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Libertá di Parola 1/2016 —— CODICE A S-BARRE INVIATI NEL MONDO NON SOLO SPORT a pag.ina 16- Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire) pagina 13 a pagina 14 a pagina 13 a pagina 4 PANKAROCK NON SOLO TEATRO A Pordenone sperimentazione e ricerca con "Interazioni" e "Speakeasy" di Milena Bidinost Questa volta parliamo di tea- tro ed in particolare di teatro contemporaneo, di ricerca, teatro sperimentale per tutti siano questi “tutti” attori talen- tuosi, più o meno noti, siano questi “tutti” il pubblico. Non di un teatro sperimentale per folle di spettatori, e nemmeno per spettatori necessariamen- te eruditi. Semplicemente di un teatro capace di parlare a chiunque si trovi di fronte, di mantenere viva la comu- nicazione con lo spettatore, di toccare tematiche d'attua- lità, di portare in scena gio- vani artisti, e di fare tutto ciò nell’ambito del rinnovamen- to dei linguaggi espressivi. A Pordenone città, questo te- atro c'è ed è rappresentato da due progetti distinti, con padrini distinti, ma che non disdegnano di incrociarsi tra loro. Parliamo, ancora, non di un teatro sociale nel senso che agisce direttamente sulla società, ad esempio coinvol- gendo in scena determinate fasce sociali, ma piuttosto di un teatro che di società parla, che in drammaturgia traduce l'esperienze del vivere con- temporaneo dell'uomo e che dalle problematiche attua- li prende spunto per creare soggetti, situazioni e riflessioni. Un teatro che agisce sulle co- scienze degli spettatori. Quin- di parliamo di un fare teatro, che diventa intimo con il suo pubblico, coinvolgente, e che in questo senso ripensa ai luoghi, all'ambientazione del- le storie, alla caratterizzazione dei personaggi. Ricerca e te- atro, un binomio che a Porde- none città è il filo conduttore della rassegna “Interazioni” promossa dal Teatro Verdi e del progetto “Speakeasy” re- alizzato all'interno degli spazi di Pnbox. APPROFONDIMENTO Adozioni «Adottiamo un bambino?». E' questa una domanda che può entrare nei progetti di famiglia di una coppia e che apre un mondo complesso di gioie e di dolori, impossi- bile da riassumere. Punto di partenza di questo viaggio è il comprendere che l’adozione risponde al bisogno di una coppia di avere un figlio ma, prima di tutto, al bisogno fon- damentale di un bambino di avere una famiglia. Se è un diritto del bambino quello di avere dei genitori, non è un diritto degli adulti adottare. a pagina 9 Questa è per noi la famiglia: riflessioni dal castello di Pordenone Viaggio di nozze a Cuba, l'isola dai mille volti Immigrazione ed integrazione, i primi quattro anni de Il dialogo creativo PANKAKULTURA Quartamarcia, il sito web dedicato alle auto del passato Omaggio a David Bowie, il Duca bianco

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Ldp 1/2016 Libertá di Parola. Trimestrale d'Informazione dei Ragazzi della Panchina di Pordenone

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Libertá di ParolaN°1/2016 ——

CODICE A S-BARRE

INVIATI NEL MONDO

NON SOLO SPORT

a pag.ina 16-

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

pagina 13

a pagina 14

a pagina 13

a pagina 4

PANKAROCK

NON SOLO TEATROA Pordenone sperimentazione e ricerca con"Interazioni" e "Speakeasy"di Milena Bidinost

Questa volta parliamo di tea-tro ed in particolare di teatro contemporaneo, di ricerca, teatro sperimentale per tutti siano questi “tutti” attori talen-tuosi, più o meno noti, siano questi “tutti” il pubblico. Non di un teatro sperimentale per folle di spettatori, e nemmeno per spettatori necessariamen-te eruditi. Semplicemente di un teatro capace di parlare a chiunque si trovi di fronte, di mantenere viva la comu-nicazione con lo spettatore, di toccare tematiche d'attua-lità, di portare in scena gio-vani artisti, e di fare tutto ciò

nell’ambito del rinnovamen-to dei linguaggi espressivi. A Pordenone città, questo te-atro c'è ed è rappresentato da due progetti distinti, con padrini distinti, ma che non disdegnano di incrociarsi tra loro. Parliamo, ancora, non di un teatro sociale nel senso che agisce direttamente sulla società, ad esempio coinvol-gendo in scena determinate fasce sociali, ma piuttosto di un teatro che di società parla, che in drammaturgia traduce l'esperienze del vivere con-temporaneo dell'uomo e che dalle problematiche attua-

li prende spunto per creare soggetti, situazioni e riflessioni. Un teatro che agisce sulle co-scienze degli spettatori. Quin-di parliamo di un fare teatro, che diventa intimo con il suo pubblico, coinvolgente, e che in questo senso ripensa ai luoghi, all'ambientazione del-le storie, alla caratterizzazione dei personaggi. Ricerca e te-atro, un binomio che a Porde-none città è il filo conduttore della rassegna “Interazioni” promossa dal Teatro Verdi e del progetto “Speakeasy” re-alizzato all'interno degli spazi di Pnbox.

APPROFONDIMENTO

Adozioni«Adottiamo un bambino?». E' questa una domanda che può entrare nei progetti di famiglia di una coppia e che apre un mondo complesso di gioie e di dolori, impossi-bile da riassumere. Punto di partenza di questo viaggio è il comprendere che l’adozione risponde al bisogno di una coppia di avere un figlio ma, prima di tutto, al bisogno fon-damentale di un bambino di avere una famiglia. Se è un diritto del bambino quello di avere dei genitori, non è un diritto degli adulti adottare.

a pagina 9

Questa è per noi la famiglia:riflessioni dal castello di Pordenone

Viaggio di nozze a Cuba, l'isola dai mille volti

Immigrazione ed integrazione, i primi quattro anni de Il dialogo creativo

PANKAKULTURA

Quartamarcia, il sito web dedicato alle auto del passato

Omaggio a David Bowie, il Duca bianco

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IL TEMA

Interazioni: una finestra sulla realtáLa rassegna del Teatro Verdi che porta in scena giovani artisti e drammaturgia contemporanea di Irene Vendrame

Si chiama “Interazioni” ed è una delle rassegne che il Te-atro Verdi di Pordenone pro-pone ormai sistematicamente all’interno della stagione cul-turale che va da settembre a maggio. E’ nata nel 2005 con l’intenzione di presentare una serie di spettacoli in grado di mettere in scena giovani ar-tisti e drammaturgia contem-poranea, senza preclusione di generi. Emanuela Furlan è il direttore organizzativo ed artistico del settore prosa del Verdi e della stessa rassegna Interazioni, per la quale sono passati anche artisti di cali-bro, che fanno parte ormai di quello che è considerato il teatro di ricerca.

Direttore, Interazioni però non vuole essere solo questo.Infatti, è soprattutto una fine-stra aperta su un percorso meno tradizionale rispetto a ciò che viene presentato in sala grande. L’obiettivo è quello che la nostra città possa avere una varietà di proposte teatrali in grado di dare una panoramica su ciò che succede in Italia e a vol-te anche all’estero in ambito teatrale, stimolare e raccoglie-re gli interessi di un pubblico

sempre più eterogeneo e che non risponde ad un identikit preciso.

Qual è la filosofia che guida questo tipo di percorsi, che tipo di teatro proponete?La filosofia è quella di presen-tare delle nuove proposte che abbiano dei contenuti, dei significati e che siano qualita-tivamente validi e stimolanti. Abbiamo portato sul palco artisti molto giovani che in se-guito hanno trovato posto nel panorama teatrale italiano, come Pippo Delbono, oppure gruppi che si occupano di te-atro sociale, come la Compa-gnia della Fortezza, la quale lavora con i carcerati ed è ri-uscita a vincere anche diversi premi Ubu.

C’è un tema, un filo condut-tore che lega tutti gli spetta-coli?Non c’è un tema solo, ma piuttosto uno sguardo sulla so-cietà. Parlando di Interazioni 2015-2016 è impossibile non imbattersi in temi che ci toc-cano da vicino il pubblico, a partire dallo spettacolo messo in scena a novembre durante la giornata contro la violenza sulle donne, passando per

il tema dell’anoressia in “Per una biografia della fame”, fino alla figura degli hikiko-mori nello spettacolo “Rooms 2.0”.

La vostra può essere defini-ta come una scelta di teatro che guarda al sociale?Diciamo più che altro di spet-tacoli che guardano all’uo-mo. Gli spettacoli che guar-dano al sociale li abbiamo fatti e li facciamo, perché sono appuntamenti molto im-portanti e significativi, ma non ci limitiamo a questo. Il teatro sociale è un tipo di teatro che agisce direttamente sulla so-cietà, con il coinvolgimento di detenuti per esempio; noi non presentiamo solo questo, ma anche spettacoli che parla-no della società e che quindi agiscono sulle coscienze.

Che ruolo riveste oggi il tea-tro, qual è la sua importan-za?Il teatro è importante perché ci parla da vicino. Quando si guarda uno spettacolo in un palco spesso scatta qualco-sa dentro di noi, qualcosa di particolare, di speciale: que-sto succede perché ci trovia-mo in una comunità e, che ce

ne rendiamo conto o meno, c’è uno scambio tra uomini. Ed è diretto, non c’è il mezzo della pellicola, dello schermo o di internet. È per questo che il teatro ha ancora un seguito, perché questo scambio, que-sta relazione, è insostituibile per l’uomo

Cosa può dare il teatro alle nuove generazioni?Ogni anno partecipano alla stagione del teatro migliaia di ragazzi, anche con il pro-getto “Adotta uno spettacolo”, la soddisfazione di quest’an-no è che tantissimi ragazzi hanno scelto spettacoli non convenzionali, cioè non sono stati spinti da esigenze scola-stiche a guardare Shakespe-are o Čecov, ma si sono diretti verso nuovi stimoli, come “Per una biografia della fame” o “Rooms 2.0” , questo vuol dire che è presente un interesse per queste tematiche. I ra-gazzi devono venire a teatro perché vale la pena, anche se costa fatica, poiché sicu-ramente ognuno di loro tro-verà lo spettacolo della vita: le emozioni che lascerà loro li accompagnerà per tutta la vita e sicuramente la arricchi-ranno.

disegnava in tempo reale la scenografia fatta di segni e di forme che traducevano i sentimenti espressi dall’attrice. Sentimenti profondi, tormenta-ti, poiché il delicato tema della rappresentazione, l’anoressia, si lega con quello dell’adole-scenza e della crescita indivi-duale non priva di ostacoli. La storia è quella di una bambi-na la cui esistenza è caratteriz-zata da una fame insaziabile, fame di cibo, in particolare di zucchero e di cioccolato. La protagonista, raggirando i divieti della madre, consu-ma queste sostanze come se avesse sviluppato una forma di dipendenza, cercando di ri-

Per una biografia della fameLo spettacolo che parla di anoressia e di noi stessiNell’ambito della rassegna “Interazioni” 2015-16, a genna-io è andato in scena lo spetta-colo “Per una biografia della fame”, liberamente ispirato al romanzo autobiografico “Bio-grafia della fame” della scrit-trice belga Amèlie Nothomb. A portarlo sul palco é stata la “Compagnia le Brugole”, for-matasi nel 2009 con due attri-ci e due autrici. Unica interpre-te dello spettacolo Annagaia Marchioro, che ha creato an-che l’originale sceneggiatura. La parete retrostante il palco spoglio ha preso vita grazie alla tecnica del live-dripping: Anna Remini, munita di com-puter collegato a proiettore, vi

empire il vuoto che sente nello stomaco. Tuttavia sembra non essere mai completamente sazia: questo bisogno, mai del tutto appagato, le crea soffe-renza, tanto che decide di re-primerlo. Reprime la sua fame, smette di mangiare. L’attrice ci guida in un viaggio lungo la sua vita, all’interno di se stessa svelandoci, con ironica confi-denza, le sue zone d’ombra, i suoi conflitti, i demoni in-

teriori e le gioie più pure. Lo spettatore analizza se stesso. Si accorge che la fame che la protagonista tenta di met-tere a tacere non è altro che la tensione dell’uomo verso la vita, ciò che ci muove. Il lieto fine quasi commovente coro-na uno spettacolo capace di affrontare tematiche profonde mantenendo un clima ironico e leggero, in grado di toccare l’intimo delle coscienze. (i.v.)

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Temi eterni in una lingua che non esisteComico e commovente lo spettacolo “Groppi d’amore nella scuraglia” interpretato da Silvio Barberiodi Janna Voskressenskaia

Un altro grande regalo per gli affezionati del Teatro Off. Il 28 gennaio una serata dal gusto fiabesco ha colto di sor-presa gli spettatori del palco di Speakeasy con la rappre-sentazione "Groppi d’amore nella scuraglia", interpreta-ta maestosamente da Silvio Barbiero. Il linguaggio grotte-sco di Tiziano Scarpa, autore dell’omonima saga, da cui la sceneggiatura è stata tratta, ha diffuso in sala nebbie di dubbio, curiosità, incompren-sioni e, infine, incantesimi di una lingua che non esiste, ep-pure trasmette perfettamente quello che vorrebbe dire. Eh sì, perché l’opera del grande autore veneziano è scritta in un dialetto fittizio, dalle asso-nanze meridionali, una genu-ina imitazione di espressioni popolari. Un linguaggio inge-nuo e poetico che ha portato in scena temi eterni e profon-di, con i mezzi di uno spetta-colo comico, tenero e commo-vente. L’amore, la sincerità nei rapporti umani, il mondo e la sua salvezza sono stati rac-contati in una bellissima storia dalla trama semplice e coin-

volgente. Il protagonista dal goffo nome, Scartocchio, aiuta il sindaco del suo piccolo pa-esotto a trasformarlo in una

discarica e questo soltanto per indispettire il suo rivale in amore per Sirocchia. Non sve-liamo la storia che auguriamo

a tutti di scoprire in prima per-sona, diciamo soltanto che ci lascia un importante messag-gio, che la sala ha colto ed espresso negli applausi finali. E il messaggio è questo: negli errori traluce la speranza. Una speranza forse un po’ amara che soltanto noi stessi possia-mo darci, in un mondo che talvolta sembra lasciato in ba-lia della creatura. Questa spe-ranza si nasconde dietro ai semplici rapporti umani. Il Pal-co accogliente di Speakeasy ha mostrato ancora una volta che il teatro non è un luogo elitario ed erudito per pochi adepti, ma un’arte ospitale e aperta per tutti i viandanti in cerca di una sosta per guar-dare e ascoltare.

