia di Matteo è mai finito per fare il raver, che signifi-cava mollare il lavoro o la scuola, fare vita da punkabbestia. «Io e i mei amici – aggiunge - non ci siamo mai presi così sul serio da mollare tutto il resto, anzi, prendevamo comunque in giro chi ostentava il fatto di essere un raver. Questo ci ha permesso di

Manifestazioni illegali dove esiste un codice di comportamentointervista a cura di stefano Venuto e Chiara Zorzi

Anch’io da giovane ho fatto festaIl delicato ruolo di educatore da ex frequentatore di ravesdi Chiara Zorzi

TECHNO4EVER.FM

La mia prima volta, a 17 anni e per scelta«Mentii ai miei pur di passare la notte fuori casa. Ma l’indomani avrei voluto non essere lì»di Luca Gaspardis

Voglio raccontare di come un giovane di 17 anni, quanti ne avevo io all’epoca, ha iniziato a frequentare i rave e anche con un certo ritardo, direi, ri-spetto all’età media di chi li frequenta, se si considera che a queste feste illegali si vedo-no girare anche ragazzini dai 14 anni in su. Premetto anche che più che all’epoca oggi, in piena era internet, si tratta di giovani che approdano in questo mondo già bene infor-mati: su quale tipo di sostanze vi si possono trovare, a chi ri-volgersi per provarle e via di-cendo. Personalmente per me non andò cosi, invece. Dopo varie delusioni, tra le quali mo-rose, scuola, genitori e chi più ne ha più ne metta, un giorno decisi di aggregarmi ad una compagnia di amici che già conoscevo, e che sapevo fre-quentavano i free party. Dico subito che decisi di prendere

parte al mio primo rave, solo dopo avermi fatto raccontare da questi amici a cosa sarei andato incontro se avessi as-sunto un tipo di sostanza piut-tosto che un altro. Fu cioè una decisione in un certo senso consapevole. All'epoca face-vo già uso di cannabis e con questo voglio dire che non ero del tutto estraneo al mondo dell'illegalità. Detto ciò una sera mi arrivò un messaggino su cellulare, dove mi si sugge-riva di avvisare mio papà che quel fine settimana non sarei rientrato a casa per la notte. Detta cosi sembra facile, ma io ero minorenne e a differenza di molti miei coetanei avevo degli orari da rispettare quindi il dormire fuori per me voleva dire creare un balla stratosferi-ca a prova di genitori. Grazie alla complicità degli amici, tuttavia, anche questo osta-colo riuscii a superarlo. Ricor-do come fosse ieri la sera che con la mia compagnia ci met-temmo in strada verso la mia prima “festa”, l'adrenalina che mi scorreva nelle vene per aver mentito a mio padre di-cendogli che dormivo da un amica, il mio modo compulsi-vo di guardare il telefonino se mai mi fosse arrivata una te-lefonata, e poi ad un tratto la voce di un mio amico che mi disse: «Siamo arrivati, lascia-mo la macchina qui. La senti la musica? ». In quell’istante ri-cordo di aver provato un in-sieme di emozioni difficilmen-te catalogabili: erano tutte insieme ansia, paura di essere fuori posto, entusiasmo. Insom-ma: volevo arrivare il prima possibile. A raccontarlo, mi sento ancora addosso il mo-vimento della mia andatura sostenuta, mentre i miei ami-ci da dietro mi dicevano: «Vai piano non scappa no». Ma io ormai ero in preda all'euforia, volevo vedere con i miei occhi ciò che senza nemmeno co-noscerla mi faceva sentire in quel modo! Arrivato sul posto, mi brillarono gli occhi: quanta trasgressione, quanta libertà e quanta invidia provavo nei confronti di quei ragazzi con i tatuaggi e i piercing, per non parlare dei "rastoni". Vedevo attorno a me quelle persone

stare bene insieme; nessuna scene di risse p di gente che spaccava bottiglie. Si era cre-ata un empatia tra tutte quelle persone che andava al di là di tutto, provenienza, nazio-nalità e cultura; insomma si respirava un clima di pace e serenità! Diedi dei soldi ad uno dei mie amici, il quale già sapeva come muoversi, che cosa e a chi chiederla. Lui mi chiese se avevo voglia di stare pure io bene come quelle per-sone. La risposta a quel punto mi pareva ovvia, gli risposi, e cosi per la prima volta assun-si dell’Ecstasy (Mdma). Iniziai a vedere i miei amici che si scambiavano abbracci e frasi tipo : «Ti voglio bene vecchio, sta sera spacchiamo». Io inve-ce ero del tutto normale, tanto che mi ritrovai a pensare che fosse tutto una farsa. Dopo poco però iniziai a sentire il cuore che pulsava, allungai la mano verso un amico che mi prese sotto braccio sorridendo-mi e mi mise davanti alla cas-sa dove il basso della musica techno mi pulsava nel petto e come x magia iniziai a scio-gliermi, la mia timidezza svanì diventai improvvisamente si-curo di me stesso. Ballai, mam-ma mia quanto ballai. Non mi ricordo come ma all’improvvi-so un amico mi disse: «E’ mez-zogiorno e mezzo, ci sono an-cora 10 persone. Andiamo!». Mi staccai dalla cassa e final-mente mi accorsi che, laddo-ve poco prima c'erano tutte persone a cui volevo bene ora non giravano altro che “zombie”, con delle facce che non facevano altro che paura. Dove era finita quella magia? Tutta quella trasgressione? Per-ché ritornavo piano a piano a sentirmi di nuovo normale, timido insicuro? Come c'ero arrivato, ora volevo solo an-darmene. Per anni continuai a ricercare quella magia e tut-te le volte la trovai, certo. Ma come la quella prima volta, tutte le altre volte all’indomani mattina finiva tutto. E tutte le volte sentivo che non volevo più stare li!!!

che una settimana in certi casi in Europa, ma allora si chia-mano Teknival. In Italia ce ne sono solo due di questo tipo, il SalentoTek per il Sud ed il SummerTek per il Nord. Negli ultimi anni i Rave grossi sono diminuiti. Fino a 3-4 anni fa ce n’era uno a settimana, se volevi muoverti, adesso sono molto di meno.»

