La storiografia delle élites nel secondo dopoguerra · secondo dopoguerra della storiografia di si...

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La storiografia delle élites nel secondo dopoguerra di Franco De Felice Preliminarmente vorrei dichiarare quali sono i caratteri di questa mia relazione, l’ambito entro cui ho deciso di svilupparla e la defini- zione dell’oggetto di essa. La prima delimitazione riguarda la sto- riografia: mi sono riferito alla produzione storiografica di questo secondo dopoguerra relativamente all’Italia repubblicana, esclu- dendo quindi dall’esame la questione più ampia — significato trasformazioni e risul- tati della storiografia italiana del periodo postfascista come aspetto specifico degli orientamenti culturali del paese. Riferimen- ti a questa tematica più ampia saranno ov- viamente tenuti presenti ma solo in quanto funzionali alla definizione ed approfondi- mento dei problemi connessi all’ambito in precedenza richiamato. Il rischio di tale in- tenzionale limitazione di campo è quello di una eccessiva ellitticità e mancanza di chia- rezza: spero di averlo evitato e sarà compi- to di questo seminario evidenziarlo e supe- rarlo. La seconda osservazione riguarda l’ogget- to indicato nel titolo di questa relazione: le élites. È evidentemente indispensabile defini- re l’accezione con cui tale categoria viene uti- lizzata. Il dibattito relativo al ruolo delle masse o delle élites nella definizione del pro- cesso storico è ormai datato e obsoleto: è ac- colto, almeno in linea di massima, il criterio che tale processo è il risultato dell’azione combinata di entrambi gli elementi. Altra questione è poi di verificare nel concreto il modo in cui tale interrelazione è ricostruita. Assunto quindi per acquisito questo dato nel patrimonio culturale della storiografia italia- na del dopoguerra, ho teso in questa mia re- lazione a utilizzare un’accezione più ampia di quella che la categoria di élite ha avuto ed ha in rapporto a un’intera tradizione che af- fonda molto lontano nella cultura italiana. Mi riferisco ovviamente alla teoria della mi- noranza organizzata di Mosca e alla teoria dell’aristocrazia di Pareto. Senza voler qui discutere specificamente queste concezioni, l’evoluzione della loro formulazione e l’in- dubbio valore dissacrante — in esse implicito — di ogni ipotesi semplicistica e lineare di crescita dell’eguaglianza e della democrazia, è però necessario ricordare che questo filone culturale è inseparabile da una critica della società di massa (e dall’essere al tempo stesso un’ipotesi di organizzazione del potere in ta- le società) e che nel suo momento genetico tale filone, per citare Bobbio1, “procede di pari passo con una concezione essenzialmen- te inegualitaria della società, con una visione statica, o tutt’al più ciclica della storia, con un atteggiamento più pessimistico che otti- 1 Cfr. Norberto Bobbio, Teoria delle élites, in Dizionario di politica, diretto da N. Bobbio e N. Matteucci, Torino, UTET, 1976, p. 364.

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La storiografia delle élites nel secondo dopoguerradi Franco De Felice

Preliminarmente vorrei dichiarare quali sono i caratteri di questa mia relazione, l’ambito entro cui ho deciso di svilupparla e la defini­zione dell’oggetto di essa.

La prima delimitazione riguarda la sto­riografia: mi sono riferito alla produzione storiografica di questo secondo dopoguerra relativamente all’Italia repubblicana, esclu­dendo quindi dall’esame la questione più ampia — significato trasformazioni e risul­tati della storiografia italiana del periodo postfascista come aspetto specifico degli orientamenti culturali del paese. Riferimen­ti a questa tematica più ampia saranno ov­viamente tenuti presenti ma solo in quanto funzionali alla definizione ed approfondi­mento dei problemi connessi all’ambito in precedenza richiamato. Il rischio di tale in­tenzionale limitazione di campo è quello di una eccessiva ellitticità e mancanza di chia­rezza: spero di averlo evitato e sarà compi­to di questo seminario evidenziarlo e supe­rarlo.

La seconda osservazione riguarda l’ogget­to indicato nel titolo di questa relazione: le élites. È evidentemente indispensabile defini­re l’accezione con cui tale categoria viene uti­lizzata. Il dibattito relativo al ruolo delle masse o delle élites nella definizione del pro­cesso storico è ormai datato e obsoleto: è ac­

colto, almeno in linea di massima, il criterio che tale processo è il risultato dell’azione combinata di entrambi gli elementi. Altra questione è poi di verificare nel concreto il modo in cui tale interrelazione è ricostruita. Assunto quindi per acquisito questo dato nel patrimonio culturale della storiografia italia­na del dopoguerra, ho teso in questa mia re­lazione a utilizzare un’accezione più ampia di quella che la categoria di élite ha avuto ed ha in rapporto a un’intera tradizione che af­fonda molto lontano nella cultura italiana. Mi riferisco ovviamente alla teoria della mi­noranza organizzata di Mosca e alla teoria dell’aristocrazia di Pareto. Senza voler qui discutere specificamente queste concezioni, l’evoluzione della loro formulazione e l’in­dubbio valore dissacrante — in esse implicito — di ogni ipotesi semplicistica e lineare di crescita dell’eguaglianza e della democrazia, è però necessario ricordare che questo filone culturale è inseparabile da una critica della società di massa (e dall’essere al tempo stesso un’ipotesi di organizzazione del potere in ta­le società) e che nel suo momento genetico tale filone, per citare Bobbio1, “procede di pari passo con una concezione essenzialmen­te inegualitaria della società, con una visione statica, o tu tt’al più ciclica della storia, con un atteggiamento più pessimistico che otti­

1 C fr. N orberto B obbio, Teoria delle élites, in D izionario d i po litica , d ire tto da N . B obbio e N. M atteucci, T o rino , UTET, 1976, p. 364.

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mistico nei riguardi della natura umana, con una incredulità quasi totale nei riguardi dei benefici della democrazia, con una critica ra­dicale del socialismo, come creatore di una nuova civiltà, con una sfiducia che rasenta il disprezzo verso le masse portatrici di nuovi valori” .

Non mi sembra si possa dire che tale orien­tamento culturale abbia avuto un accogli­mento sostanziale nel rinnovamento storio­grafico italiano del secondo dopoguerra, né che abbia messo in discussione quello che è un asse portante della storiografia italiana, cioè il privilegiamento nell’analisi dell’etico- politico. Se mai può dirsi che la teoria elita­ria sia confluita in questa categoria più am­pia, contribuendo a una riduzione della sua capacità euristica: storia dell’egemonia rea­lizzata, per ricordare un’osservazione nota di Gramsci sulla storiografia crociana, e per dirla in altri termini, storia come accentua­zione della razionalità del reale, che è un da­to difficilmente separabile dal privilegiamen­to dell’etico-politico. Il valore caratterizzan­te dell’etico-politico per la storiografia italia­na, sia nella tradizione liberale-idealistica, sia nelle versioni, più aggiornate e cultural­mente più ricche, della sinistra non è casuale. Ha radici lontane, sinteticamente individua­bili nel ruolo assunto dalla cultura hegeliana nella formazione dello Stato unitario, nel­l’assenza del ‘nazionalpopolare’: non è sepa­rabile cioè dalla forma in cui è venuta conso­lidandosi l’egemonia borghese in Italia, dalla povertà di modificazioni che hanno accom­pagnato nella società civile la costituzione dello Stato unitario. La scelta di fondo nel secondo dopoguerra della storiografia di si­nistra, prevalentemente di quella di ispirazio­ne comunista, è stata di arricchire gli elemen­ti costituenti dell’etico-politico: privilegia­mento non tanto e non solo della storia poli­tica e dei gruppi dirigenti, quanto delle for­me organizzate di coscienza e del nesso go­vernanti-governati. Partendo da questo ap­proccio la tendenza era di giungere a una va­

lutazione dell’organizzazione e dell’esercizio del potere.

La scelta della storiografia di sinistra di ar­ricchire ma non di mettere in discussione l’etico-politico come canone euristico era la proiezione, in termini storiografici, di una concezione del rapporto movimento operaio- storia d’Italia non di contrapposizione o di antistoria: il movimento operaio cioè non so­lo come oggetto specifico d’analisi, con i suoi istituti e la sua cultura contrapposti a quelli dominanti, ma come contraddizione immanente all’organizzazione complessiva e perciò soggetto di conoscenza del presente e di tutto il passato. Tale traduzione nella ri­cerca storica di una forte scelta politica (fun­zione nazionale della classe operaia) tendeva a riaffidare alla storiografia una funzione es­senziale nella formazione di una coscienza critica e civile. Detto questo rimane tutta aperta la questione della dinamicità di tale impianto storiografico, della sua capacità reale a saper registrare, comprendere e filtra­re l’estrema ricchezza del sociale. Non è pos­sibile procedere in questa sede a un bilancio: sono sufficienti credo queste osservazioni ge­nerali, funzionali alla caratterizzazione degli elementi di questa introduzione. A me pare di poter dire che la storiografia sull’Italia re­pubblicana nei suoi contributi più significati­vi abbia conservato come dominante un ap­proccio etico-politico, tendendo però a privi­legiare, nella ricerca, il ruolo dei gruppi diri­genti (del paese, dei partiti, di settori orga­nizzati della società).

