Ldp 02 2014 issuu

20
Libertá di Parola 2/2014 —— CODICE A S-BARRE INVIATI NEL MONDO L'EVENTO NON SOLO SPORT APPROFONDIMENTO Giustizia alternativa L’ordinamento penitenziario italiano prevede diverse modalità di esecuzione delle pene, che vanno dalla privazione totale della libertà a limitazioni parziali di essa. Il carcere in altre parole è solo un aspetto del sistema. In questo numero parliamo perciò di misure alternative alla detenzione. Tra queste l’ultima ad essere stata introdotta dal legislatore è la giustizia riparativa. a pagina 9 a pag. 18 Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire) CIRCO SOTTO LE STELLE continua a pagina 2 continua a pagina 16 a pagina 12 a pagina 13 a pagina 4 IL PERSONAGGIO Ogni estate, da ormai otto anni, si radunano a Frisan- co artisti circensi da tantissimi Paesi per dare vita a “Brocan- te”, il Festival Internazionale di Circo contemporaneo. Dal 28 luglio al 1° agosto anche quest'anno gli artisti riem- piranno i cortili, le case, le piazze, per raccontare ad un pubblico sempre più nume- roso (diecimila i partecipanti dell'ultima edizione) i propri spettacoli. Cosa vuol dire es- sere artisti circensi e cosa vuol dire parlare di Circo contem- poraneo ce lo siamo fatto spiegare direttamente da Ro- berto Magro, il direttore artisti- co del Festival. «Essere artista circense – spiega – significa trovare, attraverso il circo, un modo di parlare di sé. Signi- fica giocare quotidianamente con i propri limiti, scrivere uno spettacolo, costruire il proprio linguaggio. La personalità e l'unicità della proposta ar- tistica sono le peculiarità del Nuovo Circo: significa uscire dall'idea del “numero”, si cer- ca di raccontare molto di più di una sequenza tecnica». A dare a quest’arte questa nuo- va veste fu la prima Ecole Nationale de Cirque. «Fu fon- data a Parigi nel 1974 – ricor- da Magro - ed ha aperto alla democratizzazione dell'arte circense, prima riservata a chi nasceva nelle famiglie che già facevano circo». Oggi è proprio grazie alle scuole che si diventa artisti circen- si: si riceve un’educazione a vari livelli, dalla danza al te- atro e in più ci si specializza in una disciplina particolare. Dal 2007 ad oggi “Brocante” si è conquistato fama interna- zionale. Se, infatti, nella prima edizione del festival furono 20 gli artisti che Roberto Magro portò in Val Colvera dalla scuola Flic di arte circense di Torino, oggi ecco che il nu- mero è salito addirittura ad oltre 200 e sono artisti che arrivano da esperienze for- mative sviluppate in tutte le scuole d'Europa. «Chi era un giovane artista otto anni fa – dice Magro - oggi è un artista affermato, magari con una propria compagnia, e torna a Frisanco perché ormai "Bro- cante" è diventato un punto di riferimento». Tutti gli artisti costruiscono assieme l'espe- rienza del festival, dove è fon- damentale la relazione con gli abitanti della Val Colvera che, rimarca il direttore arti- stico, «ci permette di azzerare per una settimana la barriera tra artista e pubblico, entran- Dalla nostra redazione in carcere "Non giudicare!! Pensieri di uomini non liberi", il nuovo libro di RdP Oriana Fallaci: donna e giornalista indimenticabile A Frisanco torna il "Brocante" di Sara Rocutto Ex Birmania, nel paese del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi Il Pordenone Calcio ha riconquistato la serie C

description

Libertá di Parola. Trimestrale d'Informazione dei Ragazzi della Panchina di Pordenone

Transcript of Ldp 02 2014 issuu

Libertá di ParolaN°2/2014 ——

CODICE A S-BARRE

INVIATI NEL MONDO

L'EVENTO

NON SOLO SPORT

APPROFONDIMENTO

Giustizia alternativa

L’ordinamento penitenziario italiano prevede diverse modalità di esecuzione delle pene, che vanno dalla privazione totale della libertà a limitazioni parziali di essa. Il carcere in altre parole è solo un aspetto del sistema. In questo numero parliamo perciò di misure alternative alla detenzione. Tra queste l’ultima ad essere stata introdotta dal legislatore è la giustizia riparativa.

a pagina 9

a pag. 18

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

CIRCO SOTTO LE STELLE

continua a pagina 2

continua a pagina 16

a pagina 12

a pagina 13

a pagina 4

IL PERSONAGGIO

Ogni estate, da ormai otto anni, si radunano a Frisan-co artisti circensi da tantissimi Paesi per dare vita a “Brocan-te”, il Festival Internazionale di Circo contemporaneo. Dal 28 luglio al 1° agosto anche quest'anno gli artisti riem-piranno i cortili, le case, le piazze, per raccontare ad un pubblico sempre più nume-roso (diecimila i partecipanti dell'ultima edizione) i propri spettacoli. Cosa vuol dire es-sere artisti circensi e cosa vuol dire parlare di Circo contem-poraneo ce lo siamo fatto spiegare direttamente da Ro-berto Magro, il direttore artisti-co del Festival. «Essere artista circense – spiega – significa trovare, attraverso il circo, un modo di parlare di sé. Signi-fica giocare quotidianamente

con i propri limiti, scrivere uno spettacolo, costruire il proprio linguaggio. La personalità e l'unicità della proposta ar-tistica sono le peculiarità del Nuovo Circo: significa uscire dall'idea del “numero”, si cer-ca di raccontare molto di più di una sequenza tecnica». A dare a quest’arte questa nuo-va veste fu la prima Ecole Nationale de Cirque. «Fu fon-data a Parigi nel 1974 – ricor-da Magro - ed ha aperto alla democratizzazione dell'arte circense, prima riservata a chi nasceva nelle famiglie che già facevano circo». Oggi è proprio grazie alle scuole che si diventa artisti circen-si: si riceve un’educazione a vari livelli, dalla danza al te-atro e in più ci si specializza in una disciplina particolare.

Dal 2007 ad oggi “Brocante” si è conquistato fama interna-zionale. Se, infatti, nella prima edizione del festival furono 20 gli artisti che Roberto Magro portò in Val Colvera dalla scuola Flic di arte circense di Torino, oggi ecco che il nu-mero è salito addirittura ad oltre 200 e sono artisti che arrivano da esperienze for-mative sviluppate in tutte le scuole d'Europa. «Chi era un giovane artista otto anni fa – dice Magro - oggi è un artista affermato, magari con una propria compagnia, e torna a Frisanco perché ormai "Bro-cante" è diventato un punto di riferimento». Tutti gli artisti costruiscono assieme l'espe-rienza del festival, dove è fon-damentale la relazione con gli abitanti della Val Colvera che, rimarca il direttore arti-stico, «ci permette di azzerare per una settimana la barriera tra artista e pubblico, entran-

Dalla nostra redazione in carcere

"Non giudicare!! Pensieri di uomini non liberi", il nuovo libro di RdP

Oriana Fallaci: donna e giornalista indimenticabile

A Frisanco torna il "Brocante" di Sara Rocutto

Ex Birmania, nel paese del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi

Il Pordenone Calcio ha riconquistato la serie C

do nelle loro case e nei loro cortili». Chi arriva a Frisanco lo fa anche per la magia del posto: non ci sono in Italia al-tri festival come questo. Ma come mai tutto ciò accade proprio a Frisanco, piccolo paesino della montagna ma-niaghese? «Nel 2002 con la

continua dalla prima pagina

A Zoppola da dieci anni suc-cede ogni estate: il paese si rimbocca le maniche, le as-sociazioni e i ristoratori allesti-scono i chioschi e più di cento artisti arrivano a popolare le vie. “Arti e Sapori”, la Fiera In-ternazionale dello Spettacolo di Strada, è pronta ad alzare il sipario anche quest'anno nelle giornate dell'1, 2, 3 ago-sto. Subito dopo "Brocante"? Ebbene sì! Perché dal 2007 il rapporto con il Festival "Bro-cante" ha dato vita ad una fruttuosa collaborazione che permette di ospitare a Zoppo-la alcuni degli artisti di arte circense che si esibiscono an-che in Val Colvera. Paolo Pa-ron, direttore artistico di “Arti e Sapori”, è colui che ogni anno ha il compito di selezionare quali artisti far esibire. «Nei pri-mi anni il Festival era molto più legato agli artisti di strada e ai buskers, i musicisti di stra-da – racconta - oggi diamo molto più spazio invece al Circo contemporaneo». Nella scorsa edizione dello spetta-colo visitatori sono stati circa ventimila. Pensare che tutto era nato dieci anni fa dalla volontà di Lino Pagura, allora assessore alla cultura, e Ro-berto Pagura, direttore artistico del Molino Rosenkranz, di dare vita ad una vera e propria fe-sta di pae-se, visto che a Zoppola m a n c a va , cercando di darle una

connotazione diversa rispetto a quelle che già erano fatte altrove. La Pro Loco di Zoppo-la in questi anni è riuscita a coinvolgere tutte le associa-zioni del luogo: tra chioschi e allestimenti tutto il territorio è completamente impegnato a garantire la miglior organiz-zazione possibile delle serate. Il risultato è che oggi il festi-val di Zoppola è una vetrina interessante nel panorama non soltanto italiano e lo te-stimonia il numero di artisti che ogni anno fa domanda di parteciparvi. «Ogni anno - conferma Paron - riceviamo decine e decine di proposte di artisti dall'Italia e dall'este-ro e il mio compito è proprio quello di vagliare e selezio-nare chi ospitare a Zoppola». Nell'edizione 2014 quella di sabato, come da tradizione, sarà una notte bianca: gli spettacoli continueranno fino a notte fonda. La domenica sera invece è attesa una per-formance collettiva degli artisti di Zoppola. Ma sui nomi degli artisti, nel momento in cui il nostro giornale va in stampa, le bocche sono ancora tutte cucite. Per rimanere aggior-nati sul programma finale non resta quindi che tenere

d'occhio il sito della Pro Loco www.p r o l o c o -zoppola.it o seguire la pagina face-book della Pro Loco del Comune di Zoppola.

IL TEMA

compagnia Rital Brocante, di cui facevo parte – spiega Ma-gro - decidemmo di realizza-re uno spettacolo a Frisanco, il paese dal quale provengo, per portare il circo davanti alle case delle persone. Dopo tre anni, assieme all'ammini-strazione comunale, abbia-mo pensato: perché invece di uno spettacolo non ne faccia-mo arrivare tanti?». Così da

A Zoppola la Pro loco ospita la fiera dello spettacolo di strada. Coinvolte tutte le associazioni di Sara Rocutto

Ad agosto sarà la volta di "Arti e Sapori"

Giulio Ottaviani in arte è il Dottor Stokdi Milena Bidinost

Siamo l'antidoto alla paura e alla solitudine

Nelle piazze, accanto al Cir-co contemporaneo, c’è an-che l’arte di strada. Sono due mondi distinti, che si corteggiano, si sfiorano e s'in-trecciano spesso, ma che ri-mangono tali. Entrambi però contribuiscono a dare valore aggiunto allo stare insieme. Sono arti in continua evolu-zione. «Negli ultimi anni in Italia l'arte di strada ha subito un radicale cambiamento, in-nanzitutto nel numero di artisti che si esibiscono, merito delle varie scuole di circo che han-no aperto nel nostro paese, ma prima ancora di quel fan-tastico gruppo di saltimbanco che tra la fine degli anni ‘90 e l'inizio del secondo millen-nio ha deciso di condividere le proprie conoscenze, orga-nizzando le prime convention nazionali di giocoleria». E’ quanto ci spiega Giulio Otta-viani, classe 1979, originario di Latina, nome d'arte Dottor

allora continua la collabora-zione con l’amministrazione comunale e dal 2010 "Bro-cante" è diventata associa-zione. Nel programma dell’e-dizione 2014 si annovera la partecipazione di compagnie da tutta Europa, fra cui Finlan-dia, Francia, Polonia, Belgio, Germania. Quest'anno, grazie al gemellaggio con il Certa-men Coreografico di S. Josè,

arriveranno artisti anche da Costa Rica e Brasile. Nos No Bambu, Betti Combo, Magda Clan: questi sono solo alcuni dei nomi delle compagnie che animeranno la settimana di Frisanco assieme a spetta-coli di danza e musica. Per i bambini ci saranno lezioni di circo e spettacoli partico-larmente dedicati a loro. La pioggia non fermerà l'evento:

Stok. «Da allora – prosegue - il livello tecnico degli spettaco-li non ha fatto che crescere, la quantità di persone che si dedicano a quest'arte è de-cuplicata, cambiando pro-fondamente anche il modo di percepire l'arte di strada». Quando ha iniziato ad esibir-si, tredici anni fa, per Ottavia-ni una delle cose più difficili era far capire alla gente che non stava facendo l'elemo-sina. «Oggi – dice - le perso-ne sono invece più abituate ad incontrarci nelle piazze, la diffidenza è diminuita no-tevolmente. Un'eccezione a tutto questo è rappresentata da quelle piazze che risultano troppo affollate di artisti: qui, a volte, l'abitudine si è trasfor-mata quasi in noia. Ciò è la conseguenza del fatto che tante amministrazioni comu-nali ancora oggi vietano di esibirsi sul proprio territorio e quindi gli artisti di strada fi-