Ma arriviamo ai discorsi do-lorosi: le sostanze.«Ci sono, inutile negarlo, Fumo e Marjuana, Mdma(Ecstasy), Lsd, Oppio… ma ai Rave ci vai perché sposi il movimento che ci sta dietro, non perché c’è la droga! Chi la porta è perché la userebbe comun-que. In più c’è da precisare che l’Eroina è vista malissi-mo, anche la Ketamina è vista male alle Feste, soprat-tutto dagli storici. Questo non nega il fatto che di queste ultime sostanze ne girino, ma chi le utilizza lo fa di nasco-sto. Le siringhe sono assolu-tamente bandite, non le vedi quasi mai, chi usa Ketamina o Eroina la fuma. Questo al-meno è lo spirito dei “più vec-chi”. Purtroppo le cose stanno cambiando anche all’interno di questo movimento, ultima-mente, soprattutto i più gio-vani, sono sempre più slegati dallo spirito originario e arri-vano per drogarsi. Le conse-guenze si vedono: più casini, più gente che sta male.”

fare festa, ma usando anche la testa e guardando comunque al futuro». Ad un certo punto però le cose hanno cominciato a cambiare. «Ho aperto un po’ gli occhi -ricorda Matteo- con l’e-sperienza ho cominciato ad avere un maggiore distacco e ad accorgermi che non tutto era così bello e che c’era gente che ti voleva fregare. Ha inciso anche molto il mio rapporto con la so-stanza, che verso il 2006 ha cominciato a cambiare». E’ accadu-to forse per l’esperienza, forse per l’età, o forse per il fatto che alle feste a Matteo capitava di vedere gli stessi ragazzi che frequen-tava di giorno per lavoro. Con quell’esperienza lui fa i conti ogni giorno mentre svolge il suo lavoro di educatore. «Sicuramente è utile -dice- ma contemporaneamente può risultare rischiosa. Utile perché se un ragazzo mi riporta problematiche legate alle sostanze lo posso consigliare e poi perché i ragazzi percepiscono che hai vissuto la strada, anche se tu non ti sei mai esposto e non sei mai stato esplicito, e quindi risulti più credibile. Rischioso per-ché c’è la tendenza a minimizzare -prosegue- a ridimensionare i problemi che mi riferiscono i ragazzi rapportandoli alla mia esperienza». La stessa esperienza consente a Matteo di ribadire ogni volta ai suoi “ragazzi” l’importanza di far capire loro che la festa è un momento, da vivere con la consapevolezza che poi c’è la quotidianità da affrontare, con i suoi impegni e le sue soddisfazioni.

Salento81

RodrigoFavera

“Oltre i confini dei raves”, del Gruppo Abele edizioni, de-scrive il variegato mondo del raves attraverso l’esperienza del progetto “Neutravel” che, in Piemonte, per alcuni anni è stato condotto all’interno di questi complesso fenomeno. I raves sono eventi frequen-tati da persone che spesso non hanno nulla da spartire tra loro nella vita quotidia-na, essendo completamente

IL VISIONARIO L'ALLEGRA COMPAGNIA

I messaggi sui cellulari intercet-tati dalle forze dell’ordine sem-bravano inequivocabili. Diceva-no: «Con le mie pastiglie riderai senza problemi», oppure «Porto io la farina: un chilo basterà?», o ancora «Ci vediamo all’alba. Non so se mi reggerò in piedi». Per questo, grande è stato lo stu-pore degli agenti della polizia di stato, appostatisi all’alba di mar-tedì scorso in zona Comina, per sgominare un traffico di stupefa-centi legato al mondo dei raves party. Altro che droga, si sono trovati davanti una comitiva

di arzilli vecchietti in partenza per il loro consueto soggiorno estivo a Bibione. «Cosa ci fate qui?» hanno chiesto gli agenti. «Cosa ci fate qui voi - ha ris-posto il più arzillo del gruppo - noi andiamo al mare». «Ma allora le pastiglie, la farina…» ... «Caro giovanotto – s’è fatta avanti un’allegra ottantenne - la farina serve a fare i dolci e le pastiglie per la dentiera. Combinazione però oggi ho dimenticato a casa le sigarette per dormire. Quelle di solito me le prepara mio nipote».

diversi per età, estrazione so-ciale e culturale, e dove l’u-nico legame è il rave stesso. Punto d’incontro fugace ed estemporaneo, che nasce e sparisce spesso nel giro di una notte o un week-end. A volte non sono nemmeno facili da localizzare, essendo illegali: tutto si attiva tramite social network o passaparola. Momenti, incontri e amicizie che si formano e si dissolvono

Vincenzo Mione, medico da 33 anni e direttore della Centrale Operativa del 118 di Pordenone, ha una certa esperienza in fatto di droghe moderne. Anzi, meglio sarebbe dire che bene cono-sce chi nel 2012 fa uso di sostanze, perché i consumatori di oggi sono profondamente diversi rispetto a chi faceva uso di droghe nell’ultimo trentennio del secolo scorso, fino cioè al 2000. Diversi perché oggi è difficile sapere che tipo di sostanze ha in corpo una persona. Negli anni ’70-‘2000 c’erano in grande prevalenza persone che facevano uso di eroina o comunque oppiacei. In quanto tale, se la persona si "faceva" fino all’overdose, i medici del 118 impiegavano il Narcan quasi a colpo sicuro. Oggi le cose sono differenti. Oggi il giovane consumatore di droghe, reduci da rave compresi, è una specie di sconosciuto per i sanitari del 118, passati dallo “scoop and run” (guarda e scappa) allo “stay and play” (rimani e fai), come spiega il dottore Mione. «Il personale del 118 – dice Mione - prevalentemente costituito da infermieri specializzati, ha il preciso compito di soccorrere e iniziare gli inter-venti del caso fino alla consegna al Pronto Soccorso dei circa 50 pazienti al giorno di media, che usufruiscono del nostro interven-to». Per i sanitari oggi è estremamente difficile capire subito quali sostanze abbia assunto un consumatore che sotto i loro occhi

respira a stento ed appare fuori con tutti i parametri. «Abbiamo a che fare – spiega Mione - con un ambiente in cui nessuno sa o vuole riferire che tipo di sostanze abbia effettivamente assunto il soggetto da soccorrere». Nota importante per gli “psiconauti”: chi assiste o porta in pronto soccorso ragazzi che hanno assunto sostanze proibite, non va incontro a grane perché il medico è tenuto, per definizione, ad agevolare in ogni modo il paziente e chi gli sta vicino, e non a redigere referti “compromettenti” sotto il punto di vista legale. «Il più delle volte – aggiunge il sanitario - è utilissimo saper riferire quale sia stata l’associazione di sostanze che ha prodotto l’overdose, per consentirci di intervenire subito in modo mirato, quindi ben vengano informazioni da fonti certe, ma quando ciò non è possibile, ai sanitari non resta che pro-cedere all'individuazione delle sostanze con dei kit di reagenti chimici». In genere a causare problemi è il mix di droghe e di alcol: quest’ultimo è assai diffuso in ogni contesto, a differenza di anni fa, quando l’abuso di alcol era circoscritto in prevalenza a certi ceti sociali, ad un certo tipo di persone. Oggi l’alcol è quasi sempre compresente ad altre droghe, come l’Mdma (Ecstasy) e una quantità indefinita di altri derivati delle anfetamine. In con-clusione del nostro breve incontro al dottor Mione abbiamo chie-sto se è favorevole o meno ad eventuali campagne anti-droga particolarmente crude. “Io sono un medico - risponde - non mi occupo di comunicazione, ma quando si parla di droghe, sono sicuramente a favore di campagne di informazione molto chia-re, realistiche ed esplicite”. A chi scrive non dispiacerebbe affatto che sulle pagine del nostro giornale facesse la sua comparsa la foto a piena pagina di un ragazzo intubato con medici e infer-mieri intorno a sé che fanno del loro meglio per salvargli la vita. Potrebbe essere di monito a chi con la vita ci gioca. Che sappia che come in tutti i giochi non si vince sempre.

