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Libertá di Parola 2/2015 —— PANKANEWS INVIATI NEL MONDO NON SOLO SPORT a pag. 18 Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire) continua a pagina 3 a pagina 17 a pagina 15 a pagina 8 LA STORIA Pordenone anni '70-'80, il movimento del The Great Complotto e la sua evoluzione musicale. Caso unico in Italia, unì due generazioni al di là delle divisioni politiche e sociali di Loris Tomasella Sul punk se ne sono dette di cotte e di crude. Di norma a questo termine vengono as- sociati gruppi d'oltremanica, dai Sex Pistola, ai quattro finti fratelli Ramone, il tutto corre- lato ad un'estetica aggressiva basata su creste variopinte- chiodi in pelle-jeans strappati. Niente di più banale. Il punk non è solo questo: è attitudi- ne, libertà di pensiero, goliar- dia giovanile. Ad incarnare perfettamente questo "modus operandi" ci ha pensato il Great Complotto. Su questo movimento si sono spesi fiumi di parole, forti critiche alterna- te a salamelecchi d'ogni tipo. Al di là del merito artistico- musicale, ai vari Miss Xox (Hit- lerss), Ado (Tampax) and co. va riconosciuta la grande ca- pacità nel mettere insieme le menti di molti giovani, ribelli- annoiati-stanchi della vita di provincia, facendole confluire in qualcosa che fosse innova- tivo, dissacrante e soprattutto coeso. Rappresentativo di ciò è l'album omonimo, “The Great Complotto” del 1981. Per la prima volta su vinile vengono immortalati gli sforzi delle dieci band locali: Sexy Angels, Cancer, W.K.W., Andy Warhol Banana Technicolor, The Little Chemists, Fhedolts, Mess, Musique Mecanique, Waalt Diisney Production e Mind Invader. Da un profi- lo meramente musicale, la compilation è un pout pourry di post punk grezzo, sporco, con primi vagiti new-wave. Tracce spontanee, sentite. Poca tecnica, tanto impat- to. Il vero e proprio manife- sto punk rock pordenonese, TOP, educativa di strada in città Giappone, modernità e tradizione Judo, il modello Maddaloni spiegato ai ragazzi Il fascismo e la guerra di chi li ha vissuti APPROFONDIMENTO Codice a s-barre Venerdì 26 giugno, alla 17 nella sala Teresina Degan della biblioteca civica di Pordenone I Ragazzi del- la Panchina presentano il video intervista “Tutto quello che abbiamo den- tro”, un progetto realizzato nell'ambito della redazi- one di Libertà di Parola (Codice a s-sbarre) inter- na al carcere cittadino. Tre interviste ad altrettanti per- sonaggi sul tema “libertà e riscossa personale” in cui i giornalisti-intervistatori sono gli stessi detenuti. a pagina 9

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Libertá di Parola. Trimestrale d'Informazione dei Ragazzi della Panchina di Pordenone

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Libertá di ParolaN°2/2015 ——

PANKANEWS

INVIATI NEL MONDO

NON SOLO SPORT

a pag. 18

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

continua a pagina 3

a pagina 17

a pagina 15

a pagina 8

LA STORIA

Pordenone anni '70-'80, il movimento del The Great Complotto e la sua evoluzione musicale. Caso unico in Italia, unì due generazioni al di là delle divisioni politiche e socialidi Loris Tomasella

Sul punk se ne sono dette di cotte e di crude. Di norma a questo termine vengono as-sociati gruppi d'oltremanica, dai Sex Pistola, ai quattro finti fratelli Ramone, il tutto corre-lato ad un'estetica aggressiva basata su creste variopinte-chiodi in pelle-jeans strappati. Niente di più banale. Il punk non è solo questo: è attitudi-ne, libertà di pensiero, goliar-dia giovanile. Ad incarnare perfettamente questo "modus operandi" ci ha pensato il Great Complotto. Su questo movimento si sono spesi fiumi

di parole, forti critiche alterna-te a salamelecchi d'ogni tipo. Al di là del merito artistico-musicale, ai vari Miss Xox (Hit-lerss), Ado (Tampax) and co. va riconosciuta la grande ca-pacità nel mettere insieme le menti di molti giovani, ribelli-annoiati-stanchi della vita di provincia, facendole confluire in qualcosa che fosse innova-tivo, dissacrante e soprattutto coeso. Rappresentativo di ciò è l'album omonimo, “The Great Complotto” del 1981. Per la prima volta su vinile vengono immortalati gli sforzi

delle dieci band locali: Sexy Angels, Cancer, W.K.W., Andy Warhol Banana Technicolor, The Little Chemists, Fhedolts, Mess, Musique Mecanique, Waalt Diisney Production e Mind Invader. Da un profi-lo meramente musicale, la compilation è un pout pourry di post punk grezzo, sporco, con primi vagiti new-wave. Tracce spontanee, sentite. Poca tecnica, tanto impat-to. Il vero e proprio manife-sto punk rock pordenonese,

TOP, educativa di strada in città

Giappone, modernità e tradizione

Judo, il modello Maddaloni spiegato ai ragazzi

Il fascismo e la guerra di chi li ha vissuti

APPROFONDIMENTO

Codice a s-barreVenerdì 26 giugno, alla 17 nella sala Teresina Degan della biblioteca civica di Pordenone I Ragazzi del-la Panchina presentano il video intervista “Tutto quello che abbiamo den-tro”, un progetto realizzato nell'ambito della redazi-one di Libertà di Parola (Codice a s-sbarre) inter-na al carcere cittadino. Tre interviste ad altrettanti per-sonaggi sul tema “libertà e riscossa personale” in cui i giornalisti-intervistatori sono gli stessi detenuti.

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IL TEMA

«VI RACCONTO DA DOVE SIAMO PARTITI»Fabio Zigante, in arte Miss Xox, ripercorre con noi i primi passi del The Great Complotto

intervista di Chiara Zorzi

Il periodo storico tra il ‘76-‘77 è stato, nell’espressione mu-sicale, un momento partico-lare: emergeva la voglia di esprimere il proprio pensiero prendendo in mano degli strumenti, questo è stato de-finito punk. Un atteggiamen-to che, anche nel concreto, dava la possibilità di passare dall’altra parte, di non essere un semplice consumatore di musica, ma di essere quello che metteva se stesso nella posizione di chi raccontava la sua realtà. The Stooges con chitarre distorte, volumi alzati, sonorità dure racconta-vano il loro quotidiano, il loro “no fun”. Bastavano due frasi per raccontare un’emozione quotidiana e questo genera-va anche in altri la voglia di rappresentare la propria re-altà. Tutti ave-

vano così qualcosa da dire, tutti potevano disegnare il proprio racconto con mo-dalità diverse, perchè non era necessaria la qualità che solo alcuni musicisti riescono a raggiungere. Questo succedeva non solo in America e Inghil-terra. Succedeva anche a Pordenone. Tra i fon-datori del The Great Complotto c’era anche Fabio Zigante, in arte Xox

«Assieme ad Ado Scaini - racconta - cantavamo il nostro “no fun”, buttati fuori dalle sale prove dai musicisti “veri”, perché non sape-v a -

mo suo-nare, ma con la voglia di essere presenti con le nostre modalità. Questo, forse, ha generato forza d’attrazione anche verso altre persone che vivevano le stesse difficoltà, le quali erano viste come possibi-lità di raccontare e fare delle cose in un modo di-verso».

Ad esempio?La produzione di mate-riale. Prima questa pas-sava attraverso i canali standardizzati delle case discografiche, da quel momento in poi invece la produzio-ne delle tue cose te

la potevi gestire in modo di-verso: sono nati così i dischi

autoprodotti. Raccontarlo ora non ha un significato rilevan-te perché oggi siamo som-mersi di musica autoprodotta. Credo che il TGC sia nato da questa forza d’attrazione che abbiamo generato, dalla no-stra modalità di intendere e fare musica. Forse il fatto di vedere l’entusiasmo e la vo-glia che c’era, nonostante le difficoltà, di essere presente in un tuo territorio, in un tuo stato mentale, in un tuo rac-conto, ha generato voglia di avvicinarsi, anche se inizial-mente solo come spettatore. Un altro fattore d’attrazione è stato la grande apertura che c’è stata, l’accettare rinforzi da chi c’era attorno, senza porre nessuna barriera, anzi: più scassato eri, più adatto eri. L’i-dea di base era quella di un gruppo aperto ai contributi di tutti, dove le fatiche comuni generavano opportunità per altri di potersi aggregare. Era un gruppo attrattivo, ricettivo, includente, anche per l’esclu-so.

Che cosa ha mosso quell’e-sperienza?

La forza d’attrazio-ne del

T G C era la possibilità di dimostrare che le tue possi-bilità e le tue difficoltà diven-tavano il tuo potenziale, po-tevi rappresentarti per quello che eri, con il tuo non saper suonare, il tuo non saper fare altre cose, però la tua voglia di farle ti dava la possibilità di realizzarle. Per me il TGC ha rappresentato un momento, che poi si è evoluto. Sono sta-to uno tra i primi ad aggrega-re tante persone, a generare attrazione e a supportare le possibilità di ognuno per ciò che era. Ad un certo punto mi sono allontanato da quest’e-sperienza perché avevo la necessità di nuove situazioni

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o naoniano, come direbbe-ro in molti. L'innovazione si vede da un punto di vista sociologico: fino a quel mo-mento era impensabile im-maginare che una provincia di dimensioni così ridotte po-tesse generare un humus mu-sicale così ampio ed omoge-

e questa era diventata trop-po fine a se stessa e troppo piccola. Io ho necessità che le cose si muovano molto velo-cemente e ridefiniscano una situazione che sembra già consolidata. Mi ritengo uno che fa fatica a mettere assie-me soggetto, predicato, com-plemento, perciò compenso attraverso il suono; la parte emozionale, “strana”, artistica del suono: è la forma che uso per cercare di comunicare le cose a chi ho attorno. Delle volte non ci riesco nel modo migliore, ma ci provo in tutti i modi. Non mi bastava più una situazione che si fermava solo ad un aspetto “musicale”, sono andato avanti con l’au-toproduzione di una mia for-ma di comunicazione.

C’è stato un dopo The Great Complotto? Dopo, per me, il TGC è r ima-sto un m o d o d’esse-re e di vedere le cose, forse per altri si è e sau r i t o in quei tempi. Io faccio il tifo per tutti quelli che hanno vo-glia di dire delle cose e hanno del-le difficoltà a dirle, mi piac- ciono quelli con le difficoltà proprio perché posso immaginare quali siano, perché magari le ho provate anch’io nel mio raccontarmi. A volte vengo venduto come un musicista, ma io sono un disastro, sono uno che prova a suonare la chitarra da decenni però sono “handicappato”, eppu-re mi trovo con una chitarra appesa al collo e racconto i miei pensieri; mi annoiano quelli che vedono la musica solo come un gioco di presti-gio, un virtuosismo e non mi emozionano. Mi piacciono delle cose più sporche, ma più emozionali, che arrivano a dire qualcosa, altrimenti se la musica diventa quella da supermercato, non m’interes-sa. M’interessa lo strumento “musica” per le emozioni che dà. Questo mi piacerebbe trasmettere, ma non come insegnante, mi piace vede-re quelli che fanno fatica, mi piace la fatica.