«Siamo in un’epoca in cui l'impatto è tutto: ci si stupisce sempre di meno e la gente non ha più tempo per ascol-tare. Ecco quindi che il circo prende l'occhio, non ha bi-sogno di parole, semplice-mente coinvolge». Andrea Brunetto ha 26 anni. Nato a Reggio Emilia, vive a Toulou-se, in Francia, e dal 2010 la-vora con la compagnia italo-francese i “Madame Rebinè”. E’ un artista circense a tutto tondo e della sua arte ama il “disequilibrio dell’essere arti-sta”, “l’andare verso il pubbli-co” per “smuoverne emozioni e coscienze” su temi anche complessi come la malattia, la vecchiaia, la solitudine, approfittando dell'umorismo tipico dei clown, del teatro

e delle tecniche di circo. A Pordenone Andrea, la prima volta, ci è venuto anni fa per frequentare il master class di commedia dell'arte della “Scuola sperimentale dell'at-tore”. Da allora ci è ritornato diverse volte per spettacoli e partecipazioni a festival. Il 30 luglio lo rivedremo di nuovo assieme ai “Madama Rebinè” a Frisanco per il “Brocante”, e il 3 agosto a Maniago. Da giovane Andrea aveva il so-gno di diventare come “Patch Adams”, un clown di corsia: iniziò così a giocolare a 16 anni, per caso. A 18 frequentò la scuola di circo Flic di Tori-no, quindi il “Katakomen” di Berlino e infine “Le Lidò” a Toulouse. «Per me – raccon-ta Andrea – l’artista nasce

da un'instabilità, decide cioè continuamente di non stare nel proprio asse, dritto e sta-bile su di sé, per andare in-vece incontro al pubblico. Per la nostra compagnia ogni spettacolo deve aver la pre-sunzione di smuovere chi lo guarda, dare emozioni (di-vertimento, paura, nostalgia, tristezza), ma portare anche lo spettatore ad interrogarsi». Giocoleria, musica, danza, acrobatica, mimo: sono le tecniche che i “Madama Re-binè” fondono insieme per ar-rivare al cuore del loro pub-blico. «La caratteristica del nostro stile – dice - è la ricerca dei contrasti: una situazione comica può avere un retro-gusto amaro; una situazione triste dei momenti divertenti. Perché è questo che acca-de anche nella vita, nulla è solo in un modo”. La freschez-za, l’energia e la complicità tra gli attori sono ciò che più coinvolge il pubblico dei “Ma-dama Rebinè”. I loro spetta-coli tradiscono infatti anche la sintonia del gruppo, il lavoro fatto spalla a spalla ogni gior-no, in altre parole portano in scena non solo la tecnica, ma anche l’umanità degli artisti che si esibiscono. «Il bello del teatro e del circo – afferma infatti Andrea - è che è vivo, nessuna replica sarà mai uguale all'altra, è imperfetto. Sta qui il rischio: nella fragilità del giocoliere che, se sbaglia, rompe “la poesia dell'oggetto che vola”». Andrea e la sua compagnia rappresentano in altre parole ciò che è oggi il circo contemporaneo. «Il circo esce dai vecchi tendoni e si libera degli animali – dice - smette d'essere solo puro intrattenimento, per parlare in maniera più complessa al pubblico, creare storie, dare vita a mondi che possono arrivare ad essere davvero surreali, grazie alla magia, il mimo, l'acrobatica. Creare suggestioni e così stupire con il circo e far ridere con il teatro”. Facile non è, perché oggi per essere dei buoni circensi bi-sogna essere buoni trapezisti o giocolieri o equilibristi, ma avere anche una formazione in teatro, nozioni di acrobati-ca, danza e musica. «Il circo oggi è più attuale di quanto si pensi – conclude Andrea -. Viene insegnato in diverse scuole, viene usato per pro-getti umanitari in Africa o con persone diversamente abili. Sempre più eventi di piazza chiamano compagnie di cir-co per fare spettacoli, come succede da voi con il “Bro-cante" e “Arte e sapori”, ma non solo».

Andrea Brunetto e i “Madame Rebinè” saranno tra gli artisti del “Brocante” di Milena Bidinost

«Tocchiamo mente e cuore del pubblico strappandogli un sorriso »

tutti gli spettacoli si svolgeran-no in caso di necessità al co-perto. Qualche ulteriore con-siglio? «Portare qualche soldo in tasca – conclude il direttore artistico - perché il Festival si autofinanzia ed è grazie al pubblico che ogni anno pos-siamo offrire un prodotto di qualità». Tutte le informazioni si trovano nel sito del festival: www.brocantiere.com

niscono per concentrarsi per lo più su piazze più disponi-bili ad accoglierli». Ottaviani ha iniziato a fare l'artista di strada nel 2001. Nel 2005 si è laureato al Dams (discipline dell'arte della musica e dello spettacolo) di Bologna. Dopo di che questa sua passione è diventata a tutti gli effetti il suo unico lavoro: è un arti-sta nomade che negli ultimi otto anni ha fatto di una rou-lotte la sua casa. Tra il 2006 e il 2008 ha frequentato la scuola di circo Flic Di Torino, specializzandosi in giocoleria. Ha lavorato assieme a delle compagnie; dal 2000 si pre-senta nelle piazze da solo. E’ successo anche al “Brocante” e ad “Arte e Sapori”. Il suo attuale spettacolo si intitola “Sperimentazioni analogiche di fisica di strada”, una per-formance di giocoleria con oggetti di uso comune come pentole, mestoli coperchi e cuscini. Dottor Stok trasforma, davanti agli occhi del pub-blico, il suo carretto in un grande meccanismo ad ef-fetto domino, in cui ogni ele-mento innesca un altro. Per lui «l'arte di strada è l'antidoto contro la paura, contro il razzi-smo di ogni specie e contro la solitudine». «Mi piace pensare – dice - che quando una per-sona abituata ad una vita se-dentaria esce di casa in una giornata di sole per andare a comprare le sigarette e per caso incontra sul suo cammi-no uno spettacolo diverten-te, diviene più propensa ad uscire più spesso, a viversi la piazza e le persone». Se è vero però che in Italia l’arte di strada ha fatto passi da gi-gante, resta ancora in coda ad altri paesi d’Europa. «Fin quando avremo governanti che trattano l'arte come una merce non andremo tanto lontani – commenta Ottavia-ni -. Per un artista che vuole vivere della sua arte è diffici-le farlo in Italia: i pochi fondi pubblici sono mal distribuiti e la figura dell’artista assai poco riconosciuta. Dobbiamo fare ancora molta strada per dare la giusta dignità all’arte”.

Prosegue il lavoro della redazione del nostro giornale nata all'interno della Casa circondariale di Pordenone. “Codi-ce a S-barre” è uno spazio interamente gestito dai suoi detenuti.

Pordenone e Treviso, i pro e i contro di due mondi diversi eppure sempre chiusi dietro alle sbarredi Emanuele Garbin

Da un carcere all’altro

Voglio scrivervi delle difficol-tà che ho provato nel trasfe-rimento tra un carcere e un altro. Mi hanno arrestato il 4 marzo 2013 ed ora mi trovo rinchiuso nel carcere di Trevi-so da dicembre dello stesso anno. Quando mi hanno ar-restato mi hanno portato nel carcere di Pordenone. All’ini-zio mi sentivo perso e spae-sato: mi trovavo in una cella quattro metri per sei, con altri cinque detenuti, di cui l’unico italiano ero io: gli altri erano di etnia marocchina, polacca e rumena. All’inizio stavo sulle mie, perché non conoscendo le persone non sapevo come muovermi. Col passare dei giorni ho iniziato a fare ami-cizia con i miei compagni di

cella e da lì è nata una bella sintonia, parlavamo, gioca-vamo a carte e così via. Con gli agenti nel primo periodo non sapevo come compor-tarmi, avevo sempre un bat-tibecco perché vedevo che molte cose che un detenuto si aspetta non funzionavano come pensavo. E’ andata così fino a quando non mi sono calmato: ho capito che col mio fare non combinavo niente, perché qui dove mi trovo qui se hai ragione o no non ha importanza, vincono sempre loro. Inizialmente le mie giornate cercavo di pas-sarle nel miglior modo pos-sibile: giocavo a ping-pong, alla mattina correvo, facevo i corsi e ho fatto anche qual-

Dalle finestre del Castello canti e immagini dell’87ma Adunata degli alpini di Pordenone hanno toccato il cuore anche a noidi Adriano

Spicchi di festa tricolore

Dal carcere, la festa degli al-pini mi arriva a spicchi. Dalla finestra della cella, parzial-mente oscurata dal frangi-sole, posso vedere una fetta di strada che sta di fronte al Tribunale. Le persone entra-no nella visuale portandoci una gioiosa aria di festa che, attraverso gli schiamazzi, i canti, la goliardia, ti arriva al

cuore come una manciata di coriandoli gettati al vento. Poi quei coriandoli, sollevati dall’aria, escono dalla vista, lasciando un senso di vuoto e di amarezza. Dalla finestra del locale doccia, un diverso angolo di strada ci mostra al-pini schierati a mo’ di “presen-tat’arm” (presentate le armi n.d.r)! Una batteria di griglie

che disegno. Dopo un mese che ero lì, mi sono inserito nei gruppi per l’alcolismo, mi sono trovato bene e mi han-no fatto capire che quello che mi portavo dentro non era giusto e che mi rifugiavo nell’alcol. Io, che sono un tipo molto riservato, nel gruppo mi esprimevo e dicevo quello che mi sentivo di dire, quello che mi portavo dentro senza mai buttarlo fuori. Questo mi è stato utile per lottare contro l’alcol, il mio problema da una vita. Insomma, parteci-pare a quelle sedute mi ha aperto gli occhi. Ho così avu-to l’opportunità di riallacciare il rapporto con la famiglia e, credetemi, questo è l’obietti-vo più bello che ora ho. Lo voglio portare fino in fondo, anche e soprattutto per un domani quando mi troverò fuori. Là starà il vero perico-lo, perché fuori dal carcere se vuoi l’alcol lo trovi ovunque. Ora che ho più vicino che mai la mia famiglia, sono convinto che lo combatterò anche fuori. Con il passa-re dei mesi a Pordenone ho partecipato anche al gruppo dell’associazione “I Ragaz-zi della Panchina”, dove ho conosciuto due persone me-

ravigliose che fanno il loro lavoro perché lo amano e non perché sono obbligati a sbarcare il lunario. Questo gruppo mi ha permesso di mettermi in gioco scrivendo alcune cose che mi riguarda-vano personalmente ed io ci andavo molto volentieri. Mi sono messo in gioco e quello che ho scritto è stato pubbli-cato sul giornale di quest’as-sociazione “Libertà di Parola”: è stata una cosa molto bella e ancora oggi che sono nel carcere di Treviso, continuo a scrivere. Lì a Pordenone noi detenuti avevamo tre ore e mezza d’aria e il resto del-la giornata lo passavamo in cella; non avevamo mol-ti corsi e così ho imparato a leggere i libri che c’erano in biblioteca e sinceramente i volumi li ho letti quasi tutti. In carcere il tempo si ferma. Non hai molte opportunità lavorative: con questo siste-ma mi chiedo, quindi, come possa un detenuto essere ri-educato e reinserito nella so-cietà”. Ho trascorso circa nove mesi a Pordenone, poi dopo il primo grado di giudizio e la condanna sono stato trasfe-rito a Treviso. Tendo a preci-sare che i trasferimenti non li

La prima lettera che ho rice-vuto da mia moglie mi ha fatto piangere dalla gioia. Lo stesso fu per lei con la mia. Le lettere per me e mia mo-glie sono molto importanti ed ogni giorno ci scriviamo e aspettiamo di riceverle. Sono molto importanti perché ri-cevere una piccola parola o notizia e saper che l’altro sta bene ci fa stare meglio tan-to da farci cambiare la gior-nata e l’umore. Nelle lettere parliamo e discutiamo molto sui vari problemi da risolvere e cerco di darle i miei consi-gli su come o cosa fare nelle diverse situazioni. Sono mol-to orgoglioso di lei, dato che prima ero solo io a risolvere

i problemi, mentre adesso lei si ritrova ad avere una gran-de responsabilità visto che deve gestire tutto da sola, anche la nostra attività. Lei poi mi racconta delle novi-tà che succedono fuori e mi tiene informato su un po’ di tutto e, tra una lettera e l’altra, esprimiamo sempre i nostri sentimenti. Parliamo anche molto dei nostri progetti per il futuro ed al primo posto c’è un bimbo: lo abbiamo sem-pre desiderato. Prenderemo poi casa in Veneto e vivre-mo la nostra vita felici, con la nostra famiglia. Facendo in modo che ciò che stiamo vi-vendo ora sia solo un brutto ricordo.

Parlarsi con una letteraScrivere permette a me e a mia moglie di sentirci più vicinidi Andrea

«Nei libri cerco storie che mi facciano desiderare di leggere ancora altre storie»di Marco Z.

Leggere

Partecipo al laboratorio “Co-dice a S-barre”, il cui scopo principale è scrivere. Ho an-che iniziato a frequentare il corso di scrittura creativa, sempre all’interno del car-cere. Ma allo scrivere prefe-risco il leggere. Leggere mi è sempre piaciuto, in alcuni momenti della vita di più, in altri meno. Questo è uno dei momenti in cui leggo di più. Quello che cerco in un libro è una storia ben raccontata, non m’interessa se non è un “classico” o un “bestseller”: anche se li leggo, mi basta una bella storia, ben raccon-tata. Una storia che mi faccia trovare scuse per non smet-tere di leggere, anche se ho

cose più importanti da fare. A volte trovo queste storie, a volte no; se non le trovo, non è un problema, un libro non ti impone di leggerlo fino alla fine, puoi lasciarlo in qualsiasi momento, non hai nessun obbligo verso di lui. Leggere ti permette di cono-scere mondi diversi dal tuo, di provare esperienze an-che estreme senza rischiare nulla, allarga i tuoi orizzonti, oppure più semplicemente ti fa passare qualche ora lon-tano dai problemi della vita. Quando si sceglie un nuo-vo libro non si dovrebbero avere preclusioni su genere o autore. Io però tendo ad essere un po’ conservatore

«A 15 anni lasciai il mio paese per l’Italia. Fui accolto in una comunità per minori»di Marcel

Minore non accompagnato

Sono Marcel, un ragazzo moldavo. In Italia arrivai la prima volta all’età di 15 anni, illegalmente, senza i miei pa-renti. Partii alla ricerca di un futuro migliore: ero infatti già a conoscenza dell’esistenza delle comunità per minori, avendo amici che vi erano inseriti e mi avevano detto come funziona. Quando ar-rivai in Italia mi presentai ad una comunità di Marghera. Gli operatori che mi accol-sero, mi accompagnarono prima dai carabinieri per compilare dei fascicoli, dopo di che potei cominciare la

vita di comunità. In seguito, dopo aver frequentato dei corsi di italiano, fui inserito alla scuola media. In comu-nità eravamo 14 minorenni di varie nazionalità, condi-videvamo una casa di due piani, insieme a degli opera-tori che si prendevano cura di noi. La vita nella comu-nità era bella, mangiava-mo insieme, facevamo delle gite, andavamo a giocare a calcio. I più vecchi facevano degli stage di lavoro ed al-tri avevano già un contratto. Anch’io ho fatto un corso per diventare meccanico e ho

lavorato presso un’officina. Però mi mancavano molto i miei parenti, la mia terra e, appena compiuti 17 anni, sono tornato nel mio paese, abbandonando la comunità e il lavoro che avevo. Il ricor-do della comunità è rima-sto forte in me, perché lì ho vissuto un’esperienza molto importante, grazie alla qua-le ho avuto la possibilità di crescere ed imparare molto e, poiché eravamo tanti ra-gazzi di nazionalità diverse, ho conosciuto tante culture. Anche se a volte avevamo difficoltà a capirci su certe cose, accettavamo tutti le no-stre diversità. Per me è stata una bella esperienza e spero che anche per il futuro que-ste comunità possano aiu-tare i minori che ne hanno bisogno, offrendo loro edu-cazione e possibilmente un futuro migliore. Io sono stato uno di loro e, anche se non sono riuscito a rimanere in comunità fino ai18 anni, l’e-tà in cui di solito la si lascia, ho imparato comunque mol-to. Per questo ringrazio tut-ti quelli che si occupano di questi minori.

