‘L’Annunziata’ di Antonello da Messina _ GIUSEPPE GENNA
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‘L’Annunziata’ di Antonello daMessina
Su L’Annunziata di Antonello da Messina si potrebbero avanzare molte
ipotesi interpretative e molti giudizi che permettono di discriminare, fino all’ottenimento di
un’intuizione, che possiamo definire sovrasensibile, se non altro perché non abbiamo un sistema
percettivo per l’intuizione (le neuroscienze ci stanno lavorando da decenni). Perfetto mandala
occidentale che visualizza ogni cosa sotto via analogica, inarrivabile rappresentazione della
Grande Madre e del movimento ritmico Purush-Prakriti, Tao in forma androgina, grommo telogico
di simboli cristiani oppure nodo di istruzioni alchemiche per visualizzazione – tutto ciò potrebbe
essere evocato a giustificare l’ingiustificabile. Viene qui riprodotta non un’esegesi simbolica, bensì
una fenomenologia descrittiva avanzata, di cui è autrice la storica Marina Plasmati. Gli elementi
sono presenti tutti. A ciascuno sguardo la possibilità di aprirsi a un’eventuale intuizione. (gg)
***
L’immemorabile visitazione – L’annuncio a Maria in Antonello da Messina
di MARINA PLASMATI
[in Atti del Convegno "Figure archetipali - Tracce sui sentieri dell'uomo" - Bracciano 3-4 ottobre
2009]
L’apostrofe muta o del parto umano del divino: queste le parole chiave attorno a cui ruoterà il mio
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intervento a proposito dell’archetipo dell’annunciazione e di come lo “visita” e lo offre al nostro
sguardo nel suo capolavoro assoluto il genio di Antonello da Messina.
In principio c’è il thaumaston, la meraviglia: l’incarnazione o meglio la nascibilità di Dio è un
avvenimento davanti al quale l’universo stesso e l’uomo, sua creatura, precipitano in un abisso di
stupore. Prima di chiedersi perchè, come, a che scopo, le circostanze, il fine, il motivo, c’è la
meraviglia; Dio nasce come uomo e nulla è più lo stesso. Dice a riguardo Agostino con il suo
poetico acume a proposito di questa misteriosa discesa: “Dio parla. Vuole farsi uomo. Le Sedi
stupiscono, i Troni ammirano, l’esercito divino ammutolisce”.
Il Dio della tradizione giudaica, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio Creatore del cielo e
della terra, a cui il popolo di Israele, come raccontano le sacre scritture, obbedisce come a un
padrone e si ribella come a un padre, decide di abbandonare la splendore diafano delle sfere
celesti per calarsi fin nelle tenebre della materia umana, nell’abisso della realtà corruttibile, dentro
le viscere di un corpo. Come per ogni nascita mortale, anche per JHWH c’è bisogno di un
concepimento; per farsi carne ha bisogno di una carne che lo accolga, per nascere ha bisogno di
un ventre che lo ospiti, per essere uomo ha bisogno di una donna che lo partorisca. E sceglie lei.
L’orecchio di un tale annuncio, il grembo di questo in-concepibile concepimento è una
giovanissima ragazza di Nazareth, una fanciulla ebrea di nome Maria. Prima di questo evento di lei
non si ha alcuna traccia: non un gesto, un riferimento, una parola. Era una sconosciuta qualunque,
di un villaggio dimenticato della Giudea; nemmeno il suo nome è originale, come ci testimoniano
le scritture stesse, dove le Marie, Myriam in ebraico, che vuol dire goccia del mare abbondano.
A ben guardare, il suo tratto distintivo è proprio il silenzio, di lei e su lei. Pochissime le sue
menzioni nelle scritture, ancora meno le parole da lei stessa pronunciate. Gli evangelisti,
diversamente dai vangeli apocrifi, tacciono sulla sua nascita, sulla sua vita prima di divenire
madre, sul suo aspetto, addirittura sulla sua vita durante e dopo la morte di Cristo. Sembrerebbe
che la sua presenza abbia partecipato del mistero del divino in maniera minima, fugace, quasi
impercettibile. Eppure da lei, con lei e attraverso lei tutto ha avuto inizio.