Io adolescente nel The Great Complotto«Per essere figo dovevi solo avere delle idee»testimonianza raccolta da Chiara Zorzi

Penso di essere stato l’ultimo ad entrare nel Great Com-plotto in maniera effettiva, l’ho vissuto dai 14 ai 16 anni, tra l’81 e l’84 circa, poi si è trasformato in altro, non è più stato veramente operativo. Si è trattato di una cosa eccezio-nale, fuori da ogni pensiero, da ogni regola: prima di quel momento era quasi impropo-nibile pensare che potesse esistere una cosa del genere e per me, ma anche per al-tri ragazzi, entrare lì ha

spostato com-pletamente gli equilibri. Io,

appena adolescente, come molti ragazzi, frequentavo le compagnie dei quartieri che proponevano l’essere “diver-si” attraverso le canne e la prestanza fisica. Ad un cer-to punto, grazie alla musica, sono entrato in questo movi-mento che non badava più a certe cose. Avevi delle idee, sapevi dimostrarle, allora di-ventavi il numero uno nel giro di pochissimo. Il The Gre-at Complotto promuoveva un essere “diversi dai diversi” ed è stato speciale, perché face-vi cose fino a quel momento

inimmaginabili ed erano tut-te lontane da quello che era il primeggiare dei ragazzi a quell’età lì. Nel TGC se sapevi tirar fuori qualcosa ti conside-ravano tutti, poco importava che tu avessi 10 anni meno degli altri, da subito c’era ri-spetto per chi aveva determi-nate capacità. Questa è stata la forza di questo movimento: dava importanza a tutti quelli che volevano tirar fuori qual-

cosa e si impegna-vano per farlo. Cre-do che la musica, e in particolare il The Great Complotto, sia stato la mia sal-vezza perché con il mio carattere, se fossi rimasto nel “mondo” delle compagnie di quartiere, proba-bilmente avrei preso delle stra-de dalle quali non so se sarei riuscito a usci-re. Era una cosa molto strana il TGC perché era un insieme di

gente dai 13 ai 26 anni, quasi due generazioni, che facevano delle cose assieme, fondamentalmente suonare e tirar fuori idee. Si impara-va che non era importante saper suonare, ma tirar fuori idee; tutti ci avevano sempre inculcato che “bisogna saper far questo, essere forti, ecc”, balle, da lì abbiamo capito che non serviva a niente; se ti capitava in testa un’idea ed avevi il coraggio di tirarla fuori avevi vinto, tutti ti consi-deravano e tutti ti avrebbero dato una mano. Entravi lì e diventavi figo e te lo sentivi dentro. Se avevi idee potevi primeggiare. Poteva primeg-giare chiunque. E a differenza

di quello che pensano tanti, non c’erano né colori politici, né questioni di classe. In Ita-lia un movimento del gene-re, un’organizzazione di tanta gente così ben organizzata era ed è ancora riconosciuta come un caso unico. Il TGC, se per tutti quelli che hanno partecipato è stato molto im-portante, per alcuni di noi lo è stato doppiamente perché ci ha aperto una strada la-vorativa. Non è casuale che dalla stessa compagnia 6-7 persone siano riuscite a vive-re di musica; difficilmente si trova una concentrazione così alta. Non eravamo solo diver-si, eravamo degli extraterrestri in quel momento. In centro le forze dell’ordine ci fermavano ogni due secondi, eravamo fuori dal mondo, ma lo posso capire. Adesso vedi uno con la cresta e non ti fa effetto, ma in quel momento in Italia ce n’erano venti in tutto e dieci persone così solo a Pordeno-ne era allucinante. C’è stato anche il rovescio della meda-glia in quell’esperienza. Cre-scere lì dentro mi ha dato tan-tissimo, tanto che tutto quello che era fuori da lì o dagli schemi che avevo imparato lì, ha rischiato di essere preso come sfigato. L’aver fatto una grande figata ti fa guardare solo te stesso, ti fa chiudere gli occhi e per un po’ ho pa-tito questa condizione perché, crescendo, ti scontravi con una realtà che non era più solo quella che avevi vissu-to lì e vivevi così un conflitto senza nemmeno rendertene conto. Credo che situazioni come quella siano talmente forti che purtroppo quell’effet-to collaterale è quasi inevita-bile. Io sono uno di quelli che non è riuscito ad affrontarla velocemente, probabilmente perché ero giovane o forse semplicemente meno pronto.

neo negli indirizzi concettuali. Basti pensare che gli associa-ti, affiancavano al semplice fare musica una serie di altre attività organizzate di tipo ar-tistico, logistico e propagandi-stico. Questa fiamma ardente non era però destinata a du-rare. Rapporti incrinati, idee differenti o semplice perdita di interesse portarono la sce-

na a modificarsi lentamente. Dal movimento nacquero formazioni come i Futuritmi (Davide Toffolo, Gian Maria Accusani), i più conosciuti Prozac +, il cui singolo “Acida” del 1998 riscosse un notevole successo commerciale, e i Tre Allegri Ragazzi Morti, che tut-tora calcano i palchi dell’inte-ra penisola.

continua dalla prima pagina

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«Ho imparato a resistere alle tentazioni»Prosegue il racconto della rinascita di Moreno verso una vita lontano dalla drogadi Moreno T.

Eccomi qua a continuare il mio racconto: possiamo ri-prendere da dove ci erava-mo lasciati l’altra volta. Que-sta seconda parte del mio percorso all’interno dell’asso-ciazione “I Ragazzi della pan-china” è mirato a farvi capire come mi è servito il mettermi in gioco con le persone che facevano ancora uso di so-stanze stupefacenti. Questa fase è stata la più importan-te per capire che strada po-ter prendere per una buona convivenza e mi è servita per acquisire sicurezza nel gestire le mie voglie. La cosa che mi ha colpito di più di me stesso è stato il fatto di riuscire a dire di no alle tentazioni e alle provocazioni e di arrivare al punto di poter dare dei con-sigli e capire il punto di vista degli altri ragazzi che frequen-tano l’associazione. Nel mon-do della tossicodipendenza è molto difficile creare un’a-micizia vera perché, quando si fa uso di sostanze, la realtà

non è reale e le persone cer-cano un’amicizia solo se c’è un tornaconto perché la vita da tossico è difficile. Nella vita da consumatore è tutta una corsa nel trovare ogni giorno i soldi per comprare la dose giornaliera, che ti serve per “essere normale “, poi il resto del tempo cerchi sempre lo sballo fino a trovarti disteso e stravolto in qualche parte della città, inconsapevole di quello che ti sta succedendo

in quel preciso istante e con la voglia di non svegliarti più. Quindi la tossicodipendenza è come un impegno quotidia-no: consapevolmente sai che ti stai distruggendo da solo e che con l’andare del tempo ti annienterai sempre di più. Per questo ho dovuto cercare un’alternativa per dare una svolta alla mia vita e ho scel-to di seguire un percorso qui tra “I Ragazzi della panchina”. Adesso ho raggiunto la parte

finale del mio percorso ed è arrivato il momento di pren-dere tutti gli insegnamenti che ho acquisito in tutto il tem-po che ho passato assieme ai ragazzi ed usarli per poter continuare il mio percorso, sforzandomi di proseguire con la stessa costanza e voglia di fare bene al fine di poter un giorno uscire del tutto dal pro-blema droga. Questo percor-so mi servirà a non dimenti-carmi di tutti questi problemi che ho superato e a crearmi cosi una seconda possibilità di una vita normale, con una famiglia, un lavoro e soprat-tutto un posto tutto mio dove passare il resto del tempo con le persone a cui voglio bene. In questo modo riuscirò a far felice me stesso ed anche i miei genitori che finalmente vedranno il loro unico figlio riprendere in mano le redini della propria vita e potranno così tirare un sospiro di sollie-vo ed essere orgogliosi del suo cambiamento.

FOLGORATO DA MUTONIA«Una volta a casa, ho cominciato a creare maschere in cui esprimo il mio spirito guerriero»di Giorgio Doardo

L’arte è una cosa strana. Quando per alcuni è pro-fonda sindrome di Stendhal, per altri può rappresentare un rozzo segno colorato su di una tela. Ma c’è una cosa su cui siamo tutti d’accordo nel guardare un’opera d’ar-te: la spettacolare manualità con cui viene modellata e la

cattiveria o delicatezza delle forme che ci proietta ineso-rabilmente all’interno del-lo stato d’animo dell’artista. Basta un animo fine o una spiccata sensibilità o un cuo-re impavido come il mio per trasformare linee contorte in “depressione artistica” o ciuf-fi di colore in felicità eterna.

A questo punto l’arte è una chia-ra espressione di stati d’animo spesso complessi o incomprensibili, ma sempre rigur-gitati da animi grandiosi. Così, facendo leva sulla mia sensi-bilità artistica ed avendo un po’ di tempo a disposi-zione, ho scelto con cura l’artistic location da vi-sitare: Mutonia, la comunità dei cyberpunks a Sant’Arcan-gelo di Romagna. Una vec-chia cava di ghiaia dismessa nei dintorni di Cesena mi ha letteralmente proiettato in un cyberspazio alieno; le enor-mi strutture assemblate con materiali di riciclo mi hanno contorto l’animo, mi hanno aperto una via prioritaria all’interno di questa impro-babile forma artistica. Tutt’at-torno a me locuste giganti, mezzi meccanici sputafuoco e strani personaggi agghindati come appena reduci da un conflitto nucleare. Si, non c’è che dire: stregato da Muto-nia! Quando senti una pres-

sione al petto ti rendi conto che qualcosa te lo sta per squarciare e così, appena rientrato, accovacciato su di uno sgabello in paglia sotto il mio amato loggiato seicente-sco, dalle mie vecchie mani, come per incanto, ho iniziato a creare maschere che, usan-do materiali rigorosamente di riciclo, riesco a forgiare nelle giornate di spiccata pa-ranoia. A volte ricordano dei cinghiali metallici, alle volte facce metallizzate modello terminator, a volte strani co-pricapi per nottate sadoma-so, ma il crearle dà enorme sfogo a quello spirto guerriero che dentro mi rugge.

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LE CRONACHE DI CHANEL

Con gli occhi di ChanelPrima puntata della nuova rubrica scritta a quattro zampedi Chanel Giacomelli

Ciao a tutti! Io Sono Chanel la pitbull mascotte della sede de I Ragazzi della Panchina. Ho deciso di scrivere una rubri-ca nel loro giornaletto, spero che possa piacere anche se scrivo da cani! Il nome della rubrica sarà “L’angolo di Cha-nel”. Nome inusuale Chanel per un pitbull. Molti mi consi-derano un cane ferocissimo, un autentico “badass Usa style” (culo cattivo), ma è una grandissima stronzata, io sono adorabile, bella con il mio monocolo marrone simil goc-cia d’acqua. Sul lato opposto, ho una macchia che ricorda l’Africa, almeno secondo il mio compagno umano, che forse era ubriaco quando ha visto l’Africa. Per il resto sono una media taglia di 23,5 kg, agile, muscolosa e slanciata,

tutto grazie agli allenamenti che il mio compagno umano mi fa fare. Se li facesse an-che lui, sarebbe cosa buona e giusta, almeno smaltirebbe qualche chiletto che male non gli fa! Ma con una testa così, non si può sperare in qualcosa di buono: se avessi io una testa così, me la farei circoncidere! Mi piace trop-po correre e rincorrere quei stramaledetti mangia-lische di gatti, ma spesso mi scap-pano. Purtroppo! Invece con i miei simili spesso vado d’ac-cordo. Le altre femmine però io non le sopporto proprio! Ste smorfiosette ti guardano dalla punta del tartufo alla puntina della coda, ma solo dopo si accorgono che, gentilmente, mostro loro tutta la mia pos-sente dentiera! Mmm… Che

le possino…! Inve-ce con i maschietti non mi trovo male, sarà per il mio sex appeal o la mia fragranza da Diva, ma quando ci pro-van spudorati è meglio che scappi-no a zampe levate, Dio perdona, Cha-nel sbrana! Con gli umani gene-ralmente mi trovo molto bene, anche se per col-pa di qualche idiota la mia razza è davvero denigrata. Se solo sapessero la verità, o si levassero le fette di prosciut-to dagli occhi, o meglio se le dessero a me, saprebbero tante, troppo cose. Ma infondo è meglio fargliele capire un po’ alla volta, troppe informa-

zioni subito manderebbero in tilt il loro cervello! Comunque solo chi ha un mio simile sa cosa ha tra le zampe. Tra un po’ andrò con il mio papi alla sede de “I Ragazzi della Pan-china”. Il mio papi dice che troverò tanti amici molto sim-patici, ma ve lo racconterò la prossima volta. Ciao a tutti.

A caccia del posto giusto sul greto del Meduna Per i bagnanti è una tradizione che si ripete ogni estate, a due passi da casa di Fabrizio Sala

In questi ultimi anni molti cor-denonesi, alla ricerca di un po' di ristoro, hanno trascor-so i loro pomeriggi estivi tor-nando a rivangare il secolo scorso, riscoprendo cioè la bellezza di una particolare zona della nostra provincia: il parco fluviale del Meduna e le grave nella zona di Corde-nons. Da tradizione, già dalle prime settimane di maggio, oltre alla classica fauna che lo caratterizza, a popolare il luo-go ci sono anche i giovani e meno giovani ricercatori che, esplorando il greto del fiume, si muovono alla ricerca della buca perfetta. La buca per-fetta o, in dialetto, "la busa", non è nient'altro che “il buon posto”, quello dove l'acqua è abbastanza profonda e non scorre troppo forte, quella che ti permette di passare un in-tero pomeriggio di balnea-zione a due passi da casa, senza spendere nemmeno un euro e senza rinunciare a tuffi, bagni e tintarella. Appro-fittando della prime giornate di sole, ci si arma di pazien-za e, in sella alla bici, si parte per l'esplorazione. La ricerca di solito inizia dalla zona del-la "sparesera", ultimamente soprannominata "spiagget-ta", vista la sabbia presente in alcunei punti del greto del fiume che dà l'impressione di essere davvero al mare.