Su questo giudizio mi soffermerò più dif­fusamente in seguito: in questa sede intro­duttiva, di definizione, mi preme richiamare l’attenzione su due altre tendenze che non possono essere eluse. La prima, strettamente connessa al privilegiamento accordato al­l’analisi dei gruppi dirigenti, è l’affiorare dell’esigenza sempre più fortemente avverti­ta di assicurare una diversa attenzione e rico­noscere un diverso ruolo al ‘sociale’, anche se la formula è generica. La seconda tenden­

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za, che a me pare la più rilevante e carica di conseguenze, è il riproporsi — a partire dalla seconda metà degli anni sessanta e attraverso la mediazione degli elementi di conoscenza storica espressi da discipline non storiografi- che — della tematica delle élites in un signifi­cato profondamente diverso da quello origi­nariamente elaborato da Mosca, Pareto, fil­trato com’è ed anche arricchito dalle elabo­razioni della sociologia e politologia statuni­tense2. Tale riproporsi, è un elemento impor­tante nel panorama della cultura italiana, mette in discussione alcuni assi portanti della storiografia, che di questa cultura è stata ed è tanta parte, e non è separabile dalla più av­vertita consapevolezza della complessità del­lo Stato contemporaneo cosi come si è venu­to conformando almeno a partire dal primo dopoguerra.

È su queste tre tendenze che intendo sof­fermarmi nel corso della mia relazione.

I contributi storiografici complessivi sul­l’Italia repubblicana sono scarsi3: questo non significa che non vi siano importanti la­vori su singoli periodi, momenti o settori (e questo sarà oggetto delle altre relazioni) o, ancora più, che non si siano accumulati ma­teriali, linee interpretative, consistenti ele­menti di conoscenza storica, ma questi pro­vengono da settori disciplinari non propria­mente storiografici. I contributi analitici più rilevanti vengono da giuristi (amministrazio­ne e costituzione), economisti (definizione di

un modello di sviluppo), sociologi e politolo­gi. Personalmente ritengo questo fenomeno positivo e fisiologico, inseparabile dal pro­cesso di progressiva trasformazione e cre­scente complessità della società italiana dalla fine degli anni cinquanta in poi. È indubbio però che tale tendenza ponga problemi non secondari alla storiografia come strumento di conoscenza.

La povertà dei contributi storiografici complessivi dipende certo dal fatto che og­getto d’analisi sono processi ancora aperti, rispetto a cui è difficile procedere a una siste­mazione dei vari elementi isolando quelli che hanno già una fisionomia definita da quelli che sono ancora sottoposti a mutamenti; al­tra ragione è certo dovuta alla mancanza di lavori preparatori su nodi particolarmente importanti. Credo però che le ragioni essen­ziali siano due: la prima è connessa al nesso storiografia-politica, la seconda, su cui svi­lupperò delle osservazioni in seguito, è più penetrante ed è connessa alla conoscenza del­la società e dello Stato contemporaneo.

Il fortissimo nesso storiografia-politica, su cui peraltro si discute4, ma la cui esistenza non può essere messa in dubbio, ha come conseguenza l’assegnazione alla storiografia di un ruolo forte di strumento di consapevo­lezza e di identità per ampi settori culturali — e attraverso la loro mediazione di ampi strati sociali — rispetto alla storia nazionale. Questo significa, per il periodo e il tema che ci interessa, che nella ricerca storiografica

2 C fr. com e riferim enti essenziali l’e laborazione di H arold D. Lasswell (W e gets what, when h o w , 1936), Joseph A. Schum peter (C apitalism o, socialism o, dem ocrazia, M ilano, C om unità , 1977), di W right Mills (L ’élites de!p o tere , M ilano, Feltrinelli, 1959).3 Cfr. il volum e m iscellaneo, Dieci anni dopo (1945-55). Saggi sulla vita dem ocratica italiana, Bari, L aterza , 1955; G iuseppe M am m arella, L ’Italia dopo il fa sc ism o : 1943-68, Bologna, Il M ulino, 1970; G iam piero C arocci, Storia dell’Italia da ll’unità a oggi, M ilano, Feltrinelli, 1975; C arlo P inzani, L ’Italia repubblicana, in Storia d ’Italia , voi. IV, D a ll’U nità ad oggi, T o rino , E inaudi, 1976; M assim o Legnani, P ro filo po litico d e ll’Italia repubblicana (1948-74), N apoli, M o ran o , 1976 e dello stesso la rassegna II secondo dopoguerra in Italia: orientam enti della s to r io ­grafia, in “ Ita lia con tem poranea” , 1974, n. 116; G iorgio A m endola, Gli anni della R epubblica , R om a, E dito ri R iu­niti, 1976; L ’Italia contem poranea 1945-75, T orino , E inaudi, 1976.4 C fr. Renzo D e Felice, L a storiografia contem poranea italiana dopo la seconda guerra m ondiale, in “ S toria con­tem poranea” , febbra io 1979.

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sull’Italia repubblicana si riflettono la ric­chezza e varietà degli orientamenti culturali della storia italiana e soprattutto il diverso grado di identificazione e di riconoscimento registrabile rispetto a questa repubblica e a questa democrazia. Una spia e una conferma di questo dato può essere rintracciato nella difficoltà tuttora esistente a giungere a una periodizzazione dell’Italia repubblicana su cui realizzare una convergenza ampia di con­sensi. Basterà solo ricordare, a titolo esem­plificativo, che la proposta avanzata da Giorgio Amendola5, quando esortava a stu­diare il trentennio (periodo della ricostru­zione: 1944-47; del dominio democristia­no: 1948-57; dell’espansione monopolistica: 1953-60; del centro sinistra: 1960-68; della ri­presa democratica: 1968-74; della ridefini­zione dei rapporti tra Pei e De: 1974 in poi, ora si potrebbe aggiungere, seguendo lo stes­so criterio, un altro periodo) è rifiutata da Guido Quazza sia nel suo intervento al con­vegno di Firenze che in quello di Palermo, perché una periodizzazione troppo politica e legata a formule di governo e alla combina­zione dei rapporti tra partiti. Ad essa Quazza ne contrappone un’altra che implica un’altra ipotesi interpretativa complessiva e il privile- giamento di un’altra forma di approccio (1945-47: incontro-scontro tra guida dall’al­to e spinta dal basso; 1948-59: momento del­

la massima flessione della spinta dal basso, di successo delle vecchie forze e di fiacchezza delle sinistre politiche e sindacali; 1960-67: combinazione dilacerante e dilacerata del boom economico, ripresa della spinta dal basso e centrosinistra; 1968-76: vittoria della spinta dal basso sul piano sociale ma senza esiti istituzionali adeguati)6. A queste due ipotesi di periodizzazione, riportate qui a ti­tolo esemplificativo della difficoltà in prece­denza ricordata, possono evidentemente ag­giungersene altre, che introducono elementi non marginali di modifica, se si assume o no come importante il rapporto tra Italia repub­blicana e periodo precedente; o se si tiene presente — come a me sembra difficile non fare — il riferimento alle vicende internazio­nali, cogliendo in rapporto ad esse una perio­dizzazione delle vicende italiane.