Speakeasy, contenitore di contenuti fortiIl progetto, nato nel 2013, vuole essere un tampolino di lancio per attori e spettacoli teatrali di livello, altrimenti sconosciutiFilo di Cristina Colautti e Chiara Zorzi

Il progetto Speakeasy nasce nel 2013 dall’incontro tra Ire-ne Botteon e Lisa Moras, at-trice, regista ed ora direttrice artistica di Speakeasy. L’in-tento era quello di portare una rassegna teatrale su un palco particolare, dedicato soprattutto alla musica, quel-lo di Pnbox. In questi anni il

progetto si è sviluppato, e ol-tre alla rassegna sono state realizzate altre attività attor-no alle quali si è creato un gruppo coeso, che nel 2015 ha fondato l’associazione cul-turale Speakeasy. «Oggi - ci racconta la direttrice artistica - Speakeasy ha quattro ani-me: la prima è la rassegna;

la seconda è quella didattica che prevede i corsi di teatro; la terza anima è rappresen-tata dalla produzione teatrale professionale, con Porn up co-medy, e l’ultima, la più recen-te, è quella della creazione di una compagnia amatoriale stabile, che lavora sui lin-guaggi teatrali legati al con-temporaneo». Il filo condutto-re che lega le diverse attività di Speakeasy è il territorio, ciò in particolare per quanto riguarda la rassegna. «Il Tri-veneto – spiega Moras - è ric-co di bravi professionisti che sono sconosciuti ai più e che nella maggior parte dei casi si auto producono: il nostro intento è quello di metterli in luce». Al contempo, l’obiettivo del progetto è anche quello di selezionare degli spettacoli che presentano delle temati-che d’attualità o che hanno una messa in scena e una drammaturgia, come “Groppi d’amore nella scuraglia” in-terpretato da Silvio Barbiero, assolutamente contempora-nei. Si tratta di rappresenta-zioni, inoltre, strutturate per arrivare al pubblico anche attraverso la vicinanza fisica degli attori e una scarsa sce-nografia. «Ci piacerebbe - so-stiene Moras - che Speakeasy fosse un trampolino di lancio per questi attori e per i loro spettacoli, tale da farli arriva-re a rassegne come Interazio-

ni, proposta dal teatro Verdi, che offrono la stessa tipologia di rappresentazioni, ma sono all’interno del circuito teatrale ufficiale». Speakeasy, quindi, vuol essere un trampolino di lancio per attori emergenti, ma anche un ponte attraver-so il quale sempre più perso-ne si possono avvicinare al teatro, un’arte che ha il potere di arrivare al cuore del pub-blico, di traghettarlo verso un luogo diverso da quello in cui vive, di far viaggiare la sua immaginazione e di regalar-gli racconti ed esperienze uni-che. «Il teatro – dice infatti Mo-ras - ha la grande capacità di mettere insieme le persone, di creare contatto, di genera-re dialogo e, con la frequen-tazione ai corsi, ti permette di metterti in gioco e di affronta-re te stesso in relazione. Una situazione, quest’ultima, dav-vero importante soprattutto in un momento in cui la gran parte dei rapporti è mediata e le persone sono disabitua-te e si sentono inadatte alle relazioni». Speakeasy è quin-di «un contenitore di conte-nuti forti», che abbracciando il territorio e dialogando con le realtà in esso presenti, vuo-le farsi portavoce di pensieri e assumere un ruolo sociale attivo creando dialogo e sen-sibilizzando le persone ai temi che caratterizzano il nostro contemporaneo.

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Prosegue il lavoro della redazione del nostro giornale nata all'interno della Casa circondariale di Pordenone. “Codi-ce a s-barre” è uno spazio interamente gestito dai suoi detenuti.

Riflessioni personali sulla famiglia e sulle unioni civili«La nostra identità di figli deriva dall’identità dei nostri genitori e famiglia per me è quella sancita dalla Costituzione»di Ubaldo

La famiglia costruisce la no-stra identità perché da essa apprendiamo tutto quello che siamo. Così è stato per me e per i miei fratelli. I va-lori portanti della nostra vita ci sono stati insegnati dai no-stri genitori che, nonostante le difficoltà e fragilità comuni un po’ a tutte le famiglie, sono stati per noi un valido esem-pio. Ci hanno insegnato ad andare avanti, perseveran-do nel giusto, dandoci ascol-to, aiutandoci a superare le prime difficoltà, caricandosi anche dei nostri insuccessi o delusioni, rincuorandoci ed aiutandoci a rialzarci e ad andare avanti. Non era e

Nonna Norma, come una mamma«Con mio padre sempre via per lavoro e mia madre con la quale non andavamo d’accordo, è stata mia nonna la mia vera mamma, la persona che c’era sempre e che mi ha cresciuto»di Piero

Quando ero piccolo la mia famiglia d’origine non era molto presente. Mio padre lavorava sulle navi come cameriere e stava lontano da casa tanto tempo, anche per questo da lui ho ricevuto poco affetto ed amore. Inol-tre, anche da mia madre mi sentivo distante perché non avevamo un buon rapporto. La vera figura di riferimento era ed è stata a lungo mia nonna Norma, che è stata per me come una madre. Fin da piccolo, infatti, ero molto attaccato a lei e passavamo tanto tempo insieme. Durante la settimana mi seguiva nei compiti, la aiutavo nelle fac-cende di casa, mi insegna-va a cucinare e, vedendo che mi piaceva quest’attività, mi faceva preparare diversi piatti e mi incoraggiava in questa passione, facendo-mi mille complimenti. Nel tempo libero giocavamo, mi portava a fare lunghe pas-seggiate per Venezia, mi ac-compagnava alle giostre e,

non è facile fare i genitori: è un compito arduo. Sebbene i nostri genitori ci abbiano insegnato quello che a loro volta era stato insegnato, l’u-nico risultato è rappresentato da noi oggi: noi figli siamo l’espressione vivente di tutti i loro sacrifici, rinunce, successi o insuccessi. E’ fondamentale avere una famiglia che con il suo amore e sapere ti guida e ti aiuta a vivere, ad avere un’identità precisa (per non essere alla mercé di nessu-no) e ad avere le tue proprie idee; una famiglia in cui tro-vare un rifugio sicuro, nei mo-menti di difficoltà, dove ci si possa consolare e consultare

ogni domenica, andavamo a mangiare il gelato. Passa-vamo ore a parlare e lei mi raccontava della guerra, del-le difficoltà, ma anche della solidarietà e della collabora-zione che c’erano tra le per-sone, e che ora, forse, non ci

trovando conforto, ma soprat-tutto, dove trovare l’amore di una mano tesa, anche quan-do non si è più bambini. Però è pur vero che questa fortuna non è per tutti, perché mol-ti trovano faticoso donare il proprio tempo, i propri spazi ai figli, i quali diventano una seconda o terza priorità. Tal-volta si privilegiano, infatti, la comodità e l’egoismo, dando come motivazione a questa scelta i costi, i rischi e la rot-tura di scatole. I quali a mio avviso sono però poca cosa rispetto alla gioia, all’allegria, alla tenerezza, alla dolcezza, sia pur faticosa, di una geni-torialità paziente e presente.

Oggi poi, l’argomento fami-glia è ritornato prepotente-mente d’attualità parlando di unioni civili. A tal proposito, secondo me, l’ambiente di sviluppo più armonioso per un bimbo è quello rappre-sentato dalla relazione con i genitori e questo sin dai tem-pi di Freud, maestro della psi-canalisi, che affermava l’in-dispensabile presenza della cosiddetta “triade genitoriale” formata da bambino, mam-ma e papà. Quindi credo che si dovrebbero tutelare i diritti dei minori, cercando per loro quanto sia meglio. Le unioni sino ad oggi contemplate, se-condo il mio parere, non pos-sono essere considerate alla stregua di una famiglia così come prevista dalla Costitu-zione, perché l’unione civile non è un matrimonio, che è contratto da un uomo e da una donna ed è legato alla procreazione, alla genitoria-lità. Quest’ultima a sua vol-ta è un diritto naturale: se si applicassero norme di tutela dei diritti della famiglia a si-tuazioni diverse dal modello costituzionale, esse verrebbe-ro a menomare il senso del matrimonio eterosessuale.

sono più. Mi piaceva stare con lei perché, anche se era severa e pignola, mi potevo confidare su tutto ciò che mi succedeva e lei mi consiglia-va e mi correggeva quando sbagliavo. Mia nonna è sta-ta presente nei momenti più

importanti della mia giovi-nezza, come quando mi han-no consegnato il diploma di terza media e, quando da piccolo vivevo in colonia, era sempre lei che mi veniva a trovare. Forse proprio in quei momenti è scattata quella fi-ducia, quell’affetto e quel le-game che si provano tra una madre e un figlio. Anche da adulto è stata un punto di riferimento per me e quan-do lavoravo a Venezia in un ristorante mi fermavo da lei durante la pausa pome-ridiana, per chiacchierare e mangiare insieme qualcosa. Mi è stata vicino fino alla sua morte, quando io di anni ne avevo 30 anni. Da quando non c’è più mi manca dav-vero tanto perché forse solo per lei ero davvero come un libro aperto e la consi-deravo come una mamma, perché mi insegnava con la sua esperienza, mi istruiva, mi amava ed io mi sentivo sollevato. Ci volevamo bene come madre e figlio.

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Diventare papà mentre si è in carcere«Mia figlia ha tre mesi: la prima volta che la vidi provai una tempesta di emozioni»di Andrea

Sono un “ragazzo” di 36 anni, detenuto da otto mesi. Quan-do mi sono costituito, mia moglie era al quarto mese di gravidanza. La sua era una gravidanza difficile per vari problemi di salute e, inoltre, esattamente un anno prima avevamo perso un figlio nello stesso periodo e per gli stessi problemi di salute. Entrato in carcere, data la situazione di mia moglie, è iniziato un vero e proprio calvario fatto di pensieri, ansie, paure, preoc-cupazioni, ma con impegno e forza di volontà è arrivato il 20 novembre 2015, giorno in cui mia moglie ha messo al mondo una bellissima bam-bina. Sul momento non ho realizzato e mi sono posto tut-ta una serie di domande che non potevano avere risposte. Poi, quando sono venuto a sapere che, nonostante il par-to cesareo, sia la bimba che la mamma stavano bene, mi sono tranquillizzato e ho capi-to davvero di essere diventa-to papà. Non mi vergogno a dirlo, dopo la notizia, mi sono isolato in bagno e mi sono

Famiglia, un concetto allargato«Non ci sono differenze tra etero ed omosessuali nel crescere un figlio, se lo si fa in modo corretto»di Gianluca

Cos'è la famiglia? Per defini-zione è un nucleo costituito da genitori e figli, ma può an-che avere letture diverse. Ad esempio una famiglia può es-sere monogenitoriale, cioè un solo genitore con uno o più figli. Questa nasce da una se-parazione, un divorzio o dalla morte di uno dei genitori. Op-pure possono esserci le cosid-dette “famiglie arcobaleno”, formate da due genitori dello stesso sesso, magari con i figli di uno dei due o di entrambi, anche se queste non sono uf-

ficialmente riconosciute. Una famiglia non è composta per forza da due genitori sposati, infatti, esistono le famiglie di fatto composte da conviventi con eventuali figli. Le famiglie possono anche essere sempli-cemente legate da uno stesso vincolo o aventi un ascen-dente comune, come nel caso delle famiglie mafiose e si usa dire “uno di famiglia” ad un amico che frequenta assidua-mente la casa o la coppia. In una famiglia, per essere de-finita tale, devono convivere

lasciato andare ad un pian-to che sembrava non finire mai, e così è stato anche nei giorni successivi. Tutte le volte che pensavo alla mia fami-glia erano lacrime, di gioia ma anche di dolore, perché non ero presente al momento della nascita di mia figlia e non ero vicino a mia moglie quando aveva bisogno; l’uni-ca cosa che mi dava un po’ di tranquillità era sapere che al loro fianco c’erano i miei genitori. Passavano i giorni ed io attendevo con ansia

il momento in cui avrei visto mia moglie e mia figlia a col-loquio. Arrivò il fatidico saba-to, ero agitato ed ansioso fino a quando vidi mia moglie entrare nella sala colloqui con un batuffolo di coperte in braccio. Curioso come non mai aprii le coperte e vidi quell’angioletto che dormiva serenamente e senza nean-che accorgermi mi scese una lacrima di gioia nel vedere per la prima volta mia figlia, un angelo bellissimo. Mia moglie la tolse dalle coperte

e, mentre il mio cuore batte-va all’impazzata, me la mise in braccio; la guardavo dor-mire e pensavo: «Quanto sei bella amore di papà». Smisi di piangere e iniziai a parla-re con mia moglie, ma senza mai staccare gli occhi da quel batuffolo. Ad un certo punto, la piccola si svegliò, aprì gli occhi e mi guardò. Ci fissam-mo per qualche minuto. Non sentivo più niente attorno a me, era come se fossimo solo io e lei. Provai una sensazione di pace e tranquillità, che non avevo mai sperimentato pri-ma. Sentivo il crearsi di una sorta di legame, una tempe-sta di emozioni e di sensazio-ni, che penso solo un padre può provare. Le due ore vola-rono, ma finito il colloquio mi sentivo strano. Tutte le volte che penso a mia figlia vedo i suoi occhi davanti a me e le lacrime iniziano a scendere incontrollate. Adesso la pic-cola ha poco più di tre mesi e tutti i sabati la vedo a col-loquio, è sempre più grande e bella ed ogni volta provo emozioni meravigliose.

intimità e confidenza e anche complicità tra i membri. Ci sono anche le famiglie allar-gate, composte da uno o da entrambi i genitori reduci da precedenti matrimoni, divor-ziati o vedovi, con figli che si uniscono sotto lo stesso tetto della nuova famiglia. Più am-piamente, si parla di famiglia anche nel caso di zii e nonni e ancora più in generale di tutto il parentado, siano essi di sangue o acquisiti. Il lega-me di parentela è biologico e giuridico ed unisce persone discendenti una dall’altra o con ascendente comune. Io sono dell’idea che una fami-glia, per essere tale, deve es-sere capace di crescere i figli in modo corretto ed educarli bene. Ultimamente si parla molto di unioni tra persone dello stesso sesso e di adozio-ni che le riguardano. Credo sia giusto riconoscere i diritti ad avere una famiglia an-che a chi non è sulla stessa linea impostaci dalla religio-

ne e dal senso comune. Cre-do che, come nel caso degli eterosessuali, esistano fami-glie buone e famiglie cattive: come ci sono genitori etero incapaci di crescere i figli, così ci possono essere genitori omo incapaci. Ma allo stes-so tempo se ci sono buone famiglie etero, mi domando perché non ci possano esse-re buone famiglie omo. Sono convinto che non ci sono dif-ferenze nel crescere un figlio. E’ evidente che ci sono discri-minazioni per gli omosessuali, ma quando si darà parità di diritti anche a loro, non sem-brerà più una cosa strana. Allo stesso modo ormai sono comuni le famiglie composte da nazionalità o religione di-verse. Sinceramente preferi-sco che un bambino cresca con l’amore di due padri o di due madri, piuttosto che cre-sca in una famiglia classica dove i genitori litigano di con-tinuo o abbandonano i figli a loro stessi.