con l’evento stesso. Per alcuni partecipare è un modo per affermarsi-identificarsi all’in-terno di una realtà, per altri diventa il centro di vitalità ed evasione dopo la settimana di routine quotidiana, per altri il legame è il genere musi-cale e/o il dj. Ma anche dal lato musicale i generi e le correnti sono numerose e ne fa un’accurata descrizione. Il libro descrive poi tutta la serie di contatti che devono essere attivati con i vari organizza-tori, security, personale sani-tario e così via. Gli interventi realizzati attraverso il progetto “Neutravel” vengono conside-rati “interventi a bassa soglia” (dato che non viene indirizza-to nessuno verso strutture, né vengono fatti colloqui intesi in senso professionale) e resta-no nell’ottica di riduzione del danno, in questo caso inteso in senso quasi letterale. Il rave

è un ambiente dove spesso circolano sostanze chimiche di vario genere quindi si cer-ca di evitare i malori più co-muni dovuti a disidratazione (distribuendo bottiglie d’ac-qua) o malesseri causa calo zuccheri (con le merendine), viene proposto lo screening dei vari tipi di “chicche” che girano e l’alcool test. Essendo eventi frequentati da fasce di età più disparate, le modalità di approccio-intervento sono diverse tra loro, ma la base resta principalmente quella di informare senza giudicare o criticare, offrire una spon-da senza far pesare il ruolo e senza volersi imporre; all’atto pratico si crea un rapporto semi-amicale dove l’altro si sente a suo agio e in un se-condo momento può cono-scere l’associazione ed il la-voro che questa svolge oltre quello all’interno degli eventi.

OLRE I CONFINI DEI RAVEsL’esperienza del Gruppo Abele di Torino nel mondo delle festerecensione di Manuele Celotto

118 PER sALVARTI LA VITAPer ridurre il danno serve la collaborazione con i sanitaridi Ferdinando Parigi

Arzino

Mio nonno si chiamava Dino Mazzini Garibaldi Ga-spardis, un nome piuttosto lungo oltre che impegnati-vo. È tanto tempo che desi-deravo raccontare qualcosa di lui, ma ogni volta che pro-vavo a dire a qualcuno ciò che mio nonno mi ha lascia-to, mi sembrava sempre che non capissero quanto effetti-vamente è stato importante per me. Tutte le domande che mi rivolgevano erano mirate, infatti le curiosità che avevano si concentra-vano solo ed esclusivamen-te sulla sua deportazione a Buchenwald. Anche se non amava particolarmen-te parlarne grazie alla mia insistente curiosità qualcosa riuscivo a fargli dire; mi rac-contava così, con gli occhi lucidi, di come quell’espe-rienza lo avesse spogliato di tutto; di come persone mai conosciute, né viste prima di-ventavano improvvisamen-te compagni di vita. Non sapevo mai quanto potevo chiedergli e fin dove potevo spingermi con le domande, infatti tutto ciò che diceva lo prendevo come oro colato, e lui capendo quanto ero interessato alle sue storie mi diceva che una volta diven-tato grande avrei potuto leggere le sue poesie ed i suoi scritti. E cosi

MIO NONNO È IL MIO ANGELO CUsTODE«Amava scrivere e in ogni gesto metteva eleganza e fermezza. Per me fu molto di più del nonno prigioniero a Buchenwald»di Luca Gaspardis

è stato, oggi ho 23 anni e riesco a comprendere la sua difficoltà nel raccontar-mi certe cose, e credo che il modo migliore di raccon-tarvele sia quello di mostrar-vele, senza cambiarne nem-meno una virgola, cosi che anche voi possiate capir-ne e sentirne la bellezza. L rapporto che c’era tra me e mio nonno, a me piace de-finirlo come telepatico, per-ché bastava uno sguardo o una parola, per farmi capire quando dovevo comportar-mi bene, lui non urlava mai, ma bastava un suo cenno del capo e tutti a casa mia, non solo io, eravamo sul chi va là. Era un uomo che oggi si definirebbe di altri tempi, aveva una eleganza innata e sapeva rendere elegante il gesto più goffo. Mi ricordo di quando da piccolo mi fa-ceva camminare con il ba-stone della scopa dietro le spalle! Perché mi diceva che sarei diventato alto come lui, ma che come tutti gli alti si tende ad incurvare le spal-le. Amava molto scrivere e mi diceva che oltre a legge-re era molto utile imparare a fare le parole incrociate, perché tengono in esercizio la men- te. Un giorno alla

fine dell’ultimo anno di asilo prima di co-minciare le e lemen ta r i , mi regalò un bel quader-no a righe in cui, su ogni pagi-na, aveva scritto una l e t t e r a d e l l ’ a l -f a b e -to. Quel giorno mi

disse: “Da oggi, ogni pomeriggio ne riempirai

tre per ogni lettera, perché

Buchenwald!

Buchenwald, grigio campo della morte...Tra gli alti faggi che già vide Gòethe

Quando guardava il cielo e la pianuraLà sotto, verso Weimar che la nebbia Avvolge nell’arcano mondo di Dei

Nuovi e antichi di questo suol germano.

Tra le fronde che sembrano nel cieloGli uccelli cantano tristezza e amore Che il poeta dal romantico cuore

Scriveva in versi nelle sue “Canzoni”

Ora il silenzio e rotto dalle stridaRauchi i corvi, che bassi volavano

Sui blok di quarantena e il crematorio,Sul campo del terrore e della morte.

Immane sepoltura degli eletti.

Vi vedo ancora, curvi, scheletrici Nelle lunghe colonne, sulla neve,Verso il lavoro, la nella montagna,

Compagni della morte e della fame.

Il vostro sepolcro e tra gli alti faggi di Buchenwald ove gli uccelli di GòetheCantano per voi la canzon del cuore.

agosto 1944 Dino Mazzini Garibaldi Gaspardis

è importante scrivere con una grafia chiara e leggi-bile”. Quando mi mettevo a scrivere lui si sedeva sulla poltrona accanto a me, e fa-ceva finta di leggere il gior-nale ma nel frattempo guar-dava cosa stavo scrivendo, e quando alzavo la testa dal quaderno i nostri sguardi si incrociavano e lui abboz-zava un sorriso. Mio non-no mi ha insegnato i valori che ogni persona dovrebbe avere: «Il rispetto prima di tutto» diceva, e anche che le bugie hanno le gambe corte, e poi mi ricordava che la famiglia e le persone che si amano vengono prima di tutto. Quello che ho cer-cato di raccontare in queste poche righe, è di come io sia stato fortunato ad avere al mio fianco una persona così, e anche se molti non

credono nell’aldilà, io sono fermamente convinto che mio nonno è il mio angelo custode, e che mi guidi da lassù, un giorno spero di po-terlo rendere orgoglioso di me come io lo sono di lui.