Senza voler continuare a dilungarmi su questo aspetto, credo si possa dire che il maggior numero di contributi storiografici sia concentrato sul periodo 1943-487. In que­sto quinquennio si ha l’esaurimento di una forma politica (quella fascista), l’emergere faticoso di una modifica istituzionale e poli­tica (repubblica democratica) fortemente se­gnata da ipoteche interne (rottura dei gover­ni di unità nazionale e conventio ad exclu- dendum delle sinistre) e internazionali. Un periodo quindi che si presta particolarmente

5 C fr. G iorgio A m endola, G li anni della R epubblica , R om a, E dito ri R iuniti, 1976, pp. X X IV -X X V .6 C fr. l’intervento di G uido Q uazza al Sem inario di Firenze del 1977 in L ’Italia negli u ltim i tre n i’anni, Rassegna cri­tica degli stud i, Bologna, Il M ulino, 1978, pp. 52-53. Nella relazione p resen ta ta al convegno di Palerm o del 1978, m olto lim pida ed o rganizzata, Q uazza non rip ropone puntualm ente l’ipotesi di periodizzazione avanzata a Firenze — anche se il richiam o al suo in tervento è esplicito — m a rifo rm ula con fo rza e nettezza il tem a isp irato re so tteso a quella periodizzazione (cfr. G uido Q uazza, Storia della storiografia , storia del potere, storia sociale, in Fondazione G ian G iacom o Feltrinelli, L ’Italia unita nella storiografia del secondo dopoguerra, a cura di N . T ran fag lia , M ilano, Feltrinelli, 1980, pp. 272 sgg.).7 Per ricordare solo i con tribu ti più significativi, c fr. i saggi im portan ti raccolti nel volum e Italia 1945-48. L e origini della R epubblica, T o rino , G iappichelli, 1974; S tuart J. W oolf (a cura di), L ’Italia 1943-50. L a ricostruzione, Bari, L aterza, 1974; A nton io G am bino , Storia del dopoguerra dalla liberazione al p o tere D e, L aterza, B ari, 1975; Luciano C afagna, N o te in m argine alla ricostruzione, in “ G iovane critica” , 1973, n. 37; le rassegne II dopoguerra italiano (1945-48). Guida bibliografica, Feltrinelli, M ilano, 1975; M assim o L egnani, C ontribu ti e tem i d i ricerca su l 1945-48 in Italia, in “ R ivista di storia con tem poranea” , 1974, n. 1; P ie tro Scoppola, L a pro p o sta politica d i De Gasperi, Bo­logna, Il M ulino, 1977.

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bene a definire collegamenti con il passato e le linee di tendenza degli anni successivi: il 1948 è l’anno della entrata in vigore della Costituzione italiana ma è anche l’anno del 18 aprile, cioè della sanzione di massa a una linea di ‘ordine’. Non è secondario sottoli­neare che la concentrazione della riflessione storiografica su questo periodo, la vivacità dei contrasti che la caratterizza, la forza con cui viene riproposto un giudizio critico non è separabile dalla diffusione rapidissima degli interessi storici contemporaneistici decisa­mente incentrati sul XX secolo e sul fascismo come esperienza complessiva: tendenza che è databile dai primi anni sessanta e ha risvolti di massa.

Volendo tentare un bilancio complessivo dei contributi storiografici su questo periodo — e mantenendomi rigorosamente all’inter­no dello spazio definito dalla mia relazione, che è quello di cogliere alcune linee generali, per lasciare alle successive più specifiche re­lazioni l’approfondimento di problemi e aspetti che pure in questa letteratura com­plessiva sono presenti — a me pare si possa dire che vi è un dato comune: il privilegia- mento dell’attenzione alle scelte dei gruppi dirigenti, indipendentemente dal giudizio che sul loro operato viene formulato nelle diver­se linee interpretative. Farò degli esempi. Il nucleo più consistente dei contributi sul quinquennio è riconducibile a un’area radi- cal-socialista, tutt’altro che unificata al pro­prio interno ma che è portatrice di una linea interpretativa molto precisa, i cui elementi essenziali sono sintetizzabili in questi termi­ni: il vecchio stato vince contro le illusioni ri­

formatrici; la De con l’appoggio determinan­te della Chiesa diventa il nuovo strumento politico garante del vecchio ordine borghese; le conquiste democratiche sono deboli, pre­carie e contraddittorie; la politica della sini­stra, ed in particolare quella del Pei, è subal­terna sul terreno della politica economica, vaga, generica o inesistente su quello della ri­forma dello Stato, dettata da un realismo e da una moderazione che vengono ‘punite’ con la fine del tripartito che segna la liquida­zione dell’ultimo intralcio alla libera decisio­ne e iniziativa delle classi dominanti. Il giudi­zio formulato da Foa può sintetizzare questa linea interpretativa: “La sconfitta delle sini­stre fu essenzialmente sul problema della de­mocrazia, con le sue implicazioni sociali. Il capitale comprese che non si potevano fare concessioni democratiche senza aprire un im­prevedibile processo di pressione operaia sul­le strutture portanti del sistema... Il vero ba­ratto fu fra la trasformazione democratica dello Stato e l’attuazione della Repubbli­ca”8. Questa linea interpretativa così sinteti­camente riassunta ha come punto forte di ri­ferimento l’accoglimento della categoria del­la continuità come più produttiva di effetti di conoscenza di quella della rottura, soprattut­to in rapporto ad alcuni momenti nodali del­la storia italiana. ‘Continuità’ è inteso da al­cuni studiosi, come Quazza, in un significato specifico, cioè come permanenza di una struttura economica e di una gerarchia di co­mando: tale uso specifico è reso ancora più corposo dall’assunzione della storia dell’Ita­lia unita come punto di osservazione per una valutazione di lungo periodo9. Coerente-

8 C fr. V ittorio Foa, L a ricostruzione capitalistica e la politica delle sinistre, in A a.V v ., Italia 1945-48, c it., rispetti­vam ente a p. 135 e p. 132.9 “ ... è negare l’evidenza il non am m ettere che la rinuncia di M ussolini ad esercitare qualsiasi azione che incida sulle stru ttu re della econom ia e della società costituisce il pendan t necessario di u n ’alleanza nella quale il vero au to n o m o è chi quella s tru ttu ra con tinua a dom inare, non chi procede a occupare una parte dei posti direttivi, in troducendo m o­difiche politiche-istituzionali che hanno conseguenze sul te rreno delle tradizionali lo tte tra i partiti, sulle procedure per giungere alle decisioni di governo, m a non incidono sull’esercizio del ‘com ando’ rea le” (cfr. G uido Q uazza, R esi­stenza e storia d ’Italia. P roblem i e ipotesi d i ricerca, M ilano, Feltrinelli, 1976, p. 46).

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men te a questo impianto, nel passaggio dal fascismo al postfascismo la continuità opera mettendo “al centro della ricerca storiografi­ca” la “politica del potere economico che an­tepone a ogni altro l’interesse di classe” 10, senza peraltro separare mai tale analisi dal ruolo della classe operaia e dalle forze politi­che antifasciste. Il secondo punto di riferi­mento della tesi in precedenza richiamata è un giudizio sulla immaturità, inadeguatezza soggettiva delle forze antifasciste a imporre una rottura effettiva con il passato: in questo giudizio un posto particolare è assegnato al Pei, pari al ruolo svolto nello schieramento di sinistra. Quazza è molto attento, nel rico­struire il quadro entro cui avviene la crisi del fascismo e lo sbocco armato della lotta, a evidenziare lo spessore reazionario della real­tà da trasformare, l’unità compromissoria dello schieramento antifascista che non favo­riva la formazione di un’ideologia propria, capace di superare quella del vecchio regime liberale: tali riferimenti sono fatti contro fa­cili mitizzazioni dello scontro aperto nel 1943 o il ripresentarsi di tesi suggestive ma infon­date come quella di potenzialità rivoluziona­rie ‘tradite’. In questo quadro di riferimento tuttavia il giudizio sulla politica del Pei è par­ticolarmente severo, in quanto ha contribui­to in larga misura a ridare legittimità alle for­ze tradizionali. La cosiddetta ‘svolta di Sa­lerno’ “viene certo incontro alle esigenze uni­tarie dello sforzo militare, proprie dei parti­giani del Nord. Nello stesso tempo, tuttavia, [-...] riconosce di fatto che la priorità delle esigenze di guerra impone il rinvio dello sfor­

zo per costruire in Italia una nuova democra­zia e così apre la strada alla vittoria della ‘continuità’ dello Stato monarchico-fasci­sta” 11.

Senza voler formulare un giudizio nel me­rito di questa linea interpretativa, che ho ab­bozzato in altra sede a cui mi permetto di rinviare12, nell’economia di queste osserva­zioni mi sembra si possa dire che questa in­terpretazione oscilli tra un forte richiamo al­la dominanza della ‘struttura’ — che implica un ampliamento della indagine storiografica all’analisi delle forme di organizzazione del potere, che non può però essere solo quello economico — e un’attenzione critica delle forze politiche, risolte però più angustamen­te nella linea da esse formulata, nelle scelte dei gruppi dirigenti, quasi che la organizza­zione delle forze politiche possa essere consi­derata separatamente dalla ‘struttura’ che pure si considera dominante. Tale divarica­zione mi sembra si possa cogliere molto bene in un saggio importante di Pavone sulla con­tinuità dello Stato13. Il ruolo, giustamente sottolineato, dello Stato-apparato nell’orga- nizzare e controllare le masse, svolto dal­l’Unità al fascismo, non può non essere ri­problematizzato una volta che, nel secondo dopoguerra, tale compimento viene assolto non voglio dire solo ma anche dai partiti e dai sindacati. Il giudizio di precarietà con cui Pavone tende a definire una situazione con questi caratteri14 è debole e appena l’inizio di un discorso tutto da approfondire.

