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Lo sguardo di Antonello Progetti per la città di Messina di Marco Mannino Adesso che la comunità di Messina si prepara a elaborare un nuovo strumento di controllo per le trasformazioni del centro urbano e del suo territorio, la scelta di raccogliere alcuni progetti elaborati per la città, mi è sembrata particolarmente opportuna. La necessità di dotarsi di un nuovo Piano induce a una generale riflessione su possibili scenari urbani, con la fiducia che un dibattito ampio possa interpretare le nuove istanze di trasformazione e cambiamento: Messina, come tante città in Italia, ha dei grandi problemi, ma questi portano con sé anche la speranza di poterli superare. Un buon Piano, si basa su buone idee, inizia dall’elaborazione di un buon programma, ma questa affermazione, per quanto possa sembrare ovvia, attualmente è quanto mai controversa. Oggi la programmazione delle regole del costruire non è affidata a chi fa i progetti di architettura o a chi si occupa di progettazione urbana, anzi il più delle volte, questi progettisti vengono esclusi dalla fase della cosiddetta pianificazione. In questo modo, a chi fa i progetti di architettura, viene a mancare un dato di partenza importante che è la conoscenza del valore più generale di ciò che dobbiamo costruire o modificare e che ci consente di definirne il carattere. Chi gestisce la fasi di un programma generale è molto spesso condizionato e travolto da istanze pratiche, economiche, normative; ma accanto a queste, sono altre le domande che devono interessarci, anche se queste sono i moventi delle trasformazioni. Dobbiamo alimentare il valore culturale, che è l’estensione necessaria del fine pratico.

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Lo sguardo di Antonello

Progetti per la città di Messina

di Marco Mannino

Adesso che la comunità di Messina si prepara a elaborare un nuovo strumento

di controllo per le trasformazioni del centro urbano e del suo territorio, la scelta

di raccogliere alcuni progetti elaborati per la città, mi è sembrata

particolarmente opportuna.

La necessità di dotarsi di un nuovo Piano induce a una generale riflessione su

possibili scenari urbani, con la fiducia che un dibattito ampio possa interpretare

le nuove istanze di trasformazione e cambiamento: Messina, come tante città in

Italia, ha dei grandi problemi, ma questi portano con sé anche la speranza di

poterli superare.

Un buon Piano, si basa su buone idee, inizia dall’elaborazione di un buon

programma, ma questa affermazione, per quanto possa sembrare ovvia,

attualmente è quanto mai controversa. Oggi la programmazione delle regole del

costruire non è affidata a chi fa i progetti di architettura o a chi si occupa di

progettazione urbana, anzi il più delle volte, questi progettisti vengono esclusi

dalla fase della cosiddetta pianificazione.

In questo modo, a chi fa i progetti di architettura, viene a mancare un dato di

partenza importante che è la conoscenza del valore più generale di ciò che

dobbiamo costruire o modificare e che ci consente di definirne il carattere.

Chi gestisce la fasi di un programma generale è molto spesso condizionato e

travolto da istanze pratiche, economiche, normative; ma accanto a queste,

sono altre le domande che devono interessarci, anche se queste sono i moventi

delle trasformazioni. Dobbiamo alimentare il valore culturale, che è

l’estensione necessaria del fine pratico.

Prima di provare a spiegare il senso dei progetti qui raccolti, occorre una

premessa programmatica.1

I progetti illustrati sono progetti didattici, per lo più tesi di laurea, coordinate, in

qualità di relatore, nella Scuola di architettura di Reggio Calabria. Selezionare,

attraverso un lavoro sistematico, alcuni progetti elaborati in una Scuola, mi è

sembrato, potesse contribuire a alimentare in modo proficuo un dibattito utile,

se non necessario.

Sappiamo che un progetto didattico, è sviluppato in assenza di vincoli concreti,

ma non per questo deve venir meno la capacità di leggere la realtà.

Un progetto didattico non è e non può essere un progetto reale. Esso è sempre

qualcosa di meno e molto di più.

Un progetto, elaborato nelle aule di una scuola di architettura, deve includere la

conoscenza delle condizioni in cui si colloca e tener presente le possibilità

tecniche in cui si opera, ma a partire da queste deve sapersi spingere oltre,

ricercando con ostinazione e con audacia percorsi non praticati.

Sono cosciente che il rischio è quello dell’autoreferenzialità in un cammino

troppo spesso, nella quotidianità del progetto professionale, intasato da

ostacoli di svariata natura, ma è proprio nella distanza critica nei confronti della

stessa realtà che c’è la possibilità di ricercare e sperimentare possibili soluzioni

senza correre il rischio di rimanere ingabbiati nelle strettoie del contingente.

Un progetto didattico può avere la capacità proiettiva che, dal dato reale, lo

possa sospingere verso la previsione del nuovo. Questa previsione non sarà

un’astrazione se alimentata da una corretta interpretazione della realtà, se

sorretta dalla sensibilità di chi ha occhi per guardare quello che, colpevolmente

spesso, in quella stessa realtà non sappiamo vedere.

Il titolo scelto per questo contributo è Lo sguardo di Antonello. Progetti per la

città di Messina.

Questo è un Quaderno di proposte d’architettura, una raccolta ordinata di

progetti che riflettono su alcuni temi legati al territorio e alla città di Messina;

temi e proposte che cercano di interpretare l’essenza e lo spirito di un luogo per

1 Rif. Premessa programmatica. Didattica e realtà, in “Porto non porto”. Progetti didattici per il

porto di Ischia, di Antonello Monaco, Clean edizioni, Napoli 2013, pp.11-12

evocarne possibili sviluppi. Ciò comporta sempre una presa di posizione, a volte

radicale, una lettura della realtà che non potrà essere mai oggettiva e che

custodisce in sé, inevitabilmente, una tensione progettuale.

Un aspetto questo, che mi è capitato di cogliere in alcuni dipinti di Antonello, in

particolare sullo sfondo delle sue Crocifissioni, dove il celebre pittore raffigura

la città di Messina. Tutti noi, che abitiamo in questa terra, ne riconosciamo

immediatamente il paesaggio, eppure non è certo una restituzione realistica

quella che Antonello ci propone: il suo è uno sguardo selettivo, è una rilettura

dei caratteri fisici del luogo; c’è nella sua visione un valore fondato sulla

capacità di captare e restituirci i caratteri distintivi e riconoscibili del paesaggio

naturale.

Ecco, credo che questi progetti provino a fissare una tensione analoga. Non c’è

mai un atteggiamento mimetico in queste proposte di architettura: nella

lettura delle forme del territorio, della forma urbana, o delle opere di

architettura di un passato più o meno recente, c’è sempre l’aspirazione a

carpirne i modi.