Partiamo dal fatto. L’annunciazione. Un giorno come tanti altri, ad un’ora imprecisa, un angelo e
una vergine si dicono parole misteriose, forse inimmaginabili per entrambi. Un saluto, una
domanda, una risposta ed ecco che si materializza il solo concepimento auricolare che la storia
umana abbia conosciuto.
Leggiamo il testo del primo capitolo di Luca:
Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea,
chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide,
chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Ti saluto, o
piena di grazia, il Signore è con te». A queste parole ella rimase turbata e si
domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: «Non temere, Maria,
perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo
chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il
trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno
non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come è possib ile? Non conosco uomo».
Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la
potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio.
Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo
è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossib ile a Dio». Allora Maria
disse: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». E
l’angelo partì da lei.
Una scena semplice, un racconto essenziale, che è presente solo in Luca. Esso si apre senza
preamboli e si chiude alla stessa maniera. In un intervallo di tempo senza tempo un fatto
drammatico vede sulla scena due personaggi: l’angelo Gabriele, il messaggero, colui che
annuncia e Maria, la vergine, colei che accoglie. Sullo sfondo lo Spirito, ilPneuma vitale,
il verbum che vuole divenire caro, l’ombra che si stende sulla virgo e la feconda. All’evento
formidabile non sono presenti i genitori di Maria, né Giuseppe, né ovviamente Gesù. Ciò significa
che l’unica fonte dell’evangelista Luca fu lei, la sola presente quel giorno a Nazareth, Maria stessa.
Luca, l’evangelista dell’infanzia, nella tradizione cristiana diventerà il patrono dei pittori, perché il
solo che si sia cimentato nel dipingere un ritratto di Maria, una icona che avrebbe fatto da modello
a tutte le immagini successive fino a noi.
L’evento divenne festività solenne della chiesa intorno al VI secolo. Della festa abbiamo
testimonianze precise a Costantinopoli attorno al 530. A Roma la festa fu introdotta da Papa Sergio
I (687-701), un italo-siro proveniente forse dalla Sicilia, con una processione seguita da una
celebrazione liturgica a Santa Maria Maggiore, basilica i cui mosaici erano legati alla divina
maternità di Maria stabilita dal Concilio di Efeso del 431. Sin dall’inizio la festa fu celebrata il 25
marzo, quindi nel periodo quaresimale, un tempo dunque che per sua stessa elezione – tempo di
austerità, purificazione ed espiazione- escluderebbe qualsiasi solennità fino a Pasqua. Perché
questa eccezione? Perché l’Incarnazione del Verbo è l’inizio della sua Pasqua: perciò la festa del
25 marzo, già a partire dal IV/V secolo è considerata l’inizio dei tempi nuovi, l’inizio della fine:
l’espressione patristica greca rhíza tón heortón, “radice delle feste” come la definisce Giovanni
Crisostomo – con la quale si denomina questa data – vuole indicare il giorno che comprende tutti i
giorni: il giorno summa di ogni altro giorno. Seguendo l’ipotesi che spiega la festa del Natale
fissata al 25 dicembre in dipendenza dal 25 marzo (e non viceversa), i Padri – fin dal tempo di
Tertulliano – credevano che questo giorno, equinozio di primavera, segnasse simbolicamente tre
eventi centrali: la creazione dell’uomo, il concepimento verginale del Verbo e la sua stessa morte.
Ciò significa che Cristo da subito è interpretato dalla sensibilità cristiana come l’uomo nuovo, il
nuovo Adamo e Maria come la seconda Eva, la madre della salvezza. Canta un inno di Andrea di
Creta a proposito dell’annunciazione: “La terra si unisce al cielo, Adamo è rinnovato; Eva è liberata
dalla primitiva afflizione, e la tenda della nostra natura diviene tempio di Dio, per la deificazione
della nostra condizione da Lui assunta”.
[...] Come ha egregiamente detto E. Corbin, “è nell’anima e non nelle cose che si compiono le
ierofanie ed è l’accadimento dell’anima che situa, qualifica e rende sacro lo spazio in cui è
immaginato”. Antonello ha osato dare immagine sensibile a questa Idea sovrasensibile.