La ragione di questa oscillazione è a mio avviso tutta ideologica e consiste nella ripro-

10 C fr. G uido Q uazza, Storia del fa sc ism o e storia d ’Ita lia , in Fascism o e società italiana, T o rino , E inaud i, 1973, p. 32.11 C fr. G . Q uazza, L a politica della Resistenza italiana, in S tuart J . W oolf (a cu ra di), Italia 1943-50. L a ricostru­zione , c it . , p. 36.12 C fr. Franco De Felice, L a fo rm a z io n e del regime repubblicano, in A a. Vv., L a crisi italiana, a cu ra di L. G raziano e S. T arrow , vol. I, T o rino , E inaudi, 1979, pp . 43 sgg.13 L a con tinuità dello Stato. Is titu zion i e uom in i, in A a.V v., Italia 1945-48, c it., pp . 139 sgg.14 “La con tinu ità del postfascism o rispetto al fascism o e al p refascism o... sa rà d a ta ... dal r ito rno a un sistem a di precario equilibrio fra o rd inam ento am m inistrativo scarsam ente m uta to nelle sue com ponenti fondam entali e re­stau ra to parlam entarism o” (ivi, p. 147).

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posizione dell’antinomia annosa tra politica ciellenista e politica di partito, che era come è noto un tema caro al Partito d’azione. A parte la questione della fattibilità di un’orga­nizzazione ciellenistica del nuovo Stato, cre­do vadano accolte le osservazioni di Traniel­lo sull’interna contraddizione della proposta azionista, in quanto una riforma dello Stato fondata sulla costruzione di un sistema di contropoteri germinati dal basso, del tipo ciellenista e consiliare, avrebbe richiesto una forte e dura direzione di tipo giacobino15.

Su questo periodo i contributi di ispirazio­ne comunista sono del tutto assenti: si segna­lano i giudizi di Paolo Spriano e di Gastone Manacorda16, espressi però aH’interno di un discorso focalizzato su temi specifici (storia del Pei e il rapporto del movimento operaio, socialista e comunista, con la storia d’Italia). Le osservazioni più interessanti sono negli scritti dei protagonisti, contemporanei allo sviluppo delle vicende del periodo, e nella ri­visitazione critica che alcuni dirigenti politici comunisti hanno compiuto delle scelte fatte dal partito comunista nel periodo considera­to. Mi riferisco alle riflessioni di Chiaromon- te e soprattutto di Giorgio Amendola, che va più avanti nella revisione critica, individuan­do nella debolezza storica dell’antifascismo e nella profondità del radicamento del fasci­smo nella società italiana le ragioni della li­mitatezza delle conquiste ottenute e della ‘continuità’ dello Stato17. Singolarmente in

questa impostazione, e non in piena sintonia con quanto Amendola aveva sostenuto in al­tri scritti, la stessa vittoria repubblicana vie­ne minimizzata.

Tra i contributi storiografici di ispirazione cattolica mi limiterò a richiamare quelli for­niti da Pietro Scoppola18, non perché siano gli unici ma perché più esplicitamente revi­sionisti di una linea interpretativa sia della De sia del periodo concluso con la rottura della unità antifascista. Le motivazioni poli­tiche della sua ricerca sono state del resto esplicitamente dichiarate dallo stesso studio­so in più occasioni19, ricollegandosi così a quello che è un dato forte e caratterizzante della storiografia italiana, sottolineando al tempo stesso la necessità per la storiografia cattolica di essere maggiormente presente. Do per nota la tesi fondamentale di Scoppo­la, che è in polemica aperta con l’interpreta­zione precedentemente richiamata sia rispet­to alla categoria della ‘continuità’ sia al giu­dizio su De Gasperi e la rottura del tripartito. Ho già scritto in altra sede e ribadisco qui di

■concordare con il giudizio di fondo sull’ope­rato di De Gasperi (aver lavorato a un colle­gamento positivo tra mondo cattolico e gio­vane democrazia italiana), ma credo anche che la valutazione della ‘proposta politica’ degasperiana non si possa contenere nel qua­dro di riferimento ricostruito e offerto da Scoppola. Il problema cioè non può essere solo o prevalentemente quello di cogliere la

15 C fr. F rancesco T raniello , S ta to e partiti, in D em ocrazia cristiana e costituente nella società italiana del dopoguer­ra. B ilancio storiografico e p rospettive d i ricerca, R om a, E d. C inque Lune, 1978, p. 548.16 C fr. P ao lo Spriano, Storia del p a rtito com unista italiano, vol. V ., L a Resistenza, Togliatti e il p a rtito n u o vo , T o ­rino, E inaudi, 1975; Idem , Sulla rivoluzione italiana. Socialisti e com unisti nella storia d ’Italia, T o rino , E inaudi, 1978; G astone M anacorda, I l socialism o nella storia d ’Italia, Bari, L aterza , 1966, il cap. V ili , Dalla Resistenza alla costituzione repubblicana (1943-47).17 C fr. G erardo C hiarom onte, R ifo rm e d i s tru ttura e direzione politica del paese, in “ Q uaderni di critica m arx ista” , 1972, n. 5; G iorgio A m endola, L a "con tin u ità ” dello S ta to e i lim iti storici d e ll’antifascism o italiano, in “ Q uaderni di critica m arxista” , n. 7; U 1943. L e origini della rivoluzione antifascista.18 C fr. L a p roposta politica d i D e Gasperi, B ologna, Il M ulino , 1977.19 C fr. l ’in terv ista rilasciata a D om enico Sassoli in “ Il P o p o lo ” , 26 m aggio 1977 e le osservazioni con tenu te nel suo lavoro più recente, P ietro Scoppola, Gli anni della C ostituente f r a politica e storia, B ologna, Il M ulino , 1980.

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divaricazione tra lo spessore reazionario del mondo cattolico uscito dal fascismo20 e la proposta politica degasperiana per misurare nella permanente tensione tra questi due ele­menti sia l’importanza per la democrazia ita­liana del successo di quella proposta sia i pe­santi condizionamenti a cui fu sottoposta. Vi sono per lo meno due questioni che andreb­bero sviluppate. La prima è relativa al modo in cui la proposta politica di De Gasperi ope­ra sullo strumento politico che viene creato: in che misura, cioè, dopo l’accettazione della De come canale di mediazione politica, cam­bia di segno l’unità dei cattolici, diventa un condizionamento dello spazio di manovra e di iniziativa politica per la De? È un interro­gativo questo sollevato anche da Ardigò nel suo intervento al seminario di Firenze: “ ...oggi sono abbastanza vicino alla linea dell’amico Scoppola, per capire la superiori­tà politica, non ideologica, della strategia di De Gasperi e il merito del suo successo tra il ’47 e il ’51. Ma è stato un successo politico ri­duttivo delle notevoli potenzialità allora esi­stenti, pur con rischi corporativi, per il rin­novamento delle istituzioni statali”21. Che cosa diventa questo partito: un canale di me­diazione politica o di rappresentanza? Scop­pola sviluppa delle osservazioni su questa questione22, ma esse hanno un rilievo secon­dario nell’economia del discorso. La seconda questione è ancora più ampia: l’eredità del fascismo non può limitarsi all’intreccio tra mondo cattolico e fascismo, è ben più com­plessa — cosa che del resto Scoppola sa be­nissimo — e investe la realtà statuale così co­

me si è venuta configurando in tutto l’occi­dente capitalistico tra gli anni venti e gli anni trenta. È in rapporto a questa problematica che la ‘proposta politica’ va commisurata. Se è così, allora il giudizio stesso sulla proposta degasperiana va sfumato, ne vanno eviden­ziate le contraddizioni interne, e soprattutto la valutazione sulle ragioni della crisi del tri­partito non può essere quella avanzata da Scoppola. Certo i limiti delle sinistre sono abbastanza acquisiti, ma questo non può modificare i dati del problema connesso alla fine del tripartito: questo era una prima esperienza di unificazione delle masse, a san­zione della rottura democratica del 1945. Ta­le processo per tenere e svilupparsi doveva investire l’organizzazione della società, il funzionamento degli apparati, le forme del­l’accumulazione, in definitiva la gestione dello sviluppo che — almeno a partire dagli anni trenta — è il terreno fondamentale dello scontro sociale e della conquista del consen­so. I limiti delle sinistre non possono mutare né l’oggetto della differenziazione né il signi­ficato generale della scelta che De Gasperi al­lora compì: la divisione aperta allora va ben oltre le dimensioni di una crisi di governo, accelera la dinamica di un modello di svilup­po distorto e contraddittorio, innesta defor­mazioni gravi nel funzionamento degli appa­rati statali23.