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Astrid e Asso, dodici anni dopo il loro arrivoStorie di due miei amici, che da quando sono entrati nella mia vita sono parte di essadi Patty Isola

Ne ho sempre avuti, di cani. C’è stato un periodo che tra me e il mio ragazzo ne ave-vamo 14 (5 suoi, 9 miei), nelle nostre relative case d’origine. Non ho mai fatto preferenze tra loro. L’unica che ha un trat-tamento speciale in famiglia è Astrid che portai a casa un giorno di dodici anni fa in cui invece di andare a scuo-la feci altro. Quando tornai a casa appresi che quello stes-so giorno mio padre aveva portato a casa una cucciolo di Breton, Asso, che aveva tre mesi. Da allora festeggia-mo il compleanno di Astrid il giorno in cui nacque Asso, perché si vedeva che i due cuccioli avevano ad occhio la stessa età. Asso è un cane

da caccia con il pedigree. Astrid sembra invece proprio un incrocio bassotto-pincher. È piccola e buffa, ma ha uno sguardo dolcissimo. Con il passare di anni e storie, mio padre ed Astrid sono diven-tati un “unico organismo”, lei è la sua ombra. Asso è ormai vecchio e cieco. Mi si spezza il cuore a guardarlo, è troppo vecchio per cacciare, è stan-co e anche i suoi occhi ormai sono diventati tutti bianchi. Però ha ancora una sua di-gnità. È triste vedere che, quando suonano al citofono, gli altri cani arrivano ed Asso no, perché non spreca le sue forze per correre al cancello. Ha imparato a non correre più, per non andare a sbat-

tere, ha imparato a memoria il perime-tro della casa, come arrivare al recinto-gabbione, alla porta sul retro dove ormai passa gran parte del suo tem-po e dove c’è una cuccia nel caso pio-vesse o ne avesse bisogno. Ormai lui non viene neppure chiuso nel recinto dei cani, cosa che eravamo abituati a fare, quando ad esempio arrivava-no ospiti, perché i cani sempre ti salta-no addosso anche se è per giocare, e in questo possono sporcare, infastidire o addirittura spaventare. Ma da quando è diventato cieco, Asso, non salta più, provava a correre quando lo chiama-vo, e correva da me. Ora se non c’è nessuno con lui pre-ferisce stare tranquillo, fiuta sempre dove mette i “piedi”. Mi ricordo delle scene, all’ini-zio della sua cecità, poverino, andava a sbattere oppure si spaventava per uno scalino. Adesso dopo anni sa a me-moria dove metter i “piedi”, ma no, non corre, questo non

lo fa più. E ogni volta che ac-carezzo Asso, Jolly, il figlio, mi salta addosso per farsi cocco-lare ma lo tengo lontano e con l’altra mano accarezzo il vecchio cane. lo aiuto anche quando gli do da mangiare, da solo indisturbato, perché gli altri cani sono più veloci di lui. Solo due volte ho dovuto portarlo nel recinto in braccio. Poi non l’ho più rinchiuso, tan-to è talmente tranquillo che non infastidisce nessuno e si merita di passeggiare dove riesce. Fino a quando, ci riu-scirà!

La mia vita in comunità, un’esperienza positiva«Da sei mesi sono ospite della fattoria sociale La Mondaresca dove le giornate sono scandite da attività, lavoro e relazioni umane costruttive»di Mauro P.

Da alcuni mesi vivo nella fattoria sociale "La Monda-resca" ad Arfanta, una fra-zione del comune di Tarzo in provincia di Treviso. Si tratta di un ex agriturismo acqui-stato e risistemato dalla Pic-cola Comunità di Coneglia-no per farne un centro nel quale completare il percorso di recupero di persone con dipendenze o disagi sociali. Come potete immaginare la vita in comunità porta con sé tutta una serie di regole e di comportamenti da mettere in atto a cui ogni utente deve sottostare. Qui a “La Monda-resca” l’organizzazione della giornata è standard: si par-te con la colazione alle 7.30 (posticipata di un’ora la do-

menica), dopo di che inizia-no le varie attività con i la-boratori. La cucina prevede dei turni a rotazione, mentre altri impegni come le pulizie, la cura del verde e degli ani-mali sono fissi. Per tutti, alle 10 arriva la pausa caffè. Io, come altri ospiti, sono addet-to alla manutenzione straor-dinaria e mi occupo anche del piccolo orto botanico che abbiamo creato. La maggior parte delle attività comporta benefici a noi in primis, come ad esempio lo stesso orto, che ci dà le verdure per tutto l’an-no. In particolare, l’arrivo alla fattoria delle capre (alcune delle quali hanno anche già dato alla luce primi picco-li) ha dato il via anche alla

produzione di latte, formaggi e ricotte, che consumiamo e vendiamo. La giornata prosegue fino alle 16.30, poi ognuno può dedicarsi alle at-tività che preferisce, riposare o fare altro. La maggior parte di noi, dopo l’orario di lavo-ro, può usare il telefono per allacciare e saldare legami positivi con l’esterno, anche attraverso l’uso dei social net-work. Molto importante, poi, parlando di legami, è la pos-sibilità che la comunità offre ai nostri amici e parenti di venirci a fare visita in struttura per passare qualche ora in compagnia. Questa per me è la quinta esperienza co-munitaria: in occasione delle visite mi sento rafforzato sia

dal punto di vista caratteriale che da quello clinico, perché quando ero fuori ero sicura-mente molto a rischio. Per me questa esperienza è stata e continua ad essere un’oppor-tunità di rinascita; sono qui da quasi 6 mesi, e il bilancio di questo periodo non può essere che positivo. Per me questo articolo rappresenta infine anche l’occasione per ringraziare gli operatori de “La Mordaresca” – che han-no la pazienza quotidiana di seguirmi ed aiutarmi a supe-rare i momenti negativi dan-domi gli strumenti necessari per farlo –, ma anche la mia famiglia, che mi ha appog-giato e supportato in questo mio percorso.

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Ambiente di vita pulito: iniziamo a rieducarci«Ben vengano le nuove sanzioni per chi sporca la città, ma prima di tutto famiglia e scuola devono educare»di Giuseppe Micco

Finalmente sanzioni pecunia-rie per i maleducati, portatori insani di cattive abitudini e purtroppo persone di qualsia-si fascia d’età. Siamo arrivati all’eccesso, la città è invasa da sporcizia, mozziconi di si-garette, cartacce, rifiuti di ogni genere e non dimentichiamo gli escrementi degli animali, che già da tempo non do-vrebbero trovarsi lungo i no-stri marciapiedi cittadini. Con l’entrata in vigore di queste sanzioni amministrative con-tro chi deturpa con la sua maleducazione la nostra città spero di vedere dei migliora-menti, ma credo ci vorrà mol-to tempo, perché il problema ha radici troppo profonde e c’è troppa ignoranza a riguar-do. Serve una campagna a 360 gradi. Purtroppo bisogna educare la persone e le nuo-ve generazioni al senso ci-vico e al rispetto di chi ci è vicino e di tutto quello che

ci circonda. Bisognerebbe coinvolgere le scuole, asso-ciazioni ed in primis le fami-glie. La famiglia ha un ruolo fondamentale per debellare questa piaga sociale che af-fligge tutta la nostra bella Na-zione e non solo il Pordeno-nese. Ma come tutte le cose si inizia con piccoli passi per arrivare a grandi risultati. Vi racconto un fatto accadutomi trent’anni fa come esempio di quanto dico: eravamo nella bellissima città di Salisburgo ed un mio amico gettò a terra una carta, un bimbo lo vide, la raccolse e la mise nel cesti-no dei rifiuti poco più avanti. Quel bambino ci diede una grande lezione di senso civi-co ma soprattutto di vita! E’ per questo che sono convin-to che la famiglia possa ve-ramente dare un contributo fondamentale perché le cose cambino nel verso giusto; se i genitori amassero veramente

i propri figli inse-gnerebbero loro a rispettare ciò che li circonda anche per ave-re nel loro futu-ro un ambiente pulito, sano e non pieno di immondizia. E’ questo che vo-gliamo lasciare in eredità? L’amante della montagna che lascia il mozzicone di si-garetta acceso? L’automobili-sta che lo getta dal finestrino? La scampagnata nei parchi lasciando tutte le cartacce e mozziconi a terra? Sappiamo tutti che non fumare giove-rebbe alla nostra salute ma chi per scelta vuole fumare rispetti almeno gli altri e l’am-biente che lo circonda. Per sconfiggere queste abitudini sbagliate bisogna ricomincia-re, ma da dove? Da una giu-sta educazione data dalla fa-

miglia e dalla scuola, così da far crescere le generazioni fu-ture nel rispetto dell’ambiente e delle persone, così da poter ritrovare il piacere di vivere una vita sana e di ritrovare un ambiente pulito. Non per-diamoci in chiacchiere inutili, iniziamo a rieducarci. Perché fino ad ora in pochi ne sono stati capaci. Auguro a tutti i lettori di Ldp di fare una ri-flessione sul senso civico nella misura in cui siamo convinti che il mondo appartenga a tutti e quindi vada rispettato. Grazie.

La Panka che ti cambia«La scelsi per il tirocinio e non sapevo a cosa andavo incontro. Ho trovato una famiglia» di Sara Lenardon

E’ passato un anno da quan-do, all'università, mi veniva consegnato un modulo nel quale avrei dovuto scrivere dove avrei svolto le mie 250 ore di tirocinio accademico. All'inizio la scelta era tutt'altra

ma, dopo tante riflessioni, tan-te titubanze, c'è stato il cam-bio di programma che mi ha portato alla Panka. Desidera-vo fare esperienza nell'am-bito delle tossicodipendenze anche se non sapevo cosa

aspettarmi; desideravo scopri-re quel mondo che da un lato mi spaventava e dall'altro ri-chiamava la mia attenzione. Partivo veramente con poche armi a mio favore, sulle di-pendenze ne sapevo poco e niente, c'era molto da scoprire e imparare. Così, a metà lu-glio cominciava l'avventura a Pordenone. Ricordo il primo giorno in cui sono entrata un po' timorosa in sede, non sa-pevo cosa aspettarmi e come potermi muovere nell'am-biente. Al di là di queste esi-tazione iniziali, però, ho capito fin dai primi giorni che lì non avrei semplicemente svolto il mio tirocinio ma, giorno dopo giorno, sarei entrata in una nuova grande famiglia. Di-cono che quando piace fare una cosa il tempo voli, beh, anche per me è stato così. Il primo periodo è servito per inserirmi nelle dinamiche presenti, conoscere i ragazzi, informarmi a livello conosciti-vo su ciò che non sapevo. Da subito mi ha stupito la “natu-ralezza” degli educatori, che mi hanno accolta e coinvolta con fiducia essendo pazienti nello spiegarmi ciò che non conoscevo, e dei ragazzi, che

si approcciavano a me con tranquillità e spontaneità. In-fine anche la mia naturalez-za poiché, sentendomi a mio agio, ho cercato di vivere al massimo e senza riserve ogni giorno nuovo. Da luglio a fine ottobre ho potuto assaggiare il sapore dell'Associazione vi-vendo tante piccole esperien-ze formative, dal punto di vi-sta professionale e personale, che porterò sempre nel cuore. L'aspetto che conservo di più, però, è la relazione. Prima di entrare alla Panka non avrei mai pensato che un ambien-te del genere mi avrebbe aiutato a crescere, non avrei mai creduto che anche solo attraverso una partita a tre-sette o di calcetto o fumando una sigaretta avrei potuto, in punta di piedi, entrare nella vita dell'altro, un “altro” che ha semplicemente bisogno che tu sia lì per ridere, per sostenerlo o per ascoltarlo. I mesi vissuti alla Panka restano vivi nei miei pensieri come lo restano tutte le persone cono-sciute che mi hanno dato l'op-portunità di entrare nella loro vita: chi in un modo, chi in un altro mi ha regalato qualcosa di bello. Grazie a tutti!