Nell’immagine pittorica di Antonello, dai particolari e minuziosi dettagli illustrati,

alla composizione generale stigmatizzata nelle forme del paesaggio, tutto

rimanda a una forte unità. Un principio unitario che pervade anche questi

progetti che cercano di rendere manifesti i caratteri morfologici di questo

territorio e la complessa relazione tra sistema naturale e organismo urbano.

In questa specificità cerca di trovare fondamento il senso di queste proposte.

La città e il mare

Un’immagine mitica accompagna la condizione geografica della città dello

Stretto: il bacino d’acqua dove confluiscono i mari Ionio e Tirreno, connota così

fortemente il sistema insediativo dei centri urbani, da configurarsi come una

grande piazza d’acqua, cuore della forma urbis di un’area estesa compresa tra

Messina e Reggio Calabria.

Una condizione particolare colta anche attraverso lo sguardo di due illustri

abitanti di questa terra: Antonello da Messina, di cui abbiamo già accennato, e

Filippo Juvarra.

Antonello raffigura la città di Messina guardandola dall’interno, scandisce la

sequenza terra-acqua-terra che determina la centralità dello specchio d’acqua

nel complesso sistema di relazioni tra le due sponde, quella siciliana e quella

calabrese.

Come ha notato Francesco Venezia2, Antonello cattura e porta dentro Messina il

paesaggio e il mondo della costa che si affaccia di fronte.

Filippo Juvarra, ponendosi al centro dello Stretto, ha invece una visione della

città di Messina affacciata sul mare, ne ipotizza, in un celebre disegno, la

continuità architettonica del fronte attraverso la prosecuzione della storica

Palazzata. Una continuità architettonica proiettata oltre i confini fisici della città,

tesa a perimetrare lo spazio d’acqua compreso tra le città dello Stretto.

Una singolarità paesaggistica e territoriale che, come abbiamo già delineato, ha

da sempre alimentato uno stretto rapporto tra architettura e natura.

Una singolarità della conformazione geografica che è peculiare anche del

nucleo urbano messinese: la forma a falce che connota il luogo del porto è uno

spazio naturale delimitato in buona parte dal bordo edificato della Palazzata; le

grandi fiumare che attraversano trasversalmente l’aggregato urbano, una volta

alvei naturali, oggi occultati da grandi strade, misurano e danno ritmo al

tessuto edilizio disegnato sulla forma degli isolati.

Nello sguardo di chi arriva nella città dal mare questa peculiarità topografica è

subito evidente.

Per provare a descrivere il rapporto che la città ha con il mare, mi viene sempre

in mente quella bella considerazione di Thomas Mann in Morte a Venezia

quando osserva che entrare a Venezia per via di terra è come entrare in un

palazzo dalla porta di servizio.

La bellezza della città risiede nel rapporto complesso tra le forme della natura

e le forme del costruito, nella relazione tra questi due sistemi: tra il paesaggio

antropico urbano e la conformazione dello spazio naturale.

Una bellezza da sempre riconosciuta e documentata dalla copiosa cartografia e

dalle iconografie che rappresentano con evidenza la forza di questa relazione.

2 F. Venezia (con P. Di caterina, G. Petruch), in L’isolato di Messina, Medina , Cefalù 1986, pp130-139

A ben guardare, si avverte sempre, nelle illustrazioni che documentano com’era

la città, la presenza e la valorizzazione dei tratti distintivi di questo stretto

rapporto.

L’ area della falce è da sempre stata, nella storia urbana della città un luogo

particolare: gli interventi che su essa si sono succeduti, hanno sempre assunto

il carattere dell’eccezionalità. Il forte S. Salvatore, la lanterna di S. Raineri, il

lazzaretto, la cittadella fortificata, sono infatti monumenti di cui è identificabile

il carattere extra-moenia. Opere relazionate all’ambito paesaggistico dello

Stretto, esterne dunque al tessuto urbano anche se intimamente legate alla

città.

A Messina, come avveniva in tante città della Magna Grecia, è significativa la

relazione che si interpone tra le emergenze monumentali esterne alla città, la

struttura urbana e il luogo della natura: è evidente la persistente

rappresentazione del rapporto che intercorre tra il tessuto edilizio, i monumenti

nella zona falcata e gli elementi naturali (i margini collinari, il bacino del porto,

il mare dello Stretto).

La Palazzata edificata sulla cortina del porto - il teatro marittimo- concorre,

con l’unità architettonica che la contraddistingue, a rendere ancor più efficace il

rapporto dialettico tra le parti: la città, il monumento e il paesaggio.

La forma monumentale del grande edificio, legata alla funzione rappresentativa

dell’Urbis, dichiara l’intenzione di costruire il margine architettonico di un

grande spazio interno: una estesa piazza d’acqua, delimitata dal sistema

collinare dei Peloritani.

Nella copiosa cartografia storica, gli argini murati delle fiumare, Portalegni –

oggi via Tommaso Cannizzaro- e Boccetta- che nella città storica delimitavano i

bordi laterali della città, segnano con la possanza della costruzione muraria, la

profondità della piana edificata, rendendo manifesta la relazione tra le forme

della natura (la morfologia territoriale), e la forma della città.

L’IDEALE CLASSICO_MODERNO

Il concorso per il Progetto della Nuova Palazzata di Messina, bandito nel 1928,

interessato alla riedificazione dell’antico Teatro Marittimo, attraverso i progetti

presentati in quell'occasione, ribadisce la vocazione a questo rapporto.

Nei progetti dei partecipanti al concorso, tra cui Giuseppe Samonà, Camillo

Autore, Bruno La Padula, Adalberto Libera e Mario Ridolfi, si afferma la

consapevolezza dei progettisti, di ribadire quel carattere di margine

architettonico di un grande spazio interno.

Una consapevolezza che porta Giuseppe Samonà, insieme al figlio Alberto, a

impegnarsi, trent’anni più tardi, tra il 1960 fino agli anni ’80, nella elaborazione

del grande progetto della città-regione dello Stretto, una idea di metropoli

sviluppata intorno al mare condivisa anche da Ludovico Quaroni nella stesura di

piani e progetti da lui predisposti per l’area dello Stretto.

Lo stesso Samonà si occupa del completamento della costruzione del fronte a

mare di Messina, la cui edificazione, a seguito del concorso prima ricordato, era

già cominciata nel 1936 con la costruzione dell’edificio INA progettato da Autore

e Viola e del Banco di Sicilia firmato soltanto da Autore.