Se confrontiamo queste linee interpretati­ve rapidamente richiamate è possibile rin­tracciare, al di là delle valutazioni profonda­mente contrastanti, singolari punti di con-

20 È però tu t t ’a ltro che irrilevante e secondario aver sgom brato il terreno da ogni ten tazione di recuperare una voca­zione dem ocratica al m ondo cattolico nel suo com plesso.21 C fr. l ’intervento di A . A rdigò al Sem inario di Firenze del 1977 o ra in L ’Italia negli u ltim i tre n t’anni, c it . , p . 240. Si tengano presenti anche le osservazioni di G iovanni M iccoli, Chiesa e società civile, in L ’Italia contem poranea (1945-1975), T o rino , E inaudi, 1976, p. 228 e pp. 241-42.22 C fr. P . Scoppola, Gli anni della C ostituente, c it., pp. 146-49.23 U na ricostruzione am pia ed a tten ta del significato e delle conseguenze della ro ttu ra del tr ip a rtito nel 1947 è conse­gnata nel volum e di M ariuccia Salvati, S ta to e industria nella ricostruzione. A lle origini dei p o tere dem ocristiano (1944-48), M ilano, Feltrinelli, 1982, pp . 179 sgg. e so p ra ttu tto la parte terza.

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vergenza. Il primo è dato dal comune ricono­scimento della necessità di inserire l’analisi del periodo considerato nel quadro più am­pio della esperienza storica precedente. Il modo in cui questo passato opera è ovvia­mente diverso nelle due interpretazioni, co­me si è accennato, tuttavia si può dire — e cercherò di argomentarlo più avanti — che il rapporto con il fascismo porta con sé proble­mi più ricchi di elementi e più complessi di quelli presenti nelle due interpretazioni tali da metterne in discussione l’adeguatezza dell’approccio. Il secondo elemento comune è più difficile da cogliere, in quanto si pre­senta strettamente intrecciato a una tematica corposa, ma pure esiste. Nella linea interpre­tativa che privilegia la continuità è presente, strutturalmente connessa al discorso, l’atten­zione a fenomeni, tendenze, spinte che met­tono in discussione il privilegiamento del- l’etico-politico recuperando l’importanza e il significato della spinta dal basso e il ruolo del ‘sociale’. Una formulazione limpida l’ha fornita Quazza nel suo intervento al conve­gno di Firenze del 1977, riferendosi non solo al quinquennio 1943-48 ma anche al periodo successivo. “Vogliamo ridurre il nuovo dell’Italia repubblicana alla rinascita dei par­titi? Vogliamo dimenticare che, se il proble­ma di una democrazia, quale si vuole sia la repubblica italiana, è un problema di rappor­to diverso tra governanti e governati, quindi, anche, tra partiti e masse, l’elemento dirom­pente nella storia dell’Italia repubblicana, per quanto non radicalmente separabile dalle scelte politiche, affonda nelle scelte del pote­re economico e acquista forza e significato soprattutto nel sociale e dal sociale? Che co­sa può capire, chi guardi al politico soltanto, ai partiti (e spesso neppure ai sindacati!) del

cambiamento dell’Italia dopo il ’50, quando la ‘modernizzazione’... ha coinvolto quindici milioni di persone, dal Sud al Nord, dalla campagna alla città, dall’analfabetismo alla scuola, dalla cultura contadina alla cultura industriale, e ha inserito di prepotenza l’Ita­lia nel mercato mondiale?”24. Di contro Scoppola, al di là di affermazioni e ricono­scimenti metodologici sulla necessità di tener presente la pluralità di elementi che contri­buiscono alla costruzione del processo stori­co25, compie di fatto un recupero e una dife­sa rigida della storia politica, intesa però in accezioni non uniformi. Nella precisazione compiuta subito dopo l’intervento di Quazza al convegno di Firenze usa ‘storia politica’ come equivalente di sintesi: “Quando dico ‘storia politica’... intendo porre l’accento su una visione di insieme, su un momento di sintesi, di tutti gli elementi della realtà”26.

Più avanti nello stesso convegno replican­do agli interventi nel dibattito sposta l’accen­to: dopo aver ribadito di non voler ripropor­re i vecchi modelli di una storia di élites, di una storia fatta solo dai grandi uomini, ag­giunge: “Ma dobbiamo, io credo, renderci conto che esiste anche un momento di sintesi politica e che ci sono uomini che lasciano un segno più di altri. La storia è fatta di molti fattori e mi sembra giusto, dopo che tanto si è insistito sulla storia sociale ed economica, tornare a sottolineare l’importanza decisiva della storia politica”27. La divaricazione tra Quazza e Scoppola, al di là di riconoscimenti di rito, è netta e forte: pure paradossalmente c’è un punto in comune, ed è, a mio avviso, nella concezione del ‘politico’. Quello che Quazza rifiuta non è qualitativamente diver­so da quello accettato e difeso da Scoppola: ciò è certo una spia significativa dell’inade-

24 C fr. L ’Italia negli ultim i tre n t’anni, c it., p. 50.25 Iv i , p. 55.26 Ivi.27 I v i , p. 89.

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guatezza euristica dell’etico-politico rispetto alla complessità della realtà contemporanea, ma occorre anche dire che negli studi sull’I­talia repubblicana l’etico-politico ha avuto un’applicazione più ristretta di quanto è pos­sibile rilevare nei contributi più signficativi della storiografia italiana di questo secondo dopoguerra.

Le osservazioni di Quazza in precedenza ricordate sono ineccepibili come sottolinea­tura di una forma di approccio ai problemi dell’Italia repubblicana: non è possibile nes­sun giudizio senza elementi di conoscenza su di un periodo che ha visto trasformazioni profonde, rapide, convulse. Nel discorso di Quazza tale richiamo, lo si è accennato, è in­serito in un quadro di riferimento che tende a rovesciare l’impianto etico-politico prevalen­te negli studi storiografici, aprendo una po­larità tra politico e sociale che è tutta da ricomporre28.

Pur nella peculiarità della sua formula­zione la tesi accennata è uno dei canali at­traverso cui tende a diffondersi in Italia un indirizzo più generale della ricerca storica, che in termini approssimativi può riassu­mersi nella definizione generale di storia sociale. Non mi sembra che relativamente al periodo che ci interessa — l’Italia re­pubblicana — tali ricerche abbiano prodot­to risultati di rilievo, tranne che per il pe­

riodo di passaggio dalla Resistenza alla re­pubblica.

I contributi più rilevanti vengono da di­scipline non storiografiche: basterà solo ac­cennare al saggio sulle classi sociali in Italia di Sylos Labini29. L’amplissima eco e il corrispondente dibattito che il lavoro ha sollevato30 documenta, se ce ne fosse biso­gno, a quale domanda di conoscenza tende­va a fornire una risposta, pur con i limiti ad essa connessi.

Non è possibile in questa sede aprire un di­scorso sulla diffusione della storia sociale in Italia, sui caratteri che essa presenta, sui filo­ni culturali diversi che in essa confluiscono e conseguentemente sulla molteplicità di signi­ficati che ‘storia sociale’ può assumere. Vor­rei però fare due osservazioni: una più gene­rale sul fenomeno; la seconda più specifica, relativa alla difficoltà di estensione di questo approccio storiografico alla esperienza con­temporanea e più particolarmente alla analisi dell’Italia repubblicana. Dando per scontata la positività e ricchezza dei risultati acquisiti là dove ricerche reali di storia sociale hanno operato, pure è da osservare che questa ten­denza non è riducibile a un arricchimento metodologico. È un fenomeno di accultura­zione e sprovincializzazione ma anche, indi­pendentemente dal grado di consapevolezza degli studiosi, una rimessa in discussione dei

28 Su questo pun to al Sem inario di Firenze il d ibattito è sta to vivace, con alcune osservazioni m olto pun tuali (mi ri­ferisco all’in tervento di B arzanti: cfr. L ’Italia negli u ltim i tre n t’anni, c it., pp . 75 sgg.) e si possono cogliere tracce della polem ica accesa che ha accom pagnato la pubblicazione di alcuni volum i che han n o o ffe rto u n a verifica analiti­ca di questa linea sostenu ta da Q uazza: mi riferisco agli studi di L iliana L anzardo , Classe operaia e p a rtito com uni­sta alla F IA T . L a strategia della collaborazione, T orino , E inaudi, 1977; al volum e collettaneo Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-44, M ilano, Feltrinelli, 1974; a lla ricerca di F . Levi, P . R ugafiori e G. V ento, I l triangolo industriale tra ricostruzione e lo tta d i classe, 1945-48, M ilano, Feltrinelli, 1974. Si tra t ta na tu ra lm ente solo di esem ­plificazioni, a cui andrebbero aggiunti num erosi saggi e relazioni a convegni, d ibattiti, recensioni, rassegne.29 Saggio sulle classi sociali, B ari, Laterza, 1974.30 Gli interventi più significativi, unitam ente a con tribu ti na ti indipendentem ente dal saggio di Sylos L ab in i, sono raccolti nel volum e L a sociologia delle classi in Italia, a cu ra di G. R agone e Cecilia Scrocca, N apoli, L iguori, 1978. M a è un reading che dà solo u n ’idea approssim ativa dell’am piezza del m ateriale p ro d o tto : occorrerebbe tener p re­sente, oltre ai con tribu ti di M assim o P aci, C orrado B arberis, L a società italiana. Classi e caste nello sv iluppo econo­m ico , M ilano, Angeli, 1976; Filippo B arbano , S tru ttu re e classi sociali in Italia. Gli S tu d i e le ricerche, T o rino , G iap­pichelli, 1975; P ao lo A m m assari, Classi e ceti nella società italiana. S tu d i e ricerche, T o rino , S tudi e ricerche della F ondazione, 1977.