Dopo di che ci si sposta ver-so "il preduni", noto anche come "i colombiani". Una zona più a est che va verso la vecchia colonia, dove fino a pochi anni fa ci si riusciva a tuffare addirittura con con

le liane e successivamente con le corde. Altro passaggio obbligatorio per il buon cer-catore è nelle vicinanze de "il buco di Zoppola", "busa" rinomata da tempo, di faci-le individuazione grazie ai

numerosi ombrelloni e gaze-bo che la circondano. Come ultima tappa, prima di giun-gere "all'argine", una control-latina va fatta anche nelle zone limitrofe alla chiusa di "Giovanni Pes" (dal nome del vecchio addetto alla chiusa), dove pochi anni fa alcuni avevano allestito un ottimo trampolino, improvvisandolo con pallet, corde e tronchi di varie misure. Dopo aver tro-vato il posto, molti cercatori decidono di mantenerlo se-greto, non tanto per cattiveria ma per potersi godere quello che è difficile da trovare in altri luoghi balneari del Me-duna: la tranquillità e la pia-cevolezza di vivere a pieno contatto la natwura, sapendo di poter godere di questo po-sto solo per un breve periodo all'anno. Questo strano feno-meno di ricerca de “il posto giusto” per gli appassionati del Meduna si ripete di anno in anno. L'agognata e sudata "busa" cambia infatti posizio-ne in base alle correnti del fiume, in base alle montane, e alle precipitazioni avvenu-te durante l'inverno: vanno a gravare sulla portata del fiume stesso modificandone il letto e distruggendo le va-rie installazioni lasciate dagli esploratori mesi prima. E così l'anno dopo si riprende da capo l'esplorazione.

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Donne al lavoro: competenza, collaborazione e armonia«Nello studio dei miei commercialisti dodici donne e tre uomini e i risultati si vedono»d Ferdinando Parigi

Mi capita spesso di trovarmi in uno studio professionale gestito quasi solo da donne. Per l’esattezza lo staff conta 12 donne e 3 uomini. Per come è stato concepito e manife-stato il Femminismo fino ad oggi, sono convintamente an-tifemminista, ma queste don-ne sono davvero in gamba. Sopra tutte le altre cose, nello studio in questione regna so-vrana la Armonia. Andare in un ufficio, privato o pubblico, mi è sempre seccato. Sono a disagio, se mi tocca portare un gesso di formalismi e litur-gie, con code o comunque attese da fare, con sorrisi fin-ti che durano un secondo e sembrano più un momento di stretching facciale che un

vero sorriso. Qui, tutto questo non esiste. Che si tratti della contabilità di un’attività com-merciale o di una grossa vertenza fiscale, di una cau-sa di lavoro o della fusione di aziende, in questo posto tutti sono trattati con uguale cortesia. E’ bellissimo avere donne tutto intorno. E’ gente selezionata, che sa il fatto suo ma non ti fa pesare che è più competente di te. Siamo in periodo di dichiarazioni dei redditi. In uno studio com-merciale gestito da maschi, sembrerebbe di essere al fronte durante la prima Guer-ra Mondiale. Gente trafelata, sudata di caldo e di affan-no, che corre da una stanza all’altra con mille cifre in testa

e gran difficoltà. Qui pare che sia Natale, e sì che ne han-no di lavoro. E’ una cosa che soltanto uno staff di quasi solo donne può realizzare. Biso-gna dire che le “quote azzur-re”, oltre ad essere soci dello studio sono persone molto in gamba. Conosco Giorgio e Bruno da decenni, posso dir-lo. Contribuiscono decisiva-mente alla bontà del clima generale. Vedo Ilaria e Lola (è albanese) al lavoro. E’ paz-zesco come ricordano le leggi e collegano eventi, li interpre-tano, li elaborano, si capisco-no al volo. E’ bello da vede-re. Entrambe, a casa hanno marito e figli. Qui ciascuna/o ha le proprie competenze, ma sono collegate, abituate

a frequenti scambi di opinio-ni, richieste di consigli, bre-vi riunioni informali. Questo continuo lavoro di consulto insegna molto a tutti: chi si occupa di fisco deve sapere anche di lavoro, chi si occu-pa di start-up deve sapere di bilanci, e così via. Sono ormai persuaso che le donne diano punti agli uomini sul piano operativo, cioè di organizza-zione del lavoro, suddivisione dei compiti, individuazione delle priorità, capacità di co-ordinamento, gestione delle relazioni esterne, e...risultati. Questa è autentica militanza femminista! Le donne valgo-no più di quanto loro stesse credono. Chi non avrebbe voluto Emma Bonino come Capo dello Stato? Da rappre-sentante della Commissione Europea è stata la persona più stimata nella storia dell’U-nione. A Strasburgo e Bruxel-les stravedevano per lei. Ai poteri forti italiani, quelli che parlano di “quote rosa”, co-moda che adesso combatta contro il cancro e si occupi di battaglie perse, come quella per avere condizioni umane nelle carceri. E’ una donna: se le dessero spazio potrebbe fare qualcosa di pulito!

Caffè mi piaci. Ma quanto mi piaci?Alla scoperta delle croci e delizie di una bevanda nota in tutto il mondod Guerrino Faggiani

Con un certo orgoglio na-zionale mi sono inoltrato nel mondo del caffè, credendo di far parte di una certa éli-te di consumatori. Invece mi sono imbattuto in delle sor-prese. Davvero inaspettato è il fatto che il caffè sia la se-conda merce più diffusa al mondo, dopo il petrolio. Il suo aroma dunque è un piace-re planetario, che spazia tra oltre cento specie di piante provenienti da tutto il mondo tropicale. Le più commercial-mente note comunque sono tre: l'"Arabica", la "Robusta" e, in minor misura, la "Liberica". Le varietà si differiscono per gusto e contenuto di caffeina, noto stimolante nostra croce e delizia. La caffeina è un al-caloide che alla pianta funge da insetticida naturale, tossico per gli insetti e gli artropodi che vi si cibano. A noi uma-ni non risulta così letale an-che se come tutti sappiamo non bisogna sottovalutarla ed abusarne. In dosi ragionevoli è un aiuto a cui molti di noi attingono nell’arco della gior-nata, sin dal mattino. Quante volte abbiamo sentito dire o detto noi stessi: «Finché non prendo un caffè non connet-to»? Ma attenzione, non deve essere la colazione, in quanto una tazzina ed un cucchiaino di zucchero apportano all'or-ganismo solo 45 calorie, men-tre i dietologi per una colazio-ne bilanciata ne consigliano

400. Anche il caffellatte, o sua maestà il cappuccino hanno delle controindicazioni: il latte ed il caffè, amalgamandosi, grazie al calore sprigionano Tannato di Caseina, compo-sto che ci risulta di difficile digestione. Da qui la sensa-zione di sazietà che a volte, sbagliando, ci induce a con-siderarli un sostituto del pasto.

Citazione a parte va fatta per il decaffeinato, ovvero caf-fè con non più dello 0,1% di caffeina. Fu inizialmente scon-sigliato da molti ricercatori in quanto contenente residui di sostanze tossiche usate nella lavorazione per arrivare tale risultato. Ma ormai i più gran-di produttori hanno raggiunto livelli di tecnologia tali da non

richiedere più l'uso di solventi realmente dannosi, quindi il decaffeinato è da considerar-si sicuro. Se però volete dire di aver gustato il caffè più buo-no e pregiato che ci sia, dove-te bere il "Kopi Luwak". E’ una varietà di caffè la cui produ-zione annuale mondiale è sull'ordine dei 230 kg (all'an-no, non al secondo). È un'e-sclusiva indonesiana e la sua particolarità è rappresentata dai chicchi: vengono raccolti a mano dalle feci di un sim-patico animaletto: lo Zibetto Delle Palme. Esso si ciba delle bacche che cadono a terra, ma gli enzimi del suo stoma-co riescono a digerire solo la parte esterna, espellendo poi quella interna. Ciò comporta l’eliminazione di alcune del-le sue proteine, modifica che al nostro palato si traduce in un particolare aroma dal re-trogusto di cioccolato e con una minore amarezza rispet-to al tradizionale caffè. Berlo amaro, poi, è il massimo. Tut-tavia, il “Kopi Luwak” è il più costoso che ci sia. Al dettaglio da noi può superare anche i 20 euro alla tazzina. Addirit-tura nel 2012 negli USA veni-va venduto a 1330 dollari al chilogrammo, ed una tazzina costava 48 dollari. Quindi, at-tenzione ad invitare colleghi o amici ad un innocuo bre-ak caffè al bar, state bene in campana perché potrebbe finire molto male con il conto.

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L'ANGOLO DELLA FRANCA

«Cominciare la giornata così è il top» Piccoli gesti di giustizia quotidiana di Franca Merlo

Ieri sono andata in un nego-zio di scarpe che sta per chiu-dere ed ho fatto acquisti, due paia di scarpe abbastanza buone e a buon prezzo. A casa, contenta, le ho riguar-date, le ho riprovate, poi ho preso in mano il portafoglio e ho fatto i conti: quanto il mio gruzzoletto era diminui-to, quanto me ne restava. Ed ho scoperto con irritazione che i conti non tornavano, perchè 5 euro mancavano all’appello. Accidenti a me, che non faccio mai i conti al momento, lì alla cassa, li ri-faccio dopo e qualche volta i conti non tornano! Non è la prima volta che mi succede. Perchè non sto attenta subito a quanto mi viene indietro? Tornando con la memoria al

momento del pagamento, ho capito cos’era successo: ho pagato con un biglietto da 50 e il commesso mi ha reso delle monetine e un bigliet-to da 5 anzichè da 10. Nella mente avevo il flash preciso della scena. Allora sono ritor-nata al negozio, ho ricupera-to il commesso in questione e con tutta l’educazione e il garbo possibili ho fatto pre-sente la cosa. Ho soggiunto: «Guardi, capisco che può succedere, senza intenzione, e neanche pretendo che lei mi creda sulla parola; però stasera alla chiusura della cassa quando farete i conti vedrà che vi sono 5 euro in più. Domani io torno qui e lei me li ridà». Cinque euro in più non fanno ricchi - rimuginavo

dentro di me- né fanno pove-ri se ti mancano. Ma anche se non ti cambiano la vita, quello che è mio è mio. E vi-sto che una passeggiata quo-tidiana fa bene alla salute, domani me ne tornerò nuo-vamente al negozio. Invece il commesso, convinto dall’e-videnza della mia sincerità, ha aperto la cassa e mi ha dato subito i 5 euro. Meglio così, tutto si è concluso subito. E invece no!!! No, anzi è ini-ziata la telenovela! Infatti, di nuovo a casa, nel piegare la borsa delle scarpe per ripor-la, mi accorgo che sul fondo c’è qualcosa: il biglietto da 5 euro, sì, quello che mi man-cava, scivolato lì chissà come. Altro che memoria, altro che flash preciso della scena! Ho toppato di brutto. Stasera alla chiusura della cassa si ac-corgeranno di avere 5 euro in meno e il commesso cosa penserà? Accidenti che figu-ra. E’ vero che 5 euro per una ditta sono meno di niente, ma c’è di mezzo una perso-na che mi ha creduto. E così stamattina eccomi di nuovo lì, ad affrontare la figuraccia. Il commesso non c’è, da un ufficio esce il giovane gestore del negozio e lo vedo piutto-

sto accigliato. Certo le cose non vanno bene se sta per chiudere. Racconto breve-mente l’accaduto, ma lui non capisce perché sono tornata lì. «Sì, in effetti ieri sera in chiu-sura abbiamo riscontrato un ammanco di 5 euro», dice. «Ecco –rispondo io - sono qui per renderli». Allora capisce, e si illumina. I nostri discorsi si sovrappongono, io mi scuso e lui mi ringrazia, mi ringrazia e mi ringrazia ancora: «Non è per la cifra – mi dice - che è esigua, è che è bello incon-trare persone che fanno gesti come questo». Si commuove. Allora penso che abbiamo tutti bisogno di giustizia, ma ancor più di umanità, di au-tenticità. Di bellezza. Penso che i giovani non sono an-cora consunti dall’uso (dalla vita), sanno ancora sorpren-dersi, sanno ancora coglie-re la bellezza nascosta tra le pieghe della quotidianità. Penso che la Bellezza può tro-varsi anche dietro a un gesto che viene dalla pignoleria e dalla confusione di una vec-chietta. E lui continua: «Grazie signora, è bello. E’ bello inco-minciare la giornata così, mi creda, è bello. Incominciare la giornata così, è il top».

