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LA SCRITTURA DEGLI ALTRI BUONI E CATTIVI SELVAGGI

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LA SCRITTURA DEGLI ALTRI

BUONI E CATTIVI SELVAGGI

Alcuni indigeni

Altri indigeni

1967

• Il 1967 deve essere considerato uno

spartiacque fondamentale per l’antropologia.

La moglie di Malinowski pubblica i suoi diari di

campo. La comunità degli antropologi è

sconvolta. Sembra che si debba radere al

suolo mezzo secolo di antropologia.

A diary in the strict sense of the term

• L’antropologia deve essere ripensata. Su quali

basi?

• Cosa significa fare antropologia?

• Cos’è l’etnografia?

• Chi parla di chi?

Clifford Geertz, o la svolta ermeneutica

• Un nuovo concetto di cultura. «Il concetto di cultura che esporrò […] è essenzialmente un concetto semiotico. Ritenendo […] che l’uomo sia un animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto, affermo che la cultura consiste in queste reti e che perciò la loro analisi non è una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato». (p.11, Interpretazione di culture, Il Mulino, 1988)

Interpretazione di culture

• «Se volete capire che cosa sia una scienza, non dovete considerare le sue teorie e le sue scoperte (e comunque non quello che ne dicono i suoi apologeti): dovete guardare cosa fanno quelli che la praticano, gli specialisti. Nell’antropologia […] ciò che gli specialisti fanno è etnografia» (p.12, Ibid.)

• Cosa significa fare etnografia? Fare etnografia significa fare thick description.

UN VOLONTARIO

Tre rischi

• Se la cultura può essere intesa in termini

semiotici, il comportamento umano deve

essere considerato come azione simbolica.

Cosa «oscura» (p.18) questo approccio alle

umane cose? A) Una visione REIFICANTE, B)

Una visione RIDUZIONISTA; C) Una visione

PSICOLOGIZZANTE

• REIFICAZIONE: La cultura è come un

organismo a sé stante.

• RIDUZIONE: La cultura è un insieme di

comportamenti.

• ETNOSCIENZA (apporccio psicologizzante): La

cultura è l’insieme delle strutture cognitive

per mezzo delle quali gli individui guidano il

proprio comportamento.

Dalla comprensione alla scrittura

• «Gli scritti antropologici sono essi stessi interpretazioni, e per di più di secondo o di terzo ordine. (Per definizione solo un «indigeno» fa quelle di prim’ordine: è la sua cultura). Sono quindi invenzioni, invenzioni nel senso che sono «qualcosa di fabbricato», qualcosa di confezionato – il significato originario di fictio – non che sono false, irreali o semplicemente ipotesi pensate «come se». Costruire delle interpretazioni orientate rispetto gli attori […] è chiaramente un atto immaginativo». (p.24)

• Qual è la differenza tra Gli Argonauti del Pacifico Occidentale di Malinowski e Madame Bovary di Flaubert? «Le condizioni e lo scopo della loro creazione (per non parlare dello stile e della qualità) sono diverse, ma l’una è fictio, una costruzione, tanto quanto l’altra». (Ibid.)

Da un atto ermeneutico ad un altro

• La comprensione etnografica è, lo abbiamo detto, thick description.

• Più propriamente, l’atto etnografico è scrittura e inscrizione.

• «Ecco quindi le tre caratteristiche della descrizione etnografica: è interpretativa; quello che interpreta è il flusso del discorso sociale; e l’interpretazione ad essa inerente consiste nel tentativo di preservare il «detto» di questo discorso […]. Esiste una quarta caratteristica di questa descrizione: […] è microscopica». (p.30)

Santa Fe 1984, o la svolta riflessiva

• La proposto ermeneutica di Geertz è

sufficiente?

• L’apporto critico elimina i problemi del diario

di Malinowski?

• Solleva nuove criticità?

• Dov’è lo Specchio?