decidi tu e non decidi dove andare. Lo decide il Dap, il Dipartimento Amministrazio-ne Penitenziaria. Anche in questo caso sono partito con le mie paure, i miei “se” e i miei “ma”. Ora l’unica cosa che mi fa combattere e rea-gire è la mia famiglia. La mia forza d’animo arriva dai miei bambini, un maschietto di sette mesi e tre femminucce più grandi. La mia lotta con-tro l’alcol la sto combattendo per le persone che credono in me e che mi danno sup-porto. Ora qui a Treviso sto lavorando per una coope-rativa: buco i bidoni dell’im-mondizia e prendo 10 euro al giorno, non sono molti ma per me che non fumo mi ba-stano e a fine mese sono 260 euro: 100 euro li tengo per me e 160 li do a mia moglie. Mi trovo in una cella da due persone e lavoro. A differen-za di Pordenone, in questo carcere ci sono le scuole ele-mentari, le medie, le superio-ri e tante opportunità di corsi. Sono più vicino alla mia fa-miglia: mia moglie doveva farsi 110 chilometri per venire a Pordenone, ora invece ne ha solo 20. E così anche lei è un po’ più serena.

nella scelta, non leggo ro-manzi rosa, preferisco altri “colori”, il giallo per esempio. Tra gli autori che preferisco, il primo posto spetta sicura-mente a Georges Simenon, autore di gialli, ma non solo. Tra i personaggi dei suoi li-bri quello che preferisco non può essere che il commissa-rio Maigret. Non saprei de-scrivere il perché mi piace, ma i personaggi, le vicende che riguardano sempre la piccola borghesia della città e della provincia francese, il modo in cui sono costruite e raccontate mi coinvolgo-no molto. A volte immagino il commissario, mi sembra di vederlo mentre si muove per la città, conducendo le sue inchieste. Quando poi finisco un suo romanzo, vor-rei averne subito un altro da iniziare. In questo sono stato fortunato, Simenon è stato un autore molto prolifico, ho an-cora tanto da leggere di suo. Comunque ci sono altri auto-ri che mi aspettano. E’ questa la difficoltà della lettura, loro sono in tanti a scrivere e tu sei solo a leggere.

fumanti di aromi, che a fette arrivano a risvegliare i ricordi di scampagnate, grigliate, be-vute con gli amici e le fami-glie. Anche i canti sembrano arrivare a pezzettini, da ogni lato del carcere, da ogni fine-stra arriva un canto, la musi-ca di una fanfara, una risata. Non mi aspettavo proprio che la festa entrasse fin dentro le mura, ma è successo e ad-dirittura il coro degli alpini di Oderzo è venuto a condivide-re con noi un concerto, che si è tenuto nel cortile dei pas-seggi. Ho potuto vedere negli occhi degli alpini un iniziale imbarazzo, vuoi per il posto, vuoi perché in fondo da dei detenuti non si sa cosa aspet-tarsi. Ho visto quell’imbarazzo sciogliersi nella semplicità dei loro gesti, nell’accogliere fra loro chi di noi avesse voglia di provare a cantare. Ho apprez-zato il gesto di rompere il ri-gore delle distanze istituzionali al termine del concerto, un rompete le righe atto a porta-re una sentita stretta di mano. Come un abbraccio sincero.

CELOX

Aspettando il fischio di inizio dei mondiali di calciodi Emanuele Celotto

SARÀ UN MATCH DALLE MILLE SORPRESE

Eccoci qua a parlare di cal-cio. Il campionato è finito da poco ed il mondiale è già lì, pronto per comincia-re. La partita iniziale sarà il 12 giugno la finale il 13 lu-glio al Maracanà. Un mese di chiacchere da bar sport accompagnerà gli oltre 50 milioni di tifosi e farà da sot-tofondo a questo mese di passione, gioie, dolori, prono-stici e imprecazioni. Intanto i lavori per Brasile 2014 sono in leggero ritardo; è stato investito oltre un miliardo di dollari nella costruzione degli stadi ed il popolo brasiliano è parecchio incazzato per-ché i soldi potevano essere investiti meglio sul sociale in-vece che nel mondiale (più scuole, più ospedali ecc). Noi, un po' intristiti dalla cri-si e dai problemi quotidiani, cerchiamo un sorriso nel cal-cio che riporti il buon umore. Compito non semplice per la verità; la serie A è in decli-no, abbiamo stadi obsoleti e per nulla accoglienti con spettatori in calo, nel ranking europeo siamo scesi al 5° po-sto in pochi anni, di giovani ne vengono lanciati pochi e spesso sono stranieri. Si il quadro non è bello, però

Prandelli ha dato alla Nazio-nale una precisa identità tat-tica ed etica; la ricerca del ri-sultato attraverso il gioco. La squadra del sorriso e del cal-cio come momento di festa. Non dovrebbe essere la Na-zionale delle polemiche, ma noi non siamo capaci di far-

cele mancare, anzi, quando si respira quel clima da "soli contro tutti" facciamo sfracel-li; quella situazione ha fatto da propulsore nelle vittorie del 1982 e 2006. Che torneo sarà? Di sicuro un mondiale un po' difficile da decifrare perché, a parte il Brasile forte

di suo e che gioca in casa, non vi sono grandi favoriti. Limitandoci ai quarti, facile prevedere la Germania che non manca mai agli appun-tamenti, la Spagna e/o l'O-landa finaliste dello scorso torneo ci saranno di sicuro, l'Uruguay con un attacco strepitoso, poi non bisogna trascurare eventuali sorprese tipo Belgio o Svizzera, con la Colombia che ha ottime cre-denziali se recupera il suo bomber Falcao (convocato); incuriosisce il Giappone di Zaccheroni. Il Portogallo, un po' come l'Italia, può arrivare in semifinale come perdersi prima. Aggiungiamoci che in un mondiale non basta essere i più forti per vincere. Conta molto la forma in cui si arriva e come si gestiscono le energie oltre che la fortu-na. Noi non abbiamo super campioni, invece abbiamo più di qualche dubbio. Mo-rale, mi vien più facile prono-sticare le deluse che le semi-finaliste. Tra le deluse "vedo bene" l'Argentina, l'Inghilter-ra, la Francia e... speriamo di non essere anche noi del gruppo. Ma comunque vada forza Italia, con tutto il cuore e ... buon mondiale a tutti!!!

Il fenomeno dell’abbandono dei mozziconi di sigarette rappresenta un grosso problema per l’ambiente. Il primo rimedio è l’educazione Di Guerino Faggiani

Dove ti metto la cicca?

Ammonta a 1,5 miliardi il nu-mero dei fumatori nel mon-do. Tra questi ci sono pure io. E’ un dato impressionante, non solo per ciò che attiene alla salute dell’uomo, ma an-che per quella dell’ambiente. Parlare di fumatori infatti por-ta in evidenza anche il pro-blema dello smaltimento dei mozziconi. Solamente da noi, in Italia, i fumatori sono 13 milioni: attenendosi alle stime di consumo medio a cui si al-linea l’Ausl di Bologna, in un anno questi consumatori im-mettono nell’ambiente 72 mi-liardi di cicche. Un fenomeno inquinante tanto micidiale quanto sottovalutato, con un impatto sull’ambiente pari a quello dei rifiuti industriali. Sono infatti oltre 4000 le so-

stanze nocive che si innesca-no quando si accende una sigaretta. C’è di tutto, persino composti radioattivi come il polonio-210. La materia pla-stica non biodegradabile, l’acetato di cellulosa, di cui è fatto il filtro che si impregna di queste sostanze, impiega cinque anni per decomporsi. Detto questo è facile catalo-gare il dossier mozziconi nel-la zona rossa, quella in cui ci sono i prodotti “danger”, pericolosi. Neanche il mare si salva da tale scempio. Nel Mediterraneo le cicche risul-tano essere il 40% dei rifiuti: bottiglie di plastica, borse di nylon e lattine di alluminio, non vanno oltre il 25.6%. Un dato inaspettato, vero? Da qualche anno si comincia a

dargli la giusta importanza e a tentare “cure” per conte-nere il fenomeno dell’abban-dono incivile dei mozziconi in strada ed aree verdi. Un esempio positivo di ciò è rap-presentato da una intelligen-te iniziativa del comune di Ferrara, che per la seconda volta ha promosso una cam-pagna di sensibilizzazione contro l’abbandono selvag-gio dei mozziconi di sigaretta denominata: “Ferrara pulita piace anche a chi fuma”. Consiste nella distribuzione degli “Ecoastucci” tascabili, nei quali i fumatori possono mettere le loro cicche. Questo contenitore è internamente

rivestito con una pellicola di stagno che assicura lo spe-gnimento immediato della sigaretta e può essere usato più volte. A completamento dell’opera, sono stati posizio-nati in città 50 raccoglitori fissi di “Ecoastucci”, in modo tale da procedere ad uno smal-timento appropriato grazie anche alla collaborazione di esperti nella raccolta differen-ziata. Proprio lo smaltimento infatti è il problema maggio-re: la cicca infatti non è clas-sificata come “rifiuto tossico per l’ambiente” e quindi non viene trattata come tale e smaltita adeguatamente. In-dipendentemente da quanto

«Nella vita nessuna esperienza è sprecata, nemmeno la droga»di Tina

E’ sempre buio prima della luce

É sempre buio prima della luce! Tornare in libertà, dopo una detenzione, scatena una bomba di emozioni contra-stanti. All'inizio, incredibilmen-te, c'é una certa paura di tor-nare nel mondo, ci si sente quasi protetti chiusi in quattro mura, anche solo da se stes-si. Poi c'é la felicità, ma as-sieme alla rabbia l'angoscia di doversi riabituare ad una vita sociale, sentendosi però soli e persi tra i civili. E il mio pensiero, non lo nego, é tor-nato alla droga. Ora nessuno può vietarmi di fare niente: é questo, forse, ciò che più mi spaventa. Durante la deten-zione mi sentivo protetta. So quanto incomprensibile sia il mio modo di pensare e il conflitto interiore che scatena per chi non si é mai dovuto scontrare con questa realtà:

ma io resisto con tutte le forze e ora ho deciso di abbraccia-re la vita. Purtroppo per me le normali passioni non mi son mai interessate abbastanza da eguagliare la passione per la droga. Ho deciso però di ampliare il mio mondo: deltaplano … saltare da un aeroplano … bunjing jum-ping ... questo mi appassiona. Come una droga. Ho anche deciso di trovare una ragione per riprendere a vivere nel volon-tariato da segui-re e appoggiare. Ho già qualche idea sull'aiutare bambini e an-ziani che soffro-no in ospedale. Ma sto cercando informazioni su come entrare a

Un incontro casuale, un invito a pranzo ed il piacere di condividere di Emanuele Celotto

Aggiungi un posto a tavola

Un giorno come tanti, mentre sto preparando il pranzo. Una zuppa di fagioli che ci mette un bel po’ a cuocere. Suona il campanello; vado ad apri-re immaginando già chi può essere. Indovinato! È il maroc-chino che passa un paio di volte al mese e che ormai è una figura familiare visto che è già da un bel decennio che ci incontriamo. Gli dico che non mi occorre nulla poi ag-giungo che lo inviterei a pran-zo, ma serve quasi un’ora per-ché sia pronto. Annusa l’aria, sente un odore che gli è fa-miliare e risponde: «Va bene finisco il giro e vengo». Dopo la sorpresa iniziale mi accor-go che mi fa davvero piacere averlo a pranzo. Altre volte lo avevo fatto accomodare, ma io avevo già pranzato, quindi

gli offrivo una tazza di caffè o un the. Do il via ai prepa-rativi: apparecchio, taglio un piatto di formaggi come spiz-zico e, quando manca poco alla cottura, eccolo che ritor-na. Entra con un sorriso bello largo e deposita le sue borse. Dopo i convenevoli di rito, si accomoda. Af-fetto del pane e gli dico che può iniziare dal piat-to di formag-gi intanto che cuoce la zuppa. Non si fa certo pregare e spaz-zola quasi tutto il piatto con pia-cere. Gli dico che può finire tranquillo, che l’avevo prepa-

rato per lui. Io seguo la zuppa e lo lascio a gustarsi il formag-gio; non ha detto una parola preso com’è col mangiare. In-tanto la zuppa è pronta; servo i due piatti dal altre fette di pane e sapori assortiti. Pran-ziamo in silenzio, lui immerso nel piacere della zuppa, io felice di vederlo mangiare appassionatamente. Quando finisce gli chiedo alcune cose; adesso che ha soddisfatto un bisogno primario diventa più ciarliero. Dice che sono ormai 20 anni che è in Italia e che ha sempre fatto il “vu cum-pra” (ho la vaga sensazione di avere a pranzo “l’ultimo dei Mohicani”). Aggiunge che la stretta della crisi si fa sentire di brutto; prima mandava a

casa soldi tutti i mesi; da un paio di anni invece lo fa ogni due o tre mesi. Ha la fami-glia in Marocco e va a casa una volta l’anno; un figlio va ancora a scuola e, vista l’età del padre, facile che sia all’u-niversità. Non c’è tristezza, nè nostalgia nel suo viso, solo una serena accettazione di come stanno le cose. Gli porto un po’ di frutta mentre finisco di mangiare. Gli chiedo come si sente a fine giornata: «Molto stanco –dice-. Quasi sempre mi addormento sul pullman quando torno». Sparecchio e preparo il caffè; quando è pronto lo sorbisce lentamen-te. Adesso è totalmente rilas-sato, il suo sorriso dice tutto e le sue palpebre iniziano a socchiudersi in un senso di benessere. Restiamo così per un momento indefinito poi si alza, mi ringrazia un infinità di volte, raccoglie i suoi sac-chi e si congeda. Il momento di felicità brilla negli occhi di tutti e due; lui felice per l’ac-coglienza ricevuta io felice perché l’ospite ha onorato la tavola. La morale? «Aggiungi un posto a tavola che c’è un amico in più, se sposti un po’ la seggiola stai comodo an-che tu…».