È il momento di alzarsi e brillareMeglio un tentativo fallito che fallire nella vita per non averci mai provatodi Tina

Sono un illusa che sa di illu-dersi e che a volte illude il mondo intero! Vivo mille pas-sioni, sono sempre affamata di nuove emozioni. Sono im-mersa in un oceano di frene-sia, ma quando mi fermo a pensare, tanto caos e bacca-no non han più alcun senso. Riesco però a sentire la vita, che urla, piange e strilla per-ché io mi dia una mossa e non finisca i miei giorni senza aver concluso niente, bloc-cata da timori o indecisioni, sprecando le ore dei miei giorni tra progetti che riman-gono sempre e solo idealisti-ci. Come il libro che da una vita devo scrivere, come l’i-scrivermi a qualche corso per provare a costruire qualcosa di concreto del mio futuro o

fare un’attività di volontariato perchè il mondo fin'ora mi ha sempre offerto un aiuto esa-sperato e sento il bisogno di ricambiare un po' del favo-re, anche solo con un gesto d'amore. Ma non è facile per una che ha vissuto 32 anni alla giornata e con una tota-le reazione allergica verso le regole e il controllo. Mi sono troppe volte sentita in balia degli eventi e delle decisioni di terzi. Ora però voglio tene-re io il timone di questa barca nella tempesta e decidere la rotta. Il fatto è che poi sento il peso delle responsabilità troppo oneroso e come d'istin-to cerco di spegnere la testa, ed il narcotico risveglio poi mi costa tutto il tempo: tra salute ballerina, violazioni della leg-

ge e l' adolescente che vive nella mia testa, va a finire che faccio sempre festa. Un gior-no Ciba mi disse: Tu Tina vivi come fosse sempre sabato!» Ed io: «E che problema c'è?». E lui: «Che non è sempre sa-bato!». Queste parole mi colpi-rono non poco. Immaginavo un inesorabile tramonto che faceva finire il mio “sabato”, la mia felicità e a cosa restava oltre questo: ci ho trovato solo un percorso già scritto da trop-pi altri tossicodipendenti pri-ma di me, fatto di tanti buoni propositi e pochi fatti, se non fattacci, come carcere o ma-lattie. In questi due anni ho visto il mio corpo crollare, ho perso quasi tutti i denti, ne ho 13 in tutto, 4 sopra e 9 sotto e anche quelli sono instabili, ed

è per me come essere mutila-ti. Ho vissuto con dolore ogni nuovo crollo del mio corpo e pagato a caro prezzo la mia libertà e da tutto questo non rimane che una riga di anni buttati nel “cazzeggio” totale. Ma non è finita fin che non sei sotto terra! Un passo alla volta riprenderò possesso del mio destino (a proposito il li-bro l'ho iniziato) e sto facendo riemergere ciò che realmente sono dalle mie vere passioni e tenendo in conto dei miei limiti. E’ giunto il momento di alzarsi e brillare. Meglio un tentativo fallito di un uomo finito, ed anche se spesso mi sono gravemente ferita, non sono ancora sfinita. E' giunto il momento di vivere la vita! P.s.vi tengo aggiornati.

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PANKA NEWS

Progetto Top, una rete a sostegno dei giovani dai 14 ai 28 anni Bilancio dei primi cinque mesi del 2015 di attività a Pordenone e dintorni di Alice Calligaro e Stefano Venuto

A maggio, sono stati presen-tati i risultati dei primi cinque mesi dell’anno di lavoro del-la nuova edizione del pro-getto Top (Teen Opportunity Project), progetto di educativa di strada, finanziato dall’Am-bito Urbano 6.5 e gestito dall’associazione I Ragazzi della Panchina, finalizzato ad intervenire a favore dei gio-vani tra i età 14 e i 28 anni, attraverso la prossimità . Tre sono gli assi di intervento pro-gettuale: l’educativa di strada, gli adulti significativi e le isti-tuzioni ed infine le scuole se-condarie di primo e secondo grado. Nell’ambito dell’edu-cativa di strada gli educatori incontrano i ragazzi in contesti informali in città, a Pordeno-ne, per raccogliere eventuali situazioni di disagio e media-re tra queste e possibili inter-venti di carattere preventivo.

Adulti significativi e istituzioni è invece la parte del progetto in cui gli educatori promuovo-no una maggior conoscenza del mondo giovanile da par-te di tutti coloro che a diverso titolo lo avvicinano, partendo dai baristi, passando per gli allenatori sportivi per arriva-re ai Servizi pubblici e privati preposti a dare delle risposte socio-sanitarie alle situazioni di disagio. Inoltre gli educatori sono disponibili a momenti di confronto e mediazione con i genitori dei ragazzi. Infine le scuole secondarie di primo e secondo grado: qui gli edu-catori, costruendo una rete di rapporti con insegnanti e di-rigenti e facendosi conoscere dagli studenti, si prefiggono di intercettare situazioni che meritano di essere prese in carico per organizzare diver-se tipologie di intervento che

riguardino l’intero istituto, le singole classi, i singoli studenti. Tutti e tre gli assi vengono re-alizzati contemporaneamente dagli educatori: l’obiettivo è divenire così uno dei punti di riferimento sia della quotidia-nità adolescenziale, sia dei servizi pubblici e privati, con-tribuendo e concorrendo, da un osservatorio privilegiato, all’attuazione di interventi e ri-sposte più mirati nelle situazio-ni di disagio. Si mira ad imple-mentare la rete, con inclusioni dal basso, con e verso obietti-vi ed azioni condivise. Grazie anche alla forte collaborazio-ne con gli istituti scolastici di Pordenone, gli educatori sono potuti entrare in contatto con 2823 ragazzi di età compresa tra i 12 e i 22 anni con una media d’età di 16. Per far ca-pire la portata d’intervento del progetto vi evidenziamo i dati principali: utilizzati tre cellula-ri smartphone attivi 24 ore su 24, 7 giorni su 7; presenti sui social network quali Ask, In-stagram e Facebook; 365 i ra-gazzi che hanno contattato gli operatori rispetto a temi quali: amore, sessualità, amicizia/re-lazioni, scuola, sostanze, lega-lità, pensieri di suicidio. Sono invece 18 i ragazzi che sono stati inviati o accompagnati dagli educatori ai Servizi di ri-ferimento del territorio. Questo ultimo dato va a sottolineare la sempre più intensa colla-borazione tra progetto Top e i Servizi socio sanitari locali. Nello specifico, nella rete, ve-diamo coinvolti attivamente Consultorio, Dipartimento per

le Dipendenze, Neuropsichia-tria Infantile, Dipartimento di salute mentale. Stretta è la collaborazione anche con i Servizi sociali (committenti del progetto), l’Informagiovani, le Associazioni sportive, i Cag, la Prefettura e varie associazio-ni del territorio. Importante è anche sottolineare che il 75% dei contatti arriva dall’intero territorio dell’Ambito Urbano, evidenziando l’importanza di un lavoro che parte da Porde-none ma che arriva in tutti i Comuni limitrofi. La presenta-zione, avvenuta il 25 maggio all’interno di “Palazzo Badini” a Pordenone, ha visto la pre-senza di oltre 50 persone che collaborano con Top e che rappresentano quasi l’intero panorama dei Servizi pubbli-ci e privati, delle scuole, delle società sportive e dell’associa-zionismo, che a diverso titolo hanno a che fare con ragaz-zi. I giovani sono cittadini di questo territorio, hanno valori e prospettive, lottano e cado-no, si rialzano e si aggrap-pano, cercano risposte e le chiedono. Lo fanno da ado-lescenti del 2015. Quello che deve cambiare è lo sguardo e l’azione di chi deve saper comprendere, per poi saper proporre, accompagnare e quindi rispondere alle esigen-ze dei ragazzi. Il progetto Top si pone in mezzo, nella funzio-ne di traduttore, traghettatore, facilitatore, perché quando le persone si incontrano con consapevolezza, si trovano sempre strade da percorrere, assieme.

Cosa ci chiedono

Le scuole

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L'APPROFONDIMENTO

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TUTTO QUELLO CHE ABBIAMO DENTROdi Cristina Colautti

A settembre 2013 ha avuto inizio la nuova avventura, all’interno della Casa Circondariale di Pordenone, targata “I Ragazzi della Panchina”. Da questa data, infatti, ha preso il via il progetto “Co-dice a s-barre”, che vuole essere uno spazio di condivisione, di-battito ed elaborazione di testi, quindi una redazione, parallela a quella presente in associazione, di “Libertà di Parola”. Una re-dazione, quindi, che possa dar voce anche a coloro che vivono, da reclusi, nella nostra stessa città. Questa proposta, accettata di buon grado da diversi detenuti, è diventata un appuntamento settimanale e da quasi due anni “Libertà Di Parola” raccoglie i loro pensieri in una rubrica chiamata proprio “Codice a s-barre”. Da questo percorso, lo scorso anno, ha visto la luce “Non Giudicare!! Pensieri di uomini non liberi” un libro-antologia nel quale sono stati raccolti gli elaborati realizzati dai partecipanti alla redazione del “Castello” (il carcere della città di Pordeno-ne n.d.r.). Quest’anno il gruppo ha voluto mettersi nuovamente alla prova e, quindi, ha pensato di implementare la normale attività di redazione attraverso alcuni particolari appuntamen-ti. I ragazzi, dopo un primo incontro-lezione con un giornalista professionista, Daniele Boltin, che ha dato loro alcune dritte su come strutturare correttamente un’intervista ed il conseguente articolo, si sono potuti sperimentare in questo ruolo, intervistan-do e confrontandosi con Elton, Marco e Margherita. Queste tre persone, esortate dalle domande del gruppo, hanno ripercorso insieme ai ragazzi i momenti più critici della loro esistenza e, attraverso i loro racconti, hanno esplicitato le difficoltà che han-no caratterizzato la loro storia di vita, ma anche il coraggio, la

forza e la determinazione che hanno permesso loro di andare avanti e raggiungere obiettivi importanti. In questo modo, i par-tecipanti al laboratorio hanno potuto riflettere su problematiche altre da quelle che vivono quotidianamente, ma anche ripen-sare a loro stessi ed alla loro storia personale. Gli incontri hanno centrato l’obiettivo che ci si era posti: accorciare le distanze con l’altro da sé e trovare in questo nuovo stimolo, nuova linfa per il proprio percorso, nella comprensione che il carcere non è la fine, ma è un momento dell’esistenza. Un momento dal quale è fondamentale riuscire a ripartire, possibilmente più forti e con-sapevoli dei propri limiti, come delle proprie capacità. Dopo un confronto all'interno della redazione, i giornalisti del “Castello” hanno raccolto negli articoli, presenti in questo approfondimen-to, i pensieri e le emozioni frutto di questa nuova esperienza. Gli incontri hanno portato alla realizzazione di interviste che sono state videoregistrate da un videomaker professionista il quale, grazie ad una precedente esperienza professionale, già cono-sceva l’ambiente carcere e sapeva muoversi con il dovuto tatto, al suo interno. L’elaborazione filmata delle interviste si è concre-tizzata nel cortometraggio “Tutto quello che abbiamo dentro”, che verrà presentato al pubblico il 26 giugno, alle 17 nella sala “Teresina Degan” della biblioteca civica di Pordenone. E' un vi-deo attraverso il quale mostrare come il “fuori” può incontrare il “dentro” e viceversa, una contaminazione attraverso la quale le distanze possono diventare motivo d’incontro e dove l’incontro si trasforma in in un'occasione per uscire e far vedere il dentro che c’è in ognuno di loro ed in ognuno di noi.

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La magia dell’informazione all'interno di un carcere «Io giornalista ex detenuto intervistato da chi detenuto lo è ancora» di Elton Kalica

Recentemente mi sono tro-vato a vivere un’esperienza singolare. Sono stato invitato nel carcere di Pordenone ad incontrare un gruppo di per-sone detenute che, insieme ad un’associazione di volon-tari (I Ragazzi della Panchina ndr), producono un giorna-le che poi viene distribuito come inserto di un giornale locale (Libertà di Parola ndr). Ad accogliermi di fronte al carcere ho trovato Cristina, la volontaria che segue più da vicino il gruppo dei “ragazzi”. Eravamo nel centro della città e il carcere era nascosto bene tra i palazzi, se non fosse per le mura e le finestre con le inferriate. Di fronte al portone

Qualcosa da condividere che ci accomuna tutti«La libertà e la sua assenza: non è necessario il carcere per conoscerle» di Marco Zanin