INVIATI NEL MONDO

Il ferroviere è immobile nel-la divisa verde acqua che sembra di cartone. Viaggia-mo lungo la valle dell'Ison-zo, con in mano i biglietti per Bohinjska Bistrica, una va-schetta di calamari fritti ripie-ni di formaggio e prosciutto, e un interrogativo: - Quando dobbiamo scende-re? L'uomo non cambia espres-sione. Zitto, scompare nel corridoio della littorina, tra il chiasso del motore e degli studenti pendolari. Poi ritorna con una mappa e finalmente si scioglie in un sorriso libe-ratorio, che rivela una fila di denti finti e increspa la pelle abbronzata in un mare di ru-ghe. È il suo modo di darci il benvenuto in Slovenia. La stazione è appoggiata su un tappeto verde steso tra le montagne. Neanche il tem-po di guardarci intorno alla ricerca di un'indicazione che due ragazze con occhiali alla moda offrono un passaggio in auto verso un sentiero del Parco nazionale del Triglav. Da Michele e Giuliano ho im-parato che la leggerezza del viaggio a piedi non è solo una questione di bagaglio. Essen-ziale è abbattere le barriere tra le persone, spogliarsi di maschere, paure e pregiudizi,

per entrare in contatto diretto con l’altro, come se attaccare bottone con qualsiasi passan-te fosse la cosa più normale al mondo. Se abbandoni la corazza dell’auto e gli abiti per bene è più facile svela-re chi sei, o capire chi vorresti essere. Camminare diventa un percorso di psicoterapia e dentro c'è spazio per tutto, le cazzate e le cose serie.È aprile e piove, dopo tre mesi di siccità. Indossiamo la giacca impermeabile e rag-giungiamo un alpeggio. L'u-nica presenza umana si ma-nifesta da uno chalet di legno chiaro, con tendine ricamate alle finestre:

- Would you like a slivoviza?- Veramente cerchiamo un posto per dormire...- Il rifugio è chiuso, ma se camminate un po' troverete un albergo.Un hotel in mezzo alla fore-sta, come quello di Shining. Nel parcheggio c'è una sola auto e una luce accesa den-tro l'edificio, ma la porta è chiusa e nessuno apre. La strada asfaltata arriva fino a qui, poi muore. Strada, hotel e impianti sportivi sono nati per le gare di biathlon, disciplina che misteriosamente unisce il tiro a segno con lo sci da fon-do e soprattutto porta i soldi della Comunità europea fin quassù.- Salite, forza, vi porto a Bled.Gocce di pioggia luccicano attorno agli unici due fari accesi nella notte. Contiamo infinite curve e tornanti, pen-sando che avremmo dovuto camminare ore e ore al buio se non avessimo incontrato questo giovane uomo tutto muscoli e poche parole, un militare in servizio nella caser-ma vicino all'hotel di Shining, che rientra a casa proprio adesso. L'ostello della gioventù di Bled è una pensione demo-dé in cima alla discesa che porta al lago. Non smette di piovere, l'unica consolazione è un'esperienza estatica alle terme, dove affoghiamo la stanchezza fino a perdere i sensi avvolti in morbidi asciu-gamani gialli. La mantella impermeabile rosso fuoco di Giuliano spicca nella piazzola lungo il lago di Bled e cattura l'attenzione di un ventenne che guida veloce verso un'avventura in kayak. Si ferma, scende, apre il bagagliaio, non si toglie gli occhiali da sole. Gli servono per ripararsi dalla luce della pioggia:- È fantastico trovare degli au-tostoppisti in questa stagione, e pure italiani. Dove vi porto?

slovenia, la lentezza del viaggioSe abbandoni paure e pregiudizi e ti apri alla gente, il camminare diventa un percorso di psicoterapiadi Elisa Cozzarini

Torniamo sul lago di Bohini, sognando la salita in monta-gna. Ma presto la pioggia si trasforma in neve e ci spinge su un pullman verso la capi-tale, Lubiana. Qui l'ostello è al settimo piano di un grattacie-lo ristrutturato solo all'esterno, mentre dentro è rimasto alla ruvida austerità della ex Ju-goslavia. Anche la cena, tre piatti abbondanti di cevapci-ci, aivar e cipolla, è un tuffo nel passato: il tempo si è fer-mato alle Olimpiadi invernali di Sarajevo 1984 in uno dei pochi locali aperti del centro, la sera del giorno di Pasqua.Il sole alla fine arriva, a Pa-squetta. Il treno scende lenta-mente verso il Carso, tra col-line, pianure, boschi e paesi da favola nordica. Tre chilo-metri separano la stazione di Divača dalle spettacolari grotte di San Canziano, Pa-trimonio dell'Unesco. Cam-miniamo senza fiato lungo il canyon sotterraneo più lungo d'Europa, un passo dopo l'al-tro su un sentiero sospeso cen-to metri sopra il fiume, come se fossimo nel set di un film di Harry Potter. Fuori, un reticolo di sentieri percorre il Carso in lungo e in largo. Arriviamo quasi al confine con l'Italia, a Sezana, dove si ferma il treno da Lu-biana, ma non riparte più per Trieste. - Non mi chieda perché, si vede che costava troppo.Dice la capostazione senza speranza, divisa rigida verde acqua e capelli tinti rosso fuo-co.Quel che conta è l'alta velo-cità che buca le montagne, i viaggiatori lenti non sono un buon business. Zaino in spalla, calpestiamo l'asfalto per alcuni chilometri, a fianco dei camion, fino a Opicina. Attraversare a piedi il confi-ne è forse l'unico modo per ricordare la storia. Più giù, il tram, sopravvissuto alla fine dell'Impero, ci porta al termi-ne del viaggio, Trieste.

Ruislip, periferia di Lon-dra. Accompagno a scuola Emma, 5 anni, mi fermo nel cortile in attesa dell’apertura. Osservo. Le mamme appro-fittano per socializzare chiac-chierando serene, i bambini si rincorrono, qualche papà gioca con loro, solo io sbuffo perché la teacher non è pun-tuale. Altro che puntualità in-glese! Dev’essere proprio un fatto genetico: anche quando per strada io mi affretto e mi affanno perché sono a filo col tempo, incrocio placide mamme con bimbo e car-tella che camminano lente e se incontrano un conoscente si fermano per un saluto e magari, perché no, due sane chiacchiere. Puntualità ingle-se o flemma inglese? Mah. Pure l’orario è una sorpresa: si può arrivare a scuola dal-le 8.45 alle 8.50. I bambini entrano uno per uno, accolti dalla maestra o dall’assisten-te (le classi sono numerose ma hanno due insegnanti ciascuna) e così pure all’u-scita, la maestra consegna i pargoli uno per uno. La di-visa è un vero vestito con possibilità di qualche varian-te: polo gialla, poi calzoni o gonna o salopette, calze o calzettoni, cardigan e felpa sul grigio o sul marrone, abi-tino leggero giallo per i mesi