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dati costitutivi della storiografia italiana; è il segno di una deideologizzazione della ricerca storica (quando non diventa canale per la co­struzione di nuove forme di ideologie) e una critica del modo in cui è avvenuta nel rinno­vamento storiografico del secondo dopo­guerra la riproposizione dell’etico-politico; esprime problemi propri di una società via via più articolata e domanda una specifica­zione del ‘politico’ che, nei moderni stati di massa non ha più le forme limpide e nette di rappresentanza generale proprie dello Stato liberale; al tempo stesso implica un’ipotesi di riorganizzazione degli intellettuali in cui il rapporto specialismo-politica è tutto squili­brato a vantaggio del primo termine, operan­do per tale via un riaccorpamento corporati­vo di ceto più solido del passato. Infatti la crescente ricchezza e raffinatezza degli stru­menti di indagine elaborati dalla storia socia­le (dalla demografia alla storia urbana, dal­l’antropologia alla psicologia sociale) nello sforzo stesso di aderire e penetrare le molte­plici pieghe del reale rischia di disperdere la possibilità stessa di una sua conoscenza com­plessiva.

Accanto a queste osservazioni generali, che si limitano a evidenziare l’ambivalenza del fenomeno, vorrei aggiungere un’osser­vazione più specifica che mi riporta ai pro­blemi trattati in questa introduzione. Se è vero che è sempre più diffusa la consapevo­lezza della inadeguatezza della storia politi­ca per comprendere i processi di trasforma­zione, è anche vero che nell’età contempo­ranea le modificazioni sociali sono sempre più mediate e dirette politicamente: ciò ren­de impossibile a mio avviso una storia del ‘sociale’ contrapposta o avulsa dal modo in cui le forme politiche ed istituzionali hanno contribuito a formarlo. Non è sufficiente ri­spondere che nell’analisi occorre tener pre­

senti tutti gli elementi e ricostruire i vari rapporti tra di essi: è un’esigenza metodolo­gicamente corretta, ma che elude il proble­ma della forma specifica di conoscenza pro­pria a una storiografia della trasformazione (anche su questi termini bisognerebbe discu­tere: trasformazione non è la stessa cosa di mutamento né di modernizzazione). Credo che questo sia un nodo reale su cui si incon­trano i problemi e le strozzature della ricer­ca storica in precedenza richiamate.

Contributi analitici importanti sono forni­ti da studi antropologici che, relativamente al Mezzogiorno nel dopoguerra, studiano il modo in cui va avanti un processo di moder­nizzazione all’interno di un contesto cultura­le arretrato31.

A questo punto, per rendere più proficuo il discorso che sto cercando di sviluppare, è opportuno isolare brevemente gli elementi emersi fino a questo momento: una storio­grafia etico-politica che si dimostra inade­guata a fornire risposte complessive soddi­sfacenti; una ricchezza di conoscenze stori­che fornite da discipline non storiografiche; la diffusione della storia sociale che non solo è carica di una polarità antagonista con l’eti- co-politico ma lascia senza risposta i proble­mi specifici della conoscenza della società contemporanea. Sono elementi che docu­mentano tutti il grande travaglio che investe la ricerca storiografica e l’esistenza di muta­menti culturali di grande portata che si pos­sono solo segnalare. Il problema che si pone è cercare di spiegare, sia pure per grandi li­nee, le ragioni di questo travaglio e dei muta­menti culturali in atto, il modo in cui si ri­propone o può riproporsi una storiografia delle élites, i problemi di ricerca, di fonti, di organizzazione del lavoro che a tali muta­menti sono connessi.

31 C fr. G abriella G ribaudi, M ediatori. A n tropo log ia del p o tere dem ocristiano nel M ezzog iorno , T o rino , R osenberg e Sellier. 1980.

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Credo che alla radice di questo processo, che è di ampio respiro e di lunga durata, sia la questione del fascismo, delle trasforma­zioni irreversibili che il paese ha subito nel corso di questa esperienza, dei problemi aperti che il fascismo lascia alla democrazia repubblicana. È certo questo il contributo generale più ricco della storiografia della ‘continuità’, una volta liberata dai suoi aspetti più immediatamente polemici e di schieramento politico-ideologico: considera­re la storia dell’Italia repubblicana all’inter­no e in rapporto alla ristrutturazione dello Stato contemporaneo, per lo meno a partire dalla fine della prima guerra mondiale. Que­sta è un’impostazione produttiva di risultati: si incontra l’intero dibattito storiografico sul fascismo come si è sviluppato e anche pro­fondamente cambiato a partire dagli anni sessanta; si incontra la questione del tipo di ‘conoscenza’ che del fascismo avevano i gruppi dirigenti dell’antifascismo e che han­no svolto un ruolo costituente nella fonda­zione della repubblica; si incontra infine la radice del mutamento del ruolo strategico della storiografia e specificamente della sto­riografia etico-politica nell’accezione in pre­cedenza richiamata. Non è possibile eviden­temente dare conto e discutere di tutti questi aspetti: mi limiterò a richiamare alcuni punti nodali, i risultati acquisiti dalla ricerca sto­riografica italiana e non sulle trasformazioni dello Stato capitalistico tra le due guerre e le conseguenze che ne derivano nell’analisi del­l’Italia repubblicana.

Si può assumere come punto di partenza un giudizio di Pavone che a me pare molto importante anche nella duplicità di elementi che porta con sé: “ ...l’Italia, paese del fascio primogenito, e che avrebbe dovuto in conse­guenza essere particolarmente sensibile a lb ­erisi del sistema rappresentativo parlamenta­

re come problema generale posto dal capita­lismo, fu invece di fatto portata ad acconten­tarsi, in larga parte, proprio di una restaura­zione del sistema politico battuto dal fasci­smo, perché quella sconfitta era ormai lonta­na e i vincitori del ’22 si erano trasformati in vinti screditati e odiati”32. Il primo elemento è un giudizio sulla crisi della rappresentanza politica come tendenza generale del capitali­smo internazionale, per lo meno a partire dalla prima guerra mondiale (ma il problema affiora prima), a cui il fascismo risponde con il corporativismo, problema che passa tutto aperto all’Italia postfascista; il secondo ele­mento è relativo al grado di consapevolezza che di questo giudizio avevano le forze anti­fasciste e il tipo di risposta da esse fornito: sarebbero prevalse le tendenze restauratrici delle istituzioni liberaldemocratiche prefasci­ste o, in termini ancora più precisi con riferi­mento ad un’osservazione di Carocci fatta propria da Pavone, “Una ‘restaurazione’ pe­raltro non già del sistema giolittiano bensì — come ha precisato Carocci — della ‘situazio­ne che era emersa in Italia dopo il biennio rosso del 1919-1920’, rafforzata dalla espe­rienza resistenziale e da spinte democratiche agganciabili ad alcune parti della nuova co­stituzione, e depurata infine — aggiungerei — dall’equivoco di un partito cattolico pro­gressista”33. Lasciando da parte per ora que­sto aspetto del giudizio di Pavone, credo va­da sottolineato che esso individua corretta- mente una tendenza fondamentale che ha in­teressato l’intero mondo capitalistico tra le due guerre, ha trasformato profondamente le grandi democrazie occidentali dalPinterno senza metterne in discussione la forma politi­ca: trasformazione che si accelera e tende a farsi più definita ed anche più consapevole intorno allo snodo storico della grande crisi. Ricerche storiche ormai numerose convergo­

32 L a con tinuità dello S ta to , c it., p . 165.33 Iv i , p. 147.

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no tutte a sottolineare che la fisionomia del moderno Stato contemporaneo, come si configura dopo la grande guerra e soprat­tutto dopo la crisi del 1929, cambia pro­fondamente e che la stessa comprensione di questo cambiamento richiede l’adozione di categorie analitiche più complesse. Basta appena accennare ai contributi di Rusconi su Weimar34, di Maier su Italia, Francia e Germania35, di Midlemass sull’Inghilter­ra36, di Hawley sugli Usa di F.D. Roose­velt37. Tendenze di fondo analoghe, anche se operanti in un contesto politico profon­damente diverso, sono registrate dagli studi sulle esperienze fasciste: si pensi ai contri­buti di Neumann e Th. Mason e il dibattito sul totalitarismo in Germania38 e gli studi sul fascismo italiano39. Lo stesso dato, or­mai comunemente accettato, della progres­siva estensione della spesa pubblica in fun­zione di regolamentazione del ciclo (modifi­cazione del rapporto Stato-mercato) non segnala solo un’accentuazione del ruolo della politica economica, cioè dell’erogazio­ne di risorse pubbliche come volano essen­ziale della riproduzione, ma anche un’altra tendenza inscindibilmente ad essa connessa e da essa sollecitata: l’aggregazione di inte­ressi organizzati che selezionano la doman­da delle risorse pubbliche e che intervengo­no sulla loro distribuzione.