far parte di questi enti. Que-sto per dirvi che esistono cose molto più belle delle sostanze, basta allargare i propri oriz-zonti a nuove vedute. Ogni cosa, anche la più brutta, può essere rivalutata da un altra angolazione e farci scoprire aspetti che prima non vede-vamo. E’ questo un chiaro ri-ferimento alla mia vita, che per troppi anni ho disprezza-to con tutte le mie forze, spu-tando in faccia a tutti e a me stessa, vittimizzandomi e pian-gendomi addosso come una scema. Adesso so che tutto é esperienza e insegnamento, anche le cose più brutte; so che il tempo non é mai stato sprecato per nessuna espe-rienza e con nessuna perso-na, perché, anche se non é stato ciò che volevo, é stato ciò che mi é servito per di-ventare chi ero destinata ad essere. Ricordate: é sempre buio prima della luce!

possano essere lodevoli ed efficaci le “cure”, il grosso del lavoro lo deve fare comun-que il buon senso dei fumato-ri stessi. Non si tratta di punta-re indiscriminatamente il dito contro di loro, ma di innesca-re un cambio di mentalità e di abitudini. A chi fosse tenta-to di criticare e basta, ricordo che, fino a pochissime gene-razioni fa, le sigarette erano sollievo e “droga” delle classi abbienti, lavoratori e tute blu in testa, e che proprio grazie ad esse il Monopolio italiano e gli italiani stessi hanno ma-cinato guadagni incalcolabi-li che hanno contribuito a far crescere questo nostro pae-se. Magari è cresciuto male, è vero, ma questo non certo per colpa dei soldi dei fuma-tori. Il fumo è una dipenden-za legalizzata, checché se ne pensi, un business autorizzato. Perciò, educare al corretto smaltimento dei mozziconi di sigaretta, così come indurre i fumatori a non fumare più, si-gnifica innescare un cambio di mentalità e di abitudini nella mente di queste perso-ne: per fare questo ci vuole tempo e pazienza. Dal canto loro i fumatori spesso dovreb-bero ricordare che quella si-garetta da cui dipendono, ha il suo prezzo: anche ai danni dell’ambiente.

«Giudici e magistrati dovrebbero rendere conto del proprio operato come qualsiasi cittadino. Ed invece?»di Ferdinando Parigi

La giustizia che giudica, ma che non viene giudicata

L’idea che un uomo possa “giudicare” un altro uomo e decidere se potrà andare libe-ro o dovrà stare chiuso in una cella (leggi “buco infame” nel caso di quasi tutte le carceri italiane), è un’idea che non mi piace. Per diventare ma-gistrati bisogna essere molto motivati, direi “intenzionati”. Il solo fatto che uno scelga per mestiere di giudicare gli altri e decidere il loro destino, solle-va legittimi interrogativi sulla sua personalità. Quando la posta in gioco è molto alta, bi-sogna selezionare chi gestisce la macchina. Bisognerebbe effettuare in modo sistemati-

co una valutazione oggettiva, scientificamente basata, sul-la personalità degli aspiranti magistrati, sui loro trascorsi personali, sulla loro stabilità emotiva, e su tutto quanto sia utile a capire se abbiano i requisiti psicologici per giudi-care. Se c’è in ballo la libertà dell’individuo, non si può la-sciar decidere a un tipo com-plessato, che non è sereno perché ha avuto un’infanzia difficile, che è incazzato col mondo, che non vede l’ora di vendicarsi per i torti subiti, ec-cetera. Venendo all’Italia, chi diventa magistrato ha alcune solide certezze. I nostri giudi-

ci hanno stipendi veramente ricchi, che a un certo punto della carriera sono uguali a quelli di un parlamentare. Hanno l’obbligo di presenza in ufficio per soli quattro giorni a settimana. Rarissimamente un giudice paga per i propri errori: dicono che se un giudi-ce ha paura di pagare quan-do sbaglia, perde la propria serenità di giudizio. Lo trovo pazzesco. I giudici indagati, in Italia, si contano sulle dita di due mani, come se questa categoria fosse immune dai “peccati” propri di qualsiasi altra categoria professionale; abbiamo migliaia di ammi-nistratori pubblici, funzionari, imprenditori, primari di clini-che, professionisti di ogni ge-nere, che sono sotto indagine. Molti sono dietro le sbarre. Ma se cerchiamo di ricordare il nome di un magistrato “sput-tanato” dai giornali per aver commesso un reato, non ce ne viene in mente neanche uno. Altro che immunità par-lamentare! Tra i magistrati ci sono un sacco di persone per bene; la maggioranza, sicura-mente. Tra i magistrati ci sono degli eroi e ci sono di sicuro quelli che stanno sù tutta la notte pur di fare le cose come

si deve, in modo da ammini-strare la giustizia in nome del popolo italiano al proprio me-glio. Molti lavorano sodo, e cercano di far onore alla ca-tegoria. Ma non nascondia-moci dietro a un dito: come è vero che molti psichiatri, psicologi, psicoterapeuti sono tipi obiettivamente “strani”, che i dentisti sono dei medici con un debole per i soldi, che gli artisti spesso sono bizzarri, è vero anche che tra i giudici c’è parecchia gente che sem-brerebbe quasi avercela col mondo e che voglia regola-re un po’ di conti. La giustizia umana mi lascia perplesso come principio; la magistra-tura italiana mi fa paura. So che i giudici sono indispensa-bili, ma è inquietante che non siano selezionati. Chi deve giudicare, infine, va come mi-nimo responsabilizzato. Voglio dire che i magistrati (parlo per l’Italia) dovrebbero rendere conto del proprio operato e rispondere di eventuali errori come fa qualsiasi altro profes-sionista. E’ molto antipatico da dire, ma gli errori si pagano. Un magistrato non può sottrar-si a questa regola. Anche per-ché è il primo a farle rispetta-re, le regole.

L'ANGOLO DELLA FRANCA

Poichè cercano di smuovere le coscienze, in passato come oggi, sconcertano e urtano i benpensantidi Franca Merlo

I profeti, persone scomode perché mai gentili

I profeti sono sempre stati per-sone scomode per tutti, per i benpensanti in primis. Perché i veri profeti invitano a "fare conversione", che significa cambiare direzione di mar-cia (come sulla strada), cosa che non è facile per nessuno; perché usano parole aspre e assolutamente ineducate e, ancor peggio, compiono gesti simbolici che sconcerta-no e urtano. Parlo di “profeti” usando il linguaggio della Bibbia, dove profeta non è l’indovino, ma è colui che sa comprendere il passato, la storia. Comprendendo il passato, sa interpretare il pre-sente, ne coglie le linee por-tanti e individua i pericoli per il futuro, non per divinazione bensì per saggezza. Il profeta non è gradevole ed educato, ma ci apre gli occhi. Il profe-ta parla, e quando le parole non sono sufficienti compie gesti significativi, che scan-dalizzano. Il biblico Amos, un capraio che si stanca di vedere corruzione e ingiusti-zia, così apostrofa i potenti: «Ascoltate questa parola, o vacche di Basan (le vacche più pregiate e grasse n.d.r.) voi che opprimete i deboli, schiacciate i poveri, che dite ai vostri signori: Portate qua, che beviamo!». A chi potreb-be ripetere egli “vacche in-

grassate sulla pelle dei pove-ri” se fosse tra noi oggi? Ma i benpensanti oggi si ferme-rebbero sul vocabolo come fosse quello il vero male: una parola così sconveniente... l’importanza della forma... chi grida non ha mai ragio-ne... è populismo... Si guarda al dito e non alla luna! Gli esempi sono tantissimi, ieri come oggi. Gesù stesso usò parole sconvenienti. Alle gui-de del popolo disse: «Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima e trasgre-dite le prescrizioni più gravi: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l'esterno del bicchiere e del piatto mentre l'interno è pie-

no di rapina e d'intemperan-za. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: all'ester-no son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Serpenti, razza di vipere, come potrete scampare alla condanna?». Direi che Gesù non è un esempio di mode-razione e di politically correct. A molti di noi, che seppur non corrotti non amano met-tere in discussione le certezze acquisite, potrebbe invece star bene un’altra invettiva di Gesù: «Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoia-te il cammello!». Rileggete, ri-pensate lentamente a queste parole, alla cui durezza sia-

mo troppo abituati, tanto che ci sembrano quasi normali... No non erano dolci i profeti, non era dolce Gesù. Perché chi ama sa anche indignar-si e gridare, perché cerca di scuotere la coscienza. Spero infine che non si attualizzi il pianto di Gesù sulla previ-sta distruzione della città, i cui capi non lo ascoltavano: «Gerusalemme, Gerusalem-me, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono man-dati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia racco-glie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!». Po-trei chiudere con un profeta contemporaneo e laico, De Andrè. Il cantautore nella sua "La canzone del Mag-gio" scrisse e cantò: « Anche se il nostro maggio - ha fatto a meno del vostro coraggio - se la paura di guardare - vi ha fatto chinare il mento - ...se il fuoco ha risparmiato - le vostre millecento... - se cre-dete ora - che tutto sia come prima - perché avete votato ancora - la sicurezza, la di-sciplina - convinti di allonta-nare - la paura di cambiare - verremo ancora alle vostre porte - e grideremo anco-ra più forte - per quanto voi vi crediate assolti - siete per sempre coinvolti».

L'APPROFONDIMENTO

————————————————————————

Buone prassi di Giustizia ripartivadi Maria Rita Bonura, Assistente Sociale presso Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Udine, Pordenone e Gorizia

Nel gennaio di quest’anno è stata stipulata una convenzione fra l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe) di Udine, Pordenone e Gorizia e l’associazione “I Ragazzi della Panchina” con l’obiettivo di avviare percorsi di giustizia riparativa. Questo passaggio vuole rappresentare l’inizio di una nuova collaborazione fra il pubblico ed il settore del no profit nel difficile compito di favorire il percorso di reinserimento di persone condannate. Il termine “giustizia ri-partiva” fu coniato per la prima volta alla fine degli anni Settanta negli Stati Uniti per differenziare la risposta statuale alla devianza, fondata sull’afflittività della sanzione penale, da quella rivolta, invece, a rimuovere il danno o attenuare o lenire la sofferenza che l’azione delittuosa provoca in varia misura alle vittime. Le caratteristiche della giustizia riparativa consistono nel pagamen-to del debito alla società, non con la punizione, ma attraverso il recupero del senso di responsabilità della persona, la quale è invitata ad intraprendere un’azione, in senso positivo verso la vittima. In questo modo non solo il debito è saldato direttamente nei confronti di chi ha subito un danno, ma si rivaluta la figura del reo che in questo modo diventa una figura attiva. Il modello ripartivo pertanto pone la vittima ed il reo in una posizione dina-mica ed attiva. Gli strumenti di cui dispone la giustizia riparativa sono le “restitution”, il “community service order” e il programma di conciliazione fra vittima-autore del reato. I diversi modelli di giustizia riparativa, sebbene siano noti ed ampiamente utilizzati

in molti paesi europei, soprattutto come modalità sostitutiva alla pena, in Italia, invece, trovano applicazione nel settore penale minorile ed in procedimenti di competenza del Giudice di pace. Nell’ambito dell’esecuzione penale degli adulti, il risarcimento alla vittima del reato è sempre richiesto a chi presenta istanza di affidamento in prova al servizio sociale e, solo da qualche anno, in molte realtà italiane è posto come obbligo nel verbale delle prescrizioni. Nel caso in cui non sia possibile risarcire la vittima, la Magistratura di Sorveglianza prevede che l’affidato svolga un’attività di volontariato in favore di enti o associazioni. Ciò rappresenta un’importante azione di responsabilizzazione e di restaurazione del legame sociale che si è interrotto con la commissione del reato soprattutto per chi, con la sua condotta illecita, ha provocato dei danni alla società. Ed è in questo senso che si colloca la collaborazione avviata con l’associazione “I Ra-gazzi della Panchina”. Essa vuole offrire agli affidati in prova al servizio sociale la possibilità di mettere a disposizione le proprie capacità e competenze, partecipando nel territorio, con la pro-prie azioni, a creare esperienze innovative di ricomposizione dei conflitti, consentendo a loro stessi di promuovere un processo di responsabilizzazione e di prevenzione delle condotte illecite. In-fine, si auspica che la collaborazione avviata possa contribuire, non solo ai condannati, ma anche a tutti i gli attori coinvolti di scambiarsi esperienze ed accrescere il proprio capitale sociale.