caldi, scarpette bebè nere; il tutto da indossare quando e come vuoi. La book bag è un semplice bustone di plastica gialla con maniglia, niente zainetti firmati. Il tutto si com-pra a scuola ad un prezzo equo. Ma ci sono i giorni in cui ci si può vestire in modo più fantasioso: il giorno di San Giorgio i bambini vanno a scuola vestiti come vogliono purché sia bianco e rosso, i colori della bandiera inglese (non del Regno Unito), altre volte gli abiti ricordano un avvenimento, un fatto stori-co, oppure un personaggio in cui riconoscersi (e allora fatine e pirati si sprecano). Ma nessun costume compra-to: qualcosa in casa si trova sempre. Qui il rispetto per la natura, per gli animali, per la vita lo si avverte in piccoli gesti concreti ed abituali, per esempio quando devi attra-versare la strada col bambi-

no, la macchina si ferma in anticipo e il conducente fa un cenno al bimbo e gli sorride. O quando cammini a zonzo per Londra e t’imbatti conti-nuamente in vasti o vastissimi parchi, Kensington Gardens per esempio, nel cuore della città: 1.1 kmč. Cammini cam-mini e arrivi ad una strada, pensi che sia finito e invece vedi un cartello: qui comincia Hyde Park, 1.4 kmč. E le sta-tue: t’imbatti continuamente in uomini illustri del passato - targhetta e spiegazioni sul piedestallo - ad insegnare che la virtù è ciò che rimane dell’uomo. A volte c’è il ricor-do di fatti che non vanno di-menticati, come alla stazione di Liverpool street dove un gruppo bronzeo di bambini è posto a ricordo dei tanti pic-coli immigrati dei secoli scorsi, che in quella stazione si sono persi e sono rimasti abban-donati finché non è sorta una pia associazione che li ha raccolti. Ogni più piccolo cen-tro ha i suoi parchi e le sue statue. Per contro, le distanze sono sempre grandi, i posti di lavoro lontani da casa, le in-dustrie dislocate qua e là; ma la vita ruota attorno a questo grande respiro verde e chi ne trova giovamento è l’uomo. Che comunque può contare sui mezzi pubblici. Londra, più ancora che una città, è un modo di vivere. Le comodi-tà? Basti dire che qui non è ancora arrivato il rubinetto miscelatore dell’acqua calda e fredda (se non in qualche albergo). Fantasia, indivi-dualità, iniziativa? Dove c’è bisogno di idee, le industrie vogliono ancora italiani. In cambio c’è il senso del bene pubblico: musei e gallerie d’arte sono quasi sempre Fon-dazioni volute da ricchi priva-ti. Un modo intelligente di far-si pubblicità ma forse ancor più, un modo per rimanere illustri. La cultura e l’istruzio-ne qui sono ancora stimate. E nei musei non manca mai la

Londra, dove il culto della libertà convive con la monarchiaI tanti volti di una città eccentrica ed incoerente, che non teme paragonidi Franca Merlo

sezione didattica, dove i geni-tori possono accompagnare i bambini ad imparare spe-rimentando. Questo ciò che finora ho colto dello spirito inglese. Mi ricorda l’ambien-te di quando ero bambina, ricco di valori, di sacrificio e di gusto di vivere, poi irrime-diabilmente scivolato via. Qui misuro la falsità in cui siamo precipitati in questi ultimi de-cenni, comprati da una vita comoda, misuro la distanza tra la vita e la commedia del-la vita, che fa perdere il gusto di vivere. Qui dove, se non compri una rivista, non sai il trend della moda, perché per le strade ognuno va come vuole; e l’integrazione la vedi nei vari colori della gente, sia di pelle che di vestiti. Ruislip, Londra, questo strano Paese: dove c’è il culto della libertà e contemporaneamente esiste la monarchia e si va a scuola con la divisa.

«Eravamo fascisti perché era-vamo all’oscuro di tutto, im-maturi, felicemente immaturi». Sono le poche parole che in sintesi il regista italo-cileno Marco Bechis usa per descri-vere quello che è successo negli anni in cui l’Italia è stata percorsa dal fremito del fasci-smo. Alla sesta edizione de “Le voci dell’inchiesta” organizza-ta come ogni anno da “Cine-ma Zero” e “Università degli Studi di Udine”, è stato presen-tato il suo film documentario: “Il sorriso del capo”, che con l’intento di illustrare i sistemi di propaganda del partito, di rimbalzo ha mostrato uno spaccato della condizione di vita di quei tempi, svelando come sia potuto accadere questo fenomeno, portando lo spettatore a concordare con la sommaria ma esau-riente conclusione di Bechis: "immaturi", e di conseguenza come tutti gli immaturi tanto suggestionabili. In tempi in

Sin dall'inizio dei tempi, la necessità di arringare folle e popoli da parte di conquista-tori di anime, per scopi più o meno nobili e personali, ha dovuto fare i conti con la dif-ficoltà di arrivare ai più. Ven-dere la propria immagine non solo a poche anime, è sempre stato il cruccio di chi ambiva a diventare un capo. Mi scorrono nella mente ge-nerali su destrieri a spade sguainate, che istigano alla ferocia moltitudini in armi pri-ma della battaglia, impera-tori che da palazzi faraonici parlano o meglio sbraitano su piazze di visi ridotti al mu-tismo dalla distanza. Un con-quistatore per esercitare il pro-

PANkAkULTURA

Marconi e la rivoluzione della comunicazioneTutto cambiò con il telegrafo senza fili di Guerrino Faggiani

prio potere, era costretto ad una ragnatela di informatori ed emissari che si sperdeva-no nel regno in ogni direzio-ne, a ricevere notizie vecchie ed impartire ordini che una volta arrivati erano già pas-sati e inadeguati. E così è stato per millenni, finché un giorno, di non molto tempo fa, è avvenuta una scoperta che ha cambiato tutte le re-gole. Il giorno in cui Mignani, maggiordomo di Guglielmo Marconi, da dietro la collina di Villa Grifone, sparò in aria una fucilata per segnalare al padrone che il suo ricevitore aveva captato tre vibrazioni, tre squilli. Era l'8 dicembre 1895 e per la prima volta

Marconi riuscì con un suo se-gnale a superare un ostacolo. Quella fucilata ha dato il via ad una corsa che ancora non è finita, una corsa in cui nessu-no vuole restare indietro. Via via le tecniche si sono perfe-zionate e potenziate, ora con segnali e onde si raggiunge tutto il mondo in tempo re-ale, si lavora stando seduti ad un tavolo, si guadagna e si sbriciolano fortune senza muoversi, e si fanno anche le guerre. Ora i conquistatori per raggiunge le loro mire non puntano più a mari e monti, ma a questo mondo, a quel-lo che arriva a tutti, il mon-do mediatico. Uno strumento dall'immenso potere per chi sa rapire le anime e conqui-stare con i propri argomenti. E pensare che dopo la riuscita del suo esperimento, Marconi faticò a far comprendere agli altri la straordinaria portata della sua scoperta. Per effet-tuare i suoi esperimenti era sempre alla ricerca di fondi, e dopo il grande successo del suo segnale che aveva superato un ostacolo, scrisse una lettera all'allora ministro

delle Poste e Telegrafi on. Pie-tro Lacava, in cui illustrava il suo telegrafo senza fili e le sue straordinarie potenzialità, e concluse le sue righe con la richiesta di finanziamenti per continuarne lo sviluppo. Non ottenne neanche rispo-sta, la sua lettera venne liqui-data dall'onorevole con una scritta: "alla longara". A quei tempi a Roma in via Lunga-ra c'era una casa di cura per malati mentali, insomma, in romanesco aveva scritto: in manicomio.