Dal ’38 al ’40 Samonà è infatti impegnato nella realizzazione dell’edificio INPS

e, dopo un concorso bandito nel ’33 in cui risulta vincitore (insieme a Viola), del

Palazzo Littorio; due opere classiche e moderne, connotate da un carattere

urbano e monumentale insieme, impresso anche negli altri edifici della cortina

che ancora Samonà continua a progettare e costruire tra il 1952 e il 1958.

Della fine degli anni ’30 è la stazione ferroviaria progettata da Angiolo Mazzoni.

In particolare il terminale sul porto della stazione marittima, realizzato per

l’attracco delle navi traghetto per il trasporto passeggeri e ferroviario, costruito

in continuità alla Palazzata, contribuisce alla formazione dell’immagine classico-

moderna del fronte della città sul mare. La grande convessità absidale rivolta

verso il porto della città, sulla quale si innestano gli elementi di collegamento ai

pontili delle navi, conclude il complesso della stazione connotando formalmente

il sistema di testata dello scalo ferroviario in modo da fargli assumere il

carattere di porta alla Sicilia dal mare.

Tutte opere, quelle menzionate, che riflettono un importante aspetto della

cultura artistica italiana in quegli anni: la convivenza contraddittoria e

conflittuale dei valori e dei nuovi ideali della modernità, accanto a quei valori

della classicità testimoni di un glorioso passato. In questa ricerca architettonica

si inseriscono e si intrecciano fittamente temi come tradizione, linea italiana

dell’arte e dell’architettura, architettura di stato, nel tentativo di adeguare la

ricerca sul linguaggio dell’architettura a valide entità morali. Nella Messina

moderna coesistono il monumentalismo civico del Palazzo di Giustizia di

Piacentini e della Prefettura di Bazzani, con il moderno razionalismo della

Stazione Marittima e Centrale di Mazzoni, del Palazzo Littorio di Viola e

Samonà e del quartiere fieristico. Quest’ultimo, in particolare, ha

rappresentato, nelle alterne vicende della sua riedificazione, un manifesto per

l’architettura moderna nella città dello Stretto, un paradigma per le pratiche di

sperimentazione di una nuova idea di architettura.

Inaugurata nell’aprile del 1938 nello spazio dello chalet, l’ex-giardino a mare,

un’area che, insieme al giardino del Lungomare, chiude strategicamente il

fronte dell’area portuale, la nuova Cittadella espositiva fu realizzata su

progetto degli architetti Libera e De Renzi 3.

Nella Fiera di Messina, essi perseguono un programma di rinnovamento urbano

e architettonico indirizzato verso un’idea dell’esposizione come città

rappresentativa , un modello ideale di spazio urbano, metafora costruita di una

idea di città moderna. La perdita della centralità prospettica definisce il

carattere acropolico della struttura insediativa dei nuovi padiglioni, in cui le

forme, apparentemente scollegate, come in una moderna Agora, si fondono in

un continuum cinetico, dislocando i pezzi su un plateau.

Il luogo della Fiera costituisce una sorta di controcanto all’area della falce e ne

sembra ripercorrere i caratteri insediativi. Come per la zona falcata gli

interventi assumono infatti il segno dell’eccezionalità: i padiglioni che Libera e

De Renzi dislocano nell’area dell’ex-giardino a mare, sono i monumenti di cui

ne è riconoscibile il carattere; interventi relazionati all’ambito paesaggistico

dello Stretto, estraniati dal tessuto urbano anche se intimamente legati alla

città.

3 Cfr. Relazione del Comitato della Fiera delle Attività Economiche Siciliane

del 23 Giugno 1938.

Viene dunque rappresentata una idea di città tesa a vivificare il valore indotto

da quella relazione città-paesaggio che da sempre ha incarnato il genio del

luogo.

Una struttura insediativa ribadita nella ricostruzione a opera dei progettisti

messinesi Filippo Rovigo e Vincenzo Pantano.

RIPENSARE IL FRONTE URBANO

Tutto questo è stato fortemente compromesso nelle recenti opere di

ricostruzione e espansione della città. Si sono spianate colline, si sono intubati

tutti i corsi d’acqua dei torrenti che attraversano lo spazio urbano, sono stati

oltrepassati i limiti naturali che delimitano le aree adeguate a una

urbanizzazione, quest’ultima si è poi estesa in modo diffuso e incongruo rispetto

a modelli insediativi rispettosi di quella felice relazione tra spazio naturale e

forma costruita. Assistiamo alla continua messa in opera di un saccheggio: da

un lato un modo maldestro di costruire occupando nuovo spazio; dall’altro la

natura che resiste pur venendo in parte inglobata.

La straordinarietà di questo luogo, il tentativo di provare a elaborare idee che

possano risarcire il territorio da queste recenti devastazioni, costituiscono il

presupposto necessario a spiegare i progetti elaborati in quel tratto di costa

che dalla zona falcata, si spinge fino all’area del giardino Albert Sabin, in

prossimità della foce della fiumara Annunziata: un fronte esteso circa 5 km che

determina l’immagine attuale della città sul mare.

Le proposte di questi progetti sono tutte indirizzate a interpretare l’ipotesi

insediativa originaria con la quale la città di Messina si è storicamente

costruita. Sembra prevalere in queste nuove idee di trasformazione urbana,

prima della ricerca sulle forme architettoniche, una aspirazione: ristabilire il

carattere di quel rapporto natura-architettura che ho provato prima a

sintetizzare.

Non si tratta, con chiara evidenza, di interventi che intendono ripristinare lo

stato dei luoghi così com’erano prima delle recenti devastazioni: la tensione

progettuale è rivolta alla restaurazione di uno spazio originario, inteso non in

termini imitativi; è rivolta a rendere palese il senso di una proposta sul

paesaggio, architettonico e naturale, che torni a ri-guardare i luoghi, nel

significato che possiamo darne di tornare a riconsiderarli lo spazio privilegiato

del nostro abitare.

Questi progetti interpretano la singolarità del luogo, si confrontano

direttamente con le preesistenze, con la storia, con il suolo, con la natura,

cercano di ristabilire, secondo una moderna concezione, un legame profondo

con lo spazio della città attraverso un atto di ricostruzione dei suoi caratteri.

In merito alla proposta di nuovi cantieri navali, nella zona falcata, percorrendo

il grande basamento pensato come un’isola di pietra – memoria dell’antico

lazzaretto- lo sguardo può tornare a spaziare libero, sul porto, sulla città, sul

paesaggio dello Stretto.

Forse la stessa condizione poteva esserci quando tutta l’area della falce era

sgombra di tutte le costruzioni, più o meno abusive, che oggi intasano questo

lembo di terra?