Oltre alla giustizia riparativa anche affidamento in prova, detenzione domiciliare e semilibertàdi Silvia Suman, assistente sociale Progetto Master Uepe di Udine, Pordenone e Gorizia

Altre misure alternative alla detenzione

Le misure alternative alla de-tenzione rappresentano una forma di esecuzione pena-le diversa dalla tradizionale pena detentiva. Esse si carat-terizzano per l’esecuzione in luogo diverso dal carcere e prevedono un trattamento rie-ducativo personalizzato. L’ide-ologia che sta alla base della loro istituzione è rappresenta-ta dall’evitare o dal contenere gli effetti della carcerazione, specie per chi ha commesso reati di lieve entità, soggetti prossimi alla scarcerazione, fasce particolarmente deboli quali i giovani o i tossicodi-pendenti. Esse sono state in-trodotte dalla legge 26 Luglio 1975 n.354, meglio conosciuta come legge penitenziaria, e negli anni, per effetto di diver-se leggi, hanno subito diverse modifiche. La competenza a decidere sulla loro concessio-ne è affidata al Tribunale di Sorveglianza, organo giuri-sdizionale. La legge prevede la possibilità di accedere alle misure alternative in relazione al possesso di requisiti oggetti-vi e di meritevolezza sia dalla detenzione che dallo stato di libertà. Quest’ultima moda-lità di accesso attualmente risulta quella prevalente sul totale delle misure concesse. L’affidamento in prova al Ser-vizio Sociale è la misura più ampia, si svolge totalmente nel territorio evitando alla persona condannata il per-corso detentivo e le ripercus-sioni legate alla condizione di privazione della libertà. Essa può essere richiesta da colo-ro che sono stati condannati ad una pena, non superiore a quattro anni o residuo di pena maggiore. L’affidamen-to in prova in casi particolari è rivolto ai tossicodipendenti e agli alcooldipendenti che intendono intraprendere o proseguire un programma terapeutico. Il legislatore in quest’ultimo caso ha previsto tale possibilità a coloro i quali sono stati condannati a pena inferiore a sei anni o residuo di pena maggiore. Questa misura privilegia prevalen-

temente l’aspetto di cura e riabilitazione di condannati che presentano dipendenze da sostanze psicoattive. La detenzione domiciliare è stata introdotta dalla Legge n. 663 del 10.10.1986 che ha modificato l’ordinamento pe-nitenziario. Dopo tale modifi-ca si sono succeduti tutta una serie di ulteriori interventi volti ad ampliare tale beneficio, tanto che si può affermare che attualmente è la misura più applicata, soprattutto in tempi recenti, da quando la preoccupazione principale di chi fa le leggi è di far fronte al problema del sovraffolla-mento carcerario. La misura consiste nell’esecuzione della pena nella propria abitazio-ne, o in altro luogo di privata dimora, o in luogo pubblico di cura, assistenza e acco-glienza e prevede in alcuni casi specifiche autorizzazioni per permettere al condan-nato di lavorare o studiare. Essa si caratterizza per i nu-merosi obblighi e controlli cui la persona è sottoposta. Sono previste alcune detenzioni domiciliari specifiche per par-ticolari categorie sociali quali gli ultrasettantenni, madri di prole inferiore ai dieci anni, persone in Hiv conclamata; più recentemente è concessa una detenzione domiciliare cosiddetta “speciale” per co-loro che sono stati condanna-ti a pena inferiore a diciotto mesi e dispongono di un idoneo domicilio.Infine, fra le misure alternative si annove-ra la semilibertà, misura sui generis visto che il condan-nato permane per parte del-la giornata in stato di libertà per seguire un programma utile al suo reinserimento, che può prevedere un impegno di lavoro, di studio o di vo-lontariato e rientra in carce-re al termine dell’attività. La responsabilità della misura è affidata al Direttore dell’Istituto di pena. Generalmente viene concessa a chi non presenta i requisiti oggettivi e soggettivi per accedere alle altre misu-re.

Se gli arresti domiciliari pesano più del carcere«A casa devo dipendere da tutti e il tempo non passa mai»di S. G.

20 Settembre 2013 ore 14:15 circa. Le mie orecchie sento-no la famosa e tanto aspet-tata frase che tutti i detenuti sognano: «Si prepari le sue cose che è liberante!». Wow! Questa frase scatena un sus-seguirsi di emozioni che non basterebbe un libro intero per descriverle. Ancora oggi non riesco a trovare le parole per poter spiegare bene ciò che si prova! La testa è racchiusa in un vortice, le mani tremano mentre riempi la borsa con le tue cose; gli abbracci, che ti vengono regalati dalle tue compagne di sventura, sono stretti, ma così stretti da farti mancare il respiro e nel men-tre non riesci a fermare le la-crime che ti rigano il viso. Hai un nodo alla gola, sapendo chi e che cosa lascerai, ma non a cosa andrai incontro! Ecco così inizia l’avventura, chiamata “detenzione domi-ciliare”. Arrivata a casa mi si è presentata davanti una realtà “nuova” per me, com-pletamente diversa da come me l’aspettavo, da come l’a-vevo lasciata un anno e mez-zo prima e che nemmeno

lontanamente mi sarei potu-ta immaginare. Vivere in un contesto carcerario è duro: per me però gli arresti do-miciliari sono molto peggio. Ai più potrebbe sembrare assurdo il mio pensiero, per-ché per tanti che non hanno provato queste esperienze ri-sulta impossibile capire l’idea che si stia meglio in carcere piuttosto che a casa propria! I primi due mesi li ho passati interamente a casa, ad esclu-sione di due ore al giorno per poter soddisfare le mie esigente. Dopo, ringraziando il cielo, ho avuto la possibilità di entrare a far parte di una cooperativa dove mi è stato proposto un contratto di sei mesi con una borsa lavoro finanziata dall’azienda sa-nitaria locale. Così, almeno per le piccole spese persona-li, non ho più avuto bisogno di chiedere nulla a nessuno. Oltre alle ore di lavoro e alle due ore di libertà mi sono sta-te aggiunte altre quattro ore presso l’associazione “I Ra-gazzi della Panchina”, dove frequento il corso di teatro e dove seguo la redazione del

Vivere in una comunità terapeutica «Fu un'esperienza dura, che mi insegnò ad affrontare luci ed ombre della mia vita»di Alessandro Amato

Era il 21 ottobre del 2007. Per colpa di alcune persone, che nella mia ingenuità ritene-vo amici e di cui credevo di potermi fidare, fui arrestato e, patteggiando attraverso il mio avvocato, dopo due setti-mane di carcere, fui trasferito in una comunità di recupero dove avrei scontato la mia pena agli arresti domiciliari. Questa comunità si trovava a Bellaria di Cei, a 2000 me-tri di altezza, in Trentino. Ero spaventato, più che in tutta la mia vita e, mentre con il fur-gone percorrevamo tornante dopo tornante, i pensieri af-follavano la mia testa. Uno in particolare rimbombava. Pe-navo che: «Comunque sareb-be andata, la mia vita sareb-be cambiata, stava solo a me decidere come». Avevo do-vuto lasciare la mia ragazza e questa era la cosa più diffi-cile da accettare, oltre al fatto che non sarei più uscito di lì

per parecchio tempo. Ad un certo punto arrivammo a Bel-laria: c’era una casa enorme in mezzo al verde, da cui vidi uscire un uomo e una donna. Erano i responsabili del cen-tro. Mi vennero incontro, ac-cogliendomi nel migliore dei modi. La struttura sembrava vuota e, mentre mi dirigevo nell'ufficio per un breve collo-quio, scrutavo in giro per stu-diare il posto, pensando che non era per niente come me lo aspettavo. Sembrava qua-si di essere in un oratorio con dei bambini posti davanti a delle caramelle, ai quali bril-

Semilibertà«Grazie ad una borsa lavoro ho scoperto nuovi valori»di Giacomo

Nel 2009 mi è stata data una pena alternativa per i due mesi rimanenti dal mio fine pena. Non mi aspettavo niente da questi due mesi se non uscire il mattino alle 6.30 per poi rientrare alle 18.30; l’unica soddisfazione era non stare in carcere du-rante il giorno. Si trattava di una borsa lavoro pagata 232 euro al mese e di un lavoro che non conoscevo per nien-te: per me era solo un modo come un altro per stare fuori. Ho iniziato in modo un po’ su-perficiale l’esperienza-oppor-tunità che mi era stata data dall’équipe del Dipartimento delle dipendenze della Ass6 di Pordenone e grazie alla fiducia del Magistrato di Sor-veglianza. Quest’avventura l’ho vissuta presso la coope-rativa l’Arca e in una casa fa-miglia di Azzanello, la prima lavora con ragazzi portatori di handicap, la seconda con bambini dati in affido dai Tribunali. Dopo aver finito i due mesi di semilibertà, ho continuato a lavorare lì per un anno e mezzo. Pensavo di dover aiutare le persone che vi lavoravano e i ragazzi che vivono queste situazioni di handicap e svantaggio, invece mi sono reso conto che erano loro che stavano aiutando me. Ero arrabbiato e povero di sentimenti una volta fuori dal carcere, ma

quando ero lì con loro ero felice; quando mi vedeva-no al mattino, si presentava-no con un sorriso e un forte abbraccio. Mi trasmettevano tutti i giorni i loro sentimenti senza giri di parole e non per convenienza, come succede-va invece nel mondo da cui venivo. Nella loro semplicità mi davano tutto quello che avevo sempre voluto e non avevo più bisogno delle dro-ghe per dire ad una persona «sei un amico, ti voglio bene». Sono stato contagiato dalla loro semplicità e gioia di vi-vere. Io da persona “sana”, che forse in passato pensa-va di più alle cose materiali, oggi capisco che se voglio stare bene mi devo circonda-re di persone come loro per vivere una vita felice e digni-tosa. Oggi non lavoro più con loro, ma scrivendo di questa esperienza mi sento felice di aver conosciuto ragazzi, vo-lontari ed operatori di quelle associazioni e quando sono in difficoltà penso spesso a loro e riesco così a superare i problemi della vita. Certo non è facile, ma se ce la fan-no loro devo riuscirci anch’io. Spero di avere l’opportunità di fare altre esperienze di questo tipo, perché sono cre-sciuto grazie ad esse e spero di aver contraccambiato al-meno una minima parte di quello che ho ricevuto.

loro giornale, due esperienze nuove per me! A teatro ho scoperto di avere un “talen-to” nascosto e sono riuscita a mettermi in gioco in un’attivi-tà che mai mi sarei immagi-nata potesse diventare un bel passatempo. Nella redazione del giornale, invece, il mio compito è quello di copiare al computer dei testi scritti da dei ragazzi detenuti e posso dire che alcuni di questi mi fanno tornare indietro nel tempo. Ciò succede sia che scrivano dei rapporti con i propri cari, in cui riescono a trasmettere delle forti emozio-ni (che solo chi ha provato questo genere d’esperienze può capire fino in fondo), sia che trattino temi relativi alla vita carceraria come il sovraffollamento ecc. Ritor-nando alla mia situazione, vi posso garantire che tra una realtà e l’altra c’è una diffe-renza abissale, soprattutto per quanto riguarda l’approccio alla giornata. All’interno del carcere è molto schematica. La giornata tipo dei galeotti è sveglia, colazione, terapia, pulizie della cella, doccia, passeggi, pranzo, telegiorna-le, passeggi pomeridiani, cor-si, cena, terapia, film e nan-na. Di questa routine magari può cambiare un qual cosi-na, se hai un colloquio o la telefonata con i tuoi familiari. Quando sei a casa, invece, la routine non c’è, le giornate le trascorri principalmente da sola, non parli con nessuno al di fuori delle persone con cui abiti, che però a differen-za dei detenuti non possono capire determinate temati-che, legate alla mancanza della libertà. Ti ritrovi anche a non essere in grado di po-

terti permettere nemmeno un pacchetto di sigarette e ti senti come un peso nel dover dipendere in tutto e per tutto dalla tua famiglia. Quando sei dentro in carcere e ti arri-vano i soldi dai tuoi cari non ti senti così, perché davanti agli occhi non vedi il loro sa-crificio per farti sopravvivere. Tutto questo va poi sommato al fatto che per anni, alme-no nel mio caso, non hai mai avuto bisogno di chiedere niente a nessuno. Credetemi, non esiste cosa più frustrante di questa. Vivi in uno stato di nervosismo, di ansia e tutto ciò va ad incidere sul rap-porto con i tuoi familiari. Io, infatti, sto vivendo una conti-nua tensione con mia madre, dovuta innanzitutto ad un suo problema molto serio, che ho scoperto solo al mio ritorno a casa. Questa tensione ha cre-ato delle liti e delle discussio-ni più o meno accese e l’uni-ca cosa che a volte mi viene voglia di fare è prendere la porta e sbattermela alle spal-le… quella porta che però è più chiusa di un blindo! Vor-resti uscire, non per scappa-re davanti alle difficoltà, ma soltanto per trovare un po’ di serenità e di pace! Ti senti im-potente e per me non esiste niente di peggio di questo. Poi non tutti i casi sono uguali al mio, in tanti magari vanno a casa e ritrovano l’armonia, la gioia. Con questo non vo-glio far passare il messaggio che in carcere si sta meglio che a casa propria, però se in famiglia avete anche solo il più piccolo sentore che le cose non vadano bene, non fate nessuna richiesta perché, credetemi, si rischia di vivere una pena raddoppiata!

Vivere in una comunità terapeutica «Fu un'esperienza dura, che mi insegnò ad affrontare luci ed ombre della mia vita»di Alessandro Amato

lavano gli occhi. La comunità era dura per il fatto che era spirituale. Ogni mattina alle 8, dopo aver pulito le camere e la casa, ci facevano sedere in cerchio per leggere il Van-gelo del giorno e meditarlo tutti assieme; serviva soprat-tutto per aprirsi, visto che chi entrava in quel luogo, come era successo a me, non era in grado di parlare, soprattutto di sé stesso. Non c’era fiducia, ma quasi un guardarsi negli occhi per capire chi avrebbe fatto cosa durante la giornata o se tutti eravamo persi. C'e-rano poi una messa al giorno e dei momenti di preghiera

serali. Durante tutto il giorno ci si divideva in settori lavo-rativi: due persone stavano in cucina per fare il pranzo e la cena con il lavaggio piatti; c’era il settore della fa-legnameria, nel quale si re-stauravano mobili, il settore artistico, in cui si pitturavano dei vetri per venderli, poi, a seconda delle stagioni; c’e-ra l’attività di raccolta tartufi col cane, giardinaggio, orto o taglio erba anche a casa di privati, raccolta uva, traslo-chi e altro. L’attività che pre-ferivo di più erano le uscite in strada, durante le quali si andava via per giorni ed era

come andare in vacanza. In realtà andavamo ad acco-gliere la gente in strada per darle ascolto ed aiuto, oppu-re facevamo le testimonianze per le scuole di tutta Italia. Ho vissuto in questa comunità la prima volta 2 e 6 mesi, poi ci sono tornato altre due volte, ovviamente dopo delle duris-sime ricadute: ogni ricaduta era più dura della preceden-te. Ho odiato la comunità con tutto me stesso, ma solo per-ché ero giovane e orgoglioso. Oggi userei meglio quel tem-po che ho buttato. Oggi posso dire che quell’esperienza mi ha aiutato molto interiormen-te, dandomi conoscenze che prima non avevo e sopratutto in quella comunità ho impa-rato a fidarmi e a voler bene anche senza niente in cam-bio. Ancora oggi mi capita di rapportarmi alle persone con uno scopo, ma questo succe-de perchè non ho cambiato

vita, ma solo la modalità di vita. In questo periodo di co-munità sono riuscito a metter-mi in discussione parecchie volte, guardando la luce e l’oscurità della mia storia, che è tutt’altra storia da que-sta di cui vi sto parlando, ma precede e procede a questa dandole sostanza e motiva-zioni. Ad un certo punto cre-devo d’impazzire, al punto d’immaginare delle persone: avevo delle vere e proprie allucinazioni, penso dovute alla mia emotività, in quel periodo sperimentata più che mai. Lì sono stato anche felice e questo rimarrà per sempre come uno dei più bei ricordi. Ho incontrato persone che mi hanno voluto bene e che mi hanno trattato come se fossero la mia famiglia. Mi ha colpito quanto bene può esistere anche tra persone che di bene non ne hanno visto mai.