«Eravamo fascisti perchè immaturi, felicemente immaturi»Il regista italo-cileno Marco Bechis a “Le voci dell’inchiesta”di Guerrino Faggiani

cui anche in chiesa alla do-menica gli uomini portavano pantaloni con le "ginocchia-ie", in cui per la maggior par-te degli italiani, al di là del proprio orto tutto era nuovo, e per i quali il senso dell’ordine si riduceva alla stalla pulita e al letamaio ben accatastato (perché era un paese rurale il nostro, ed analfabeta), ve-dere sugli schermi delle tv delle osterie o dei cinema-tografo, scene di bambine ben allineate e sincronizzate che facevano ginnastica, con gonnellini blu a pieghette, calzini e magliette bianche immacolate, era come sco-prire un mondo neanche mai immaginato. E l'ostentazione continua dello splendore del fascismo guidata dal saccen-te leader, travolgeva e toglie-va il fiato alle bocche aperte degli italiani. Impressionanti i colpi d’occhio su truppe schie-rate con geometrie perfette, in piazze stracolme di gente fe-

lice, che sventolava fazzoletti al passaggio del Duce, o al suo apparire da balconi che ostentavano autorevolezza. Immancabili le riprese su la-voratori che si adoperavano per la grandezza del pae-se, che si concedevano una pausa solo per il saluto roma-no. Il Duce ritto a bordo della sua Alfa arrivava ovunque, sui campi di lavoro sui can-tieri sui porti, persino dentro le fonderie tra macchinari e colate, imperterrito a petto dritto passava come un pa-dre responsabile che veglia-va sui suoi figli. Tutto questo e molto altro fece degli italiani un popolo nazionalista pieno di sé e di ambizioni, di con-quistatori autoproclamatisi angeli perché dispensatori al

mondo (il terzo) del benes-sere fascista. Un popolo così convinto sotto l’aspetto nazio-nalista ed interventista che, il 10 giugno 1940, quando il Duce dal balcone di Palazzo Venezia a Roma, comunicò l’ascesa in guerra dell’Italia, non gli consentì neanche di finire il proclama: appena la piazza capì che l’Italia era in guerra si sollevò in un boato di giubilo, che lo costrinse a fermarsi senza ancora aver detto contro chi.Ci immaginiamo noi italia-ni di oggi capaci di questo? Quanto diversi erano i nostri avi di quei tempi? Per i quali l’originalità del singolo, vero tesoro dell’umanità, era da annientare perché nemica del benessere?In occasione di quella follia il popolo italiano si fece mol-to male, ben presto la realtà aprì gli occhi a tutti, e dopo poco il paese visse il dramma della disfatta e dello sbando totale. E tutto per rincorrere un’illusione, un’illusione figlia dell’immaturità e dell'igno-ranza, e dell’arma della pro-paganda in mano a gente pericolosa. Ma di questo, an-che se preferiamo non par-larne, ne sappiamo qualcosa anche noi, perché ora più che mai è così, e noi diabolici continuiamo a perseverare, e senza nemmeno la scusante dell’immaturità.

Dopo il repentino successo dello scrittore Roberto Savia-no, che con il suo Gomorra ha denunciato il potere ca-morristico in Campania, i riflettori sulle organizzazioni criminali si sono riaccesi, l'o-pinione pubblica ha avuto modo di informarsi, capire e giudicare il fenomeno mala-vitoso nel nostro Paese. Oggi all'ombra di Saviano, un altro giovane giornalista calabre-se sta facendo parlare di sè dopo la pubblicazione del suo libro Gotica che racconta di come organizzazioni ma-lavitose come mafia, camor-ra e n'drangheta abbiano “traslocato” i loro affari dalle ormai saccheggiate terre del Meridione, per concentrare i loro obiettivi di supremazia economica al Nord, mettendo a segno importanti affari nei grandi appalti di costruzio-ne, inquinando così il libero e certamente più appetibile mercato nel motore econo-mico del Paese. A vent'anni dalle stragi di Capaci e via d'Amelio a Palermo, in cui

RUBRICA LIBRI

Gotica n'drangheta, mafia e camorra oltrepassano la linea

recensione di Fabio Passador

Giovanni Tizian, Round Robin Editore 2012

vennero assassinati i giudi-ci Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, (coincidenti anche con i trent'anni dall'uccisione dell'onorevole Pio La Torre e del suo uomo di scorta), infatti parlare di criminalità orga-nizzata diventa nuovamente attuale, con il rischio però di cadere nella banalità delle ricorrenze fino a quando le luci dei riflettori non caleran-no nuovamente nel silenzio. I mandanti delle stragi sono stati catturati, condannati ma le responsabilità esterne resta-no irrisolte; la famosa agenda rossa del giudice Borsellino ri-sulta ancora dispersa, proba-bilmente non casualmente, viste le importanti annotazioni che conteneva sui strettissimi rapporti tra Stato e mafia. La criminalità organizzata nel frattempo è diventata un fe-nomeno che non è rimasto circoscritto al Sud Italia ma che, anzi, si è sviluppato nel-la val Padana da ormai molti lustri. Di questo scrive Giovan-ni Tizian, calabrese di nasci-ta, che lascia la sua terra a

dodic'anni, dopo che la sua famiglia era stata obiettivo della crudeltà n'dranghetista fino ad arrivare all'uccisione del padre. Trasferitosi in Emi-lia Romagna, nella laboriosa provincia modenese, convin-to di essere finalmente al sicu-ro, scopre di essere circondato da famiglie calabresi stabili-tesi al Nord e che silenziosa-mente stavano arricchendosi all'ombra del sano mercato del lavoro emiliano, terra di Resistenza partigiana, comu-nismo e cooperativismo, dove tutto funziona ed i soldi sono tanti. Ma non è solo la Regio-ne “rossa” ad essere obiettivo dei nuovi affari delle cosche calabresi: anche nella “bian-ca”, oramai verde e secessio-nista terra lombardo-veneta, che le ditte costruttrici con

sede in Calabria, prendono il controllo degli appalti, gran-di o piccoli che siano. E così troviamo infiltrazioni malavi-tose nella cementificazione selvaggia per l'EXPO 2015 di Milano, nei cantieri dell'alta velocità in Val di Susa e nella crescita smisurata delle perife-rie nelle grandi città industriali della val Padana. E non solo l'edilizia è il piatto da spartirsi tra le varie cosche. Per esem-pio, tra le stanze dei bottoni della Sanità lombarda, gra-zie al beneplacito di alcuni potenti politici locali, il boss di turno riveste ruoli primari nelle più importanti aziende ospedaliere della Regione. Che dire poi del mercato del-le slot machines? Un piccolo mercato che frutta grandi guadagni e che incastra pic-coli esercenti ignari di coloro che entrano nei loro locali per concludere sporchi affari con l'arma del ricatto: o con noi o sei finito! Gotica è un libro che non farà clamore come il più famoso Gomorra, forse perché ancora troppo scomo-do ma sicuramente, per chi lo legge e considera il sacrificio del suo autore (che ora vive sotto scorta), è un libro che sa trasmettere un forte senso d'impotenza verso la forza delle organizzazioni mafiose, ma altrettanto dice che l'in-differenza è sicuramente l'ar-ma che noi stessi mettiamo in mano alla malavita.