Dal questo podio si elevano le costruzioni metalliche tipiche di un paesaggio

portuale fatto di gru, travel per il varo delle barche: un paesaggio, quello dei

porti, caro a chi ama il mare, che questo progetto evoca con evidenza.

Il progetto per il porto turistico nella rada di san Francesco ha colto l’occasione

per riflettere sul carattere della riva, la riva costruita del porto o la riva

naturale della spiaggia.

Dove adesso ha luogo l’attracco dei traghetti Caronte, era la spiaggia (i più

anziani ricordano i famosi bagni Vittoria); tuttora in parte possiamo cogliere il

senso di quel rapporto con il mare nelle parti residuali di quel litorale popolato

ancora dalle barche di pescatori. Il nuovo porto evoca quel litorale sabbioso:

come una spiaggia artificiale, il grande piano di legno ricerca attraverso la

perentorietà dell’unità materica, l’adeguatezza di uno spazio ad accogliere e

introiettare quel paesaggio marino.

La necessità funzionale di ampi spazi per il parcheggio diventa invece

l’occasione per pensare la costruzione di un parco che si estende per l’intera

lunghezza della rada e ricompone, in continuità con la collina del forte

Ogliastri, l’unità naturalista tra mare e sistema collinare verde.

Dalla topografia insediativa della città e dall’immagine, fissata in tante

illustrazioni della città storica, di bastioni murari costruiti in prossimità della

foce delle fiumare, prende forza l’idea di edificare dei grandi edifici, dal forte

impatto visivo, una sorta di grandi Palazzi a mare, ubicati in prossimità della

fiumare Giostra e Annunziata. Icone di una ritrovata monumentalità alla scala

del paesaggio, questi Palazzi modificano, con la loro sagoma, il profilo urbano;

sono edifici che prediligono figure architettoniche elementari e l’iterazione di

elementi uguali delle costruzioni; sono edifici contraddistinti da una forte unità

architettonica compiutamente formata nell’ambito di un’aura metafisica che

mira a esprimere quel preciso carattere di mediterraneità che lega, ancora più

saldamente, l’architettura al luogo.

Ho sempre osservato come l’architettura dia risposte convincenti quando

riusciamo a contenere in una forma molto semplice, una serie di necessità e

anche di opportunità che a volte usiamo disseminare in una successione di

forme frammentate. L’architettura mira per sua natura a concentrare tutto in

un solo elemento, a esprimere tutto il suo potenziale espressivo entro forme

estremamente semplici.

Edifici alti

Messina, come tutte le altre città in Italia negli ultimi 60 anni, è cresciuta così

rapidamente tanto da rovesciare l’abituale condizione del centro città, costruito

seguendo delle regole di urbanizzazione, denso e compatto, rispetto alle aree

periferiche, scoordinate, sfrangiate e molto modeste per rappresentatività

urbana.

Queste zone di espansione sono cresciute a dismisura, lungo la zona nord, ma

anche la zona sud, e soprattutto lungo le valli dei torrenti. Sono cresciute tanto

da occupare una superficie spropositatamente grande rispetto al nucleo della

ricostruzione post-terremoto.

La città contemporanea è quindi caratterizzata, nel suo complesso, da una

conformazione discontinua e frammentaria e si costituisce individuando delle

parti; queste possono essere riconosciute nelle loro forme specifiche attraverso

l’analisi urbana, la storia, la morfologia e le loro rispettive strutture

compositive (quando ci sono). Alcune di loro (quelle storiche) risultano più

consolidate, altre appaiono invece aree urbane deboli, meno caratterizzate dal

punto di vista formale. Queste sono le aree che richiedono più cura e maggiore

attenzione e bisognerebbe, senza negare i loro valori costitutivi e la loro

specificità, elevarle fino al raggiungimento di una dignità civica e

rappresentativa.

Non si tratta di affidare solo al nucleo centrale l’esclusività dei valori e dei

simboli attraverso i quali la collettività si identifica, tantomeno il centro urbano,

l’isolato del Borzì, può essere assunto quale modello unico e assoluto per nuovi

tessuti edilizi o per la ridefinizione architettonica delle recenti espansioni.

Dove, come nelle aree periferiche, o nelle aree centrali da recuperare alla città,

il carattere del luogo è dato esclusivamente dall’indifferenziazione dello spazio

e dalla molteplicità dei linguaggi formali, caratteristiche tipiche delle

conformazioni di tutte le aree esterne ai centri storici, e dove non esiste una

idea di spazio strutturato, il progetto urbano deve calarsi all’interno dei

problemi e dei vincoli morfologici e fisici, rintracciando e riscoprendo quelle

particolari valenze estetiche in grado di dare figuratività alla città moderna in

sintonia con quella del passato.

Il tema dell’edificio alto, o della torre isolata -non parlerei di grattacielo-

costituisce indubbiamente uno dei temi più significativi dell’architettura della

città contemporanea, ricco di stimoli e di sollecitazioni, sia per la sfida tecnica

insita nella costruzione dell’edificio in altezza, quanto soprattutto per la valenza

rappresentativa che può assumere nel contesto urbano o paesaggistico in cui

inevitabilmente, emerge come un punto di riferimento e orientamento.

Sappiamo che a Messina questo modo di riferirsi alla costruzione dello spazio

urbano è, in parte mancato. Una normativa, rispetto anche agli anni recenti, ha

a lungo imposto, dei vincoli di altezza per la sicurezza antismica. Eppure non

sempre è stato così.

Il tema dell’edificio alto, punto di riferimento nel paesaggio urbano, è stato

assunto nella ricostruzione della città.

Forse è improprio parlare di edificio alto, ma alcune architetture hanno

assunto,nello spazio della città, il valore di poli visivi e di orientamento: il

sacrario di Cristo Re, la chiesa di Montalto, in parte la torre dell’ex edificio

Littorio, ora catasto lungo la Palazzata, e non ultimo, il pilone di Capo Peloro.

Ma anche le fortificazioni che punteggiano il sistema collinare a ridosso della

città: forte Gonzaga, il Castellaccio, i forti umbertini.

Opere monumentali che costituiscono segni inequivocabili nel paesaggio della

città.

Un tema dunque, quello dell’edificio alto che potrebbe essere utile, certo non in

modo univoco, nel processo di ridefinizione delle aree periferiche, o delle parti

di città figurativamente non compiute, alle quali manca quel processo di

sedimentazione e stratificazione che solo il tempo –e purtroppo questo è un

punto dolente nel sistema urbano di Messina- può chiarire e che caratterizza

tutte le città che possiamo definire storiche.