IL COMPLESSO RUOLO DELL'UEPEDecise dal Magistrato di Sorveglianza, le misure alternative vengono seguite dall'Uepe, l'Ufficio di esecuzione penale esternadi Maria Rita Bonura, assistente sociale Uepe Udine, Pordenone e Gorizia

Il nostro ordinamento anno-vera fra le misure alternative alla detenzione l’ affidamento in prova al servizio sociale, af-fidamento in casi particolari, la detenzione domiciliare e la semilibertà. Ad occupar-sene sono gli Uepe, gli uffici di esecuzione penale esterna, istituiti dalla legge di riforma penitenziaria del 1975 con la convinzione che il trattamento del condannato, quando pos-sibile, deve essere realizzato nel territorio, nella vita libera, fuori dal contesto carcerario, puntando ad un graduale reinserimento della persona, in linea con una nuova con-cezione dell’uomo nel rispet-to dei principi espressi dal dettato costituzionale dell’art. 27. Gli Uepe sono uffici perife-rici del Dipartimento dell’Am-ministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia. Si trovano in tutto il territorio

nazionale e le sedi di servizio coincidono con le sedi degli Uffici di Sorveglianza, men-tre le nuove sedi distaccate corrispondono alle provincie. L’Uepe di Udine, Pordenone e Gorizia ha la sua sede prin-cipale a Udine, una sede di-staccata a Gorizia ed è in at-tesa, da anni, di reperire una sede a Pordenone. Di recente segue anche l’utenza del ter-ritorio di Portogruaro. La sede conta otto unità di servizio so-ciale, un direttore delegato, un’esperta psicologa e tre as-sistenti sociali libere professio-niste con orario e compiti limi-tati. La caratteristica distintiva di questi uffici è rappresentata dal personale operativo costi-tuito interamente da assistenti sociali. Questa specificità del servizio sociale rappresenta il senso del lavoro svolto con le persone condannate, che ha come finalità principale della

pena il reinserimento del con-dannato, attraverso funzioni di aiuto. Esse si concretizzano attraverso azioni volte alla va-lorizzazione delle risorse del condannato e delle sue reti sociali in collaborazione con i servizi formali ed informali del territorio. Gli Uepe si avvalgo-no anche di personale ammi-nistrativo e di polizia peniten-ziaria. Alla funzione di aiuto, soprattutto negli affidati in prova al servizio sociale, si ac-compagna quella di controllo del rispetto delle prescrizioni imposte dalla Magistratura di Sorveglianza e dell’intero pro-getto di recupero formulato. Gli esperti psicologi hanno il compito di delineare il profilo di personalità di condannati che presentano istanze di mi-sure alternative o che si trova-no già in esecuzione penale esterna e richiedono parti-colari interventi di supporto. All’interno degli istituti peni-tenziari, gli assistenti sociali degli Uepe partecipano l’atti-vità di osservazione scientifica della personalità del detenu-to, offrono consulenze su se-gnalazione dei direttori degli istituti penitenziari su proble-matiche presentate dai de-tenuti, seguono le esperienze dei permessi premio, curano tutti gli aspetti della relazione fra il detenuto e la sua fami-glia e predispongono pro-grammi post dimissione per detenuti dimittendi. Nel set-tore dell’esecuzione penale esterna, invece, gli assistenti sociali svolgono inchieste so-ciali per il Tribunale di Sorve-glianza e per la Magistratura

di Sorveglianza per soggetti che richiedono una misura alternativa e più recentemen-te si occupano di accertare il domicilio per chi ha richie-sto la detenzione domiciliare speciale; svolgono funzioni di aiuto e controllo di adesione ai programmi di inclusione e delle prescrizioni per gli affi-dati in prova al servizio socia-le e compiti di sostegno per i detenuti domiciliari. Ad essi sono inoltre assegnati com-piti di vigilanza e assistenza per i semiliberi, interventi nei confronti di soggetti sottopo-sti a misure di sicurezza non detentive e le inchieste sociali per fornire alla Magistratura di Sorveglianza dati utili per la modifica, proroga e revoca di misure alternative, misure di sicurezza. La recente legge n. 67del 2014 prevede che gli Uepe dovranno occuparsi di imputati che richiedono ai Tribunali ordinari il nuovo isti-tuto di messa alla prova con svolgimento di indagini socio- familiari ed elaborazione del programma di trattamento. L’Uepe di Udine, Pordenone e Gorizia, in particolare, no-nostante la cronica e grave carenza a di personale, negli anni, ha promosso e svilup-pato, con le diverse agenzie del territorio, varie collabora-zioni, progetti e diversi mo-menti di condivisione con la cittadinanza, con l’intento di promuovere una maggiore sensibilità tra la popolazione, evitando l’emarginazione o il pregiudizio cui sono destinate molte persone in esecuzione penale.

“Non giudicare!!”, i carcerati si raccontanoGiovedì 26 giugno presentazione del libro edito da “I Ragazzi della Panchina” che raccoglie gli scritti della redazione in carcere “Codice a S-barre”di Stefano Venuto

“Non giudicare!! Pensieri di uomini liberi” è il titolo dell’ul-tima fatica editoriale dell’as-sociazione “I Ragazzi della Panchina”, realizzata grazie al sostegno dell’Ambito Urbano 6.5. E’ una raccolta di scritti re-alizzati all’interno del progetto “Codice a S-barre”, la reda-zione in carcere avviata a settembre nella Casa Circon-dariale di Pordenone. Alcuni

degli scritti hanno trovato e troveranno spazio all’interno del nostro giornale, “Libertà Di Parola”. L'insieme degli artico-li costituisce, invece, l’anima del libro “Non giudicare!!”. La prima presentazione del volu-me si terrà giovedì 26 giugno, alle 18, nella sala “Teresina Degan” della biblioteca civi-ca di Pordenone. “Non giu-dicare” è molto di più di una

semplice raccolta di pensie-ri: è una pubblicazione che ha l’ambizioso intento di far conoscere, almeno in parte, l’ambiente carcere attraver-so le parole ed i pensieri di chi lo vive, abbattendo così virtualmente i muri che divi-dono persone che abitano, anche se diversamente, la stessa città. Il progetto “Codice a S-barre” è tuttora in corso.

Attraverso di esso, grazie alla disponibilità della direzione della Casa Circondariale, è stato strutturato uno spazio di condivisione, dibattito ed ela-borazione di testi su temati-che plurali, attraverso incontri settimanali in cui si è discus-so, ma anche concretizzato i pensieri, attraverso l’arte del-la scrittura. Intento ulteriore è stato quello di sviluppare di-namiche relazionali, che coin-volgano soggetti provenienti da contesti differenti, ma ac-comunati dall’esperienza car-ceraria. Giovedì 26 giugno, alla presentazione del libro, interverranno Ada Moznich, presidente dell’associazione “I Ragazzi della Panchina”; Cristina Colautti, operatrice dell’associazione stessa; Al-vise Sbraccia, ricercatore in Sociologia del diritto della devianza e del mutamento sociale, membro dell'Osser-vatorio nazionale “Antigone” sulle condizioni di detenzione; Alberto Quagliotto, direttore della Casa Circondariale di Pordenone.

INVIATI NEL MONDO

LA RAGAZZA CHE INTRECCIAVA IL LOTOUn incontro fugace seduta nel pick up da Ngapali beach a Thandwe. Nel Myanmar, ex Birmania, dove il tempo si è fermato ad un’altra epocadi Elisa Cozzarini

Si racconta che sia stato un napoletano con la nostal-gia di casa a dare il nome a Ngapali beach (si legge napali). Siamo nella perla del Myanmar, una spiaggia affacciata sul Golfo del Ben-gala, appena sfiorata dal tu-rismo. Sabbia bianca, acqua tiepida e cristallina, palme, pescatori, bambini che si ro-tolano sul bagnasciuga e vento fresco dall'Himalaya. Ma qui, nello stato Rakhine, c'è l'ombra delle violenze del governo contro la minoran-

za musulmana. A Ngapali puoi arrivare solo in aereo da Yangon e da lì non ti puoi muovere liberamente.Funziona così in tutto il Myan-mar, ex Birmania, il pae-se del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. La campagna, le montagne e le foreste nascondono abusi e sfruttamento nei confronti delle minoranze etniche, cose che i visitatori occidentali non devono vedere. Quello che noti sono sguardi intensi e sor-risi di benvenuto, tipicamente

asiatici, indecifrabili. Pochissi-mi parlano inglese.Sul retro del pick up da Nga-pali beach a Thandwe, una ragazza ascolta e osserva at-tentamente, senza dire una parola. Capisce l’italiano. Stia-mo uno appiccicato all’altro sui sedili stretti e quando sem-bra che davvero non ci sia più posto per nessuno, spunta uno sgabello minuscolo per l’ennesima vecchina con il cesto di verdura da vendere al mercato. Ogni cento metri c’è uno stop. Si paga all’arri-vo, al ragazzo in bilico sul re-tro del veicolo, con i soldi pie-gati a ventaglio in una mano e l’altra per tenersi e non cadere giù.Dopo mezz’ora di strada tra le buche arrivia-mo a Than-dwe. «Cento», dice la ragaz-za, in italiano, t r a d u c e n d o il prezzo del viaggio da Ngapali a qui. Ha le guan-ce coperte di “tanaka”, una polvere rica-vata dal tronco del sandalo, il trucco natura-le che usano tutte le donne e i bambini. La ragazza ab-bassa lo sguar-do, timida-mente, come se parlando avesse già ri-velato troppo. Vorrei farle mil-le domande. Lei racconta solo che ha vissuto a Bre-scia per un breve periodo, lì ha imparato l’italiano, poi è tornata in Myanmar. «Ciao», dice di sfuggita. E scompare come un'ombra nella confu-sione del mercato.Gli incontri con la gente sono apparizioni fugaci, misterio-se. La distanza maggiore l'ho provata durante il trekking più popolare tra i turisti: due giorni a piedi nei campi tra Kalaw e il lago Inle, al centro del paese. Qui vedi uomini, donne e bambini che lavo-rano la terra con strumenti arcaici. Sopportano la fatica senza fare una piega, ma loro, a differenza di tutte le altre persone che ho incon-trato, non sorridono davanti alle macchine fotografiche. Si muovono con carretti trai-nati dai buoi, raccolgono a

mano migliaia di peperonci-ni, la sera portano a casa il fieno per gli animali. I turisti camminano zaino in spalla a due passi da loro, sfiorano i villaggi di un mondo rurale di un'altra epoca.Fuori dal tempo sono anche gli orti galleggianti sulle ac-que del lago Inle, le donne ai telai nelle palafitte e la ragazza che crea gomitoli di loto. Le sue dita sottilissime spezzano uno alla volta infini-ti gambi di questa pianta. Ne afferrano la linfa filamentosa che esce dal punto di rottura e uniscono veloci i filamenti uno con l'altro. Ci vogliono

giornate di lavoro per ricava-re un tessuto dal loto e farne oggetti più rari e preziosi della seta.Quando indosso quella sciar-pa, fresca sulla pelle, leggera, penso a quella ragazza, chi-na a intrecciare loto con sa-pienza atavica. Immagino il suo volto, mentre sorride pa-ziente ai turisti. E, appena si voltano, lei ricomincia a spez-zare il loto e intrecciare fili.

PANKA LIBRI

Orwell e la fattoria degli animaliIl romanzo satirico scritto nel 1947, allegoria del totalitarismo sovietico e del periodo stalinianorecensione di Daleo

In questa storia si parla di una fattoria dove gli animali hanno la capacità di ragio-nare e comunicare tra loro. Gli animali, alla sera, quan-do il padrone si reca a dor-mire, tengono delle riunioni segrete e, parlando, si rendo-no ad un certo punto conto che vivono in uno stato di schiavitù governati da un pa-drone tiranno e aguzzino. Ini-ziano, così, a discutere della possibilità di un cambiamen-to ed alla prima occasione fanno scoppiare una rivolu-

zione che porterà la fattoria a diventare di loro possesso.Gli animali creano un gover-no di uguaglianza dove tutti hanno gli stessi diritti, stesse regole e stessi comanda-menti. Le decisioni vengono discusse da tutti ed approva-te tramite il voto. Ma in bre-ve tempo i più intelligenti si prendono dei privilegi ed in seguito uno dei privilegiati fa un colpo di stato, scacciando coloro che lo contrastavano, prendendo il potere sulla fat-toria, delegando i rimanenti

privilegiati come mediatori tra lui e gli altri animali. Si crea in questo modo un im-pero con un unico imperatore ed un Senato. L’imperatore si ricopre di onorificenze da lui decise; costringe gli altri ani-mali al lavoro più duro e al razionamento del cibo. Con furbizia ed inganno, con le menzogne e con l’aiuto del Senato l’imperatore fa cre-dere a tutti gli animali che il lavoro è utile a tutti e che loro stanno lavorando per il be-nessere e la loro libertà. Nella

fattoria si susseguono molte altre vicende che lascerò a voi scoprire. A voi lettori pos-so dire che, malgrado l’argo-mento trattato, lo si legge con piacere e il racconto è avvin-cente. Vi auguro una buona lettura

PANKAROCK

Paolo Nutini, la bianca voce del bluesE’ uscito ad aprile il nuovo album del cantautore scozzese “Caustic love”.di Fabio Passador

Dalle prime note del singolo “Scream (funk my life up)”, il terzo lavoro in studio del cantautore scozzese Paolo Nutini, potrebbe apparire in continuità con gli album pre-cedenti. Il ritmo coinvolgente del primo singolo estratto da “Caustic Love” sembra non volersi discostare dai suoni

scanzonati del precedente disco e da canzoni che han-no fatto la fortuna del ven-tisettenne di Paisley. In veri-tà, quest’album dalle tante sonorità, che esce a cinque anni di distanza dal fortuna-tissimo “Sunny side up”, ci mo-stra un cantante, che, seppur giovanissimo, dimostra una

grande maturità artistica, nell’arrangiamento e nei testi delle nuove canzoni. Manca però un filo conduttore che accumuni i 13 pezzi di questo nuovo lavoro. In alcuni mo-menti dell’ascolto sembra di immergersi nei locali fumosi di New Orleans, soprattutto grazie al timbro fortemente blues della voce di Nutini, a tratti fantasticamente soul, come nel brano a mio avvi-so meglio riuscito e cioè “Iron Sky”: un grido viscerale di impotenza, con un interme-dio vocale estratto dal film di Charly Chaplin “Il grande dittatore” e con una citazio-ne finale ai The Who, con la celebre frase “Rain on me”. Le musiche di questa can-zone sono arricchite da una sezione di fiati e soprattutto dalla voce graffiante e pro-fonda di Nutini, che ricorda la Dixieland della capitale

del blues. L’amore è un tema ricorrente nei testi dell’artista. Canzoni belle come “Better man”, dove si scopre la con-sapevolezza dell’autore che non tutto fila liscio quando si è innamorati, sono seguite da una non esaltante dichia-razione d’amore vero la sua amata Diana, il cui nome dà anche il titolo al brano. In at-tesa della piena maturità in studio del cantante, che a soli 18 anni stupì il mondo, vi invitiamo a non perdere le imminenti date italiane del tour: 16 luglio al Porto Antico di Genova, il giorno dopo a Piazzola sul Brenta (PD) ed il 19 dello stesso mese al Fe-stival “Rock in Roma”, nella capitale. Di sicuro, la sua vi-brante voce ed una band di musicisti di altissimo livello, sapranno trasmettere il calo-re e l’ecletticità di un artista più unico che raro.