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L'ANGOLO DELLA FRANCA

Migranti: dalla diffidenza all’accoglienza«Non possiamo fermare il loro arrivo, ma possiamo scegliere di farne un’occasione per crescere in umanità»di Franca Merlo

I migranti che arrivano tra noi da ogni parte del mondo in numero sempre crescente hanno creato una situazione imprevista, per certi aspetti in-quietante. E i mass media non ci aiutano a fare qualche ri-flessione che vada sotto la su-perficie della pura cronaca o di considerazioni socio-econo-miche. Io ci provo, partendo dalla mia recente esperienza personale. E' cominciata una sera dello scorso dicembre quando, rincasando con la borsa della spesa, sono quasi inciampata in un gruppetto di uomini abborracciati per terra sotto il porticato della chiesa, mentre sopraggiungeva la notte; fortunatamente sono arrivate anche diverse perso-ne da ogni parte di Pordeno-

ne con thé caldo e coperte, una solidarietà spontanea e commovente. E così ho sa-puto di quest'ultima ondata di migranti: giovani afgani e pakistani fuggiti dall'inferno che troppe guerre interessate hanno portato nelle loro terre, migliaia di chilometri a piedi, mesi di cammino attraverso terre sconosciute, a volte pic-chiati dalle polizie locali, qual-cuno morto per strada. Abdul per esempio è fuggito dai talebani che volevano arruo-larlo, ha visto ammazzare suo padre. Che noi lo vogliamo o no, nulla potrà fermare chi scappa da distruzione e morte e non ha più casa né patria. Possiamo solo decidere in che modo vivere questa situazio-ne nuova, perché tutto, sem-

pre può aiutarci a crescere in umanità. Trovo illuminante una preghiera letta al Giu-bileo degli immigrati: “Speri-mentiamo tempi difficili, in cui il pericolo di essere defraudati dalla cattiveria della gente ci fa vivere tra porte blinda-te e sistemi di sicurezza. Non ci fidiamo più l'uno dell'altro. Vediamo agguati dappertut-to. Il sospetto è divenuto orga-nico nei rapporti col prossimo. Il terrore di essere ingannati ha preso il sopravvento sugli istinti di solidarietà che pure ci portiamo dentro. E il cuore se ne va a pezzi dietro i cancel-li dei nostri recinti. Disperdi, ti preghiamo, le nostre diffiden-ze. Abbatti le nostre frontiere: le frontiere culturali, prima di quelle geografiche. Queste ul-

time cedono ormai sotto l'urto dei popoli “altri”, ma le prime restano tenacemente imper-meabili. Visto allora che sia-mo costretti ad accogliere gli stranieri nel corpo della nostra terra, aiutaci perché possiamo accoglierli anche nel cuore della nostra civiltà”. Per rende-re concreta questa preghiera io adesso insegno italiano in una classe di immigrati e cer-co di entrare nel loro mondo, in punta dei piedi. E ho per-cepito la loro presenza tra noi come UN DONO. Una grande opportunità da cogliere, una spinta a oltrepassare i nostri limitati orizzonti. La paura ci avvisa della diversità, il cuo-re la può interpretare come un invito all'accoglienza, e nell'accoglienza sentiamo di-latarsi il nostro cuore, e pul-sare l'infinito dentro di noi. Non a caso in tutte le civiltà antiche l'ospite era conside-rato sacro. Che accettiamo o no questi stranieri, essi arriva-no; noi possiamo intralciare il cammino della storia, oppure farne occasione per crescere in umanità e percepire il divi-no che c'è in noi. E la nostra civiltà, l'intero nostro Occiden-te ne uscirà rigenerato.

SPAZIO AMBIENTE

Chiara fresca dolce acquaE’ ovunque ed è un bene comune per la sopravvivenza dell’intero pianetadi Paola Doretto

Terra, acqua, aria, fuoco, que-sti sono gli elementi primari, sui quali già i filosofi dell'an-tica Grecia facevano le loro riflessioni, quelli su cui tutta la nostra vita si fonda, anche se ultimamente forse qualcu-no pensa che sia invece lo smart phone. L’acqua è un bene che tutto tocca, infiltra, sfiora o travolge, noi per pri-mi, il nostro corpo, che è fatto per il 70% di questo elemento prezioso. La prima cosa che mi viene alla mente allora è quella sensazione meraviglio-sa che tutti noi conosciamo: bere d'un fiato un gran bic-chiere d'acqua fresca e limpi-da quando siamo assetati. Poi però penso anche all'acqua che bolle mentre aspettiamo gli amici per una spaghettata in compagnia, o alla pioggia, alla sua benedizione quando

scende e lava via lo sporco del mondo rendendo di nuo-vo luminosi i colori. E ancora, alla rugiada, al candore del-la neve, alle nuvole che abi-tano il cielo, penso alle casca-te altissime che in montagna scendono da un dirupo all'al-tro, maestose, per raggiun-gere il nostro fiume che poi sempre più ampio e lento si va a perdere ne l l 'e te rno m o v i m e n -to del mare. L'acqua è q u a l c o s a che ci abita p r o f o n d a -mente, fon-te di vita, di

ogni vita, anche quella spi-rituale (siamo battezzati con l'acqua). Eppure l'uomo non ha rispetto nemmeno per questo elemento, meraviglio-so e indispensabile, che vie-ne quindi inquinato, sprecato, imbrigliato, venduto. Ciò an-che se nessuno dovrebbe ar-rogarsi il diritto di esserne pa-drone, perché, come l'aria, è un bene comune. Molti scien-ziati, associazioni e cittadini lungimiranti e saggi ci met-tono continuamente in guar-dia da quello che potrebbe accadere quando avremo inquinato fino all'ultima risor-sa idrica pulita, ed è una vera catastrofe, un disastro am-

bientale sen-za possibili-tà di ritorno per la specie umana e per quella degli animali che ver rebbero trascinati, in-nocenti, in questo deser-to. Eppure lo scempio non si ferma. Non so perché l'uomo sia così perverso

e distrugga proprio le cose che permettono la sua stes-sa sopravvivenza, però così è. Quello che possiamo fare, ciascuno di noi nel nostro pic-colo potrebbe tuttavia essere la chiave per un cambia-mento di rotta. Piccoli consigli sono già di dominio pubblico e li conosciamo, basterebbe cominciare a metterli in pra-tica e, se qualcuno volesse approfondire, non ha che da scegliere l'associazione a cui rivolgersi tra le moltissime che si occupano di questo. Con-cludo quindi ancora, come la volta scorsa, con un accorato appello: non distruggiamo la nostra stessa casa, siamo at-tenti, e amiamola! Farlo porta felicità e non mortificazione come si potrebbe pensare. Io, vi confesso, sono felice ad esempio ogni volta che non mangio una bistecca, e sa-pete perché? Perché amo gli animali, certo, ma anche per-ché so che per produrla, negli allevamenti intensivi, servono 10.000 litri d'acqua potabi-le. Informarsi quindi è la pri-ma cosa da fare, e ne vale la pena se vogliamo ancora vivere in armonia, o forse an-che semplicemente vivere, sul nostro “Pianeta Azzurro”.

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L'APPROFONDIMENTO

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Adottiamo un bambino?Le ricerche, le esperienze sul campo degli operatori che si oc-cupano di adozione e le testimonianze dei genitori ci dicono che i rapporti in un famiglia adottiva hanno la stessa impor-tanza, la stessa profondità e lo stesso valore affettivo di quelli che si creano all’interno di una famiglia “biologica”. Tuttavia esistono delle differenze importanti di cui è necessario tenere conto per non sottovalutare dei problemi. La prima differenza è che l’adozione è un “evento sociale”, regolato dalla legge che, pur nascendo da un desiderio intimo, richiede il “consen-so” di istituzioni al di fuori della coppia e della rete famigliare, come il Tribunale per i Minorenni. E’ inoltre necessario ricor-dare che l’inosservanza delle leggi sull'adozione può costituire un reato. L’adozione risponde al bisogno di una coppia di avere un figlio ma, prima di tutto, al bisogno fondamentale di un bambino di avere una famiglia. E’ un diritto del bambino avere dei genitori, l’adozione non è invece un diritto degli adulti. Attualmente il numero delle coppie che presentano la loro disponibilità all’adozione al Tribunale per i Minorenni è di gran lunga superiore al numero dei bambini adottabili sia in Italia che all’estero. Nel 2014 i bambini adottati in Friuli Vene-zia Giulia sono stati 50, di cui 39 stranieri; le coppie che hanno presentato domanda di adozione 119. Di questi, in provincia di Pordenone i bimbi adottati sono stati 22 di cui 17 stranieri, le famiglie che hanno fatto domanda di adozione 32. La se-lettività del percorso adottivo è necessaria perché ad essere prioritario è il diritto del bambino e non quello degli adulti di diventare genitori. Ai coniugi che intendono adottare si richie-dono, infatti, capacità aggiuntive rispetto ai genitori biologici, perché oltre a crescere un figlio, devono aiutarlo ad elaborare i traumi subiti, che sono sempre presenti, aiutarlo a inserirsi nel nuovo ambiente e accoglierlo totalmente come figlio proprio con le differenze somatiche, genetiche e culturali che il bam-bino porta con sé. La non esistenza di un “legame di sangue” è infatti un aspetto da non sottovalutare nella creazione dei legami nella nuova famiglia. La non somiglianza fisica, so-prattutto per i figli, può incidere sul senso di appartenenza;

vi sono inoltre dei limiti legati per esempio all’impossibilità di ricostruire la storia di eventuali malattie ereditarie o familiari e il rischio di attribuire alla genetica del bambino eventuali suoi problemi comportamentali, rendendoli così immodifica-bili. Diventare genitore di un bambino adottivo implica quin-di una capacità di accoglienza, fisica e mentale, di un figlio generato da altri, con una sua storia pregressa che non può, e non deve, essere “cancellata”. Richiede la consapevolezza dell’esistenza di un’appartenenza che è “doppia” e non è “pos-sesso” da parte del genitore adottivo. Nel caso dell’adozione di un bambino straniero questa disponibilità si estende anche all’accoglienza della sua terra di origine, con la sua cultura, la sua lingua, le sue abitudini e le sue tradizioni. Attualmente, inoltre, i bambini segnalati per l’adozione internazionale sono sempre più grandi di età, e con vissuti e situazioni sanitarie spesso complessi. Diventare genitori attraverso l’adozione co-stringe anche a fare i conti con la “variabile tempo”, che non si riferisce solo al tempo richiesto dalle procedure, ma anche al tempo necessario alla costruzione della relazione con il figlio, al quale viene richiesto un enorme “impegno psicologico” per conoscere, affrontare e sviluppare dei legami nella nuova re-altà, a partire dalle esperienze avverse che lo hanno portato in adozione. La “buona riuscita” dell’adozione è frutto di tante componenti che riguardano il bambino, la coppia, il contesto familiare e sociale, le istituzioni, i servizi, gli enti autorizzati e anche le associazioni di volontariato presenti nel territorio. Sa-ranno però le capacità di accoglienza della nuova famiglia, insieme alle sue capacità di cogliere precocemente i problemi e di mettersi in discussione, chiedendo anche l’aiuto ai servizi, a costituire la maggiore risorsa nel caso di adozioni partico-larmente difficili. La dedizione e l’amore, pur sempre presenti nelle coppie che si rendono disponibili all’adozione, non ba-stano, infatti, a vedere e capire i problemi di cui è portatore un bambino adottivo. Va tenuto sempre presente che l’adozione resta a “fare compagnia” per tutta la vita di chi ne è coinvolto, genitore o figlio che sia.

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Diventare genitori "di cuore"Alessia, «Guardo mia figlia negli occhi e non sono come i miei. Ma il mio compito è tutelare il suo diritto di essere una bambina come le altre»di Moreni T.

Quando la vita non ti per-mette di esser una madre naturale capisci che puoi es-sere una “madre di cuore”, magari mantenendo fede ad una promessa che ti eri fatta, quando eri ancora una ragazzina. E' questa la storia di Alessia, 44 anni, e di suo marito Christian che da pochi mesi sono diventati genitori adottivi di una bimba di 8 anni, nata in India.

Alessia, quando è comincia-to tutto e perché l'India? «L'India mi è entrata nel cuo-re fin da quando ero adole-scente. A 15 anni, mentre stu-diavo in un convitto di suore, fui presente all'incontro con Madre Teresa di Calcutta. Ci spiegò che bisognava voler bene a tutti i bambini. Fui profondamente colpita e mi ripromisi che, avessi potuto, da grande avrei portato a casa un bambino dell’India. Io e mio marito siamo sposati da 15 anni e abbiamo fatto di tutto per aver un figlio na-turale, finché non abbiamo capito che dovevamo chiu-

dere una porta ed aprirne un'altra: quella dell'adozio-ne. E' successo a fine 2008 e il mio pensiero andò subito all'India”.

Un iter impegnativo, che vi ha portato lo scorso autun-no a diventare una famiglia. Com'è stato il primo incontro con la vostra piccola? E’ stato bellissimo. All’istitu-to, data la presenza di molti bambini, mi sforzai di sor-ridere. Ho pianto poi, una volta fuori, e quando la mia bambina mi ha detto “ti ho visto piangere” le ho spiega-to che ero dispiaciuta perché aveva dovuto lasciare i suoi amici. In quell’istituto, però, i bambini sono preparati, ven-gono mostrate loro le foto di chi li adotterà e viene fatta una festa: cercano di non far pesare il distacco, ma di far loro comprendere l’adozione come parte di un ciclo natu-rale.