La torre o le torri potrebbero diventare segni eloquenti delle aree periferiche e

degradate, attualmente così indifferenziate e senza gerarchie: senza quei punti

di riferimento che stabiliscono gerarchie e ordinano lo spazio urbano.

Certo può essere anche pericoloso, una politica indiscriminata relativa alla

ulteriore costruzione di edifici, ancora più visivamente invadenti, che in quanto

alti, potrebbe definitivamente compromettere l’equilibrio urbano e

paesaggistico.

Eppure, se ben progettati, sia alla scala urbana e territoriale, quanto alla scala

architettonica e di dettaglio, questi edifici possono rappresentare una risorsa

potenziale per lo sviluppo della città.

A questo proposito sono efficaci le considerazioni proposte da Peter Behrens in

Il futuro di Berlino, dove gli edifici alti sono assunti come componenti in grado

di chiarire identità e dinamicità delle città europee: “una città va intesa in

senso urbanistico come una formazione architettonica conclusa. Una grande

città che si estende a perdita d’occhio non trae più giovamento in senso

romantico dalla disposizione, pur meritevole di riconoscimento, delle piazze.

Poiché si estende a dismisura orizzontalmente, anche l’effetto del campanile di

una chiesa va perduto: la disposizione orizzontale richiede un corpo che possa

essere trovato mediante l’articolazione di compatte masse verticali”.

A Messina questo discorso è particolarmente valido e andrebbe integrato a una

attenta analisi della morfologia territoriale. Al contrario di Berlino, Messina non

è una città piatta; la condizione paesaggistica, i torrenti, il sistema collinare,

definiscono la forma naturale alla quale i sistemi di strutturazione urbana

dovrebbero fare riferimento.

L’attenzione alle strategie insediative relazionate allo spazio della natura,

dovrebbe, e potrebbe, trovare compiutezza in un sistema di triangolazioni

prospettiche a distanza in grado di dare forma alla città nella sua interezza.

Si possono costruire edifici alti come capisaldi di un vasto paesaggio, oppure

come fatti urbani complessi, in entrambi i casi questi particolari edifici

emergerebbero sul contesto circostante mostrandosi attraverso il proprio

carattere. Un carattere legato alla costruzione di un’architettura civile,

indispensabile per rappresentare in forma adeguata i luoghi dell’abitare.

Questi edifici non devono rincorrere primati tecnici e tecnologici, anche se

quello di una buona costruzione rimane uno dei punti centrali per una qualità

diffusa, ma configurarsi come baluardi architettonici in grado di polarizzare

una idea condivisa di spazio urbano.

Torri dunque in grado di restituire, alla scala dell’edificio, la complessità e la

ricchezza di una struttura urbana e l’esperienza collettiva dell’architettura. In

tal modo questi nuovi edifici si andrebbero a confrontare con la dimensione

urbana e con il paesaggio di una grande area metropolitana, riproponendone la

scala e la complessità.

In questo senso la costruzione dell’edificio alto rientra all’interno di una idea di

civiltà che in questi stessi edifici può riflettersi, riconoscersi e riconoscerli come

figure di riferimento della vita urbana.

Evocazioni attraverso le quali possiamo ritrovare l’autorità della tradizione di

quella prima colonna, ripresa da Loos (con il suo famoso grattacielo); la

semplicità della colonna, dell’elemento verticale che si staglia contro

l’orizzontalità del paesaggio, come le croci dipinte da Antonello, che diventano

paline, quasi colonne che misurano il tanto amato paesaggio dello Stretto.

EDIFICI CHE GUARDANO LONTANO E CHE SONO VISTI DA LONTANO4

La torre fonda la propria ragione sulla relazione che stabilisce con la struttura

della città: al variare della forma urbana, variano i modi di disporre le torri

negli spazi della città.

Il modo nel quale gli edifici alti si collocano lungo il viale Gazzi, in uno dei

progetti che qui si presentano, ribadisce il ruolo nodale della struttura urbana

in quel punto della città. Quattro torri a lama disposte a pettine, con il lato

corto lungo la direttrice naturale della Fiumara sono anche il sostegno di una

grande copertura che connota lo spazio di una piazza coperta: un grande

riparo che accoglie sotto di sé anche il capolinea del tram.

Le torri, così disposte, sono altresì il punto di convergenza in tangenza all’asse

di collegamento di via Bonino (la direttrice verso sud) e contemporaneamente

aprono a un ampio spazio verde.

Assumendo la geometria dei tracciati, la disposizione delle torri riconosce

valore urbano alle prospettive costruite dalle strade e dal segno della fiumara.

Al posto dell’attuale quartiere (una delle aree baraccate della ricostruzione

post-terremoto) adesso un sistema di orti urbani. Uno spazio vuoto naturale,

quasi un frammento di campagna, diventa il contesto in cui si collocano gli

edifici progettati. Oltre le torri, altre due isole architettoniche concorrono con la

loro giacitura e con la loro articolazione volumetrica e proporzionale alla

definizione del nuovo contesto urbano.

E’ il valore del vuoto a dare senso allo spazio costruito; è lo spazio libero,

messo in tensione tra gli edifici, a costruire il senso di internità di questo luogo.

Si costruiscono dunque gerarchie rispetto ai tracciati esistenti -la fiumara di

Viale Gazzi, la via Taormina, il sistema di isolati- ma anche futuri –la via del

mare che collegherà il centro della città con la periferia a sud. Si evocano gli

spazi naturali di quella che qui era campagna, declinando una idea di piazza

aperta, un nuovo spazio urbano che segue il paradigma compositivo

4 L’espressione è attribuita a Bramante per descrivere il senso delle torri. Le stesse parole sono

utilizzate per il testo di C. Moccia in Antonio Monestiroli. Prototipi di architettura, Il Poligrafo

2012, pp. 39-41

dell’architettura greca e ci propone una rinnovata idea di abitare la città

moderna.

L’area del Tirone è situata in prossimità del centro del nucleo urbano: si

consolida nel periodo di insediamento di Carlo V, tra le mura di fortificazione

fatte erigere dal 1500, oggi estesa tra la circonvallazione fino alle spalle del

Tribunale (opera di Marcello Piacentini). Il valore paesaggistico di questo sito è

già colto, nel 1775, dallo storico messinese Cajo Domenico Gallo, che descrive

così: “è questo un raro ed amenissimo sito, ornato di vaghi e graziosi giardini

con prospettiva superba donde si scopre la maggior parte della città col suo

porto e tutta la Calabria che gli sta di fronte…”.

Ma di quei terrazzamenti, che ospitavano giardini e balconi con vista sullo

Stretto, rimane solo la traccia, un lontano ricordo; quella natura gioiosa è oggi

aspra e pericolosa, e inevitabilmente, si è radicata una situazione di degrado

sociale.