LA STORIA

La marcia delle lacrime L’uomo bianco tolse ai pellerossa ciò che il grande spirito aveva loro donato: oltre alla loro terra, la dignità di un popolodi Emanuele Celotto

Il 4 settembre 1886 si arrese Geronimo, ultimo capo india-no combattente. Negli ultimi due anni con un manipolo di una cinquantina di uomini aveva dovuto vedersela con l’esercito americano e con quello messicano. Fu arre-stato, ma la prigionia durerà pochi anni. Visse girando per le fiere, vendendo prodotti artigianali indiani. Fu invitato a cavalcare in onore dei fe-steggiamenti di Theodore Ro-osvelt del 1905 e gli venne ri-conosciuto così un ruolo nella storia americana. Altri nume-rosi e validi capi guerrieri si opposero ai bianchi e al loro sfrenato bisogno di terre. Im-maginate un posto sconfinato che va dal Canada al Mes-sico e dall'Oceano Pacifico a quello Atlantico dove viveva-no una trentina di milioni di pellerossa; era un mondo in perfetto equilibrio ed armo-nia tra uomo e natura. I primi a cercare di "entrare" furono gli spagnoli che nel giro di qualche anno inviarono un paio di spedizioni. Le popola-zioni indigene furono annien-tate, perché la fama che pre-cedeva l'uomo bianco non suggeriva molte alternative. Gli spagnoli desistettero, ma nel nord iniziarono ad arri-vare gli inglesi. All'inizio era un modo "democratico" per liberarsi dai galeotti, ma suc-cessivamente ci fu anche la promessa di nuove terre ad attirare gente. All'inizio le cose sembravano prendere anche una piega favorevole per i nativi. Il governo inglese im-pediva l'acquisto di terre da parte dei coloni; una delega-zione indiana veniva ricevuta dal parlamento inglese con tutti gli onori per meriti nella guerra contro i francesi. Ma fu solo un fugace momento; i coloni diventavano sempre di più e per l'Inghilterra mante-nere quelle colonie si faceva sempre più difficile. Alla fine scoppiò la guerra tra le colo-nie e l'Inghilterra. La motiva-zione "no tax whitout rapre-sentation" era più che altro di facciata, in realtà nasconde-va il desiderio di accaparrar-si le terre dei nativi. Lo stesso George Washington ordinò lo sterminio delle tribù dei gran-di laghi, che furono costrette a riparare in Canada, che a quel tempo era dell’Inghilter-ra. Con la fine delle ostilità tra Inghilterra e Stati Uniti la si-tuazione per i pellerossa pre-cipitò. Si trovarono di fronte due mondi contrapposti. Da un lato il bianco che parlava di civiltà e progresso ma era mosso da possesso, avidità,

doppiezza e profitto e vede-va nel popolo rosso solo un ostacolo alla realizzazione dei suoi interessi; o si integrava o veniva spazzato via.... Dall’al-tro, il pellerossa che si sforzava di capire il senso di certi com-portamenti: «Si può vendere una terra che il grande spirito ha dato in abbondanza per tutti?». La maggior parte degli indiani era inorridita dall'uo-mo bianco e dai suoi modi di pensare. Cercarono di resi-stere alle continue pressioni in ogni modo: ci furono eroiche

battaglie e massacri di villag-gi inermi per rappresaglia. Per i pellerossa il concetto di guerra era totalmente diver-so: irrompevano in qualche villaggio, rubavano cavalli, qualche donna e bambini. Chi perdeva non diventava prigioniero di guerra; dopo un certo periodo veniva adottato e seguiva le usan-ze della nuova tribù. Nei loro scontri raramente si uccideva l'avversario. Invece contro l’uomo bianco le cose erano ora diverse ed incomprensibi-

li. Costretti dalle circostanze, i pellerossa furono praticamen-te obbligati a firmare trattati per concessioni di passag-gi carovanieri (ne verranno firmati oltre 400) che dopo poco venivano disattesi dai bianchi. Questi ultimi infatti volevano le terre dei pelleros-sa e se le prendevano. Tra il 1830 e il 1835 furono trasferite da est ad ovest del Mississip-pi le tribù dei Cherochee, dei Chickcasaw, Seminole, Creek in quella che passò alla sto-ria con il nome di "La marcia delle lacrime": 1600 chilome-tri lungo i quali trovò la morte oltre un terzo delle tribù india-ne a causa del freddo, del-la fame e delle intemperie. Molti altri pellerossa morirono poco dopo. Di numerosi altri massacri si rese protagonista l'America non ultima quel-la dello sterminio dei bisonti per togliere loro il cibo. Altri fattori che contribuirono alla fine del popolo rosso furono: le malattie che l'uomo bianco portava e diffondeva (ordini documentati di distribuzione di coperte infettate dal vaiolo a varie tribù); l'alcool di pes-sima qualità, generosamente distribuito, ebbe effetti deva-stanti sulla psiche e sulla sa-lute degli indiani. Il colpo di grazia alla cultura degli spazi liberi e sconfinati lo dette la ferrovia e tutto ciò che si portò dietro. Ingannato, sterminato e derubato della sua cultura oltre che della sua identità, del glorioso “popolo rosso” sopravvivono poco più di un milione e 500 mila discen-denti, la maggior parte con-finata in riserve; solo un terzo di loro abita nelle città viven-do tra il disadattato ed il for-zatamente adattato. Per certi versi le riserve restano degli angoli di paradiso incontami-nato, dove l'esenzione fiscale, grazie alle case da gioco che ospita, ha permesso di miglio-rare il tenore di vita. In altre riserve fanno danze rituali ad uso e consumo di turisti. Chiu-do con la dichiarazione di un capo indiano che sognava la nazione dei pellerossa: «Dove sono oggi i Pequot? Dove sono i Narragansett, i Mohi-cani. i Pokanoket e molte altre potenti tribù?» Sono sva-nite di fronte alla cupidigia e all'oppressione dell'uomo bianco come neve al sole. Ci lasceremo distruggere anche noi senza combattere, rinun-ciando alle nostre case e alle nostre terre che il grande spi-rito ci ha lasciato e a tutto ciò che ci è caro e sacro? So che come me anche voi griderete «Mai! Non sia mai!».

NON SOLO SPORT

Il Pordenone calcio è in serie CEmile Zubin, capitano e capocannoniere dei neroverdi: «La vittoria è di tutti, della squadra, della società, di chi sta dietro le sue quinte e della nostra tifoseria»di Alain Sacilotto e Andrea Lunardon

Campionato di serie D 2013-2014: il Pordenone Calcio rincorreva da anni il sogno dello scudetto e della promo-zione in Lega Pro. Quest'anno il sogno è diventato realtà! I neroverdi sono stati autori di una splendida cavalcata che li ha visti giocare, vin-cere, perdere, rialzarsi e co-munque sempre lottare per la vittoria, senza mai smettere di sognare. A fine anno il Por-denone non solo ha stravin-to la serie D, ma si è anche laureato campione d'Italia a livello nazionale dilettanti, vincendo lo scudetto italiano

contro le altre vincitrici dei gironi di serie D, meritandosi così il salto di categoria. Noi abbiamo avuto il piacere di intervistare uno dei protago-nisti assoluti di questa stagio-ne: Bomber Emile Zubin, il capitano dei neroverdi. Capitano, dopo la delusione dell'anno scorso quali era-no gli umori e le sensazioni a inizio campionato? Quello che si percepiva era una diffusa voglia di ripartire anche perché l'anno scorso quel secondo posto lasciava l'amaro in bocca.

Quando avete capito di po-ter vincere il campionato? C'è stato un particolare pun-to di svolta nella stagione? Siamo partiti fin dall'inizio per vincerlo, non ci siamo nascosti. Ci sono stati diversi punti di svolta, il principa-le probabilmente è stato a Belluno quando noi abbia-mo vinto, il Marano ha pa-reggiato e siamo tornati a pari punti. Nei momenti di difficoltà, non abbiamo mai pensato però di non farcela mai. Il picco negativo è stato dopo San Paolo quando noi abbiamo perso, il Marano ha

vinto e siamo andati a meno cinque punti. Quanto hanno influito i vari derby della stagione sui ri-sultati del campionato e, tra moduli e accorgimenti tatti-ci, quanto la mano dell'alle-natore Carmine Parlato? Sinceramente da parte no-stra non si sentivano tanto i derby, devo dire che sì gli al-tri ci mettevano qualcosa in più, ma per noi comunque ogni partita aveva lo stesso valore. Quanto al mister, cu-rava molto i particolari, infatti variavamo tattica e modulo

«CON TE PORDENONE ABBIAMO VINTO ANCHE NOI»Campionato da cardiopalma per la tifoseria nero verde. Da non di-menticaredi Jackie

«Ci siamo anche noi!» Questo è stato il mantra del dopo Este, giornata per cuori forti e soprattutto la fine di que-sta agognata stagione da risvolti grotteschi, adrenalina a manetta e fiducia cieca ai nostri colori. Stagione che, dalla lettura dei contendenti alla vittoria finale, è stata tutto un patos. Ho ancora nei miei occhi la delusione di Porto Rolle, dove siamo stati battuti sul fil di lana, cosa che, scrit-ta ora, ha poco senso, ma che noi tifosi non ricordiamo con piacere... anzi! Questo è il nostro anno, ci guardiamo tutti in faccia con un pizzico di pudore misto a scaraman-zia, ma tutti convinti che sarà un anno storico: o saliamo in serie C ora o dopo sarà an-cora più dura, visto tutti i der-by che il Pordenone si ritrova e gli avversari con il coltello tra i denti per la partita della stagione. … ma ormai sono alle spalle e per un bel pezzo, spero! Passiamo a ricordare questo campionato appena concluso. Si annuncia già duro con la Triestina in pole position e tutte le altre conten-denti determinate. Partiamo

con ottimismo e facciamo bene, dieci, dico dieci parti-te vinte tutte di fila e dentro di noi aumenta il patos. Il ra-marro finisce addirittura nella bibbia del calcio, la mitica “rosa”, e noi vediamo la no-stra fuoriserie andare a mille: le nostre aspettative e l'adre-nalina a dosi che stordiscono rispetto alle nostre abitudini aumentano e questo è solo l'inizio. Nelle partite in casa siamo una squadra da al-tra serie e anche in trasferta diventiamo un incubo per gli avversari. Non bisogna dimenticare le partite per la Coppa Italia, finite in finale con il Pescara (dico Pescara!) formazione di serie B e per-dendo solo per uno a zero e per giunta in fuori gioco, testi-moni gli Ultras a seguito dei ramarri fino nelle Marche. Ritorniamo al campionato … dopo tante partite dominate, con il nostro capitano Zubin in stato di grazia, arrivia-mo anche a cinque punti di vantaggio dalla seconda e questo ci dà ancora più fidu-cia, essendo tranquilli dalle insidie dell'altra corazzata, il Marano, visto che al Bottec-

spesso per non dare punti di riferimento agli avversari. La ricetta del nostro successo in ogni caso è stata voglia, determinazione, sacrificio di squadra e società tutta. 85 punti sono tantissimi, qual'è stato il momento epi-co della stagione? Sicuramente ad Este, quello della vittoria, un momento di gioia indescrivibile. E' stata la promozione più bella, più sentita e più difficile da parte mia. Dopo una rincorsa così, il triplice fischio finale è stato come una liberazione. Anche la festa in piazza XX Settem-bre al nostro ritorno è stata bellissima: una festa sponta-nea, non programmata con tante persone che ci aspetta-vano e un sacco di bandiere neroverdi che sventolavano. Avete dedicato la vittoria a qualcuno in particolare? Chi ringraziare per questo successo? La vittoria e il ringraziamento vanno a tutti! Alla società, a quelli che ci lavorano dietro e non si vedono ma fanno un grande lavoro, a noi giocato-ri, allo staff e poi magari ad altri dei quali mi dimentico. A tutta Pordenone perché la piazza se lo meritava, si meri-tava di tornare al calcio che

conta, inoltre il prossimo anno la Lega Pro è un'unica cate-goria, quindi abbiamo fatto un doppio salto di categoria.