Come sono stati questi primi mesi con la bambina e l’in-serimento della stessa nel

nuovo contesto?Da quando è arrivata a casa viviamo sulle montagne rus-se. Non ci sono le coliche, ma ci può essere la tristezza, le paure, il non riuscire a fare su-bito alcune cose con lei. Tanti sono stati i cambiamenti da affrontare, a partire dalle abi-tudini e dall’ambiente di vita, molto diversi da quelli nei quali la bambina era nata e cresciuta. C’è voluto del tem-po. Inoltre c’era, ed in parte c’è ancora, l’ostacolo della lingua anche se attraverso i gesti siamo subito riusciti a co-municare. Lei è stata bravis-sima, ha iniziato immediata-mente ad imparare l'italiano. E’ una bambina orgogliosa e ha mostrato subito la necessi-tà di sperimentarsi nelle cose, come l’andare a scuola in corriera assieme agli altri. No-

nostante questo, ha dei mo-menti in cui sembra tranquilla ed altri in cui, poco dopo, il suo passato ritorna e lei scop-pia a piangere. Dice di esse-re italiana, ma credo che le manchi tanto il suo paese.

E se lei a 18 anni volesse tornare in India alla ricerca delle sue origini?Siamo consapevoli che la dif-ferenza di essere un genitore adottivo, rispetto ad uno na-turale, sta nel fatto che dob-biamo crescere un bambino che può avere un'altra fami-glia alle spalle. L’India resta la sua terra ed il suo sogno è diventare una maestra ed insegnare ad altri bambi-ni come lei. Io stessa le dico che metà del mio cuore è in Italia e metà in India e, forse, anche lei da adulta si sentirà

Chi può adottareIn Italia esistono due tipologie di adozione, la nazionale e l'internazionale. Requisiti e percorso sono disciplinati dalla legge. A Pordenone l'iter è seguito dall'Equipe dell'AAS5

In Italia esistono due tipologie di adozione: quella nazionale e quella internazionale. La Nazionale è l’adozione di uno o più minori che vivono in Italia, mentre l’Internazionale corrisponde all’adozione di uno o più bambini stranieri,

che vivono in un Paese stra-niero. In entrambi i casi si trat-ta di minori dichiarati in “stato di abbandono”. Questa con-dizione di abbandono può sussistere nei casi di figlio di genitori ignoti, orfano di en-trambi i genitori e privo di altri

parenti, ma anche nelle situa-zioni in cui un bambino, pur avendo una famiglia, non riceve un'assistenza morale e materiale necessaria per la sua crescita psicofisica. In quest’ultimo caso il Tribunale per i Minorenni, dopo l’aper-tura di un vero e proprio pro-cesso, con la partecipazione delle parti interessate, dei loro avvocati e un’istruttoria che serve a raccogliere le prove sui fatti e gli approfondimenti, decreta l’adottabilità del mi-nore. I requisiti per l’adozione internazionale sono gli stessi dell’adozione nazionale, e sono previsti dall’art. 6 della legge 184/83 (come modifi-cata dalla legge 149/2001) che disciplina l’adozione e l’affidamento. «L’adozione è permessa ai coniugi uni-ti in matrimonio da almeno tre anni, o che raggiungano

tale periodo sommando alla durata del matrimonio il pe-riodo di convivenza prematri-moniale, e tra i quali non sus-sista separazione personale, neppure di fatto, e che siano idonei ad educare, istruire ed in grado di mantenere i mi-nori che intendano adottare». Riguardo all’età, secondo la legge italiana la differenza minima tra adottanti e adot-tato è di 18 anni mentre la dif-ferenza massima tra adottanti ed adottato è di 45 anni. I li-miti di età, introdotti dalla leg-ge, hanno lo scopo di garan-tire all’adottato dei genitori idonei ad allevarlo e seguir-lo fino all’età adulta, in una condizione analoga a quella di una genitorialità naturale. Nel caso di adozione inter-nazionale, i limiti che il nostro legislatore ha spostato molto in avanti, per permettere an-

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così. Non desidero affatto che lei si senta solamente italiana e spero che l’India le riman-ga nel cuore, perché è quella la sua origine.

Vi siete mai dimenticati di essere genitori adottivi?All’inizio ti dimentichi di non essere un genitore di “pan-cia”, ma spero di ricordarmi sempre che questa bambi-na non è una mia proprietà. Probabilmente esiste un'altra mamma che l’ha mandata qui perché sapeva che qual-cuno avrebbe potuto crescer-la ed amarla. Ogni giorno, quando la guardo negli oc-chi vedo che non sono come i miei, ma il mio compito di genitore è insegnarle tante cose e tutelare il suo diritto di essere un bambino come gli altri. Voglio essere in grado di amarla come fosse mia, ri-manendo cosciente del fatto che non è una proprietà.

Dopo aver vissuto tutto que-sto, qual è la valutazione dell'iter necessario per adot-tare un bimbo? E’ stato un percorso faticoso, tuttavia non abbiamo mai pensato di mollare, perché consideriamo l’adozione la nostra chiamata. Gli incontri che abbiamo fatto all’inizio ci hanno formato tantissimo, pertanto sapevamo a cosa andavamo incontro. Per cui se nell’iter di adozione hai dei professionisti che ti mostrano la realtà per quella che è, non hai bisogno di nessun consiglio. E’ come se avessi-mo dovuto scalare l’Himala-ya, ma grazie a persone che ci sono state vicine, io e mio marito non ci siamo mai sen-titi soli. Se potessimo, partirem-mo anche ora per adottare un altro bambino in India.

Luca, nome di fantasia, è nato a San Paolo, in Brasile, 27 anni fa ed è arrivato in Italia all’età di 6 anni, adot-tato da una famiglia della provincia di Pordenone. I suoi pochi ricordi di quel periodo sono legati alle persone, alle abitudini, ai luoghi ed al cli-ma molto diversi da quelli caratteristici del Paese in cui aveva vissuto fino a quel mo-mento. «Quando sono arriva-to in Italia – racconta Luca, oggi adulto - ero frastornato, perché dovevo abituarmi ad ogni cosa e non ero affatto preparato a questo: per me è stato un cambiamento ra-dicale». Nella sua vita questo sradicamento dal suo luogo natale portò con sé alcune difficoltà. Tra queste ci fu lo scoglio determinato dalla lin-gua. «Avendo parlato per sei anni il portoghese – spiega - rimuoverlo, strappare la mia lingua d'origine e comincia-re ad apprenderne un'altra non è stato semplice». I limiti nella comunicazione, che rendevano difficile il relazio-narsi con le persone, hanno cominciato a risolversi con la frequentazione della scuola e l’aiuto dei genitori. Ma per quel bambino, che aveva da poco trovato una nuova fami-glia in un paese così lontano e diverso dal suo, ciò che in quegli anni rappresentava

l’ostacolo più grande nel per-corso di adattamento ed inte-grazione al nuovo ambiente fu soprattutto il colore della sua pelle, diverso da tutti gli altri. «Essere un ragazzo di co-lore – ricorda infatti Luca - nel corso degli anni è stato mo-tivo di stupore, ma anche di scherno ed offesa da parte delle altre persone. Quando arrivai in Italia mi guardava-no tutti in modo strano: era il 1994 e io ero tra le poche persone di colore nella mia città. Alle scuole elementa-ri, ad esempio, ero l’unico e questo mi faceva sentire di-verso». Questo disagio si acuì in particolare durante l’ado-lescenza. «Il mio non accet-tarmi – dice - era dovuto al colore della pelle, perché gli altri mi guardavano male ed usavano dei nomignoli per discriminarmi». Oggi Luca a 27 anni ha superato il peso delle offese grazie alla matu-rità e attraverso la vicinanza ed i consigli di chi gli è stato accanto in questo suo per-corso. Tra questi un ruolo es-senziale è stato ricoperto dai suoi genitori, sempre pronti ad ascoltarlo e consigliarlo, oltre che, quand’era picco-lo, ad accompagnarlo ed introdurlo nei diversi contesti di cui faceva esperienza. Ol-tre a loro, anche i nonni ed i fratelli hanno rappresentato

una guida importante, per-ché, come lui stesso racconta «ogni persona che hai intor-no ti aiuta per cose diverse, ogni persona è un pezzo di un puzzle che ti completa». Un'altra figura fondamentale per Luca è stata un’insegnan-te delle superiori che lo ha sostenuto nell’accettarsi, nel non sentirsi diverso dagli al-tri e con la quale mantiene tuttora un buon rapporto. Ora che è adulto, a chiedergli cosa ne pensa dell'adozione e dell'iter burocratico che l'ac-compagna, Luca riconosce che «è sicuramente lungo, ma necessario, in quanto si tratta della vita di un bambino». La sua esperienza di figlio adottivo, malgrado le difficol-tà di integrazione vissute in passato, è stata positiva. «Se avessi le possibilità economi-che - dice per questo Luca - sarei felice di adottare per-ché ciò che ho ricevuto potrei restituirlo a chi ha bisogno e, sapendo cosa vuol dire esse-re adottato, forse potrei capire meglio gli stati d’animo di un mio eventuale figlio adottivo». Per essere un buon genitore, secondo Luca, «l’importante è far sentire il bambino ugua-le agli altri, un membro na-turale della famiglia, amarlo e stargli accanto; bisogna essere anche consapevoli che le parole che si utilizzano hanno un peso notevole e, se usate impropriamente in un momento di rabbia, possono ferire e ricondurre il bambi-no ad un passato doloroso». Luca è consapevole che, se non fosse venuto in Italia, sa-rebbe potuto andare incontro ad un destino estremamente difficile, ma resta orgoglioso delle sue radici. Del Brasile ha vivido in particolare il ricordo del senso di comunità, gene-rosità e solidarietà che esiste soprattutto tra la popolazione più povera. «Quando hai tutto – è ciò che la sua vita gli ha insegnato - come nel mondo occidentale, sei troppo in-fluenzato da ciò che hai attor-no, il tempo è contato e mo-netizzato, quindi difficilmente hai tempo da dedicare agli altri, mentre quando non hai nulla è più facile donarsi».

«La mia vita da figlio adottivo»Luca, 27 anni, è in Italia da quando ne aveva 6. Il racconto del suo percorso di integrazione nella società. Gli ostacoli più grandi: la lingua e il co-lore della pelle

di Cristina Colautti

che a coppie non giovani di adottare, potrebbero non coincidere con quelli stabiliti dall'autorità straniera, perciò la coppia, che vuole adotta-re all’estero, dovrà seguire le indicazioni della legislazio-ne del Paese di origine del minore. Per tutelare i diritti dei bambini che vanno in adozione internazionale la normativa risulta più com-plessa ma, in cambio, offre la sicurezza sia sull’esistenza del reale stato di abbandono del bambino che va in ado-zione, sia offre una migliore preparazione e più sostegno alle coppie che scelgono di adottare all’estero. Perché l’adozione internazionale sia efficace in Italia è necessario seguire le procedure, stabilite sia dalle leggi italiane che

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IL PERCORSO ADOTTIVO

Il percorso dell’adozione pre-vede diverse “tappe” che partono dalla maturazione di una scelta consapevole, da parte della coppia, fino alla realizzazione della ge-nitorialità adottiva, che man-terrà sempre delle peculiarità e che, in quanto tale, potrà avere bisogno di un suppor-to, anche a lungo termine, da parte dei servizi socio-sanitari. A Pordenone, dal 2002, è at-tiva un’Equipe Adozioni dedi-cata, composta da psicologi e assistenti sociali, uno a tem-po pieno e tre a part-time, che accompagnano le per-sone durante tutte le tappe sottodescritte.

PRIMA TAPPA: fase conosciti-vo-informativa.La coppia, che sta prenden-do in considerazione l’idea di adottare, può accedere ad un colloquio informativo presso l’Equipe Adozioni e, successivamente, al Corso Formativo-Informativo per aspiranti genitori adottivi, te-nuto ogni tre mesi dall’Equi-pe, e necessario per valu-tare la propria motivazione all’adozione e decidere se presentare la propria disponi-bilità presso il Tribunale per i Minorenni.

SECONDA TAPPA: presenta-zione della documentazione presso il Tribunale per i Mino-renni.Chi desidera adottare un bambino deve presentare la propria disponibilità all’A-dozione nazionale e/o inter-nazionale presso il Tribunale per i Minorenni competente

per il territorio di residenza. Generalmente è presente nel capoluogo di ogni regione. In Friuli Venezia Giulia è a Trie-ste.

TERZA TAPPA: indagine psi-co-sociale.Il Tribunale chiede al servizio Adozioni dell’Azienda Sanita-ria competente un'indagine psico-sociale. I servizi hanno il ruolo importante di conosce-re la coppia e di valutarne le potenzialità genitoriali, in-viando al Tribunale una rela-zione, che fornirà al Giudice elementi di valutazione sulla richiesta della coppia.

QUARTA TAPPA: decreto o graduatoriaL’Adozione internazionale

prevede l’emissione di un de-creto di idoneità. Il Tribunale per i Minorenni, dopo aver incontrato la coppia, decide se rilasciare un decreto di idoneità o se emettere invece un decreto attestante l'insussi-stenza dei requisiti all’adozio-ne. Il decreto di idoneità può contenere anche, nell'interes-se del minore, ogni elemento utile a completare il quadro delle caratteristiche della coppia, per favorire l’incontro con lo specifico bambino, o con più bambini, da adotta-re. L’Adozione nazionale, invece, prevede che la coppia possa essere sentita da un giudice e che venga inserita, dal Tribu-nale stesso, in una graduato-ria, elaborata in base a criteri

comparativi.

QUINTA TAPPA: incarico all’Ente autorizzato, in caso di Adozione internazionalePer quanto riguarda l’Adozio-ne Internazionale, la coppia deve iniziare la procedura rivolgendosi ad un Ente au-torizzato entro un anno dal ri-lascio del decreto di idoneità.

SESTA TAPPA: l’attesa di una proposta di abbinamento Nel casi dell’Adozione inter-nazionale tale proposta è co-ordinata dall’Ente autorizzato in collaborazione con l’auto-rità giudiziaria straniera e la supervisione della CAI.Per quanto riguarda l’Ado-zione nazionale, invece, è il Tribunale per i Minorenni a curare l’abbinamento mino-re-coppia, attingendo dalla graduatoria.