È appena il caso di ricordare in questa sede

che Schumpeter aveva lucidamente colto il significato di questo processo rimettendo in discussione la validità e congruità della teo­ria della ‘sovranità popolare’, fondativa del filone democratico di tutto il pensiero politi­co occidentale, e riducendo conseguentemen­te la democrazia a procedura, alla definizio­ne delle regole del gioco40. Più recentemente uno studioso americano, in un volume per più aspetti discutibile, riformulava un giudi­zio su questi processi individuando nello ‘Stato in appalto’ la forma politica prevalen­te della organizzazione del potere e del con­senso nella società capitalistica all’uscita dal­la grande crisi41.

È evidente che ciascun elemento in prece­denza rapidamente richiamato andrebbe sot­toposto ad analisi e discussione specifica, ma nell’economia di questa introduzione se si ac­cetta, come io faccio, questa linea interpreta­tiva, il modo stesso di avvicinarsi ai problemi dell’Italia repubblicana cambia compieta- mente. Risulta anzitutto più chiaro perché un approccio storiografico etico-politico ri­sulti inadeguato, in quanto o coglie aspetti marginali dei processi o individua il momen­to terminale di mediazioni progressive, che vanno tutte ripercorse a ritroso, ricostruen­done volta a volta le tappe e i protagonisti. Non si tratta solo di questa constatazione: in rapporto alla registrazione delle modificazio­ni della struttura e organizzazione della so-

34 L a crisi d i W eimar, T o rino , E inaudi, 1977.35 L a rifondazione d e ll’E uropa borghese, Bari, De D onato , 1979.36 Politcs in Industria i Society, L ondon , A ndré D eutsch, 1979.37 II N ew D eal e il prob lem a del m onopo lio , Bari, De D onato , 1982.38 C fr. F ranz N eum ann, B ehem oth , M ilano, Feltrinelli, 1977; T im othy M ason, L a politica sociale de l Terzo R eich , Bari, De D onato , 1980. U na m essa a p un to del d ib a ttito sul to talitarism o in G erm ania si ha nell’In troduzione di G ia­com o M arram ao a S. Sohn-R ethel, E conom ia e s tru ttura d i classe del fa sc ism o tedesco, Bari, D e D onato , 1978.39 Si vedano, oltre ai volum i di R. De Felice, A lberto A quarone, L ’organizzazione dello s ta to totalitario, T o rino , E inaudi, 1965; A lberto A quarone, M. V ernassa, I l regime fasc ista , B ologna, Il M ulino, 1974; dove, nell’in troduz io ­ne alla racco lta di saggi viene sollevato il prob lem a dell’applicabilità della categoria di ‘to ta lita rism o ’ a ll’esperienza fascista italiana; A A .V V ., Fascism o e società italiana, cit.40 C apitalism o e socialism o, c it., pp. 257 sgg.41 A . W olfe, I con fin i della legittim azione. L e contraddizioni po litiche del capitalism o contem poraneo, Bari, De D onato , 1981.

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cietà e dello Stato dopo la prima guerra mon­diale, la stessa definizione di élites, e anche una storiografia di esse, può riproporsi in termini nuovi rispetto alla formulazione ori­ginaria. L’attenzione si focalizza sui settori organizzati degli interessi, sul modo in cui ta­le organizzazione è avvenuta, su chi ne è ri­masto escluso; sul rapporto orizzontale di correlazione o scontro con altri settori orga­nizzati della società e il rapporto verticale con l’apparato amministrativo e politico, in­dividuando le sedi, formali e più spesso in­formali in cui questi rapporti vengono svolti, le scelte compiute ecc. È un approccio che permette di recuperare la democrazia — la moltiplicazione di forme organizzate di inte­ressi è un elemento di democrazia —, una di­namica processuale, in quanto il processo di organizzazione non è mai definito una volta per tutte; un rapporto con l’organizzazione e la decisione politica che ha un grado di com­plessità enormemente maggiore di quanto una storiografia dei gruppi dirigenti può pro­spettare. La teoria del pluralismo corporati- sta e le applicazioni analitiche che ne sono state tentate42 ha questo retroterra e costitui­sce una proposta molto solida e aderente a tendenze reali della società contemporanea con cui occorre confrontarsi concretamente.

La letteratura italiana, soprattutto negli anni settanta, si è arricchita di notevoli contributi in questa direzione: dagli studi sulla ammini­strazione pubblica43 a quelli sul nesso buro­crazia e politica44; dall’analisi del settore pubblico dell’economia come centro di deci­sione e di potere45 a quella del rapporto tra gruppi di pressione, clientelismo, sottogover­no e partiti46 fino al dibattito, di grande rilie­vo, sui caratteri del movimento sindacale ita­liano, sul mutamento di ruolo in rapporto ai partiti e alla politica economica47.

Pur accogliendo, come credo sia corretto fare, la forza di questa proposta analitica, come individuazione dei problemi reali e aperti che accompagnano il passaggio dal fa­scismo al postfascismo, c’è però un punto es­senziale che va richiamato senza il quale l’in­telligenza delle vicende dell’Italia repubblica­na è viziata: mi riferisco alla costituzione dei partiti di massa come tratto distintivo della democrazia postfascista. A differenza di Quazza ritengo che essi costituiscano un ele­mento di novità anche rispetto alla troppo rapida esperienza compiuta nell’immediato primo dopoguerra: le osservazioni molto acute sviluppate da Ruffilli e Pasquino credo siano da accogliersi compiutamente48. La re­gistrazione di questa novità impedisce di

42 U na utile m essa a pun to dei term ini del d ibattito in ternazionale è il volum e L a società neo-corporativa , a cura di M. M araffi, Bologna, Il M ulino, 1981.43 C fr. Sabino Cassese, L ’am m inistrazione pubblica in Italia, Bologna, Il M ulino , 1974.44 C fr. la sintesi com plessiva, rap ida m a efficace di V alerio C astronovo , E conom ia e classi sociali, in L ’Italia con ­tem poranea (1945-1975), c it.; R affaele R om anelli, S ta to burocrazia e m o d o d i governo, in A a .V v ., L ’Italia con tem ­poranea 1945-75, c it.; Franco F erraresi, Burocrazia e politica in Italia , Bologna, Il M ulino, 1980.45 P ie tro Barcellona, S ta to e m ercato, B ari, D e D onato , 1976; A n ton io M utti-P ao lo Segatti, L a borghesia d i S tato. Stru ttura e fu n z io n i d e ll’im presa pubblica in Italia , M ilano, M azzotta, 1977; Eugenio Scalfari-Sergio T urone, R azza padrona , M ilano, Feltrinelli, 1974.46 E . C azzola, P artiti e so ttogoverno: no te su l sistem a po litico italiano, in “ R assegna ita liana di socio logia” , 1974; Clientelism o e m u tam en to po litico , a cura di L . G raziano , M ilano, A ngeli, 1974; Joseph La P a lom bara , Clientela e parentela. S tudio su i gruppi d i interesse in Italia, M ilano, C om unità , 1974; A lessandro P izzorno , I ceti m edi nel m eccanism o del consenso, in A a.V v., I l caso italiano, M ilano, G arzan ti, 1974.47 La le tte ra tu ra su questo tem a è ricchissima: qui basterà ricordare i saggi im portan ti di A lessandro P izzorno , I s in ­dacati nel sistem a po litico italiano, in “ Rivista trim estrale di d iritto pubblico” , 1971; di V ittorio Foa, Sindacati e classe operaia, in L ’Italia contem poranea, c it.; B runo T ren tin , D a s fru tta ti a p ro d u tto r i, B ari, De D onato , 1977.48 C fr. L ’Italia negli u ltim i tre n t’anni, cit., rispettivam ente pp. 81-82 e pp . 293 sgg.