Vivo all’estero da un paio d’anni ormai e rientrando a casa in un giorno di prima-vera colsi l’invito di una vec-chia amica. L’invito non era dei soliti però. Niente aperiti-vo in piazza XX Settembre o discussioni sui massimi sistemi questa volta. Quel venerdì si andava un po’ più in là del piazzale, verso il carcere. Era la prima volta che entravo tra le mura di un penitenziario italiano. La prima volta che avevo l’occasione di vede-re come ci si vive, come ci si parla, come ci si respira. Chi ci respira dentro. Tornando da Ginevra, dove vivo, mi chiedevo come sarebbe sta-

principale abbiamo trovato ad accoglierci il comandan-te degli agenti penitenziari. Una ragazza dal viso fami-liare. Ritornato con la mente indietro di qualche anno, l’ho ricordata in servizio mentre mi trovavo detenuto nel carcere di Padova. Sono sempre con-dizionato nei rapporti con le persone conosciute durante la detenzione, ma dal suo sorri-so capisco che incontrarmi in altra veste non la infastidisce: una manifestazione d’intelli-genza questa, che suscita tutta la mia simpatia. Attraversia-mo il portone e lasciamo bor-se e telefonini a degli agenti altrettanto cordiali. Una volta dentro, ci troviamo in mezzo a

un cortile di pochi metri qua-dri. Intorno ci sono tutti gli uffici che fanno funzionare il carce-re: la matricola, l’infermeria, la sorveglianza, la cucina, la lavanderia e la sala colloqui. Abituato agli spazi enormi delle carceri nuove, quel cor-tile per un attimo mi sembra persino accogliente. Giusto il tempo di entrare nella sala colloqui però, e la galera mi piomba addosso con tutta la sua crudeltà: cinque tavoli di ferro fissati sul pavimento e una piccola finestra con le solite sbarre mi riportano ai miei colloqui mentre mia ma-dre guardava l’orologio, sem-pre sorpresa di quanto veloce fosse passata l’ora. Mi dico-

no che quando non ci sono i colloqui, la stanza diventa un’aula dove si può riunire la redazione. Per fortuna i redat-tori arrivano subito dandomi un motivo per sfuggire alla melanconia. Dopo una bre-ve presentazione mi dicono che vogliono intervistarmi per il loro giornale e che hanno preparato una serie di do-mande, hanno una scaletta e si consultano per divider-sele. Mi chiedono della mia storia, prima, durante e dopo il carcere, così come dei miei studi accademici e della mia attività giornalistica all’interno di Ristretti Orizzonti. Il loro entu-siasmo mi trascina facilmente e l’intervista assume toni cor-

to. Il viaggio lungo che divi-de i due luoghi che chiamo casa si era fatto sempre più affollato di pensieri. Pensieri di presente, di futuro, ma so-prattutto di passato. Pensieri di amici che avevano fatto errori. Errori che avrei potuto fare da adolescente. Errori che ho fatto da adulto. Errori che non violano il codice pe-nale o civile, ma pur sempre errori. Non c’è un giudice a decretare la tua colpevolezza per quegli errori, ma ci sei tu. Il viaggio dura circa sei ore. E per tutto il tempo mi chiesi chi mi sarei trovato davanti e cosa potevo dire a questi ragazzi. Che cosa avevo da

condividere. Solo una volta arrivato e dopo essermi fatto quattro chiacchiere con l’ami-co di sempre, una carezza al cane e un saluto a mamma e papa compresi che questo a loro non era più concesso. E capii. Non che prima il con-cetto di libertà non mi fosse chiaro, ma in quel concetto quasi scontato mancava un qualcosa. E mi chiesi se quella sensazione in qualche modo la potessi relazionare ad un vissuto. Di certo non andavo a parlare con loro pensando di essere moralmente supe-riore solo perché io in carce-re non c’ero mai stato. Giusto perché tu lo sappia vecchio

mio, il fatto di non esserti mai fatto beccare a violare le leg-gi “hobbesianamente” accet-tate dalla tua comunità non fa di te un buono! No. Se pro-prio avevo qualcosa da dire era condividere quella sensa-zione di prigionia che anch’io avevo provato. I miei quat-tordici anni. Il mio incidente prima di quella che doveva essere la prima estate lonta-no da casa. I mesi di ospeda-le. La riabilitazione. La lonta-nanza dai miei cari per aver corso un po’ più in fretta del dovuto. La voglia di uscire. Di vedere cosa sta facendo il mondo fuori da quel cortile. La famiglia che praticamente

NOI CI RACCONTIAMO...

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NOI CI RACCONTIAMO...diali, che coinvolgono tutto il gruppo. Finita la scaletta delle domande cerco di esaurire le loro curiosità sul carcere di Pa-dova, del quale hanno sentito molto parlare. Racconto an-che delle battaglie di Ristretti fino a quando l’agente ci ri-corda che è l’ora di salutarci. Di nuovo le chiavi e il cancel-lo scandiscono il nostro tem-po, riportando loro nelle celle, e noi fuori dal carcere. Ritor-no a Padova pensando che avrei voluto conoscere di più, vedere di più e capire meglio come si vive in un carcere da ottanta detenuti. Così come avrei voluto sapere di più di quelle persone che invece erano interessate a scrivere di me, dei miei disastri e della mia sofferenza. Anche se in una casa circondariale i pro-blemi non finiscono mai, quei ragazzi non si sono lasciati an-dare in lamentele ma hanno fatto parlare me, hanno mes-so da parte i loro problemi e si sono concentrati sulla loro intervista, sul loro giornale, come ogni bravo giornalista. Ed è forse anche questa la magia dell’informazione dal carcere.

non vedi. La famiglia che an-che se ti è vicina fisicamente, ti risulta lontana anni luce. Il volere solo un’altra piccola possibilità. E la voglia di con-quistarmela. E allora sì che ho trovato il comune denomina-tore. Sapevo di cosa parlare. Ci abbiamo messo trenta se-condi a capirci. Gli sguardi e i loro commenti. Lo sguardo di chi sa di avere sbagliato. Lo sguardo di chi vorrebbe non averlo fatto. Lo sguardo di chi si vergogna. Ma anche quello di chi lo rifarebbe, for-se. Il sorriso beffardo ed au-toironico di chi ha qualcosa da dire e che vuole vedere fino a che punto sei pronto ad essere sincero. Lo sguar-do di chi vuole essere sincero e quello di chi non lo potrà mai essere totalmente. Ho im-parato molto quel giorno. Ho imparato da loro quello che ancora non sapevo di me stesso. E nel farlo ho capito loro. Le loro sofferenze e le mie. La loro voglia e la mia. Le loro battaglie e le mie. Il loro bisogno di una seconda possibilità. Ed il nostro dovere di darcela.

Hiv e fine pena mai: un parallelismo ardito ma reale Tra gli intervistati anche Margerita Errico, presidente di Nps Italia Onlus di Margherita Errico

Il 24 aprile scorso sono stata invitata ad essere intervista-ta da un gruppo di detenuti del carcere di Pordenone che stanno partecipando ad un progetto di formazione gior-nalistica nell’ambito delle atti-vità dell’associazione I Ragaz-zi della Panchina. Sono stata invitata in quanto “esempio” di persona che non si è arresa agli imprevisti della vita. Io chi sono? Mi chiamo Margherita Errico e sono attualmente la presidente nazionale di NPS Italia Onlus (Network Persone Sieropositive), ma soprattutto da 18 anni sono un’attivista nell’ambito della lotta all’Hiv e allo stigma verso le persone con hiv. Oggi ho 37 anni e la diagnosi di Hiv l’ho ricevuta a 16 anni per cui ormai è passa-ta quella soglia che molti miei compagni attivisti condivido-no, ovvero sono molti più anni che convivo con l’Hiv che quelli che ho vissuto senza. Ma da allora mi sono rimboc-cata le maniche ed eccomi qui, oggi, anche con la possi-bilità di fare questa bellissima esperienza di parlare loro. La mia associazione conta circa 2000 aderenti dalla sua fon-dazione nel 2004 ad oggi, e ha tra i suoi soci fondatori persone che sono venute da precedenti esperienze di atti-vismo in altre associazioni. Ci occupiamo di diritto alla sa-lute e qualità della vita delle persone con Hiv che ancora oggi subiscono discriminazio-ni socio-sanitarie. Le terapie gli antiretrovirali oggi consentono un’aspettativa di vita pari a quella delle persone non hiv e un buon livello di salute, ma tanti anni di silenzio su questa patologia hanno contribuito a far credere o che questo pro-blema non esista più o che sia stato risolto. Quando mi hanno invitata a farmi intervi-stare da questi detenuti “scelti” l’idea mi è subito piaciuta, an-

che perché mi sono già trova-ta ad entrare nelle carceri per dei progetti di peer education (letteralmente educazione tra pari ndr) che Nps conduce da anni. Il parellelismo tra una diagnosi che ti accompagna per tutta la vita come l’hiv, o come altri problemi di salute che oggi esistono, è davvero immediato: ad oggi l’Hiv è un po’ simile ad un fine pena mai, ma con la differenza che oggi con l’HIv si convive molto più serenamente di tanti anni fa in cui era molto più simile ad una pena di morte. Lo so che può sembrare azzardato questo paragone tra i detenu-ti e chi si ritrova suo malgrado con una diagnosi di Hiv, ma il parallelismo è solo relativa-mente alla convivenza forzata che entrambi si trovano a do-ver affrontare. La domande rivoltemi dai detenuti che ho trovato più significative hanno indagato soprattutto la par-te emozionale di questa mia convivenza: i miei sentimen-ti verso le persone a me più care, i loro sentimenti verso di me, quanto i miei sogni di prima della diagnosi si siano comunque realizzati o meno. Domande che si potrebbero facilmente traslare all’espe-rienza emotiva di un dete-nuto. Domande per lo più ri-volte al passato un po’ meno al futuro e domande anche tecniche rispetto alla gestio-

ne della patologia stessa, seppure ho notato un buon livello di conoscenza dell’Hiv grazie alla preparazione che avevano ricevuto prima col progetto in corso. C’è stato un senso di comunanza per un attimo rispetto ai sentimenti di entrambe le parti, sia per la forza dimostrata sia per con-sapevolezza dei propri ruoli e questo è un bene, fermo re-stando che uno degli obietti-vi che mi sono posta è stato quello di far passare un mes-saggio corretto rispetto a non discriminare i loro compagni di cella se dovessero venire a sapere che tra loro c’è una persona con Hiv. Questo per-ché, ora che hanno la cono-scenza sufficiente in merito, possono allontanare i mostri e i pregiudizi ed essere per-sino di supporto, a chi vive una doppia discriminazione: essere detenuto ed essere una persona con hiv. Il pen-siero finale lo lascio ad uno di loro che ha citato il mito della Fenice, mito di una bellezza straordinaria. A lui che, pa-ragonandomi a questo mito (direi davvero in modo ardi-to e di certo lusinghiero), ha dimostrato di aver ben capito che le persone come me , che vivono da tanti anni con l’Hiv, spesso muoiono e risorgono tante volte nella loro vita. Non meno di quanto possa capita-re ad ogni essere umano.

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... NOI VI INTERVISTIAMO ...di Leonardo

Elton mi ha dato l’impressione di essere una persona che ha molto sofferto e per la quale questo stato d’animo è diven-tato bagaglio del suo quoti-diano. Interessante e intenso è stato il nostro incontro con lui ed avremmo anche volu-to continuare a condividere insieme dell’altro tempo. Ho visto personalmente un uomo che ha chiuso con la vita pas-sata senza per questo dimen-ticare i vari aspetti negativi e gli errori commessi durante i suoi primi anni di detenzio-ne. Investito di tanta umiltà e semplicità ha fatto una scelta coraggiosa quando, al conse-guimento della laurea duran-te il periodo di carcerazione,

di Valerio e Franco

Elton, durante uno degli in-contri che abbiamo realizza-to durante il corso “Codice a s-barre”, ci ha raccontato la sua storia e ci ha spiegato come anche la sua lunga detenzione gli ha permesso di cambiare completamente vita. La sua esistenza è stata difficile e travagliata e a 21 anni ha conosciuto il carce-re duro, quello di alta sicu-rezza, inoltre, all’inizio della sua detenzione è passato da un carcere all’altro ma, nonostante questo, non si è dato mai per sconfitto. La sua trasformazione è inizia-ta leggendo dapprima dei libri, auto-isolandosi anche mentalmente dalla sua con-dizione carceraria, quindi ri-prendendo gli studi universi-tari. Elton è poi entrato a far parte della redazione di “Ri-stretti Orizzonti”, giornale del carcere di Padova, dove ha cominciato a scrivere come giornalista ed è cresciuta così la sua passione per la lettera-tura e quindi per la scrittura. Ha avuto grande determina-

Progetto Top, una rete a sostegno dei Bilancio dei primi cinque mesi del 2015 di

Carattere e volontà «Anche nel carcere si può diventare uomini migliori»

ha deciso di divulgare agli altri detenuti come, anche attraverso lo studio, sarebbe stato possibile un riscatto re-ale e costruttivo per ognuno. Elton ha dimostrato tantissima forza d’animo e di volontà ed altrettanta caparbietà, qualità che fanno parte del Dna della sua origine albanese: insistere ed investire su scelte sicure e costruttive, come lo studio, alla fine porta ad essere sempre ripagati. E’ anche vero che la detenzione lascia delle cica-trici indelebili e spesso questi segni traspaiono, ma Elton è andato avanti. Non tutti han-no fatto scelte sbagliate e non tutti hanno avuto la forza e il coraggio di non cedere alle

tentazioni, Elton sicuramente rimane un esempio concre-to di chi da una mano tesa è riuscito a costruire il proprio riscatto. Tutt’oggi, da uomo li-bero, presta la sua esperienza presso la redazione di Ristretti Orizzonti presente nella Casa Circondariale di Padova, luo-go, quest’ultimo, dove, a suo dire, ancora oggi, tutte le volte che percorre i corridoi, il cuore gli si stringe e l’angoscia com-pare. Il bilancio della sua vita forse non arriverà mai ad una parità. Ma quei pochi vantag-gi raggiungi anche da un de-tenuto, tra le tante problema-tiche che non vengono mai affrontate né dagli addetti ai lavori, né da chi sta fuori da

queste realtà, l’hanno ricom-pensato. Elton ha lasciato in me la sensazione che nella vita nulla mai si perde e ogni situazione positiva o negativa che sia, serve a ognuno per migliorare se stesso e i rap-porti con il prossimo. L’incontro con lui mi ha lasciato anche la tristezza che traspariva dal suo volto, dalle sue parole, da come i suoi occhi cercassero di filmare il suo racconto e i tanti ricordi. Nelle sue parole ho visto un po’ della mia vita e delle mie scelte, anche erra-te. Le vicissitudini della vita e i propri errori possono servire a migliorarsi e a trasmettere ad altri la propria esperienza e la chiave per viverla meglio.