I progetti che provano a innescare un contributo di idee su quest’area

sviluppano tutti un medesimo pensiero: esaltare il valore del vuoto (del

giardino terrazzato), celebrare questo vuoto della memoria, attraverso

un’architettura eloquente che possa mettere fuori scala i brutti edifici

recentemente costruiti, e ridare dunque senso al valore del vuoto.

La caratteristica essenziale dell’approccio per un tipo di edificio alto al Tirone,

che unifica anche proposte differenti, è individuata nella parte posta a terra:Il

basamento è l’elemento che consente di radicare gli edifici al terreno e di

costruire la forma dei terrazzamenti.

La forma delle torri può assumere geometrie diverse (non avrà mai però una

proporzione eccessivamente slanciata), può variare il ritmo con cui anche più

torri si succedono, la sintassi e la declinazione delle forme costruttive,

rimangono però costanti gli elementi: torri e basamento e il senso delle

relazioni tra loro.

Capo Peloro

Il paesaggio di Capo Peloro è lo scenario imprescindibile per cogliere la ragione

dell’abitare in questo luogo.

La singolarità di questo paesaggio stabilisce una relazione complessa tra le

forme della natura e le forme del costruito, tra il sistema antropico e la

conformazione dello spazio naturale: nella relazione tra questi due sistemi

risiede la bellezza di questi luoghi.

E’ oggi però necessario comprendere quali strumenti ci possono permettere di

avvicinare questa bellezza, quali principi orientino il nostro modo di guardare la

l’architettura e la natura, ma anche quali ingenuità o velleitarismi si nascondano

nelle prese di posizione che invocano la difesa dei loro valori.

Capo Peloro ha sempre rappresentato, per la storia della città, l’ideale di

bellezza naturale: un esterno al centro abitato, una entità chiaramente distinta,

ma al contempo complementare.

Anche per questo luogo, la copiosa cartografia del passato, descrive bene la

stretta relazione tra città e natura, evidenziando sempre la finitezza della città

murata, ed esaltando il luogo della natura: il paesaggio di mare dello Stretto,

con i gorghi marini, animato da imbarcazioni e velieri.

Si è da sempre manifestato un rapporto di reciprocità tra la città e il paesaggio

dello Stretto, l’uno si compendia nell’altro.

Il paesaggio dello Stretto di Messina, ha da sempre manifestato un carattere di

centralità, in termini di valori simbolici e di concrete opportunità per lo sviluppo

della città.

Lo scenario metafisico dello Stretto è lo sfondo immutabile di tanti progetti,

anche per quell’impresa, oggi accantonata, ma che è stata per lungo tempo al

centro di dibattiti e polemiche: la costruzione del ponte.

Un’impresa epocale che nel tempo ha perso quella forza propulsiva alimentata

dalla passione utopica che aveva caratterizzato i suoi esordi. Dopo anni di

ricerche, di verifiche, di controlli, non è rimasto forse traccia di quella ricerca

che, bene o male, uomini come Pier Luigi Nervi, Sergio Musmeci, Nino Dardi,

Giuseppe Samonà avevano costruito con una ricchezza di idee. Idee e progetti

che forse non meritavano l’omologazione tecnica e architettonica dell’ultima

proposta, oggi forse definitivamente accantonata.

Suggestivo è il progetto per il Ponte sullo Stretto elaborato da Armando

Brasini: il “ponte Omerico” presentato nella prima versione nel 1957. Per

suddividere la luce da coprire per il collegamento tra le due sponde, Brasini

prevede la costruzione di un’isola centrale nel cuore dello Stretto sulla quale

collocare un pilone alto oltre 100 metri. In successive varianti lo stesso

architetto proverà altre soluzioni in cui si moltiplicano le “isole” , associando alla

funzione di transito, una o più soste intermedie nel centro dello Stretto. Come

Ponte Vecchio a Firenze o il Ponte di Rialto a Venezia, il ponte è pensato come

una struttura abitata che si confronta con la scala del paesaggio.

Il progetto elaborato da Sergio Musmeci, Ludovico Quadroni insieme a altri noti

progettisti, vince il concorso internazionale bandito nel 1969. La struttura

prevede un ponte sospeso a campata unica di 3.000 metri di luce sostenuto da

una fitta rete di cavi metallici ancorati a due snelli piloni, in acciaio speciale, alti

circa 750 metri: L’esilità della costruzione testimonia la ricerca della ‘perfezione’

tecnica e conferisce al progetto una grande eleganza coniugando insieme

l’eloquenza strutturale dell’opera ingegneristica e l’arditezza architettonica alla

scala geografica.

Significativa la proposta presentata, nello stesso concorso, da Pierluigi Nervi

insieme con i figli Antonio, Mario e Vittorio. Come il ponte progettato dal gruppo

Musmeci-Quaroni, anche Nervi opta per la soluzione a campata unica. Per

assicurare la stabilità laterale dell’impalcato strutturale, Nervi colloca sulle due

sponde quattro piloni di sostegno, due per lato e distanziati tra loro per

consentire il collegamento dei cavi di acciaio fuori dal piano parallelo verticale.

Gli enormi piloni murari, di forma conica, progettati per il sostegno delle

antenne di acciaio superiori, e coronati da una ghiera con gli stralli per la

stabilizzazione dei cavi, evocano, con la loro presenza, le immagini fantastiche

dei mostri omerici che aleggiano nel paesaggio dello Stretto.

Medesime figurazioni sembrano guidare i disegni che Giuseppe Samonà

propone per la costruzione dei piloni del suo ponte: come due grandi totem, i

piloni del progetto del gruppo Samonà, assumono fattezze antropomorfe,

enormi guardiani che sorvegliano il transito nel canale tra le due sponde.

Lo stesso Giuseppe Samonà, a partire già dal 1960, riflette su una Metropoli

futura dello Stretto 5. Con il Gruppo di Urbanisti Siciliani, partecipa al Concorso

per il PRG di Messina, elaborando il progetto del Biporto, immaginando un

secondo porto in prossimità di Capo Peloro e connotandolo, come per il porto

della Città, con la stessa forma a falce.

insieme al figlio Alberto e a un nutrito gruppo di amici, elabora, anche in

occasione del Concorso del Ponte, l’idea di una nuova città di Messina,

ridisegnando l’assetto della costa fino all’attacco del Ponte. Una proiezione

utopica per un grande sistema urbano nel quale grandi contenitori di servizi

collocati sulle colline, sia sulla sponda siciliana, quanto su quella calabrese,

come antiche fortezze, presidiano lo spazio del mare.