SETTIMA TAPPA: adozioneL’Adozione del minore avvie-ne con modalità e tempi di-versi a seconda che si tratti di Adozione nazionale o inter-nazionale e sempre attraver-so dei decreti del Tribunale per i Minorenni.

OTTAVA TAPPA: post-adozioneSia nell’Adozione nazionale che internazionale la legge prevede che i Servizi Adozio-ni e gli Enti Autorizzati monito-rino l’inserimento del minore in famiglia per un certo pe-riodo di tempo: minimo un anno, o molti di più in caso di Adozione internazionale, come previsto dagli accor-di internazionali con lo stato straniero.

Dalla maturazione di una scelta consapevole alla realizzazione della genitorialità adottiva. Obiettivo: la tutela del minore

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internazionali; solo in questo caso il bambino potrà entra-re nel nostro paese. Per poter adottare all’estero le coppie devono scegliere un Ente, au-torizzato dalla Commissione Adozioni Internazionali (Cai) che ha sede a Roma, ad ope-rare con le autorità straniere (Istituti, Tribunali, Uffici pub-blici) e a sostenere la coppia durante tutto l’iter adottivo sia dal punto di vista procedura-le, che concreto e psicologico. Fra i requisiti necessari per poter diventare genitori adot-tivi, gli aspiranti genitori de-vono essere inoltre idonei ad educare ed istruire, e in gra-do di mantenere i minori che intendono adottare. Per poter verificare la presenza di que-ste condizioni il Tribunale per i Minorenni conferisce ai Con-sultori familiari, o alle Equipe Adozioni, delle Aziende per l’Assistenza Sanitaria, il man-dato di effettuare un’indagi-ne psicologica e sociale sulla

coppia che ha presentato la sua disponibilità ad adottare. Il Servizio incaricato, attraver-so le figure dello psicologo e dell’assistente sociale, effettua la valutazione della coppia. Il percorso è piuttosto articolato, prevede colloqui individuali, di coppia, visita domiciliare

ed eventuale utilizzo di test, e fa riferimento all’approfondi-mento di aspetti indicati da-gli stessi Tribunali, in quanto riconosciuti validi dagli studi sul campo e dalla letteratura specialistica. Tale approfondi-mento ha l’obiettivo di verifi-care la presenza nella coppia

della capacità di svolgere la funzione genitoriale adottiva, che non è del tutto sovrappo-nibile alla genitorialità natu-rale.

Si ringrazia per la colla-borazione nella realizza-zione di questo approfon-dimento:

Equipe Adozioni – Azien-da per l’Assistenza Sanita-ria n.5 “Friuli Occidentale”Via De Paoli, 21 – Porde-none tel. 0434 237816, e-mail [email protected]

Operatori:Psicologi: dott.ssa Anna Maria Assab, dott.ssa Ma-rina Moro

Assistenti Sociali: dott.ssa Alessandra Quattromini, dott.ssa Manuela Zilli.

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INVIATI NEL MONDO

Cuba ti ubriaca e non ti sazia maiViaggio di nozze nell’isola del Che e di Fidel, dove storia, musica e colori rapiscono il visitatore di Andrea Lenardon

E’ il 12 aprile 2015 e mentre io e mia moglie stiamo per met-terci in viaggio per le nostre nozze, non porto con me solo la trepidazione della giornata ma anche la valigia pronta per affrontare il sole dei Ca-raibi. Domani, quasi senza il tempo di respirare, ci aspetta infatti La Habana. Atterriamo intorno alle 22.30 in suolo Cu-bano. La transvolata oceani-ca, nonostante le dodici ore di volo, trascorre velocemente documentandoci sulla ricca storia di Cuba per colmare le lacune della nostra igno-ranza, dall'epoca coloniale ai giorni nostri. Quando arrivia-mo è sera e intuiamo solo va-gamente l'aspetto della città, ne cogliamo il rumore chias-soso, il profumo dolce e il ca-lore dell'aria ma gli occhi pos-sono solo vedere le fioche luci di illuminazione notturna e la-sciarsi affascinare dai cartel-loni tinti rosso-bianco-blu con le scritte spagnole innegianti alla "revoluciòn". Il viaggio è stato organizzato con una

compagnia e prevede due giorni e mezzo nella capitale seguiti dallo spostamento a Varadero nel quale passare dieci giorni. La Habana è in-cantevole, a posteriori avrem-mo volentieri rinunciato a un po' di turismo tradizionale per trascorrere più giorni tra i vico-li della Habana vieja, immersi nella musicalità delle strade e nel via vai internazionale di persone affascinate dall'at-mosfera di una delle perle dei Caraibi. Il nostro hotel si chia-ma "Palacio San Miguel" ed è un edificio in stile coloniale sito nell'Habana vieja con un grande patio dal quale am-mirare la lingua di oceano che entra nel porto della cit-tà, sorvegliato da "El morro", il faro slanciato nell'Atlantico che ha visto passare la storia: incursioni dei pirati caraibici, galeoni spagnoli e corazzate americane. Il primo giorno ci immergiamo subito nella parte vecchia della città alla scoperta delle quattro splen-

dide piazze e dei vi-coli che le collegano, animati da musica latina fuoriuscen-te da ogni locale e profumo di Caraibi; l'atmosfera della città è elettrizzante e pas-seggiando davanti ai palazzi coloniali coloratissimi il visita-tore rimane affasci-nato con tutti i cinque sensi coinvolti. Passia-mo per la Plaza de armas, dove si riuni-va l'esercito e arrivia-mo poi in Plaza de la Catedral; immanca-bile la foto con la piazza alle spalle davanti alla "Bodegui-ta del Medio", locale preferito da Hemingway per il miglior Mojito della città. Il via vai di persone è impressionante e si resta colpiti dalle band im-provvisate, dai bambini che giocano a pallone o dai più anziani che fumano un "cohi-ba" seduti sui marciapiedi, le donne vestite con abiti locali cercano di vendere foto ai vi-sitatori e si può vedere fare lo stesso anche da qualcuno ve-stito da Che Guevara o Fidel. L'Habana Vieja è ubriacante di colori e sensazioni e qua-si non ci rendiamo conto di aver girato per ore e ore, sono obbligatorie le tappe shop-ping e refresh col trinomio più famoso della nazione rum-sigaro-caffè. Il pomeriggio lo dedichiamo al lungomare fortificato, il "Malecòn", senza poter però visitare "La Caba-na", casa del Che sita dall'al-tro versante. Passeggiando si possono vedere le fortificazio spagnole da entrambi i lati dell'insenatura e ci si immer-ge nel lento ritmo della vita quotidiana trovando bambini pescare, innamorati passeg-giare e immancabilmente musicisti che con voce calda intonano guantanamera and co. La sera stessa ci concedia-mo una cena tipica su una terrazza dalla quale vedere tramontare il sole sull'oceano

e aspettare il famoso colpo di cannone delle 21, sparato a salve ogni sera dal forte spa-gnolo. Si dice che il colpo ar-rivi all'unico orario puntuale della città, per il resto lo strom-bazzare dei clacson delle ca-dillac colorate è incessante e la città non va mai a dormi-re. Il giorno dopo prendiamo il tour con bus a due piani per vedere la parte nuova, la mattinata trascorre così scar-rozzandoci per la capitale. La parte nuova non si può defi-nire romantica come la vieja però Plaza de la Revoluciòn è assolutamente da vedere con i famosi murales giganti del Che e di Cienfuegos troneg-gianti sull'immensa piazza. La seconda parte del viaggio si può facilmente sintetizzare: mare stupendo, cocktail, feste, sport sulla spiaggia bianchis-sima e relax totale a contatto con la vegetazione e la fau-na locale. Cuba ti lascia la sensazione di non aver visto abbastanza, la sua ricchezza storica, il suo romanticismo e le paesaggistiche mozzafiato rapiscono il visitatore che ne vorrebbe sempre di più e ma-gari come noi preferirebbe spogliarsi dell'abito del turista e avere un'altra occasione per conoscere da vicino l'es-senza cubana, soggiornando in una delle "Casas Particula-res" e girando l'isola a bordo di una cadillac d'altri tempi.

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PANKAKULTURA

Volontariato e giovani al centro della quarta edizione de Il dialogo creativoLa rassegna è stata promossa in città dall’Associazione Altrametà e dall’Assessorato alla cultura di Pordenonedi Elisa Cozzarini, Andrea Fregonese e Alessandra Gabelli

La partecipazione dei giovani alla vita della città e l'impe-gno nel volontariato sono stati i temi al centro della quarta edizione della rassegna cul-turale "Il dialogo creativo", a febbraio in biblioteca e a Ci-nemazero. A livello naziona-le, Pordenone è tra i comuni con maggiore presenza di bambini e ragazzi con cittadi-nanza straniera nelle scuole, oltre il 16 per cento del totale. Immaginare e costruire il fu-turo, secondo noi, è possibile solo considerando l'esistenza di questi nuovi cittadini, figli

dell'immigrazione. Quelli che, «se fossimo in un paese nor-male, sarebbero già italiani», come ha detto uno degli ospi-ti de "Il dialogo creativo" di quest'anno, Antonio Dikele Di-stefano. A 23 anni, questo ra-gazzo, nato a Busto Arsizio da genitori angolani, è diventato una star grazie a Facebook. A Pordenone ha presentato il suo secondo libro, che è già un best seller, "Prima o poi ci abbracceremo". Quel sabato pomeriggio la sala conferen-ze della biblioteca era pie-na di adolescenti, un sogno per noi organizzatori, che sin

dall'inizio abbiamo voluto puntare sul coinvolgimento di un pubblico giovane. Ad ascoltare Antonio c'erano ra-gazze con i capelli variopin-ti, dal platinato al blu e altre con il velo, c'erano italiani e stranieri, bianchi e neri, pas-sando per svariate sfumature. C'era la Pordenone del futuro. L'Italia che ha voluto raccon-tare anche il regista Nicola Campiotti, che ha presentato il suo film "Sarà un Paese" a conclusione della rassegna. È l'Italia di Merisa Pilav, brillante studentessa al quinto anno di Medicina all'Università di Trie-ste, per cui la guerra in Bosnia è un triste ricordo d'infanzia. Vive ad Aviano da quando era bambina e non è anco-ra cittadina italiana. Merisa ha partecipato come relatrice all'incontro dal titolo "Volonta-riato e guerra". Abbiamo parlato anche del potere delle immagini. Marco Tonus, vi-gnettista e grafi-co pordenonese, ci ha regalato un'appassionata

lezione sulla satira, aprendo al dibattito sulla necessità di educare alle immagini, po-tente mezzo per rafforzare la paura del diverso, gli stereo-tipi, oppure per contribuire a smontarli. La media educa-tion è al centro dei laboratori di cui ha parlato Marta Melo-ni, dell'associazione bologne-se Africa e Mediterraneo. "Il dialogo creativo" è un proget-to dell'Altrametà, associazio-ne per il commercio equo e solidale, con l'Assessorato alla Cultura del Comune, grazie al sostegno, per questa edizione, del Centro Servizi Volontaria-to del FVG, con il patrocinio della Provincia e la collabora-zione di Cinemazero, il Circolo della Stampa, il Comitato Uni-cef, Voce Donna, la Carta di Pordenone e Roi onlus.

I nostri primi quattro anni sul campo«Mettiamo a confronto esperti e artisti per creare un dialogo costruttivo su un fenomeno che è parte delle nostre città»

"Il dialogo creativo" è nato da una domanda semplice: è possibile parlare di immigra-zione oltre i sensazionalismi, senza sbandierare la difesa di mitiche identità né santifican-do lo straniero a ogni costo? È possibile, insomma, affrontare questo fenomeno per quello che è: una realtà consolidata nelle nostre città, dove è parte della vita quotidiana in tutti i suoi aspetti? A Pordenone la percentuale dei residenti re-golari con cittadinanza stra-niera supera da anni il 15 per cento. Sono famiglie, giovani che diventano grandi accan-to a noi, che hanno diritto di immaginare il loro futuro nel posto in cui spesso sono an-che nati. Con "Il dialogo cre-ativo" noi stiamo provando a creare spazi per il dibattito e la riflessione, per l'incontro e lo scambio tra persone, più

che tra culture e religioni. Non abbiamo la pretesa di dare risposte definitive. Cerchiamo di dare un contributo per una migliore conoscenza dell'al-tro, ma anche di noi stessi e di ciò che saremo, visto che ci concentriamo e cerchiamo di

coinvolgere soprattutto le se-conde generazioni, i figli de-gli immigrati. La formula degli appuntamenti della rassegna è costruita proprio sulla volon-tà di far parlare, dialogare, esperti, scrittori, giornalisti, ar-tisti, registi, psicologi, sociologi,

antropologi, con cittadini che raccontano la propria espe-rienza nel contesto plurale del territorio pordenonese e del Friuli Venezia Giulia. Alla fine di ogni edizione, inoltre, orga-nizziamo un incontro di valu-tazione: invitiamo chi ha par-tecipato agli appuntamenti a restituirci la sua opinione, a fare proposte per il futuro, sug-gerendo tematiche e ospiti, perché non sia una rassegna calata dall'alto, ma un vero e proprio laboratorio democra-tico, a cui ciascuno può dare liberamente il proprio contri-buto. Quest'anno, poi, per la prima volta abbiamo voluto lanciare un concorso di scrit-tura creativa dedicato alle scuole superiori, per coinvol-gere maggiormente i ragazzi, e per ricordare Touria e Hiba, uccise a Pordenone un anno fa dal marito e padre.

di Elisa Cozzarini, Andrea Fregonese e Alessandra Gabelli

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NON SOLO SPORT

Quartamarcia, il web racconta il passato dell’automobilismoFondatori del progetto due giovani pordenonesi, Daniele Boltin e David Da Rosdi Cristina Colautti