zione, forza e coraggio nel riprendere gli studi, laurearsi ed impegnarsi nelle attività di “Ristretti Orizzonti” e ci ha fatto capire, così, che ognuno di noi con una buona dose di volontà può riuscire ad ottenere importanti risultati, come quelli che lui è riusci-to a raggiungere. Ora, finita la sua condanna, aiuta altri carcerati anche collaboran-do con il giornale, ma ogni volta oltrepassando quei cancelli, che grazie alla sua volontà lo hanno fatto un uomo migliore, prova ango-scia. Le parole di Elton, dette con parecchie pause di rifles-sione, ci portano a pensare che, anche in un ambiente carcerario, dove è molto dif-ficile dimenticare quello che si è e perché si è li, una per-sona può cambiare se ha la volontà di farlo e, quindi, può diventare un uomo migliore, un uomo che poi si dedica agli altri. L’importante è af-frontare la situazione e com-battere per raggiungere la nostra personale riabili

Il mio lavoro è fare video e lo faccio di mestiere da quasi sette anni. In questo periodo di tempo mi è capitato molte volte di accogliere, attraverso l’obbiettivo della mia video-camera, il racconto di altre persone, intrappolando per un istante la loro voce, il loro sguardo e i loro gesti. Sono sempre momenti molto inten-si, soprattutto quando, come è accaduto in carcere in que-sti ultimi mesi, le “vittime” del mio sguardo elettronico erano spronate a parlare di quello che, nel gergo dei narratori di professione, si chiama pun-to di non ritorno; ovvero quel momento della vita in cui devi fare i conti con qualcosa che non potrà più essere can-cellato. Da quel momento dovrai conviverci per sempre e ti si aprirà davanti un bivio: soccombere, subire l’acca-duto, oppure ricostruire tutta la tua vita proprio a partire

da quel momento, vivendo il domani come un’opportunità e non come una condanna. Elton, Marco e Margherita sono entrati in carcere per raccontarci quel momento e per testimoniare, con la loro stessa, potentissima presenza, che il loro domani avevano deciso di affrontarlo a testa alta. Sono le loro storie, certo, quelle raccolte nel video che abbiamo deciso di intitolare Tutto quello che abbiamo “dentro” ma, come in un com-plesso gioco di specchi, sono anche, di riflesso, le storie di Rachid, di Peter, di Leonardo e di tutti gli altri detenuti che, per l’occasione, si sono im-provvisati giornalisti. Sono le loro storie, perché trovare le domande più giuste da fare a qualcuno significa impe-gnarsi a comprenderlo e, per capire davvero l’altro, è sem-pre necessario scavare bene dentro noi stessi e avere il

CAMBIAMO PROSPETTIVA Quando l'essenziale è l'ascolto dell'altro

di Davide Pettarini

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... NOI VI INTERVISTIAMO ...

Mai arrendersiAutoironia e determinazione: la lezione di Marco

di Massimo

All’interno dell’istituto peni-tenziario di Pordenone, at-traverso il corso “Codice a s-barre”, ho avuto modo d’in-contrare un ragazzo diversa-mente abile di nome Marco e devo dire che rispetto a ciò che pensavo delle persone in sedia a rotelle, sono rimasto molto soddisfatto soprattutto per la voglia di combattere e di essere indipendente da tutti che questo ragazzo ha dimostrato. Non avrei mai immaginato che fosse così pieno di vita e che ti trasmet-tesse tanta vitalità e tanta voglia di condividere la sua positività. Era la prima volta che lo incontravo e dal pri-mo scambio di parole ci sia-mo capiti; fosse stato per me avrei parlato con lui per ore perchè nonostante non ci co-noscessimo mi ha messo a mio agio non facendo sentire il suo problema e usando la sua autoironia mi ha trasmes-so tranquillità. Si è creata così una conversazione serena. Inoltre, dal primo impatto si è

Marco e la disabilità dimenticata «Ha abbandonato gli alibi ed è tornato a vivere»

Difficilmente mi è capitato nei miei 40 anni di vita, quello che mi è successo oggi, men-tre intervistavamo Marco, un 31 enne che non si può de-finire persona comune: una laurea in tasca, un master in Svizzera, oggi un lavoro di re-sponsabilità all’estero, dall’età di 14 anni in carrozzina. In carrozzina? Credo che non se ne sia accorto nessuno, lui per primo, visto che alla do-manda «Come ti sogni?» ri-sponde «In piedi». Pur stando seduto sulla sua due ruote ed incalzato dalle nostre doman-de sull’argomento, ci ha fatto dimenticare completamente il suo handicap. L’ho trovato

di Peter

un personaggio incredibile, per volontà e simpatia. A 14 anni era un ragazzo vivace e sportivo, poi un incidente gli ha causato una paralisi agli arti inferiori. Il suo primo ricor-do, dopo il tragico evento, è il momento in cui si trovava nel fosso; già in quel frangen-te aveva capito che qualco-sa non andava, in ospedale però nessuno aveva il corag-gio di dirgli la verità. Dopo un mese una psicologa gli comu-nicò che da quel momento in poi avrebbe dovuto aver più cura delle sue gambe, frase che lo lasciò un po’ sconcerta-to. Curioso è il modo con cui ha superato il suo “problema”

a livello mentale. Quando ha deciso che non si dava più alibi ha smesso di pensarci, il suo cervello ha fatto un reset e da quel giorno la carrozzi-na è diventata normale. Tutti di fronte a qualcosa che non va siamo bravissimi a trovar-ci degli alibi, a giustificarci. Penso che di fronte a delle problematiche riuscire a fare questo step, cioè “smettere di darci degli alibi”, sia fon-damentale. Questo processo mentale, infatti, gli ha permes-so di non essere condizionato dal passato, ma di ripartire con slancio e buttarsi su nuo-vi obiettivi. Se riflettiamo su questo punto troveremo mol-

te analogie nella nostra vita. Oggi suona la chitarra, gioca a basket, scia, gioca a tennis, odia il pietismo e, più che per il suo handicap, s’incazza per la poca attenzione che vie-ne data ad altre patologie invalidanti come la dislessia, la depressione e le malattie mentali. Il detto “non tutto il male viene per nuocere” tro-va la sua massima espressio-ne in questo caso. Lo stesso Marco dice che l’handicap lo ha migliorato non come cal-ciatore, ma dal lato umano indubbiamente. La storia di Marco può essere paragona-ta con la situazione che molti carcerati vivono. La situazio-ne al limite della tortura che i detenuti vivono può far male, ma può anche aiutare a ri-portare ordine nella propria vita a livello umano, cambia-re in meglio, capire che nulla può essere dato per scontato. Molte persone possono trova-re nelle proprie disavventure lo stimolo per cambiare la propria vita in meglio. Anche nella notte più buia si può tro-vare la luce di un sorris

stabilito quel feeling e quella complicità che caratterizzano un’amicizia. A parte le sue condizioni, mi ha fatto subito capire che lui era un ragaz-zo normale, che non aveva niente fuori posto. Per me, no-nostante lo vedessi li seduto nella sua “prigione”, non era per davvero limitato, perché è condannato sì a stare su quella sedia, ma quello non gli impedisce di fare tutte le cose normali, come guidare o cucinare, ed anche fare sport, perché è completa-mente autonomo. Ho parlato con lui per poco, ma in quel prezioso tempo mi ha lasciato una speranza e una prospetti-va di vita diversa: non arren-dermi mai neanche quando mi sembra che il mondo mi sia crollato addosso. In que-sto momento della mia vita, in cui ho bisogno di nuove speranze e stimoli, Marco mi è stato di grande aiuto psico-logico. Ora voglio solo ringra-ziarlo e augurargli il meglio. Grazie Marco.

coraggio di porre domande che non ci lascino indifferenti. Sono le loro storie, soprattutto, perché, al contrario di quello che accade normalmente, in questo caso il giornalista non è andato dall’intervistato ma è avvenuto esattamente il contrario. Questo ribaltamen-to di prospettiva non è ba-nale, perché, per esperienza, so quanta influenza abbia lo spazio nel quale qualcuno è chiamato a raccontarsi. Lo spazio carcerario è contrad-distinto da un’essenziale nu-dità, chiude fuori dalle sue pareti spesse tutto il superfluo, isolando l’essenziale: i cor-pi e le voci dei protagonisti, mescolati solamente, di tanto in tanto, da tutti quei rintoc-chi metallici che sono l’inces-sante e ineludibile colonna sonora di tutti i penitenziari. Questo vuoto di luci, di colo-ri e di possibilità esplorative dello sguardo, per chi fa il

mio lavoro, appare come un ostacolo insormontabile. Ci si chiede, non avendo altre possibilità, se la semplice pre-senza in scena di un corpo e di una voce saranno suf-ficienti a destare interesse in chi guarda. In quel momento però sei in carcere anche tu, ogni possibile apporto ester-no ti è precluso, per entrare hai presentato una lista di materiali, quello che è dentro è dentro e quello che è fuori è fuori. Non hai molte scelte, devi solo sperare che quel poco che hai disposizione riesca a sorprenderti, allora posizioni due piccole luci, i microfoni e accendi la vide-ocamera… passa un minuto e comprendi che avevi già tutto, che quando qualcuno si racconta non serve altro e che l’unica cosa che conta, per chi è dentro quella stan-za bianca, è essere “liberi”, in quel momento, di ascoltarlo.

CAMBIAMO PROSPETTIVA

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Perché la vita va comunque vissuta«Margherita ha avuto il coraggio per affrontare ciò che avrebbe annientato altri» di Alessandro

Donna generosa e determinata «Ha affrontato umiliazioni e giudizi ingiusti pur di testimoniare che con l’Hiv si può convivere» di Franco

Certamente aver avuto l’op-portunità di conoscere tre ra-gazzi che nei giorni passati si sono prestati a raccontare le loro rispettive forti esperienze di vita e di come, con spirito di abnegazione e di sacrifi-cio, da queste situazioni ne siano potuti uscire vittoriosi, mi hanno dato un nuovo sti-molo di positività per affron-tare l’avvenire. L’esposizione di Margherita mi ha colpito perché è stata una più com-pleta, decisa, amplificata e voluta ribellione al male.

L’incontro con Margherita è stato sicuramente molto in-teressante: mi ha aperto la mente sulle difficoltà che incontrano le persone che hanno contratto il virus Hiv. Margherita è una donna molto sicura di sé e generosa che ha messo a disposizione di molti la sua esperienza di ammalata del virus Hiv e si è prestata molto volentieri a rispondere, qualche volta con un po’ d’imbarazzo, ma sem-pre con sincerità, alle doman-de che io e i miei compagni le ponevamo. Con le sue pa-role ha chiaramente toccato il lato oscuro di questa malattia,

Colpita nell’età adolescen-ziale da uno dei virus più ter-ribili, l’Hiv, la stessa Marghe-rita ha avuto il coraggio, la tenacia, e forse anche l’inco-scienza giovanile per affron-tare un “verdetto” che avreb-be annientato chiunque, la sieropositività. Criticata e ad-ditata dall’ignoranza di certe persone, la stessa, però, non ha mai smesso di credere nel miglioramento della medici-na e quindi della malattia, dimostrandosi, nei suoi com-portamenti, più filantropica

dei suoi delatori. Margherita, infatti, oggi è una donna re-alizzata e felice, che tramite il racconto delle disavventure passate cerca di aiutare gli altri, provando a infondere quella che può essere la sua parola chiave: “vivere è bel-lo”. Personalmente l’incontro con Margherita, che ha mo-strato un forte desiderio di riscossa contro le avversità che la vita può proporre, ha avuto in me un effetto signi-ficativo a livello emozionale e accrescitivo a livello mora-

di questo virus, che abbassa le difese immunitarie, portan-do a gravi problemi di salute (anche con un semplice raf-freddore) e che per moltissi-ma gente è ancora un tabù insormontabile. Questo solo per ignoranza, poiché non conoscendo questa malattia non hanno idea di come si può conviverci senza alcun rischio. Quello che fa Mar-gherita è informare la gente comune sui problemi del vi-rus hiv, cosa che le autorità sanitarie non fanno sempre. Il suo calvario è cominciato quando lei era molto giova-ne, quindi ha maturato in tal

senso una grande esperienza e questa l’ha messa a dispo-sizione di tutti, nonostante le paure, le umiliazioni e soprat-tutto l’isolamento che ha subi-to da parte di alcune persone ha avuto il coraggio di far conoscere i problemi relativi alla sua malattia e di affron-tare a viso aperto anche le reazioni negative e le cattive-rie della gente, a cominciare dalla propria madre che l’ha appellata con termini offensi-vi. Gli amici che aveva quan-do ha contratto il virus però hanno continuato ad aiutarla e sostenerla, compreso quel ragazzo del quale si era inna-

morata e da cui ha contrat-to il virus. La generosità e la determinazione sono le cose che mi hanno colpito mag-giormente di lei e dopo le sue risposte ho capito che il virus Hiv, con le dovute precauzio-ni, non è così pericoloso come molti pensano e che ci si può convivere senza paura. Una cosa che “invidio” a Marghe-rita è la determinazione nel superare gli ostacoli di questa malattia e di porsi al servizio degli altri. Vorrei poter avere la stessa determinazione e co-raggio per poter aiutare altre persone che non sono state fortunate.