C’è di più. E il di più è rappresentato dal
capolavoro assoluto di Antonello:L’Annunziata di
Palermo, Antonello da Messina (sec. XV),
palazzo Abatellis, Messina [clicca sull'immagine
per ingrandire].
Partiamo dallo sfondo: il buio nero dello sfondo
inghiotte ogni spazio reale e dona assoluta
plasticità alla figura. Essa è chiusa in un severo
manto azzurro dalle pieghe appiombate che si
fissano al tavolo, formando una vera piramide. Entro la linea triangolare del manto si iscrive un
altro triangolo con il vertice in basso: la profonda scollatura incastona come un gioiello di
perfezione geometrica tre ovali assoluti: il volto, l’ombra e il velo. La stilizzazione geometrica della
figura è accentuata dalla scomparsa dell’aureola, di ogni dettaglio di veste e soprattutto dalle linee
rigorose degli occhi, del naso e della bocca, che ne fanno un volto ieratico e distante, quasi fosse
distillato da ogni incidente terreno nella sua immacolata inarrivabile purezza. Gli occhi fanno
scendere lo sguardo in basso a sinistra, da dove proviene la luce e forse l’angelo, che
naturalmente è assente. La piega della stoffa nel mezzo del capo – Sciascia dice pare sia il vestito
buono conservato nella cassapanca tra gli altri del corredo e tirato fuori nei giorni delle feste –
determina l’asse della composizione che scende netto lungo la linea del naso diritto, prosegue
seguendo il vertice della scollatura, giù per le nocchie delle dita della mano destra , fino alla
prominenza dell’inginocchiatoio.
Tutto è perfettamente e rigorosamente calibrato per creare una sintesi di perfezione formale e
strutturale, ma a ben guardare, aumentando il grado di stilizzazione, si accentua ancor di più la
drammatica “profanazione” del tema che Antonello ha operato: e il segreto sta nello straordinario
gioco prospettico che si muove sensibilmente in questo quadro. Vediamone alcuni dettagli
significativi.
La figura di Maria sembra perfettamente frontale allo spettatore, ma non lo è. A ben guardare,
rispetto alla Madonna di Monaco, è stato eliminata la balaustra perpendicolare allo spettatore da
cui appariva la figura e che creava una separazione tra Vergine e Angelo-spettatore ed è stata
sostituita da un leggio di legno disposto in obliquo il cui spigolo, raddoppiato dallo spigolo
dell’inginocchiatoio, punta verso di noi e pare rompere la divisione tra spazio reale e spazio
pittorico. Ma non solo. La Madonna non è affatto immobile sull’asse mediano, ma pare lievemente
girare verso sinistra con la spalla e soprattutto con la mano sinistra che si offrono più vicine al
nostro sguardo. Questa mano, la più bella mano della storia dell’arte, la definisce Roberto Longhi,
o meglio il suo gesto che avanza deciso, fora letteralmente lo spazio e ne tenta cautamente il
limite, costituisce uno degli esempi più eccellenti di eminentia, cioè di ricerca di un aggetto
illusionistico che esca dal piano della tavola dipinta per proiettarsi sullo spettatore. Contrapposta è
la mano destra, tesa a stirare il manto e a chiuderlo su di sé, con gesto modesto e moderato,
mentre il libro spostato tutto a destra alza nell’aria il fendente affilato del suo foglio, quasi un soffio
leggero di vento lo avesse appena scompaginato.
Questa immagine è quindi carica di una potenzialità drammatica che ci sorprende e ci interpella.
Alcuni storici dell’arte vi hanno voluto vedere la sintesi architettonica-iconografica di tutta la storia
dell’annunciazione nei suoi diversi
momenti: Conturbatione,Cogitatione, Interrogatione, Humiliatione, Meditatione, partendo dal gesto
della mano fino al volto estatico di Maria. E questa è interessantenon solo sul piano artistico, ma
anche su quello più profondamente simbolico, perché Antonello non ha voluto lasciarci il
fotogramma di un istante, ma un vero e proprio itinerario, la narrazione visiva di un percorso.
Noi che guardiamo non siamo al posto dell’angelo, non siamo spettatori silenziosi, non siamo
ospiti inconsapevoli di un evento, siamo i destinatari e, in quanto tali, i protagonisti.