«Trovarsi di fronte ad una Fer-rari 250 Gto è stata un’emo-zione incredibile, ma nulla in confronto a quello che suscita in noi la Fiat 131 Mirafiori di papà». Queste le parole di Da-niele Boltin e David Da Ros, 32enni di Pordenone e, rispet-tivamente, giornalista freelan-ce e videomaker. E’ in questo modo che i due ci introducono nel mondo di “Quartamarcia”, il progetto on line (www.quar-tamarcia.it) che hanno creato e che da poco ha compiuto un anno. L’idea innovativa che ne sta alla base è quella di «utilizzare nuove tecnologie per raccontare qualcosa di vecchio» perché, come spiega Daniele, «il mondo delle auto d’epoca è da sempre legato soprattutto alla carta stampa-ta, mentre Quartamarcia vuo-le parlarne attraverso un sito e diversi social network». Lo stesso nome “Quartamarcia” ci riporta indietro nel tempo, perché le automobili un po’ di anni fa non avevano la quinta «e le macchine più bel-le sono quelle che hanno la quarta», afferma Daniele. Lo stesso sottolinea poi che il loro intento è presentare non tanto le auto di lusso, quanto le uti-litarie d’epoca «che hanno un miliardo di storie da racconta-re, perché sono macchine che hanno mosso l’Italia, dove il viaggio era la vera esperienza e dove è stata concepita metà della popola-zione italiana». Gli articoli, ma anche i vide-oclip, sono gli strumenti che Daniele e Da-vid utilizzano per divulgare questi racconti e per trasmette-re al pubblico le suggestioni provate. «Nei

video cerco di mettere l’e-mozione che provo nel ve-dere queste auto e nel sen-tire le esperienze vissute dai proprietari, quindi non sono molto televisivi, ma più sottili - dichiara David -. Ogni video, però, è una cosa a se stante, perché ognuno ha storie di-verse, che noi vogliamo rac-contare». Tra queste, quella di Bruno Dorigo è sicuramente una tra le vicende più belle a cui “Quartamarcia” ha dato voce. La grande passione per il marchio Abarth, ha permes-so a quest’uomo di realizzare un museo a Campagna di Maniago dove conserva ed espone la sua collezione pri-vata, la quale comprende oltre a numerosi pezzi ed ac-cessori, anche nove vetture.

Molteplici sono le storie come quella di Bruno che, in poco più di un anno, Daniele e Da-vid sono riusciti a raccogliere, ma di certo uno dei mag-giori traguardi è l’intervista a Tonino Lamborghini, figlio di Ferruccio fondatore della celebre casa automobilistica. Tutto iniziò da un articolo, “Lite tra Lamborghini e Ferrari: una grande bugia”, che a distan-za di poche ore dalla pubbli-cazione, provò il commento puntuale di Tonino Lambor-ghini; immediata la propo-sta di replica degli autori di “Quartamarcia”, che lo stesso

accettò e che si concretizzò nell’incredibile opportunità di videointervistalo. Una tappa importante per i due giovani autori del sito, che s’inserì in un calendario sempre più fitto di impegni, tra i quali diversi raduni e fiere del settore. «A settembre abbiamo parteci-pato ad “Auto moto d’epoca” di Padova, come ospiti dello stand dell’Alfa Sud Club Ita-lia, dove abbiamo mostrato i nostri video -spiega Daniele-. A gennaio, invece, alla fie-ra “Auto e moto del passato” di Ferrara siamo stati relatori ad uno degli incontri” ci rac-conta Daniele. Da parte sua invece David evidenzia la soddisfazione di essere ormai riconosciuti in diverse occa-sioni come “quelli di Quarta-

marcia”. L’accreditamento ed i risultati ottenuti sono, però, frutto di un lavoro costante che prevede in primo luogo un aggiornamento frequente del sito e dei social network attraverso articoli e video sempre nuovi e la correzione dei racconti che gli stessi let-tori inviano a "Quartamarcia". Questo progetto, infatti, come i suoi ideatori lo definiscono, è “un laboratorio aperto”, dove qualunque appassionato di auto d’epoca può contribuire portando la propria storia. «È un’emozione ricevere questi articoli e permettere alle per-

sone di diffondere i loro rac-conti, che difficilmente sareb-bero pubblicati in altre testate del settore - sottolinea Daniele - . Questa gente è animata da grande passione». Il team di “Quartamarcia”, a cui sono arrivati numerosi curriculum di aspiranti collaboratori, si sta lentamente ampliando con nuove collaborazioni. Vi colla-bora ad esempio anche Fla-minio Massetti, che dopo aver conosciuto il progetto tramite la propria vettura d’epoca, lo ha sposato ed ha iniziato ad occuparsene, scrivendo della parte più tecnica. Tali collaborazioni sono però tutte a titolo gratuito, perché «per ora non c’è budget», ma solo tanta passione, entusiasmo e competenza a fare da traino

a questo pro-getto, che ha vissuto un anno di piena cresci-ta. Per il futuro sono tantissime le migliorie ed evoluzioni che gli ideatori di “Quartamarcia” hanno in men-te, tra le quali la realizzazione di un evento in città ed il sogno di trasformare questa passio-ne in un vero e proprio lavoro.

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PANKAROCK

DA SPACE ODDITY A BLACKSTARDavid Bowie, l'uomo che cadde sulla terra per risalire come "stella nera"di Silvia Bandini

Gli esseri umani muoiono. E’ una delle poche certezze della vita. Ma Bowie nel mio immaginario non è mai stato completamente umano. Se poteva esserci un extraterre-stre al mondo quello era lui, ed anche se nella finzione è morto mille volte, da Ziggy Stardust al Maggiore Jack Celliers, lui non doveva. Per me è stato il primo amore musicale, quello che non si scorda mai. Prima di Bowie ascoltavo i 45 giri di mia ma-dre in un mangiadischi: Pre-sley, Beatles, Armstrong, Sina-tra, Platters... La maggioranza della musica però la sentivo alla radio e proprio alla ra-dio incontrai Starman. Non riuscivo a tradurre le parole e ricordo che per un lungo pe-riodo ho fatto la posta a quel-la canzone per poterla regi-strare e ascoltarla tante volte quante ne servivano per tra-scrivere il testo. La supplente di inglese delle medie diceva che con le canzoni le lingue si imparavano divertendosi e ci fece ascoltare e tradurre Blowing in the wind di Bob Dylan. Peccato fosse solo una supplente. Bowie infatti è stato anche il mio primo insegnate di inglese. Poi un giorno, nel negozio di dischi, vidi quella copertina. Bianco e nero, un viso incredibile, diafano ed inquietante e quegli occhi. Fu colpo di fulmine. Rotto il

salvadanaio e acquistato il disco. Il mio primo disco. Era il 1977, avevo 12 anni. Da quel giorno i suoi dischi sono diventati un appuntamento fisso. Una certezza. Non era la sola musica che ascoltavo, ma era una mia scoperta, a casa non lo conoscevano e alla fine anche mia nonna doveva ascoltarlo. Ciò valeva anche per le amiche, e non tutte gradivano. A quell'età si piange e ci si dispera per la morte di un idolo. Molti di quelli che ascoltavo, per mo-tivi anagrafici o altro erano già defunti ed altri lo furono

poco dopo: Bob Marley e John Lennon. Un vero pecca-to e una tristezza infinita, ma gli anni ‘80 sono stati gene-rosi con le meraviglie sonore. Poi arrivava un nuovo disco di Bowie e tutto era splendi-do. Heroes è ancora adesso la mia canzone preferita, so-prattutto nella versione tede-sca, molto più espressiva ed emozionante, da brivido. La sua voce inconfondibile ha un solo rivale nel mio cuore: Freddie Mercury. Ricordo an-cora quella notte di luglio del 1985 quando, emozionatissi-ma, ho guardato il Live Aid in diretta da Wembley e c'erano entrambi nel coro finale con Let it be. Li avrei mai visto dal vivo? Chissà, il destino è stato vicinissimo a dire no. Mamma dice che è meglio non immi-schiarsi col Maggiore Tom* Ma quanti ascoltano ciò che dice la mamma? Però sono stata fortunata e nel luglio 1987 ero a San Siro a vedere The Glass Spider Tour. Bowie scende dal ventre di un ra-gno gigante mentre canta al telefono vestito di rosso, 70 mila spettatori per 23 canzoni. Ero al settimo cielo e contem-poraneamente sull'orlo dell'a-bisso. Chi mi conosce sa di cosa parlo: avevo in tasca un test HIV positivo e niente che potessi fare** se non provare a vivere. Gli anni 90 mi hanno avvicinata a Mercury più di quanto avrei potuto o volu-to pensare. Certamente non lo avrei mai visto dal vivo e restava solo il suo testamento musicale. Da adulti piangere per un cantante è da idioti, ci sono ben più grandi tragedie, è roba per adolescenti solitari e depressi. Questo è il giudizio comune. Ma da brava fan di Bowie sono sempre stata fuo-ri luogo***. E per Freddie ho

pianto. Per lui, per quel che rappresentava per me, per gli altri morti dello stesso male, per gli altri colpiti dallo stes-so male, per la perdita di un talento artistico così grande. E per me che ancora vacilla-vo. Ho apprezzato quel Padre Nostro recitato sul palco da Bowie nella commemorazio-ne di Freddie. Ho pianto du-rante il suo duetto con Annie Lennox in quell'Under Pressu-re registrata con Freddie in studio ma mai interpretata in-sieme dal vivo. Sono passati tanti anni e dischi e, anche quando ho perso il mio papà, David era ancora lì a dir-mi che possiamo essere eroi solo per un giorno****. Un'ipo-tesi scientifica prevede che i corpi celesti identificati come buchi neri sarebbero un altro tipo di oggetto astronomico, chiamato ‘stella nera’ che sa-rebbe abbastanza densa da provocare molti degli effetti associati ai buchi neri come la possibilità di accedere ad altre dimensioni. Cosa poteva esserci di più adatto per un nuovo disco? Sarebbe uscito per il suo compleanno, pochi giorni prima di quello di mio padre, che mi aveva regala-to lo stereo per ascoltare quel famoso 33 giri. Però quando ho visto il video Lazarus, ho provato una strana sensazio-ne: ero impressionata dall'e-spressione del viso. La stessa sofferenza che avevo visto in mio padre all'ospedale. Poi i versi : Ho cicatrici che non possono essere viste …Tutti mi conoscono adesso Non ho niente da perdere …Sai, io sarò libero Proprio come l'uc-cello azzurro. Immediatamen-te mi è tornato in mente Fred-die, La mia anima è colorata come la ali delle farfalle ........Posso volare, amici miei*****Bowie è sempre stato un pas-so avanti, un camaleonte che vedeva il futuro e lo ha fatto anche per la sua morte nel modo più elegante possibi-le. Maggiore Tom a Torre di Controllo, Sto uscendo dalla porta E sto galleggiando nel-lo spazio in modo strano E le stelle sembrano molto diver-se oggi**. Ci resta una stella nera con tutta la meraviglia che può nascondere in altre dimensioni oltre lo spazio e il tempo. E una speranza: Laza-rus Grazie

* cit. Ashes to ashes – Bowie 1977** cit. Space Oddity – Bowie 1969*** cit. Thursday's Child- Bowie 1999**** cit. Heroes- Bowie1977***** cit. The show must go on- Queen 1991

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Il ritmo multiculturale di Rachid Taha ha conquistato il pubblico del VerdiIl musicista Pop-raï franco algerino ha chiuso in bellezza l'edizione 2016 della rassegna culturale Dedica in onore dello scrittore algerino Yasmina Khadradi Guerrino Faggiani

Finale in musica per una bellaČ edizione di “Dedica”, che quest’anno ha scelto come protagonista lo scritto-re algerino Yasmina Khadra. La rassegna, promossa ogni anno dall’associazione Thesis di Pordenone, si è chiusa in-fatti con il concerto al teatro Verdi del franco algerino Ra-chid Taha, uno dei maggiori esponenti della scena rock multiculturale francese. Il mu-sicista è stato accompagnato dal “Couscous Clan”. Dalla fama di artista estroso ed im-prevedibile, Rachid Taha del suo spettacolo aveva antici-pato solo che sarebbe stata una festa, ed ha fatto centro. Non era facile, ci sono platee che non si scaldano nean-che con le stufe, e sappiamo tutti che “non bisogna dire gatto finché non ce l’hai nel sacco”. Ma ha fatto centro e si sa che quando si fa goal si ha sempre ragione, anche se si è andati contro gli ordi-ni dell’allenatore, in questo caso rappresentato dal buon senso. La serata infatti, dopo un inizio di raccolto ascolto, è entrata nel vivo con ritmi-che di penetrante empatia. Percussioni e timbriche dalle origini arcaiche che da sem-

pre hanno elevato lo spirito dell’uomo verso quello strano coinvolgente piacere per il ritmo. Che sia fatto battendo su un legno millenni or sono o su di una percussione di ultima generazione, ancora oggi il ritmo attrae e coin-volge. Se poi ci mettiamo i virtuosismi degli strumenti af-fascinanti del nostro tempo ecco che il risultato diviene una danza carica di espres-sioni, una voglia di muoversi,

un’allegria a cui non è facile sottrarsi. Insomma una festa. Le percussioni dicevamo, af-fidate a Franck Mantegari, erano l’ossatura dello spetta-colo. Durante il concerto gli occhi manco a dirlo erano soprattutto puntati su di lui in vistoso movimento, e sulle oc-chiate di intesa work in pro-gress che si scambiava con i compagni di musica per stac-chi e cambi fatti all’istante al servizio di improvvisazioni ed estri. Ma la vera colonna portante sono state le tastie-re di Kenzi Bourras. Cosa non è uscito da quelle sue dita è difficile dirlo. Bassi, fiati, cor-de e naturalmente tastiere, una big band tutta in uno strumento e in un musicista. Preponderante la sinergia tra i due per il sound “maschio” e accattivante che tanto ha fatto ballare i presenti. Ritmi orientali e occidentali con suoni che parevano prove-nire ora dal deserto ora da un’arena metal, ma anche assieme. È proprio questo il sound Pop-raï che ha reso famoso Rachid Taha e con cui ancora si fa apprezzare. Poi c’era Hakim Hamadou-che all’oud, una particolare chitarra acustica con timbri-

ca prettamente orientale a dieci corde (cinque doppie) e, nonostante ciò, suonata indifferentemente per ac-compagnamento o come solista essendo il musicista in possesso di tecnica notevole, arricchendo il sound con pre-stazioni da eccellenza. Dotato di una innegabile personale personalità ha eseguito an-che pezzi in solitudine pos-sedendo pure una buona voce. Juan de Guillebon si cimentava alla chitarra elet-trica, pur nato come bassi-sta, e purtroppo si sentiva. Lo ha fatto meglio che poteva e devo dire non bene. Con tecnica tutt’altro che virtuosa non ha mostrato padronanza dello strumento e delle sue sonorità. Accompagnamento e poco altro per una presta-zione d’ufficio. E poi lui: Ra-chid Taha, che sembra vive-re alla giornata la sua storia artistica come un giocattolo che continua a non romper-si, ciondolante sul palco e se vogliamo anche traballante, ma all’altezza e consumato ai palcoscenici ha catturato l’attenzione di tutti, e poi li ha guidati a liberarsi dagli schemi, sembra essendone esperto sul come fare, e a la-sciarsi andare a balli in piedi o da seduti ognuno a proprio modo, ma a vivere comun-que il ritmo. Il risultato finale è stata una serata come poche altre. A mio modo di vedere, e contrariamente a quanto dichiarato da Rachid ovvero che «la musica non unisce i popoli», ha invece accomu-nato nell’euforia e nel diver-timento persone di diverse culture, unendole almeno in quella musicale in un’unica prorompente onda di plura-lismo scevro da preconcetti e status.