PANkAROCk

GOTYE, il nuovo sting

di Fabio Passador

E' di sicuro il tormentone del momento il singolo Somebo-dy that I used to know, brano cantato dall'artista belga ma naturalizzato australiano Wo-uter Wally De Backer, in arte Gotye. C'è già chi lo ha para-gonato a Sting o a Peter Ga-briel: in effetti la sua apertura vocale ricorda i due più noti artisti. Sicuramente questa sua dote è gran bel biglietto da visita e questo singolo, in duetto con la bellissima ed altrettanto talentuosa can-tante neozelandese Kimbra, sta spopolando anche nelle classifiche di vendita nostra-ne e godendo di un'ottima

critica. Attirato da tanta bra-vura mi sono chiesto se va-lesse la pena acquistare il suo album Making Mirrors. La mia curiosità era molta ed è stata ampiamente grati-ficata già dai primi ascolti di quest'album davvero ricco di stili, che da subito da l'idea delle influenze musicali del musicista. Questo non è il suo primo album, così come So-mebody that I used to know non è il primo singolo estratto da questo disco. Infatti Gotye nasce come musicista nel-la periferia di Melbourne, in Australia, città nella qua-le arrivò all'età di due anni,

dimostrando fin da bambino una grande passione, impa-rando a suonare pianoforte e batteria. La sua carriera solista inizia nel 2003, con l'uscita del suo primo disco Boardface ma il suo successo arriva tre anni più tardi con Like Blood Drawing i cui due singoli estratti entrano a far parte dei primi 100 miglio-ri brani dell'anno 2006. Nel 2010, decide di trasformare il granaio della fattoria dei ge-nitori in uno studio di registra-zione per il suo terzo album. Ed è qui che verrà inciso il primo singolo del album Ma-king Mirrors, che riceve criti-

che generalmente positive, accompagnato da un altret-tanto affascinante videoclip. Ma è con il secondo singolo che l'album e l'artista ricevo-no la spinta decisiva verso la popolarità internazionale. Il brano è un insieme di rac-conti su varie esperienze per-sonali di rottura sentimentale ispirato ad una ninna nanna intitolata “Milla piccolo ca-gnetto” di Luciano Silighini. Gotye ha però dichiarato la propria difficoltà con conse-guente depressione durante la registrazione del album, sensazioni che fortemente si riscontrano in alcuni bra-ni come Smoke and Mirrors e Save Me. Tra i potenziali nuovi singoli sicuramente po-trebbero arrivare due brani come I feel better e Easy way out. In attesa di godere del suo indubbio talento ne-gli shows dal vivo, vi consi-glio di acquistare questo suo lavoro: pulito, mai banale e davvero ricco di sonorità assortite che ne fanno un al-bum piacevole da ascoltare nel tempo.

Con il suo album “Making Mirrors” è il fenomeno del momento

Se vi capita di andare lungo il fiume Meduna in cerca di refrigerio nelle giornate di gran caldo, vi scoprirete in un’oasi di mondo fuori dal tempo, e davanti al suo gre-to vi sentirete irresistibilmente attratti dallo scorrere e dallo sciabordio della sua acqua fresca e limpida, e dai sassi

del fondale mossi continua-mente dalle creste della cor-rente. Con i piedi nell’acqua, le mani sui fianchi e gli occhi semi chiusi dal sole, vi guar-derete attorno, a monte e a valle. Poi guarderete gli albe-ri avanti a voi oltre il fiume e poi su le nuvole bianche nel cielo azzurro. Ecco, è a questo

punto che potrete far sì che accada un miracolo. Quan-do tornate sul fiume, provate a non vedere gli ombrelloni ed i bagnanti, nè a sentire le loro voci la musica ed i rumo-ri che vengono da lontano, ma a vedere qualcosa come un carro trainato da due tre.. quattro mucche, che carico di sassi guada l’acqua tra urlac-ci ed imprecazioni del conta-dino che incita alla spinta an-che uomini donne e bambini nel frastuono della corrente che schiuma loro addosso. E poi ancora più avanti un im-barcadero con corde ed ar-gani, dove uomini mezzi nudi lavorano su antiche imbarca-zioni romane cariche di merci e vettovaglie. E ancora più in là, riuscite a vedere una man-ciata di piccole case di legno poggiate su pali proprio sulle rive del fiume? Si? Allora siete riusciti a far sì che il miracolo accadesse, in un solo colpo d’occhio avete visto millenni di storia dell’acqua in cui ave-te i piedi, e con cui ora vi ba-gnate anche le braccia. Delle sue origini non ci sono molti dati certi, si sa che all’inizio le sue acque erano del fiume Cellina, ma che in seguito ad un’immane catastrofe intorno al 750 d.c, in cui dopo mesi di grandi piogge citate nella storia come “il diluvio” (ne ha

lasciato testimonianza scritta il grande scrittore longobardo Paolo Diacono di Cividale - 720-799 d.c. - che ha vissuto i fatti in prima persona) e a se-guito della rottura di un enor-me masso a monte, esplose una vena acquifera di inau-dita potenza che, scendendo a valle, travolse tutto uomini e animali compresi, lasciando dietro di sé il gigantesco greto che ora noi tutti conosciamo, sconvolgendo il primitivo cor-so del Cellina e creando un altro sbocco al mare: il Me-duna. Dalle prime genti no-madi agli antichi romani, che espandendosi da Aquileia nel 200 d.c. portarono i primi insediamenti permanenti (ed i primi confini) fino ai tempi della nostra storia recente, il fiume è stato per i popoli che si sono susseguiti lungo il suo corso, quello che di più prezio-so non c’è: la vita. In silenzio ha assistito all’evolvere dell’u-manità arrivando a noi picco-li figli del nostro tempo, anco-ra immutato nel suo scorrere così come è stato scritto nel libro del creato. Mai da soli senza conoscere, davanti alle sue acque possiamo immagi-nare di essere al cospetto di così grande autorevolezza, se ci pensate.. fa togliere il fiato. E al pensiero.. e al tuffo nella sua acqua gelida.