Prosegue il lavoro della reda-zione del nostro giornale nata all'interno della Casa circonda-riale di Pordenone.

le. Il racconto di Margherita, che ha parlato apertamente delle sue disavventure, mi ha dato un nuovo impulso e un nuovo interesse nello scopri-re che un qualcosa ritenuto fino a pochi anni fa distrut-tivo, può essere, con la forza di volontà dimostrataci dal-la stessa protagonista, com-battuto e vinto. Inoltre le sue parole hanno trasmesso un nuovo modo di interpretare la vita, la quale ha sempre un significato per essere vis-suta.

... IN UN VIDEO

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«HOHOEMI WA KOKORO TO KARADA NO TOKKOYAKU»Così dicono in Giappone: «Un sorriso è uno speciale rimedio per ogni ferita della mente e del corpo»di Cla

INVIATI NEL MONDO

Sono stata due volte in Giap-pone negli ultimi anni, la pri-ma volta a Tokyo per una decina di giorni, la seconda volta nella regione del Kansai (Kyoto, Nara, Osaka e Hiroshi-ma). Nutro un profondo amo-re per quella terra, per quel mondo cosi profondamente radicato nella tradizione ep-pure cosi magicamente inse-rito nelle dinamiche più tec-nologiche ed avveniristiche. Vorrei iniziare raccontandovi dei veri protagonisti della mie esperienza, i giapponesi. Educati e gentili, salutando ti ringraziano sempre con un piccolo inchino, precisi all'in-verosimile sia nel lavoro che nella vita di tutti i giorni, di-sponibili al punto da arriva-re ad accompagnarti di per-sona se ti sei perso, ma cosi chiusi nel loro mondo e nel-le loro regole che osservano alla perfezione. Felici nel mo-

strare, a volte con un pizzico di orgoglio, la loro cultura e le loro tradizioni. Quando tor-no con la mente a quei giorni giapponesi, immersa in una cultura totalmente diversa dalla nostra, non posso non ri-cordare le ragazze in kimono che ho incontrato nei templi di Asakusa a Tokyo, alle gei-she che ho visto passeggiare per i vicoli di Kyoto, ai giova-ni vestiti da personaggi dei fumetti manga di Takeshita Street, ai bambini e alle cop-pie di giovani devoti in pre-ghiera ai templi, agli anziani di Hiroshima seduti nei parchi a giocare a dama all'ombra inquietante degli spettri del passato. Una cosa accomuna tutte le persone che ho incon-trato e che mi porto nel cuore: il sorriso, semplice, caloroso, aperto. Il Giappone è tutto quello che ci si può immagi-nare: si passa dalla caotica e

tecnologica Tokyo, dove tra un grattacielo ed una sala di pacinko sopravvivono an-cora le tradizioni e i piccoli silenziosi templi, all'antica e romantica Kyoto, dove le gei-she passeggiano con i loro sandali in legno per i vicoli acciottolati; dalla dolcissima Nara, dove i daini vengono a mangiare i biscotti che hai in mano, alla fredda e sospesa Hiroshima, dove il tempo pare essersi fermato. Hiroshima è un pezzo di storia che tutti do-vrebbero vedere. Voglio ini-ziare da questo luogo la mia breve descrizione delle mie principali tap-pe nipponiche. Troppo spesso infatti chi si reca in Giappone si limita a visitare Tokyo e Kyoto, considerate an-che le grandi distanze. Ma non si può capi-re il Giappone e i giapponesi se non si respira l'immobilità e il fermo grigiore della città dove la bomba ato-mica ha raso al suolo tutto, edifi-ci, alberi, perso-ne. Hiroshima è una città brutta, grigia, immer-sa nel cemento ma non potreb-be essere altri-menti. Passeg-giare in silenzio fra il “dome” (il palazzo con la cupola, simbolo della città), i monumenti alla pace, le ope-re commemorative dedicate ai bambini, la fiamma eterna che si spegnerà solo quando verranno abolite tutte le armi nucleari, il cenotafio con i nomi di tutte le vittime accer-tate lascia senza fiato. Tutto questo mentre attorno la vita scorre, i tram sferragliano nel-le rotaie, i bambini giocano, gli anziani si godono l'om-bra del parco, tutti vogliono dimenticare e rendere la cit-tà “normale”. Kyoto è la città

dei templi, delle tradizioni, delle geishe, della cerimo-nia del té, delle case basse di legno. Il posto che più mi è rimasto nel cuore è sicura-mente il meraviglioso Tempio di Fushimi Inari, con il lungo corridoio di tori rossi che si inerpicano lungo le pendici della collina in un susseguir-si di persone devote che lo risalgono in rigoroso silenzio per ricevere la benedizione al tempio. Nara è famosa per due cose: l'enorme Buddha e i daini che vagano liberi per i parchi della città. Era l'antica capitale del Sol Levante ma

oggi è una piccola graziosa cittadina dove si può passeg-giare tra il verde, ammiran-do tutte le varie pagode e i templi, accarezzando i daini (attenzione che sono animali sacri e loro lo sanno benis-simo!). Infine Tokyo, la paz-za, caotica, luminosa Tokyo, la città della tecnologia che però sa riservare al visitato-re più attento e curioso delle vere e proprie oasi di pace e tranquillità dove poter anco-ra ritrovare l'essenza più pura e più vera dell'antica cultura giapponese.

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NON SOLO SPORT

L’armonia della tecnica trasforma l’arrampicata in una danza«La forza fisica non basta quando si deve affrontare la verticalità»di Barbara Ferrario

Spesso ci si avvicina all’arram-picata senza una consapevo-lezza precisa di come affronta-re la verticalità. Si sostengono i primi passi con la certezza che la forza fisica sia un’amica fe-dele di cui ricercare la conti-nua compagnia. Poi, quando l’ennesimo passaggio si rifiuta di essere vinto e si abbando-na, con due braccia trasfor-mate in due tronchi di ghisa, si vede qualcuno affrontare lo stesso passaggio con una faci-lità intrisa di eleganza. Di fron-te a certi movimenti armoniosi sorge inevitabile una doman-

da: come può essere così faci-le? Buona parte della risposta si concentra in una parola: tec-nica. E’ un termine che potreb-be far pensare all’arrampica-ta come un’attività metodica, ripetitiva e noiosa. In realtà la tecnica di arrampicata fa la differenza quando ci si trova ad affrontare il mondo vertica-le. Come scrive Paolo Caruso, guida alpina, «La meta finale dell’apprendimento motorio nella scalata deve riguarda-re l’equilibrio del movimen-to, costituendo quest’ultimo il principale obiettivo della di-

sciplina, […..] la progressione sulla roccia deve essere inte-sa non come un esercizio di semplice trazione sugli appigli, ma come una continua ricer-ca di equilibrio che favorisca la spinta delle gambe». L’ap-prendimento della tecnica di arrampicata e la ricerca conti-nua dell’equilibrio permettono un minor investimento di forza, consentono inoltre di affronta-re le pareti non solo riducen-do lo sforzo fisico, ma permet-tendo di aumentare il grado difficoltà senza trasformarsi in dei facoceri ansimanti, e so-

prattutto diverten-dosi: si può fare di più, meglio e go-dere del tutto! La tecnica trasforma l’arrampicata in una danza dove il nostro partner è la parete: siamo noi a condurre, scegliendo ritmo e movimenti ma, al contempo, cer-cando sempre l’equilibrio con la parete stessa. Al-cune scuole CAI,

tra cui la Scuola Valmontana-ia di Pordenone, hanno adot-tato all’interno dei loro corsi, l’insegnamento di un metodo preciso di arrampicata che, unito a una particolare atten-zione per la sicurezza, fornisce gli strumenti base per affron-tare piacevolmente il mondo appesi ad un appiglio. La Scuola Valmontanaia propo-ne annualmente corsi di ar-rampicata libera e di roccia, attraverso i quali veicola una formazione precisa basata su un binomio consolidato: sicu-rezza e consapevolezza.

Arrampicare, tecnica e conoscenza di sé«Grazie ad un corso Cai ho imparato che davvero la montagna è maestra di vita severa» di Rafael

Era da molto che sentivo nell’aria le parole “arrampi-cata libera” o “arrampicata sportiva”, sia dagli amici, sia dai vari canali televisivi che trattano di sport estremi, che mi piacciono molto. Tra un

impegno e l’altro, però, non ho mai avuto l’occasione di praticarla e nemmeno di pro-varla. Quest’attività è comun-que sempre rimasta dentro il cassetto, tra le cose da fare, finché qualche mese fa è ve-

nuta fuori l’opportuni-tà di fare un corso “in-door” in una palestra di Pordenone. Non c’ho pensato due vol-te e ho detto subito di sì, anche per non smentire il mio istinto avventuriero, che mi dice sempre di but-tarmi a fare nuove esperienze. Eravamo un gruppo abba-stanza variegato di uomini e donne di età differenti, ma una cosa in particolare ci accomunava: era per tutti la prima volt. Sin-ceramente parlando, pensavo tra me e me, che fosse sì un sport bellissimo, ma non vedevo questa gran-de difficoltà; dal mio

punto di vista bastava salire e scendere da una parete. Invece mi sbagliavo di brutto, perché l’arrampicata è quel tipo di sport che se non hai la tecnica, o almeno quel mi-nimo che basta, non vai da nessuna parte. Le lezioni in palestra assieme agli istruttori del Cai, il Club Alpino Italia-no, mi sono servite proprio a questo: a darmi gli strumenti necessari per prendere il via ed avvicinarmi nel modo cor-retto a questo sport e devo dire che, nel mio caso, que-sta situazione mi ha stimola-to e mi stimola tuttora molto. È molto bello imparare delle cose nuove, che ti permetto-no di superare quegli osta-coli che fino a poco prima sembravano impossibili e poi con l’atteggiamento mentale giusto e le tecniche adegua-te le difficoltà sono superabili e, talvolta, sembrano cose da niente. Questo corso, poi, mi è servito anche per fare del-le nuove conoscenze, con le quali ho fatto alcune uscite in montagna e, con loro, ho

arrampicato sulla roccia vera. Posso dire che è tutta un’al-tra sensazione. Il fatto stesso di avere la roccia nuda tra le mani, diversamente della palestra dove gli appigli sono evidenti, il contatto diretto con la natura e trovarsi all'aria aperta per me sono stati mol-to importanti e motivo di que-ste nuove sensazioni. Il corso mi ha fatto capire l’importan-za del gruppo nei momenti di difficoltà e quando non sape-vo più come andare avanti è stato importante ascoltare le indicazioni di chi mi faceva sicura. Inoltre in falesia sono riuscito ad unire due cose che mi piacciono: fare un bello sport e stare all’aria aperta. Non volevo vedere la mon-tagna soltanto come un’im-palcatura per arrampicare, ma come un posto dove po-tevo confrontarmi con le mie paure e con i miei limiti, ma anche con le soddisfazioni di arrivare in cima. È proprio vero quando dicono che la montagna è una maestra se-vera e silenziosa perché per tante sicurezze che si posso-no avere, tra imbrago, corde, moschettoni, quando sei lì ag-grappato: dipende quasi tutto da te; la concentrazione, la resistenza e la determinazione sono fondamentali per anda-re avanti e questo è il miglior insegnamento che questa grande maestra ci può dare.