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LA STORIA

La scalata alla presidenza di JFKGli esordi politici del presidente americano che per primo intuì il potere dei mediadi Emanuele Celotto

J.F.K.: born in Brookline 05.29.1917 killed in Dallas (Te-xas) 22.11.1963. John Fitzge-rald Kennedy, il 35° presi-dente degli Stati Uniti, decise di darsi alla politica dopo la perdita del fratello Joseph, morto in guerra, su cui erano inizialmente riposte le speran-ze politiche di famiglia. Per indole ed idee era diverso dal fratello, ma anche dal padre. Prima iscritto a Prin-ceton poi ad Howard, per lui l'idea della politica era assai lontana. Dopo la guerra gli verrà conferita una medaglia al valore per aver salvato, con le sue azioni, gran par-te dell'equipaggio della PT 109 (una moto-silurante che si dimostrò inutile durante il conflitto). Questo creò un'au-ra di fiducia attorno alla sua persona, ma la guerra lo la-sciò debilitato, con la malaria e molti strascichi. Nel 1947 il deputato democratico Curley lasciò; JFK corse per il seggio e vinse. Fu eletto deputato a soli 29 anni e si riconfermò alle elezioni successive. In en-trambe le camere la maggio-ranza era repubblicana. Lui si sentì con le mani legate e trovò quella vita assai noiosa; le poche proposte da lui pre-sentate non passarono o fini-ro nel cassetto. Nella seconda metà del '51 Kenndy girò un po' il mondo e grazie a questo cambiò il suo atteggiamento nei confronti dell'Europa. Ini-zialmente contrario e scettico sul piano Marshall, ne diven-ne poi un convinto sostenito-re. La ripresa economico po-litica dell'Europa sviluppata nella democrazia andava aiutata. I suoi crucci furono la sicurezza nazionale e la pau-ra di un conflitto atomico. La Nato quanto un'Europa sicura erano ottimi alleati contro il pericolo russo-comunista. No-nostante i guai fisici perenni non perse la sua verve. Sposò Jaqueline Bouvier nel 1951. In quel matrimonio c’era sia attrazione che convenienza per entrambi (lui per lo status politico, lei per un futuro con i dollari). Nel ‘54 Kennedy era indeciso se correre per diven-tare governatore dello stato del Massachusett o senatore. Non voleva neanche correre

contro l’allora go-vernatore Drever, per non spaccare il partito. Drever era indeciso tra rican-didarsi o tentare il Senato. Alla fine corse come gover-natore (perdendo) e JFK tentò la via del Senato con il motto: «Lui farà di più per il Massachu-sett». L'industria e la pesca andavano male e l'economia dello Stato era in netto declino; c'e-ra bisogno di idee nuove e gente nuo-va. JFK coinvolse molte donne nel-la sua campagna elettorale e alla fine battè il favorito repubblicano Lodge per soli settantamila voti, ma vinse in tutti i distretti. Pochi mesi dopo in Senato Ralrh Flanders presentò una mo-zione di censura contro Mac Carty e Jenner per le falsità e le esagerazioni del periodo oscuro del maccartismo. JFK scrisse il suo parere (favore-vole) ma non poté leggerlo causa guai alla schiena che lo tennero in ospedale. Tra operazioni ed infezioni passò un periodo molto travagliato tra l'estate del ‘54 e aprile ‘55 ma a maggio di quell’anno (magro e ingrigito) tornò in Senato. Durante la malattia scrisse il libro: "Profil of corige" poi premiato con il Pulitzer. Recuperata in fretta la verve politica e fisica, Kenned deci-se di correre come vice presi-dente del partito democratico nelle primarie del 1956. Alla fine, a lui fu preferito l'altro candidato, Esters Kafauver. Eisenhover distrusse il demo-cratico Stevenson alle presi-denziali e quella sconfitta, si rivelò un vantaggio; i delega-ti democratici ebbero modo di conoscere meglio JFK ed il fratello Bob. La covention del partito nel '52 fu seguita da 4 milioni di persone, quella del ‘56, grazie alla televisione, da 40 milioni. Questo aumentò la sua notorietà all'interno del partito e crebbe in lui la voglia di arrivare alla Casa Bianca. Come senatore riu-

scì a far approvare la legge sul minimo salariale (da75 cent a 1$ all'ora), firmò il Civil Right Act, che permise ai neri perseguitati per motivi raz-ziali di andare per vie legali, dando loro la possibilità di far parte della giuria. Disse aper-tamente che la segregazione non solo era deprecabile ma inaccettabile in una società civile. Cercò di far passare una legge che prevedeva pari stipendio per le donne a parità di lavoro degli uomini. L'obbiettivo finale era chiaro (la presidenza), alcune idee erano in via di formazione. Diritti civili e maggior giustizia sociale saranno parte del suo programma. Ma la sicurezza nazionale era ciò che gli pre-meva di più; aveva la "fissa" che l'Urss stesse armandosi per una guerra contro gli Usa. Intuì che la prossima "polve-riera" sarebbe stata l'Indoci-na (che la Francia lasciò di lì a poco) e che la politica este-ra per gli Usa sarebbe diven-tata molto più importante che in passato. Kennedy impiegò alcuni esperti del suo staff in una ricerca sull'impatto della televisione nelle elezioni. I ri-scontri furono più che ottimisti; cambiò modo di vestire, curò molto il suo aspetto (lo stesso fece la moglie) ed iniziò da apparire in tv. Col suo sorriso bucava il video e la sua fama cresceva. Nel ‘57 riuscì a farsi assegnare nella commissione Affari Esteri. Si arrivò così al

'58, quando Kennedy si rican-didò come senatore del Mas-sachussett: vinse ottenendo quasi 900mila voti. Fu spesso invitato a tenere discorsi in giro per gli Stati e nelle Uni-versità; fece colpo sulle platee, strinse mani, si mise davanti ai cancelli delle fabbriche per farsi conoscere dagli ope-rai del primo turno. Non parlò della sua candidatura, ma si fece vedere spesso in Wiscon-sin, caposaldo del candidato democratico alle primarie H. Humprey. Annunciò la sua candidatura il 2 gennaio 1960. Ormai il quadro si sta-va delineando; H.Humpley, L Jonson, A.Stevenson erano i candidati "credibili" con cui avrebbe dovuto vedersela. Nonostante le pressioni dei sostenitori, Stevenson aveva più volte dichiarato di non volersi presentare e che nem-meno avrebbe appoggiato altri candidati. Le primarie del '60 si sarebbero tenute in 16 Stati. Kennedy era sicuro che la prima cosa da fare era battere Humprey nel Wiscon-sin e che questo gli avrebbe aperto la strada. Alle prima-rie del Wisconsin ottenne un 6 a 4 a suo favore, che però non eliminava Humprey. Do-veva vedersela di nuovo con lui nel West Virginia. Come cattolico, in uno stato con 95 per cento di protestanti, schivò la questione religiosa. Improntò la campagna elet-torale promettendo aiuti ed interventi nelle zone più svan-taggiate dello Stato, dove il reddito pro-capite era il più basso degli Usa. Il 10 maggio gli exit pool serali davano JFK oltre il 60 per cento. Vinse con quel risultato e a ruota an-che in Oregon. Dall'11 al 15 luglio si tenne la convention democratica a Los Angeles. Stevenson lo preoccupava; non avrebbe ottenuto la no-mination ma avrebbe potuto spaccare il partito. All’ultimo momento il suo antagonista si presentò alla convention con i sostenitori che gridavano "vogliamo Stevenson", ma fu informato che ormai i delega-ti erano quasi tutti per Kenne-dy. La prima sessione di voto si svolse il 13 luglio. Kennedy contava già 700 voti dei 761 necessari. Alla fine degli scru-tini Kennedy ne aveva 750, mancava solo il Wyoming che contava 15 voti. «Wyo-ming offre i suoi voti al futu-ro presidente Kennedy» disse il delegato democratico del Wyoming dopo lo spoglio. Kennedy aveva vinto! Era il candidato presidenziale dei democratici

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LDP - LIBERTÁ DI PAROLAGiornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi

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Hanno collaborato a questo numero

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——————————————Milena BidinostIl direttore non si discute, si ama. Penna libera, riesce ad immer-gersi nella bolgia dell’Associa-zione con delicatezza e costan-za, impegno ed esperienza. Quando le parli ti chiedi se le tue parole finiranno in un arti-colo! Ma confidiamo nella sua amicizia

——————————————Franca MerloPresidentessa onoraria dell’As-sociazione affronta la vita come una eterna sperimentazione. Oggi è a Londra, più avanti.. si vedrà. Non manca mai di commentare il blog, non man-ca mai di sentirsi Panchinara, ovunque sia.

——————————————Cristina ColauttiÈ arrivata in sede in punta di piedi, adesso non le sfugge niente, anzi. Dottoressa in socio-logia Bis, porta a casa un 110 e lode a mani basse! Pare che “ansia” sia il suo secondo nome, ed infatti è la nostra donna per Codice a s-barre, così almeno lì, si sente al sicuro!

——————————————Irene VendrameE’ arrivata in redazione una cucciola! Giovanissima, timida e delicata, ma altrettanto deter-minata e ambiziosa. Sogna di diventare una famosa giornali-sta come Oriana Fallaci, così è stata arruolata da LDP per farsi le ossa. Benvenuta Irene!

——————————————Emanuele CelottoScrittore, nuotatore, scacchista, attore. Presenza morbida e mai sopra le righe, nonostante que-sto difficilmente non fa quello che pensa. Con la caricatura l’omaggio dell’affetto per lui nella folta chioma, ormai ricor-do di antichi fasti e disavventu-re inenarrabili

——————————————Paola DorettoLettrice d’altri tempi, si nar-ra che abbia dichiarato che ci sono troppi pochi autori al mondo per fare in modo che lei riesca a leggere sempre libri nuovi! Si spende ogni giorno per cercare di dare il proprio contributo verso un mondo più giusto e quindi, con naturalez-za, scrive sul nostro giornale.

——————————————Sara lenardonSeguendo le orme del fratello decide di fare il tirocinio da noi. Pazza. Per cui perfetta. Gin-nasta di professione, studentes-sa per cultura, panchinara per passione. Scrive il suo primo articolo dall’altra parte del mondo, adesso scrive perché da noi ha scoperto un altro mondo.

——————————————Giuseppe MiccoBepi: secco come un terno, Monsieur Le Bepo è il lottologo della compagnia. Dategli la vostra data di nascita e ne farà una fonte di reddito. Una volta all'anno da Monsieur diventa Mister: dei leoni indomabili, i Kullander United.

——————————————Mauro PaludettoForse l’ultimo dei romantici, in-namorato delle donne e dei loro difetti, ha momentanea-mente abbandonato il regno. Una piccola e salvifica pausa di riflessione tra le colline per ri-prendere lo smalto, comunque solo sbiadito, di uomo d’altri tempi. La panchina è donna, si amano a vicenda.

——————————————Moreno T.Nonostante la sua giovane età vanta un curriculum di espe-rienze di vita da libro. Entra alla panka con l’impegno di venirci qualche volta ed ora è presenza immancabile della sede. Eclettico, canterino de-menziale, alla ricerca di un giro vita invidiabile mentre si man-gia una fetta di torta. Si muove in sede come fosse casa sua, si muove nel mondo come fosse casa sua.

——————————————Patty IsolaL’immagine che la identifica è quella di un folletto. Eterea, nel bene e nel male mai banale, sfuggente, pungente, che ap-pare dal nulla lasciando segni colorati di pennelli e sensibili-tà per poi scomparire nel suo mondo. Mondo che un po’ la protegge ed un po’ la man-gia.. ma i folletti vivono così, ricercando equilibro dentro la rischiosa magia del buio.

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TU AMALI, ARMALI. SE LA STRADA E' SBAGLIATA, TROVERANNO QUELLA GIUSTA DA SOLI.FABIO GEDA

I RAGAZZI DELLA PANCHINACAMPAGNA PER LA SENSIBILIZZAZIONE E INTEGRAZIONE SOCIALEDE I RAGAZZI DELLA PANCHINA