Una idea di città, quella portata avanti da Giuseppe e Alberto Samonà, nell’arco

di quasi trent’anni (possiamo datare l’idea della Metropoli futura dello Stretto

dal 1960 al 1987) che incarna, forse più di ogni altra proposta, il carattere

straordinario del luogo, lo assume a fondamento dell’eccezionalità della

proposta architettonica. E quanto questo sia vero è documentato nella relazione

al progetto di Concorso per l’attraversamento dello Stretto. Al termine di quella

relazione, nel 1969, Samonà, insieme al suo gruppo, scrivono: “Al termine di

questa relazione, può venir fatto di domandarsi se le nostre riflessioni e le

nostre scelte siano forse utopiche, prive di basi reali. Se le abbiamo fondate su

un’analisi razionale della situazione attuale di quel territorio, come crediamo,

anche di aver dimostrato, allora la formulazione del possibile obiettivo non è un

difetto, ma significa rafforzamento d’ogni elaborazione e di ogni espressione

che tende a trasformare in meglio il territorio. L’utopia è sempre stata un freno

solamente quando ha soffocato la riflessione critica sulla realtà e su se stessa e

quando ha scombinato la potenziale capacità di mutamento in illusione di tale

capacità e tale realtà. Altrimenti, come crediamo nel nostro caso, è l’ottimismo

della volontà di mutar le situazioni esistenti”.

5 Cfr. Giuseppe e Alberto Samonà e la Metropoli dello Stretto di Messina, di F. Cardullo, Officina

Edizioni, Roma 2006.

La città-natura. Riflessioni e progetti

Un analogo ottimismo anima le proposte di alcuni progetti per l’area di Capo

Peloro; un ottimismo che deriva dalla percezione della grande bellezza del luogo

naturale, ma un ottimismo anche accompagnato dalla ferma convinzione che la

natura non è genericamente verde e un progetto d’architettura non può essere

sostenibile solo in virtù di una presunta vocazione al paesaggio.

Queste proposte cercano di riconoscere i caratteri fisici legati alla forma della

terra, descrivibili con le stesse categorie delle forme costruite. Caratteri che

possono avere un ruolo decisivo nelle scelte insediative, tipologiche e

morfologiche che presiedono alla definizione delle forme dell’abitare.

L’area di Capo Peloro risulta oggi aggredita da un’espansione indiscriminata che

ha di fatto quasi del tutto annullato il carattere extraurbano di questo luogo.

Sono state investite, nel tempo, risorse degli abitanti che hanno preferito un

modello abitativo fondato sul modello villettopoli, della casa con giardino. A

un’aspirazione legittima, quella di una forma di abitare la natura, dello sviluppo

di una città in rapporto al suo paesaggio, non ha corrisposto un’architettura

adeguata al valore del luogo. Le recenti espansioni intorno a Ganzirri e Torre

Faro, a ridosso dei laghi, non hanno saputo riconoscere i caratteri delle

costruzioni esistenti, né tantomeno i segni fisici della terra ed esprimere

attraverso le forme costruite, una relazione con essa.

È la lezione della città antica: assumere la configurazione fisica del territorio

come elemento di costruzione della città, come radice etimologica della sua

forma.6

In considerazione di questo modo di considerare il rapporto tra

architettura/costruzione/ luogo, tutte le scelte del progetto assumono un ordine

logico: l’individuazione del principio insediativo ha valore di atto fondativo e le

valutazioni in merito alla definizione volumetrica del manufatto, il suo

orientamento nello spazio, il suo modo di radicarsi al suolo più che derivare da

un tipo definito conducono alla sua stessa definizione.

6 Cfr. La ricerca della forma della città del nostro tempo, di F. Defilippis, in «Aion», rivista

internazionale d’architettura, 2012, pp.135-145

Il rapporto tra le forme dell’abitare e le forme della natura è la questione

centrale per i progetti a Capo Peloro. Nel ripensare a questo luogo si è

rinnovato un modo differente di viverlo, rispetto agli attuali usi. Si è sentita la

necessità di stabilire una nuova idea di costruire, rispondente alla nostra

volontà di curare il territorio, alla nostra aspirazione ad assumere lo

straordinario luogo della natura come contesto, alla nostra capacità di

riconoscere la bellezza di questa natura.

Si è tentato, con queste proposte, di ritrovare quella dimensione unificante tra

la città e la natura del luogo, una dimensione spirituale corrispondente alla

sensibilità dell’umanità che è del nostro tempo. Sono state progettate

architetture che possano rispondere al nostro desiderio di trovare, all’interno

dei luoghi abitati, spazi silenziosi, di ampia estensione che sappiano esprimere

la sublimità del meditare e dell’appartarsi.

L’area di Capo Peloro, quella rimasta inedificata per il vincolo derivato dal

passaggio dei cavi elettrici che, fissati al Pilone, si ancoravano alle torri

progettate da Riccardo Morandi, ha andamento pianeggiante: una condizione

perentoria in cui, prima delle recenti edificazioni, l’orizzontalità della linea di

terra tendeva a confondersi con l’orizzontalità del mare; una qualità oggi del

tutto compromessa dalle costruzioni esistenti.

L’idea è quella di edificare, nell’ampia area libera, una grande struttura

architettonica in forma di basamento. Il progetto intende così rinnovare il

rapporto originario: l’affaccio sui due mari e la metafisica sospensione visuale

sul paesaggio. Il carattere di eccezionalità è descritto anche nella grande

estensione, un grande edificio alla scala territoriale , una dimensione rilevante

come anche molte tonnare che punteggiano i luoghi di mare del paesaggio

siciliano. Una costruzione che contiene al suo interno ampi spazi funzionali che

rispondono alla vocazione turistica del luogo: abitazioni temporanee, negozi,

parcheggi.

In copertura una immensa terrazza protesa verso il mare (anzi verso i due

mari, quello Ionio e il Tirreno) e direttamente, attraverso un sistema di rampe,

ai percorsi pedonali del centro urbano, inquadra all’orizzonte, lo spettacolo del

paesaggio naturale.

“Da qui essi possedevano il cielo, le nuvole e la brezza, mentre

inaspettatamente la sommità della giungla veniva trasformata in una grande

piana aperta. Con questo espediente architettonico essi avevano

completamente trasformato il paesaggio e dotato loro vita visiva in una

grandezza che corrispondeva alla grandezza delle loro divinità”.

Ben si adatta il commento di Jørn Utzon alle piramidi Maya a Tikal in Guatemala

per provare a esprimere la sensazione di un grande spazio interposto tra terra

e cielo.