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Il modello Maddaloni, da Scampia a PordenoneIl Judo Villanova porta in città il padre dell’olimpionico Pinodi Chiara Buono

Scampia è le Vele, un inferno di camorra, spaccio e degra-do sociale. E’ così che la rap-presentano i media con un certo compiacimento, come una Gomorra perduta per sempre. Ma Scampia, per chi ci vive, è un quartierone di centomila abitanti che ogni giorno vanno a lavorare, mentre i bimbi vanno a scuo-la. In questo deserto di ce-mento, lo Star Judo Club Na-poli, fondato nel lontano 1980 da Gianni Maddaloni che dal 2004 gestisce la palestra di Judo presente in quartiere, offre corsi a prezzi estrema-mente ridotti se non gratui-

tamente ai ragazzi disagiati, spesso con padri in galera e madri senza lavoro. Lo fa nel-la convinzione che un bam-bino che impara i valori dello sport oggi sarà un killer o uno spacciatore in meno domani. Attualmente la sua palestra conta 1200 iscritti, fra extraco-munitari e non vedenti, scu-gnizzi a rischio e detenuti in affido, ragazzi autistici e cam-pioni olimpici. Un modello, il “Modello Maddaloni”, che funziona e che ha incontrato nel corso degli anni la curiosi-tà e l’interesse di molti, tra cui i nostri Edoardo Muzzin e Fran-ca Bolognin della Polisportiva

Judo Villanova di Pordenone. Ed è così che è nato il pon-te Scampia-Pordenone che ha portato alla recente visita di Maddalonii in città e agli incontri con gli studenti delle elementari, medie e superiori del Comune di Pordenone. La Polisportiva Villanova e i suoi tecnici si ritrovano su mol-te delle tematiche e dei prin-cipi di cui Gianni è portatore. Anche Muzzin, infatti, quan-do ha cominciato a lavorare negli anni ‘70 si è trovato ad operare in un quartiere popo-lare all'epoca assai disagiato e che si è modificato anche attraverso lo sport, proprio come ha ricordato Don Ro-mano Zovatto durante il suo intervento a Cinemazero, il 21 aprile, davanti a 270 ragazzi accorsi per conoscere Mad-daloni. In quell’occasione i ricordi del Don (insieme ad un ragazzo alto alto e smilzo appassionato di judo tanto da riuscire con molti sforzi ad aprire una piccola palestra in quartiere raccogliendo e ri-vendendo ferri vecchi) ad un certo punto hanno comincia-to a confondersi con i racconti di Gianni, degli inizi a Scam-pia, delle difficoltà e delle soddisfazioni, davanti ad una platea di ragazzi pordenonesi di 12 -18 anni, rapiti dalle sue parole, incantati alla visione della vittoria di Pino, figlio di Gianni, alle Olimpiadi di Sid-ney nel 2000, incuriositi dal-la sua storia e catapultati in un quartiere tanto lontano, ma forse anche tanto vicino. Perché, come ha ricordato

spesso Gianni durante la sua giornata a Pordenone, i ra-gazzi di Scampia sono uguali ai ragazzi di Milano, di Porde-none e di qualsiasi altra città, i ragazzi son ragazzi. Grazie Gianni e grazie Edoardo e Franca per l’oro più prezioso, nelle periferie dell’anima.

”Dimmi cosa non va.”

“Ho paura, ma è...”.

“Di cosa?”

“Che resto solo…”

"Certe volte ci vuole un fegato così. Non il cuore, quello ce l’hanno tutti, è fa-cile commuoversi davanti alle paure di uno scugnizzo di dieci anni col padre al 41 bis. E’ il fegato che ser-ve, per sopportare l’incaz-zatura. Perché a quel punto che fai, gli restituisci il pa-dre? Gli azzeri il passato e lo cambi in bene? Il fegato che ti logori nella fatica di trovare soluzioni e conforto, anche la sera, anche se tie-ni la famiglia e i figli tuoi, che devi trovare sempre il tempo per tutti. E che fai? A un certo punto dici basta? Come fai, se sai che in fon-do a quegli occhi spersi ci sta un tesoro, sepolto dalle colpe dei padri, che merita di splendere al sole. Questo è l’oro di Scampia.” (G. Maddaloni, “L’oro di Scam-pia”, Baldini & Castoldi.).

«I bambini che allena e vede crescere sono la sua seconda famiglia»Partecipando all’incontro con Maddaloni, a Pordenone

di Rachid

Martedì 21 aprile, nella biblio-teca comunale di Pordeno-ne, in occasione dell’evento “Il modello Maddaloni: sport modello di vita ed avamposto di legalità”, ho avuto l’onore di ascoltare e poi incontrare il maestro Gianni Maddaloni. Quest’uomo è il presidente della Star Judo Club Napoli, una società sportiva fondata nel 1980, che opera nel quar-

tiere di Scampia, uno dei luo-ghi più problematici di que-sta città. Il maestro, attento ai problemi della sua realtà, si sta dedicando molto alla sua società sportiva con lo scopo di salvare attraverso lo sport i bambini che vivono in strada e che possono essere vittime della mafia. L’insegnamento, anche gratuito, del Judo offre disciplina e impegno a questi

bambini e a diverse famiglie, salvandoli così dalla strada; in questo modo i ragazzi di-ventano parte di una nuova famiglia e si sentono a casa. Anche Marco Maddaloni, fi-glio di Gianni, è impegnato in questa società, segue la car-riera del padre e insieme a lui allena molti ragazzi, tre dei quali saranno in corsa per la qualificazione olimpica a Rio De Janeiro nel 2016. Mad-daloni, durante l’incontro, ha raccontato alcune sue espe-rienze passate vissute con dei bambini diversamente abili, con ragazzi non vedenti, con immigrati in difficoltà, ma an-che con diversi detenuti. Il maestro, infatti, ha dato delle possibilità a dei detenuti, la possibilità di respirare l’aria della libertà, attraverso l’arti-colo 21, cioè facendoli lavo-rare durante la giornata nella sua palestra. Infine ha inse-gnato Judo ai detenuti mino-ri che si trovano nel carcere

di Airola. Maddaloni è stato davvero chiaro nei racconti sulle sue esperienze perso-nali, da quando era giovane ad oggi, ed ha esplicitato le difficoltà che ha avuto nel percorso della sua carriera sportiva e nel sociale, inoltre, attraverso le sue parole ha conquistato l’attenzione e ha lasciato così un segno positivo in tutti i presenti. Maddaloni, infine, ha affermato che moti-vo e forza per andare avanti nei suoi obiettivi sono i bam-bini che aiuta attraverso il suo lavoro, che vede crescere davanti a lui; questi bambini sono diventati la sua secon-da famiglia. Quando mi sono avvicinato per salutarlo mi ha colpito la sua esperienza con le persone e la sua capacità di intuire particolari situazioni. A me ha detto «Mi raccoman-do, comportati bene». Sono rimasto molto colpito in positi-vo dalle sue parole e dal suo modo di fare.

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LA STORIA

Ricordi di guerra di una vicina di casaIl Ventennio fascista e il crollo di Mussolini: la storia racconta-ta da chi l'ha vissuta

di Alain Sacilotto e Andrea Lenardon

Avete presente la simpati-ca signora anziana vicina di casa? Quella che vi acco-glie con un sorriso semplice e materno, che ha per voi uno sguardo unico, imprezio-sito dai suoi occhi che sono riflesso di un passato presente e di una conoscenza inesti-mabile? Per noi l'incontro con lei è stato come un fulmine a ciel sereno, ci siamo resi conto di avere incontrato una fon-te storica vivente, capace di raccontarci con semplicità il passato da un punto di vista totalmente proprio ed espe-rienziale che difficilmente si può cogliere da un libro di storia. La invitiamo per que-sto ad una chiacchierata con noi ed ecco che lei, volentieri, ci prende per mano e ci ac-compagna in una passeggia-ta nella storia. Ci riporta agli anni antecedenti la seconda guerra mondiale e ci sem-bra quasi di vederla mentre, come consuetudine, va a sfi-lare, cantare e fare il saluto romano al sabato fascista in piazza a Montereale, vestita da piccola italiana: con la gonna a pieghe nera e la ca-micia bianca con lo stemma del fascio littorio. I suoi com-pagni maschietti accanto a lei sono addobbati da balilla con calzettoni alti, pantalonci-ni neri sotto le ginocchia, ca-micia nera, fazzoletto celeste e berretto nero con il ciuffo. Abi-ti simbolo del ventennio fasci-sta, abiti che non suscitavano domande perché parte della normalità. Ogni bambino a scuola doveva pagare le cin-que lire per avere la tessera del fascio, non era obbliga-toria ma chi non la pagava veniva additato come contro il partito; veniva insegnato dalle maestre che era un do-vere verso la patria averla e se non c'erano i soldi per pa-garla si doveva saldare con alimenti o pian piano a rate. Una tessera per dimostrare la fedeltà alla patria, quando

il padre di lei alla patria già aveva dedicato quattro anni di guerra e uno di prigionia. Le sue parole ci danno la di-mensione dell'enorme sforzo italiano verso il pensiero uni-co e l'indottrinamento fascista: «Mi ricordo – ci confida infatti ad un certo punto - di ave-re chiesto a mia mamma se Mussolini era Dio». La scuola e il pensiero della società anda-vano di pari passo e le figure autoritarie erano viste come degli esempi massimi di virtù patriottica. «Quando veniva il direttore scolastico in classe – prosegue nel raccontarci - ci faceva impressione. Con la divisa e i decori che portava dava proprio l'idea dell'au-torità». Cerchiamo di imma-ginarci il momento storico, il preludio alla guerra. Visto

con i suoi occhi e raccontato dalla sua bocca sembra tutto più reale, sembra di rivivere insieme a lei, allora dodicen-ne, la paura e l'agitazione ge-nerale di quando la radio dà la notizia: «L'Italia è entrata in guerra». Inizialmente la vita in paese non cambia molto, la situazione evolve negati-vamente dopo l'8 settembre 1943, quando l'Italia firma l'armistizio con gli alleati. «I te-deschi – dice la nostra amica - ci hanno visti come traditori e quando si sono insediati da noi sono iniziati gli scontri con i partigiani. In quel periodo le persone avevano paura, noi solo una volta abbiamo avu-to i tedeschi in casa ma per fortuna non è successo nien-te, hanno solo scherzato con la nostra carabina giocattolo». Pur essendo allora solo una bambina, i suoi ricordi ci tra-smettono la sensazione del clima di paura, incertezza e sospetto causato dall'occupa-zione nazista. I soldati erano costantemente alla ricerca dei partigiani o di chi avesse contatti con essi, in paese tutti sapevano chi erano ma nes-suno faceva la spia e non si sapeva dov'erano di preciso. Se però scoprivano un parti-giano o avevano un sospetto, tutta la sua famiglia era in pe-ricolo. «Mi ricordo che hanno bruciato una casa e ucciso uno che avevano trovato in cantina, che era fratello di un

partigiano», le sovviene. Dalla sua memoria affiora l'imma-gine di un uomo pallido le-gato ad un camion; difficile per una bambina scordare quella scena. Ci racconta di aver scoperto che quell'uomo fu ucciso e la sua casa bru-ciata perché partigiano. Un altro episodio significativo ri-guarda quello che poi sareb-be stato suo marito, il quale, allora diciassettenne, si offrì al posto della madre per es-sere preso come ostaggio dai tedeschi che cercavano il fra-tello partigiano. «Hanno preso mio marito ed altri – dice - li hanno messi in fila e li hanno costretti a guardare bruciare la casa di un partigiano». Del-la guerra non si sapeva gran-ché, solo quello che veniva trasmesso via radio. Si diceva che se la Germania fosse riu-scita a scoprire la bomba ato-mica la guerra sarebbe stata vinta da loro. Non si sapeva niente degli orrori dei lager. Succedeva che qualche par-tigiano venisse portato via, ma solo a fine guerra si è sa-puto del rastrellamento degli ebrei e dei campi di concen-tramento. Parlando della fine della guerra l’anziana rievo-ca il suono delle campane a festa quando i carri armati inglesi entrarono in paese an-nunciandone la fine. «La gen-te – ci fa sapere - era felice, gli inglesi accampati a Malnisio distribuivano cioccolata bian-ca ma forse le famiglie delle vittime soffrivano ancora di più per il ricordo dei loro cari». La fine della guerra però non ha cancellato per magia la sofferenza, i problemi e gli stenti di un Italia che era chia-mata a ripartire: non c'era la-voro, gli uomini andavano in montagna a fare legna per venderla. Si facevano molti sacrifici. Sorridendo la signora ci dice che adesso non ci si sogna nemmeno quei tem-pi. Lei non ha mai patito la fame perché la sua famiglia era abbastanza benestante, ma ci parla di una solidarietà paesana molto diffusa nella quale chi aveva di più aiuta-va volentieri i meno fortuna-ti. Ritorniamo sulla figura di Mussolini per chiederle come era cambiata a quel punto l'opinione pubblica su di lui. «Prima era visto come un Dio – risponde - poi come un ne-mico e una disgrazia, anche se aveva fatto tante cose per lo stato come bonifiche, stra-de e lavori pubblici. Lui ave-va buoni principi però penso che l'evolvere dei fatti sia sta-to troppo grande e superiore alle sue vedute».

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