Emile Zubin capocannonie-re, qual'è il tuo segreto, a chi ti ispiri? Non ce nessun segreto. In set-timana impegnarmi sempre al massimo e la domenica concretizzare il più possibile in gol gli assist dei compagni, senza di loro non avrei po-tuto segnare e diventare ca-pocannoniere. Il giocatore al quale mi ispiro è da sempre Marco Van Basten. Quali sono i progetti per il prossimo anno? I progetti dovreste chiederli al presidente, i miei personali

chia abbiamo vinto lo scon-tro diretto, sebbene la vittoria che più ci ha galvanizzato è stato il rotondo 4-1 al Nereo Rocco con la sempre temibile Triestina. Qui siamo ancora al girone di andata: il bello, per modo di dire, deve ancora venire! Arrivano le piogge e per noi che giochiamo pal-la a terra, diventano partite in salita e così cominciamo a soffrire, ma sopratutto per-diamo i primi punti e diamo modo ai vicentini (il Mara-no), che non ne sbagliano una, di avvicinarsi in modo pericoloso. Noi tifosi e Ultras abbiamo continuiamo a so-stenere la squadra sia in casa che in trasferta, sempre uniti e ottimisti anche nei momenti più problematici, incitandola tanto che in certi momenti siamo stati il “dodicesimo” in campo. Penso che anche i calciatori se ne siano accorti. Arrivano i giorni della gloria, ma ci sono anche i momen-ti di “para” dura, giornate da star male fino alla domeni-ca successiva, sperando in sussulti migliori. Non vi sto a raccontare le domeniche dove abbiamo dilapidato i

5 punti di vantaggio e per-si per strada altri 5... Voi non ci crederete, ma anche i più ottimisti hanno cominciato a dubitare nel recupero dei Ramarri. Comunque, non é tempo di piangersi addosso, il motto é “vincerle tutte e poi vediamo cosa fanno i vicenti-ni”. Piano piano noi facciamo le nostre belle partite mentre il giocattolo “Marano” perde colpi e arriviamo ad essere a pari punti e questo sarà fino alla ultima partita. Lo spettro

di uno spareggio in caso di parità punti finale si avvicina sempre di più e la paranoia cresce di pari passo. Arrivia-mo all’ultima di campionato con l’ostica trasferta ad Este, partita non scontata, mentre i vicentini vanno da una squa-dra già retrocessa, quindi lo scontro diretto sembra l'epilo-go per la Lega Pro. Due cor-riere di sostenitori del Porde-none raggiungono Este, con la speranza di una vittoria da una parte e un orecchio alla

sono di rimanere al Porde-none e anche se è una ca-tegoria nuova cercheremo di

fare il meglio possibile. Non sarebbe male riuscire a fare una salvezza tranquilla il primo anno per poi magari pensare in grande, ma sono tutti discorsi prematuri. Ti chiediamo un ultimo com-mento spontaneo e un voto da bomber alla stagione. Saluto e ringrazio tutti quelli che ci sono stati vicini, è sta-to un anno sofferto e anche grazie al loro sostegno sia-mo arrivati fin qua. Gli Ultras sono stati fantastici, ci hanno seguito dappertutto e dall'ini-zio alla fine! Se dovessi dare un voto da 1 a 10, a questa stagione le darei certamente un 11

radio dall’altra. Partita dura. Noi giochiamo senza il nostro bomber Zubin, ma c’è un al-tro forte ed esperto calciatore, Maccan. Alla fine del primo tempo a Monfalcone il Ma-rano perde, ma noi sappia-mo che fino alla fine ci sarà da trepidare. Al primo gol del Pordenone esaltazione alle stelle, dopo doccia fred-da per il pareggio su rigore dell'Este e il pareggio del Marano. Scontro diretto alle porte, ma a pochi minuti dal-la fine azione travolgente del Pordenone, palla al centro e gol di Maccan ed é estasi pura. Fischio finale ed é vit-toria! Pochi momenti ancora e c’è la gioia assoluta: il Ma-rano ha pareggiato, il Porde-none é in serie “C”! Invasione di campo e abbracci tra tutti noi! Questa stagione me la ricorderò per sempre! Anche noi sostenitori e Ultras abbia-mo vinto. Come sempre dopo ogni vittoria, “anche stasera festa VerdeNera”. La festa in piazza all’arrivo del pullman scoperto con i giocatori è la giusta apoteosi di una stagio-ne fantastica! Forza Ramarri. Forza Pordenone.

IL PERSONAGGIO

Il mito di una giornalista, la forza di una donnaOriana Fallaci è scomparsa nel 2006, ma resta un'icona del femminismo e dei valori della giovinezzadi Irene Vendrame

Oriana Fallaci (Firenze, 29 giugno 1929 – Firenze, 15 settembre 2006) è stata una grande giornalista, scrittrice e attivista italiana. A me, che ho 16 anni e il sogno di di-ventare giornalista, leggere la sua biografia, ha permesso di conoscere una professionista e una donna che trovo essere l’incarnazione dei valori del-la giovinezza: sfacciata, forte, dura, creativa, eccessiva, pas-sionale. Un animo che non invecchia mai. Oriana Fallaci è stata soprattutto una donna soldato. Lo fu fin da bambina quand’era un piccolo soldato che, in sella alla sua biciclet-ta e treccine al vento, faceva da staffetta per i partigiani, diventando parte attiva del-la Resistenza. Fu in quel pe-riodo che la personalità e il pensiero di Oriana presero forma: l’ideale del coraggio e la forza di opporsi alle in-giustizie la accompagnarono poi per tutta la vita, lasciando un'impronta nelle sue opere di giornalista e scrittrice. Lo te-stimoniano libri come “Niente è così sia” (1969), “Intervista con la storia” (1974), “Inscial-lah” (1992), ma soprattutto “La rabbia e l’orgoglio” (2004). La Fallaci non smise mai di lottare, portando avanti le sue idee con determinazio-ne. Il suo stile è inconfondibi-le: tagliente, sincero, diceva sempre quello che pensava. Riusciva a catturare i lettori mantenendo alta la loro attenzio-ne; compiaceva il suo direttore (scrisse soprattutto per il setti-manale “L’Europeo”, diretto da Arrigo Benedetti) e acqui-stò ben presto fama mondiale. Inizial-mente costretta, es-sendo una donna, a scrivere di spettacolo e mondanità, riuscì successivamente ad occuparsi di argo-menti che le interes-savano di più: nei primi anni Sessanta si dedicò alla con-

dizione femminile in Oriente, scontrandosi con la realtà dell’Islam, mentre in seguito si recò alla Nasa per conoscere gli astronauti che sarebbero andati sulla Luna. Ottenne importanti incarichi come corrispondente di guerra, in particolare in Vietnam, che la segnarono profondamen-te. La sua posizione rimase sempre fermamente contra-ria alla guerra: si impegnò a farsi portavoce degli oppressi, a denunciare le atrocità com-messe da entrambe le parti coinvolte nei conflitti, senza parteggiare per alcuno. Oria-na Fallaci fu una femminista impegnata: tutto il suo lavoro, il suo stile di vita, le sue scelte servirono a dimostrare che la donna non è inferiore all’uo-mo e deve avere quindi gli stessi diritti. Quest’idea la in-fluenzò soprattutto nella sua vita sentimentale. Dopo una storia di amore non corrispo-sto con il giornalista Alfredo Pieroni, le sue relazioni furo-no per lo più avventure. Fu un’eccezione il caso di Alekos Panagulis, un attivista greco, che era stato imprigionato e torturato a seguito di un tenta-tivo di colpo di stato contro il regime dei Colonnelli. Oriana lo conobbe durante un’inter-vista: diventerò il suo compa-gno di vita fino alla morte di lui, causata da un incidente stradale dalle dinamiche mi-

steriose. La loro storia finirà tra le pagine di “Un uomo” (1979). Durante la loro rela-zione, Oriana scrisse invece “Lettera a un bambino mai nato”: parla dell’aborto e le servì per sfogare tutti i senti-menti che provava ripensan-do ai suoi bambini mai nati; più volte infatti, ebbe degli aborti spontanei. Le esperien-ze di vita e di lavoro della Fallaci sono raccolte in nume-rosi suoi libri che, pur mante-nendo la forma di romanzi, sono strettamente autobio-grafici e trattano i grandi temi della realtà. A partire dagli anni Ottanta, dopo aver se-guito gli scontri in Libano, la Fallaci si ritirò nella sua casa di New York, decisa a scrive-re un romanzo sulla sua fa-

miglia. L’unico avvenimento che la riportò all’attualità fu l’attentato alle torri gemelle. I fatti dell’11 settembre 2001 la scossero terribilmente, la-sciandola profondamente sconvolta. Scrisse un articolo infuocato per il “Corriere della sera”, con il quale condannò il terrorismo e l’Islam così du-ramente, da essere accusata da parte di molti di razzismo. In particolare, la sua figura fu utilizzata dalla destra, anche se lei, in realtà, continuò a de-finirsi con decisione un’anar-chica. Nel frattempo, le dia-gnosticarono il cancro, che finì per consumarla lenta-mente. Oriana Fallaci si spen-se il 15 settembre 2006, ciò che ha lasciato di lei è oggi il mito vuoto di una donna

ideale, che non può essere considerata un modello, perché è irraggiungibile. Andando più a fon-do però emergono i lati bui, quelli che ogni essere umano ha: tutte le paure, le fragilità, le debo-lezze, le ferite che la vita lascia irrimedia-bilmente. Allora le si può riconoscere una grande forza, grazie alla quale ha sapu-to superare i proble-mi, grazie alla quale non si è mai arresa e non ha mai rinne-gato se stessa.

LDP - LIBERTÁ DI PAROLAGiornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi

Registrazione presso il Tribunale di Pordenone N. R. G. 1719/2008 N. Reg. Stampa 10 del 24.01.2009

Direttore ResponsabileMilena Bidinost

Direttore EditorialePino Roveredo

Capo RedattoreGuerrino Faggiani

RedazioneAda Moznich, Sara Rocutto, Emanuele Garbin, Adriano, Marcel, Andrea, Marco Z., Emanuele Celotto, Tina, Ferdinando Parigi, Franca Merlo, Maria Rita Bonura, Silvia Suman, Alessandro Amato, S. G., Giacomo, Stefano Venuto, Elisa Cozzarini, Fabio Passador, Daleo, Alaine Sacilotto, Andrea Lenardon, Jackie, Irene Vendrame.

EditoreAssociazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 Pordenone

Creazione graficaMaurizio Poletto

ImpaginazioneAda Moznich

Stampa Grafoteca Group S.r.l.Via Amman 3333084 Cordenons PN

FotografieA cura della redazioneFoto a pagina 1,2 e 3 gentimlente concesse dagli artistiFoto a pagina 6,7,9, 14 e 15 da sito: http://commons.wikimedia.org/wiki/Main_PageFoto a pagina 13 Elisa CozzariniFoto da pagina 16 e 17 gentilmente concesse dall'Ufficio Stampa della Pordenone Calcio

Chi vuole scrivere, segnalare, chiedere o semplicemente conoscerci, contatti la redazione di LDP: [email protected]

Questo giornale é stato reso possibile grazie alla collaborazione del Dipartimento delle dipendenze di Pordenone

Associazione i Ragazzi della Panchina ONLUS Via Selvatico 26, 33170 PordenoneTel. 0434 082271email: [email protected] [email protected] www.iragazzidellapanchina.itFB: La Panka PordenoneYoutube: Pankinari

Per le donazioni:Codice IBAN:IT 69 R 08356 12500 000000019539Per il 5X1000 codice fiscale:91045500930

La sede dei Ragazzi della Panchina é aperta dal lunedí al venerdí dalle ore 13:00 alle 18:00

Hanno collaborato a questo numero

——————————————Guerrino FaggianiSe è vero che della nascita non ci si ricorda nulla, chiedetelo a lui, vi saprà raccontare ogni secondo, è rinato nel 2007! Da cinque anni con la Panka ca-valca la vita, non tanto per sal-tare gli ostacoli, ma proprio per abbatterli

——————————————Milena BidinostIl direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immer-gersi nella bolgia dell’Associa-zione con delicatezza e costan-za, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un arti-colo! Ma confidiamo nella sua amicizia

——————————————Franca MerloPresidentessa onoraria dell’As-sociazione affronta la vita come una eterna sperimentazione. Oggi è a Londra, più avanti.. si vedrà. Non manca mai di commentare il blog, non man-ca mai di sentirsi Panchinara, ovunque sia.

——————————————Pino RoveredoPenna in mano, foglio davanti agli occhi, cuore e cervello per riempire gli spazi, colorarli. To-scano, non di origine ma fede-le compagno tra le labbra, a profumare parole da sentire o leggere.

——————————————Manuele CelottoScrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante que-sto difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricor-do di antichi fasti e disavventu-re inenarrabili

——————————————Ferdinando ParigiVoce tonante, eleganza innata, modi da gentiluomo che si tro-vano raramente, la nostra nuo-va penna si fa sempre notare, tanto che le sue mail sembrano lettere direttamente uscite da un romanzo dell’800

——————————————Andrea LenardonTirocinante, educatore, psico-logo, operatore psichiatrico, giocatore di calcetto da tavolo, giocatore di Ping Pong, amico. Si arriva alla Panchina per un motivo, si fanno mille altre cose, si vivono mille mondi, diventi mille vite. Il tirocinio finisce ed un po’ non finisce mai, se ne andrà dalla Panka ed un po’ non se ne andrà mai.

——————————————Alain SacilottoAvete presente l'espressione "Bronsa coverta"? Eccola qua la nostra nuova penna! La sua timidezza nasconde un infuo-cata sete di sapere! Dietro ogni ostacolo c'è un domani, dentro ogni persona ci può essere una miniera di gemme preziose. Lui ne è l'esempio: forza, corag-gio, acume e personalità da vendere. Del resto solo così si può essere amanti del verde evidenziatore e innamorati fe-delmente dei colori Giallo-Blu del Parma Calcio. Che dire...Chapeau!

——————————————Stefano VenutoMimica facciale e gestualità ne fanno un perfetto attore! Lui però ha deciso di rinunciare alla fama per concedersi a noi. Magistrale operatore, tanto da confondere le idee e mettere il dubbio che lo sia veramente, penna delicata e poetica del blog, chietegli tutto, ma non appuntamenti dopo le 19.00!

——————————————Sara RocuttoIInformatica ma soprattutto col-legata, in rete ma mai nel sac-co! Nonostante le infinite ore passate davanti allo schermo, trova sempre il tempo per delle belle uscite culturali, perché tra esser impegnata ed impegnar-si, passa una bella differenza.

——————————————Elisa CozzariniBici gialla per passare inosser-vata, capello corto per non ri-schiare mai di non osservare. Fedelissima firma di LDP, pre-senza eterea in una fossa di leoni.

——————————————Fabio PassadorAttualmente panchinaro di lus-so! Come ogni giocatore di cal-cio dal baricentro basso, non gli si può chiedere di aspettare i cross in area per colpire di te-sta, ma offre dinamismo, scatto breve e bruciante, dribbling secco e magnifici assist

AMA LA VERITA' MA PERDONA L'ERROREVoltaire

I RAGAZZI DELLA PANCHINA

CAMPAGNA PER LA SENSIBILIZZAZIONE E INTEGRAZIONE SOCIALEDE I RAGAZZI DELLA PANCHINA CON IL PATROCINIO DEL COMUNE DI PORDENONE