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considerare la democrazia repubblicana una restaurazione di istituti liberaldemocratici, sia pure con una base di massa più ampia, come sostengono sia Pavone che Carocci. Non c’è dubbio che questa ipotesi era presen­te tra settori non marginali dello schieramen­to culturale e politico antifascista49, è conti­nuamente presente nel dibattito storiografi- co50 e anche più strettamente giuridico sulla costituente. È certo vero, come è stato osser­vato, che De Gasperi è portatore di una lettu­ra della democrazia più come “restaurazione di certi istituti formali della democrazia di ti­po liberale così come funzionavano prima della rottura che portò al fascismo” che “co­me una realtà nuova in cui si doveva coniu­gare un contenuto sociale... e certe urgenze di rinnovamento istituzionale”51; non va nemmeno dimenticato che autentici padri fondatori della Costituzione italiana, come Piero Calamandrei, davano del fascismo un giudizio non solo fortemente venato da mo­ralismo ma segnato da una vera e propria in­comprensione del significato di scelte istitu­zionali (per esempio la costituzionalizzazione del Gran Consiglio del fascismo che sanciva la simbiosi partito-Stato) confondendo la forma specifica con il problema generale di cui essa era la spia52. Sono, quelli qui rapida­mente richiamati, riferimenti non esaustivi delle pluralità di forme in cui quel giudizio di Pavone si ripresenta ma sufficienti credo a documentare l’ampiezza di consensi, diver­samente motivati, che sostiene quel giudizio. Una messa a punto estremamente lucida del­

le ragioni forti della permanenza di questa lettura del postfascismo, ma anche della sua difficoltà a interpretarlo compiutamente, può trovarsi nelle osservazioni di Ruffilli sui due modelli di organizzazione del potere per cambiare la società (giacobino e liberaldemo- cratico) presenti ai tre grandi filoni culturali dell’Italia degli anni quaranta (cattolico, li­berale e d’ispirazione marxista)53.

Se dunque questi elementi sono presenti e operanti, non implicano però né una marginalizzazione della novità dei partiti di massa né, conseguentemente, la possibilità di riproduzione, magari su basi più allarga­te, del modello dell’alternanza proprio del sistema liberal democratico. Cosa significa infatti ‘di massa’, o almeno cosa ha signifi­cato nell’esperienza italiana? Il dato quan­titativo è certo importante ma solo in quanto spia di un 'fenomeno più profondo e significativo. È appena il caso di ricorda­re, in questa mia relazione e in questo se­minario, che la riflessione sul partito politi­co è estremamente ricca ed ha fornito, ac­canto ai contributi classici di Ostrogorski, Weber e Michels, una tipologia molto sofi­sticata, dal modello di democrazia partitica a quello razionale-efficiente fino al partito ‘pigliatutto’ — per citare solo i riferimenti più noti54. In rapporto a questa riflessione internazionale si è venuto sviluppando un robusto filone italiano che unitamente alla messa in circolazione di tale tematica nella cultura italiana fornisce anche linee inter­pretative dell’esperienza politica della de-

49 C fr. al sem inario di Firenze il d ibattito tra M atteucci, A rdigò e Scoppola (L ’Italia negli u ltim i tre n ta n n i, c it., pp. 254 sgg.; pp. 263 sgg.; pp. 277-80).50 P . Scoppola, G li ann i della C o stituen te , cit.51 In tervento di B arzanti nel sem inario di Firenze: c fr. L ’Italia negli u ltim i tre n t’ann i, c it., p . 75.52 C fr. P iero C alam andrei, L a fu n z io n e parlam entare so tto il fa sc ism o , in A. A quarone, M . V ernassa, l i regime fasc is ta , cit.53 C fr. L ’Italia negli u ltim i tre n t’anni, c it., pp . 260 sgg.54 U na m essa a pun to dei term ini in ternazionali del d ibattito sono in Sociologia dei p a rtiti politic i. L e trasfor­m azion i nelle dem ocrazie rappresentative, a cu ra di G . Sivini, B ologna, II M ulino , 1979.

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mocrazia repubblicana55. Senza voler entra­re nel merito di questi contributi — sarà compito delle altre relazioni — a me preme sottolineare, in rapporto al partito di mas­sa, alcuni elementi che mi sembrano impor­tanti. Il carattere di massa del partito sta nel suo essere saldamente insediato e rami­ficato nelle giunture essenziali della società civile, tendendo a organizzare direttamente o a porsi come espressione politica di interi settori sociali. Il partito di massa cioè è un vero e proprio blocco sociale. Quando Scoppola ripropone l’interclassismo come denominatore comune delle forze politiche contemporanee sulla base della constatazio­ne che in uno Stato di massa l’azione di governo e l’azione politica non possono che esprimere un blocco largo e articolato, formato da classi e ceti sociali diversi56, in­dividua una tendenza con cui non si può non concordare, con l’aggiunta però di al­cune precisazioni che ne rovesciano il signi­ficato. Anzitutto non può confondersi la in­dividuazione di una tendenza dei moderni partiti di massa con il significato e il ruolo specifico che l’interclassismo ha svolto nello sviluppo della De; in secondo luogo la fungi­bilità che viene in quel giudizio stabilita tra interclassismo e blocco sociale è possibile so­lo emarginando un dato che invece è essen­ziale e contribuisce a dare il segno a quella tendenza comune rilevata: cioè che l’aggre­gazione di un blocco sociale ha sempre come fondamento un rapporto — dato o da modi­ficare — tra queste classi e ceti sociali diversi con il processo di produzione e di riprodu­zione. Il partito di massa è portatore di un rapporto tra produzione e politica che passa

attraverso l’organizzazione del sociale. Cer­to, l’essere di massa dei partiti assume forme diverse (rapporto dirigenti-diretti, processo di formazione della decisione, rapporto tra l’organizzazione-apparato e l’insieme delle forze sociali che tendono a riconoscersi in un partito) che vanno storicamente puntualizza­te anche nella loro variazione temporale.

Se il partito di massa è questo qui rapida­mente richiamato, allora un elemento fonda- mentale dell’esperienza liberaldemocratica viene meno: l’attività delegata a un gruppo di specialisti e in sedi specificamente deputa­te a questo compito.

La stessa lotta politica cambia anche ca­rattere e dimensioni, essendo scontro tra blocchi sociali: non si sviluppa solo sull’inte­ro arco dell’organizzazione della società, ma è molto penetrante, intervenendo sul blocco sociale contrapposto per scomporlo. Le os­servazioni note di Gramsci sulla guerra di posizione e sulla reciprocità dell’assedio57 forniscono più di un suggerimento in questa direzione e un criterio di analisi dell’intera vicenda italiana postfascista. Una storia dell’Italia repubblicana che assumesse questi soggetti collettivi nella loro specificità di or­ganismi complessi che in forme diverse pene­trano il sociale, contribuiscono a plasmarlo e ne sono a loro volta modificati, offrirebbe, di per sé, risultati di grande rilievo e costitui­rebbe un primo tentativo di superamento della polarizzazione, in precedenza richiama­ta, tra politico e sociale.

Ma non è tutto. Per restituire alla storia dei partiti di massa la ricchezza problematica che le è propria, occorre fare interagire que­sto forte elemento di novità con quel dato

55 P artiti e partecipazione politica in Italia , a cura di G . Sivini, M ilano, G iuffrè , 1969; P ao lo F arneti, I l sistem a p o ­litico italiano, B ologna, Il M ulino, 1975; Franco C azzola, Il sistem a po litico d e ll’Italia contem poranea, T orino , Loescher, 1978.56 C fr. l ’in terv ista c ita ta di Scoppola a “ Il P o p o lo ” il 26 m aggio 1977.57 C fr. A nton io G ram sci, Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V alentino G erra tan a , T orino , E inaudi, 1975,pp. 801-802.

La storiografia delle élites 143

sinteticamente definito come ‘eredità del fa­scismo’, cioè con le modificazioni nell’orga­nizzazione dello Stato e della società interve­nute tra le due guerre. Il modo di essere di massa di un partito non è separabile dal mo­do in cui volta a volta intreccia rapporti con gruppi di interesse, settori organizzati, appa­rati dello Stato; interviene su di essi e ne è condizionato: in che misura funziona come camera di compensazione, di filtro mediato­re o come agente di ricomposizione. Gli ele­menti di conoscenza molto ricchi presenti nei contributi politologici e sociologici possono essere tutti recuperati in una ricostruzione

storica capace di farli interagire con una plu­ralità di piani, sfumando o risolvendo in spe­cificazione e determinazione quanto di tipi- co-astraente è ancora in questi contributi (ri­flesso dei caratteri propri dello statuto disci­plinare da cui provengono). È un lavoro tut- t ’altro che facile, richiede il concorso di una pluralità di competenze ma è fattibile: senza voler sminuire altri, a me sembra che il re­centissimo volume della Salvati58 costituisca il più significativo contributo espresso fino ad ora nella direzione indicata.

Franco De Felice

58 S ta to e industria nella ricostruzione, cit.