Questo quadro è dunque in termini simbolici, ma anche in qualche modo teologici l’immagine di
una visitazione; il divino visita l’umano e lo fa nel solo modo in cui può accadere, come una
apostrofe muta, cioè nel paradosso della sua presenza assente o della sua assenza presente.
Come ben suggerisce il filosofo Jean-Luc Nancy, sono i due movimenti, del corpo e dello spirito,
che la mano di Antonello ha saputo così magistralmente sintetizzare, raccontandoci
l’annunciazione: da una parte “l’eccomi, lohoc est corpus meum , il farsi carne del verbo che pone
l’accento appunto e una volta per sempre sul corpo, sulla sua presenza, sulla fisicità dell’essere
presente: peso, dimensioni, materia con tutto l’invisibile che la cosa porte in sé, e dall’altra vi è la
radicalità di un divino che non si può e non si deve vedere, è il ritirasi di Dio, il Deus absconditus”.
Ecco che questo capolavoro di Antonello compie il prodigio non di rendere visibile, ma di mettere
l’invisibile in luce, tendendo amorevolmente il nostro sguardo – la mano di Maria ne dà la direzione
– a ciò che eccede ogni visione, ogni memoria, ogni oblio eppure ci è vicino, è dentro di noi, è noi.
Troopo vicino e troppo lontano, il paradosso del Dio-uomo.
Qui sta l’annuncio che interpella, qui la risposta dell’interpellato: il parto umano del divino.
La chiamata per questa donna non è da intendere come un fuggire dal reale, come un immergersi
in un sogno sublime, ma al contrario un arrendersi ed aderire ad una presenza, un partecipare
attento e cieco insieme alla sostanza tangibile di un concepimento intangibile, di un figlio da
partorire. La realtà di essere madre, di avere un figlio, il Figlio di Dio, del suo Dio, davanti alla sua
fragilità, alle sue debolezze, alle sue miserie di donna in carne e sangue non può non averla
scossa, turbata, devastata , ma solo da questa scossa profonda, da questo salto nel buio del suo
grembo accogliente può avere inizio il cammino dello spirito. Si tratta di un itinerario che parte dal
“tremendum” che ogni divino porta in sé e conduce alla conversio che il divino opera in noi.
Questa metabolè, cambiamento, esclude ogni idea di piacere, illusione o autocompiacimento, a
vantaggio di quella mobilitazione dell’essere, che è il solo fondamento dell’amore. Perché in fondo
questa donna ha osato dire e farsi sì di una profonda e delicatissima possibilità, la possibilità
della fede.
E qui ci viene in soccorso un magnifico pensiero di Simone Weil, meditato a lungo da Cristina
Campo: “Avere fede nella realtà di qualcosa – se si tratta di qualcosa che non è né constatabile né
dimostrabile, significa accordare a questa possibilità una certa qualità di attenzione. Ma che vuol
dire attenzione? Essa è qualità della pazienza, che risiede nel sapere attendere per far venire alla
luce la realtà vera, quella che va oltre la legge della necessità, ed è qualità dell’umiltà, cioè
capacità di “obbedire” a quell’invisibile che va ben oltre l’onnipotenza del visibile. Occorre cioè
perdere i connotati dell’io, farsi trasparenti, poiché l’io non è altro che l’ombra proiettata dal peccato
e dall’errore, che arrestano la luce di Dio. A colui che senza speranza si affida all’insperabile e
muore al proprio io è affidata questa sorte meravigliosa:. Come il chicco di grano nel buio della
zolla, chi si affida non conta su eventi particolari perché è certo di un’economia che racchiude tutti
gli eventi e ne supera il significato come l’arazzo supera i fiori e gli animali che lo compongono”.
La fede nell’incarnazione è la pienezza dell’attenzione accordata alla pienezza di una armonia
nascosta, l’accordo dell’umano col divino, il miracolo del Dio-con-noi. Questo è il cammino che il
dipinto di Antonello ci suggerisce. Nel volto di sublime bellezza e umanissima grazia di questa
giovane donna del popolo splendono le parole di una mistica bruciata al rogo nel 1310, Margherita
Porete: “La verità della fede consiste nell’essere ciò che si crede. Solo chi è quel che crede, crede
davvero” (Specchio delle anime semplici, Sellerio, trad. Donata Feroldi).