NON sOLO sPORT

Quanta storia scorre dentro il fiumeIl Meduna, se lo ascolti, ha molto da raccontartidi Guerrino Faggiani

La storia certifica che il pro-gresso, nel suo incedere, di-stacca dai concetti basilari della natura da cui tutto ha origine, ed anche che que-sto fenomeno è ad esclusivo appannaggio del solo gene-re umano. Il mondo animale e vegetale infatti, nel proprio dinamismo perfeziona le sue specie con l’evoluzione e le rende più adatte alla vita sulla terra, senza intaccarne l’equilibrio ma anzi rafforzan-dolo. Già un certo Darwin lo aveva capito, e poi molti altri in seguito aggiunsero che noi eravamo la sola nota stonata della vita sulla terra. Siamo quelli che nel nostro gergo de-finiamo: “dei bambini viziati”, che non si accontentano di niente e che non sanno go-dere neanche del giocattolo più bello. Viziati e capricciosi figli della nostra mentalità di generazione in generazione sempre più lontana dall’abc della vita. Di vantaggioso ri-spetto a noi, il regno animale ha che non ne possiede una, va diritto per la sua strada senza pensare a giocattoli o altro mentre noi invece siamo sempre alla ricerca un ulterio-re gradino di piacere da sali-

re. In Meduna lo si vede, tutto questo distacco; da fiume di-spensatore di vita nel passato, a solo posto dove lanciarsi in quello che nei centri abitati di oggi non ci è possibile fare, e neanche ci passa per la testa

di non essere a casa nostra ma in quella di un ecosistema che esiste anche quando non ci siamo. Sulle sue rive si as-sistono a scene che riempio-no di malinconia, e anche di rabbia se mi permettete: ma-

leducazione e menefreghi-smo in misura come l’acqua del fiume. A bocca aperta ho visto scaricare da furgoni super attrezzati, generatori e casse di diffusione così gran-di da poterci pranzare sopra, da cui venivano sparate mu-siche così alte da diffondersi ovunque, ed inutile è cercare vie di scampo perché questo succede in contemporanea anche sulle altre sponde. Compagnie e famiglie arri-vano sul greto scaricando di tutto, rivendicando il possesso dello spazio che calpestano fino a quando ne hanno vo-glia, e lasciando poi i segni delle loro discrete presenze: immondizie sparse e spu-doratamente abbandonate senza neanche un pensiero e un po’ di vergogna. Ai no-stri giorni il fiume è diventa-to una pazzia collettiva dove tutto è lecito. Dove ormai solo il bastone sarebbe voce auto-revole, qui si che non rabbri-vidisco all’idea, ma gli organi preposti non hanno tempo neanche per dei semplici cartelli che invitino all’educa-zione civica, e sperare in noi è dura, noi siamo l’anello in esubero dell’umanità.

LA sPIAGGIA sOTTO CAsAIl fiume oggi è luogo per i ba-gnanti e di feste abusive. Non di rado, discarica di rifiuti di Guerrino Faggiani

LDP - LIBERTÁ DI PAROLAGiornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi

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Hanno collaborato a questo numero

——————————————Guerrino FaggianiSe è vero che della nascita non ci si ricorda nulla, chiedetelo a lui, vi saprà raccontare ogni secondo, è rinato nel 2007! Da cinque anni con la Panka ca-valca la vita, non tanto per sal-tare gli ostacoli, ma proprio per abbatterli

——————————————Milena BidinostIl direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immer-gersi nella bolgia dell’Associa-zione con delicatezza e costan-za, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un arti-colo! Ma confidiamo nella sua amicizia

——————————————Franca MerloPresidentessa onoraria dell’As-sociazione affronta la vita come una eterna sperimentazione. Oggi è a Londra, più avanti.. si vedrà. Non manca mai di commentare il blog, non man-ca mai di sentirsi Panchinara, ovunque sia.

——————————————Pino RoveredoPenna in mano, foglio davanti agli occhi, cuore e cervello per riempire gli spazi, colorarli. To-scano, non di origine ma fede-le compagno tra le labbra, a profumare parole da sentire o leggere.

——————————————Elisa CozzariniBici gialla per passare inosser-vata, capello corto per non ri-schiare mai di non osservare. Fedelissima firma di LDP, pre-senza eterea in una fossa di leoni.

——————————————Franco De MarchiFrate mancato, tra i fondatori degli RdP, poeta cambusiere per sua stessa ammissione si è lavato qualche volta il viso con gli occhiali da sole su. Oltre agli occhiali c'è una cosa da cui è inseparabile: la... polemica

——————————————Andrea PiccoSceglie di vivere anche lavo-rativamente la sua Gorizia per-ché, a pochi metri di distanza, la benzina costa molto meno! Se la storia è partenza e slancio verso il futuro, lui la rappresen-ta per questo luogo, indelebil-mente

——————————————Manuele CelottoScrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante que-sto difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricor-do di antichi fasti e disavventu-re inenarrabili

——————————————Fabio PassadorAttualmente panchinaro di lus-so! Come ogni giocatore di cal-cio dal baricentro basso, non gli si può chiedere di aspettare i cross in area per colpire di te-sta, ma offre dinamismo, scatto breve e bruciante, dribbling secco e magnifici assist

——————————————Stefano VenutoMimica facciale e gestualità ne fanno un perfetto attore! Lui però ha deciso di rinunciare alla fama per concedersi a noi. Magistrale operatore, tanto da confondere le idee e mettere il dubbio che lo sia veramente, penna delicata e poetica del blog, chietegli tutto, ma non appuntamenti dopo le 19.00!

——————————————Antonella Gatti BardelliEntra a far parte dell’Associa-zione con intensità, gettandosi nella mischia con energia e delicatezza, con anima e con-cretezza. Scrive e recita con noi come se ci conoscesse da sem-pre, eterea e presente anche lei ormai è una Pankinara

——————————————Luca GaspardisE’ il più piccolo della compa-gnia ma non certo per l’altezza! Quando ci ha incontrati per la prima volta sembrava impau-rito anche della sua ombra, adesso è diventato un fiume in piena! Siamo sicuri che abbia molte cose da dare, anche se per ora non ricorda dove le ha

——————————————Ferdinando ParigiVoce tonante, eleganza innata, modi da gentiluomo che si tro-vano raramente, la nostra nuo-va penna si fa sempre notare, tanto che le sue mail sembrano lettere direttamente uscite da un romanzo dell’800

——————————————Roberta SabbionSe le giornate durassero 30 ore, a lei non basterebbero comun-que! Come ogni ottimo scala-tore, conosce perfettamente il significato del gruppo, della fiducia, dell’insieme, dell’obiet-tivo comune. Legati ma liberi, legati e quindi liberi, per l’Asso-ciazione è linfa sempre nuova.

——————————————Chiara ZorziS: "Chiara, guarda che bella frase che ho scritto!" C: ”bella ma non si scrive così...” S: "ok non è perfetta ma il senso poetico..." C: ”...si bello, ma non si scrive così in Italiano!” S: "Quindi?" C: “tienila, ma non è giu-sta!”. Quando scorri, la consapevo-lezza del limite, che scorre con te, è vitale. Grazie Chiara

La vita e ̀ come una commedia: non importa quanto e` Lunga, ma come e ̀ recitataseneca

i ragazzi deLLa panchina

campagna per la sensibilizzazione e integrazione socialeDei ragazzi Della pancHina con il patrocinio Del comune Di porDenone