Un tema affrontato anche per la proposta di un nuovo quartiere affacciato sul

Pantano piccolo: come una sorta di Cretto, questo progetto prova a unificare

temi architettonici in apparenza distanti: gli spazi urbani del borgo marinaro (il

vicolo, la piazzetta, il patio), e il grande spazio aperto sul paesaggio. Il vuoto

della grande piazza diventa l’elemento unificante; a questo spazio si legano gli

ambiti progettati in riferimento a quelli di piccoli centri marinari, spazi a misura

d’uomo connessi alla cultura di un abitare mediterraneo che inducono a

verifiche sperimentali di nuovi tipi edilizi. Le forme dello spazio vernacolare

della struttura urbana e del patio domestico, vengono declinate provando a

ritrovare i caratteri riconoscibili di una tradizione che amiamo e che forse, non

abbiamo più saputo tradurre negli spazi costruiti del nostro tempo.

La dimensione del Pantano piccolo suggerisce lo spazio di una estesa piazza

d’acqua. Come in un interno urbano, alcuni edifici collocati in prossimità

dell’imbocco dei canali di collegamento al mare e all’altro Pantano, polarizzano

lo spazio e determinano la centralità dello specchio d’acqua.

Il vuoto con l’acqua viene assunto come valore nella relazione tra le parti

costruite: gli edifici si connotano come architetture urbane –di una piazza

appunto. Questi edifici sono proprio pensati sull’acqua, assumono l’aspetto

particolare di strutture lignee, come grandi arche ormeggiate, o raffigurano

spazi che come negli interni di antiche cisterne, si riverberano nella duplicità

dello specchiamento.

Il luogo acropolico della collina del cimitero di Sperone, offre spunti suggestivi

per consolidare la vocazione di quest’area a essere eletta quale punto

privilegiato di osservazione. Il progetto esalta questa vocazione: in un caso

prevede un percorso costruito che collega la quota bassa dal Pantano, alla

sommità della collina; un’altra ipotesi ipotizza la riconfigurazione dell’area

attraverso delle sostruzioni abitate, mura spesse penetrate dalla luce che

simbolicamente segnano, con la loro possanza, l’unicità del luogo.

Altre sperimentazioni progettuali provano a declinare il tema della casa: se ne

riconoscono le parti costitutive, i rapporti, il sistema dei percorsi, le relazioni del

contesto in cui si collocano, i modi di affaccio su scorci urbani o sul paesaggio.

Queste case evocano attraverso gli elementi della loro costruzione, la presenza

del luogo verso cui si rivolgono e da cui prendono senso. Raccontano di

relazioni che di volta in volta mutano e fanno mutare l’identità dei fronti.

Talvolta i luoghi verso cui si affacciano sono strade, piazze, allora i muri si

fanno più spessi, declinano ritmi delle aperture che configurano quinte urbane.

Nel principio insediativo che queste case adottano, nell’orientamento che questi

edifici scelgono, forte rilevanza assume sempre il sistema degli orti e le trame

residuali dell’uso produttivo del contado.

Verso questi luoghi si aprono gli spazi aperti della casa dove poter stare,

guardare, per sentirsi partecipi del paesaggio naturale: sono logge delimitate

da persiane che come grandi tende ombreggiano questi ambienti e li

proteggono dal caldo eccessivo.

La città balneare

Il litorale del mar Tirreno è stato storicamente meta privilegiata dei messinesi

nelle stagioni estive.

L’architettura dei lidi di Mortelle, realizzati alla fine degli anni ‘50, è testimone

di questa consuetudine. Filippo Rovigo, insieme a Napoleone Cutrufelli, ne sono

gli autori: negli stabilimenti balneari di Mortelle, gli evidenti riferimenti

lecorbusieriani si associano alla ricerca indirizzata verso un’articolazione della

costruzione caratterizzata da una plastica architettonica esuberante, ma sempre

rigorosa. L’immagine che trasmette la copertura voltata costruita all’ingresso al

lido, rimanda alla figura della coda di una grande aragosta e conferma il

rapporto che lega questa architettura al paesaggio di mare.

Un progetto studiato e sviluppato fin nei più minuti dettagli, sulla scia

probabilmente, del lavoro di Mario Ridolfi, amico di Rovigo e a lui legato da

comuni impegni professionali in città.

L’albergo, il ristorante, la piscina per i tuffi, la rotonda con la pista da ballo, il

villaggio delle cabine e quello degli ombrelloni, sono gli elementi della città

balneare.

Più avanti, verso Capo Peloro, altri lidi, l’Istituto Marino, le dune, la Torre

Bianca, ormai, insieme alla struttura di Mortelle, tutti abbandonati in uno stato

di degrado architettonico e ambientale.

La proposta mira a restituire unità, oltre che dignità, all’intero complesso

sistema esteso al litorale tirrenico.

La corte viene assunta quale elemento reiterato che relazionano gli spazi della

collettività al mare. Una sorta di trasferimento della domesticità rapporta le

corti dell’isolato messinese, alle piccole piazze di sabbia, aperte verso il mare,

che scandiscono, con il loro susseguirsi, la misura del progetto. Alla cabina

tradizionale, icona di una piccola casa al mare, si accompagna l’idea di uno

spazio collettivo, di una corte appunto: una idea peraltro già abbozzata nelle

cabine stabili della struttura costruita.

In copertina:

M.Mannino, Lo sguardo di Antonello

Acquaforte mm700x500, 2011

Sommario

Lo sguardo di Antonello_M.Mannino

LA CITTA’ E Il MARE

Cantieri Navali nell’area della falce_ A. Sergio

Nuovo porto turistico nella rada di S. Francesco_G.Zumbo

Polo museale alla foce del torrente Annunziata_D. Mento

Riqualificazione architettonica dell’ex ospedale Regina Margherita_T. Pagano, M.Vela, A. Italiano

EDIFICI ALTI

Risanamento del rione Taormina sulla fiumara Gazzi_V. Ruberto, F. Seminara

Risanamento dell’area del Tirone_ Allievi del Laboratorio di Progettazione architettonica 2 (a.a.

2013-14), Università mediterranea di Reggio Calabria.

CAPO PELORO

Strutture residenziali per il turismo nel villaggio di Torrefaro_M. Formica, T. Maimone

Residenze temporanee e servizi sul lungolago (Pantano Piccolo)_G. Maugeri, A. Palamara, M.

Oteri

Strutture per il turismo sulla collina di Sperone_G. Mazzei, C. Soria

Abitazioni nell’area di Capo Peloro_A. Bombaci, V. Ferrara

I lidi sul litorale Tirrenico_B.Barlassina