Verità parziali• «Definire le etnografie come finzioni può urtare sensibilità empiriche. Ma la parola

[…] ha perso la sua connotazione di falsità, di qualcosa che si oppone alla verità. Indica la parzialità delle verità culturali e storiche, i modi in cui esse sono sistematiche ed esclusive. Le opere etnografiche si possono correttamente chiamare finzioni nel senso di «qualcosa che è stato fabbricato, o modellato», nucleo della radice latine della parola fingere. Ma insieme al significato di «fare» ci deve essere anche quello di «inventare», creare cose che non sono propriamente vere […]. Gli scienziati sociali interpretativi hanno recentemente cominciato a considerare le buone etnografie come «vere finzioni», ma generalmente lo hanno fatto riducendo l’ossimoro alla banale constatazione che tutte le verità sono costruite [che, nel mondo contemporaneo, l’unico che in fondo ci interessa, è già qualcosa!]. I saggi qui raccolti mantengono vivo l’ossimoro. Per esempio, per Vincent Crapanzano gli etnografi somigliano a trickster che, come Ermes, promettono di non mentire senza impegnarsi a dire tutta la verità. La retorica rafforza e sovverte il loro messaggio. Altri saggi sottolineano come le finzioni culturali si basino su sistematiche e discutibili esclusioni. […] Inoltre il creatore (ma perché ce ne dovrebbe essere uno solo?) di testi etnografici non può fare a meno di tropi espressivi, del linguaggio figurato, di allegorie che selezionano ed impongono un significato nel momento stesso in cui lo traducono. […] Anche i migliori testi etnografici – finzioni vere – sono sistemi o economie di verità. […] Le verità etnografiche sono allora parziali e incomplete. (Scrivere le culture, p.29)

La fragilità del senso

• Dove si colloca lo Specchio?

• Chi riflette?

• «Come la traduzione, anche l’etnografia è un modo provvisorio per entrare in relazione con l’estraneità delle lingue, delle culture e società. Ma l’etnografo non traduce i testi come potrebbe farlo un traduttore. Li deve, prima di tutto produrre. […] C’è un solo testo che gli sopravvive: il suo. Nonostante la finzione a-storica e sincronica, l’etnografia è determinata storicamente dall’incontro tra l’etnografo e il suo oggetto di studio.» (Vincent Crapanzano, in Scrivere le culture)

Credimi perché sono Ermes!

• L’etnografo è un po’ come Ermes: un messaggero che, provvisto di metodologie per svelare ciò che è occulto, latente, inconscio, può perfino estorcere il messaggio con l’inganno. Rappresenta le lingue, le culture, le società nella loro opacità, estraneità, insensatezza; poi, come il mago, l’ermeneuta, o come Ermes stesso, chiarisce l’oscuro, rende l’estraneo familiare, dà un significato all’insignificante. Decodifica un messaggio; lo interpreta. […] Ermes era il nume tutelare della parola e della scrittura che, lo sappiamo, sono esse stesse interpretazioni. Ermes […] era associato alle pietre confinarie. L’erma, una testa e un fallo in cima a un pilastro, ha poi rimpiazzato il mucchio di pietre. Anche l’etnografo […] segna un confine: la sua etnografia esplicita i limiti della sua cultura e dei suoi lettori. Ed esprime il potere interpretativo, suo e della sua cultura. Ermes era un dio fallico […]. L’interpretazione è un atto fallico […]» (Id.)

• Quale «io» si intravede nel riflesso dello

Specchio?

• Perché celarsi alla vista?

• La parzialità prospettica del soggetto

• Una questione di legittimità: l’esperienza

all’interno dell’osservazione partecipante, la

retorica letteraria all’interno del processo

ermeneutico

• Una questione di potere

Napoleon Chagnon

• 1967 – Tesi di dottorato su gli Yanomami

• 2013 – Ultima edizione del testo rivisitato:

Tribù pericolose. La mia vita tra gli Yanomamö

e gli antropologi

• Struttura del testo

• L’abiura parziale dell’antropologia e la

costruzione della legittimità dello scrivente

Due esempi eclatanti

• Raid e violenza: un complesso rito di

purificazione appena accennato

• La razzia delle donne

Antropologia e scienze dure

• Chagnon contro Geertz

• Chagnon contro Writing Culture

• Chagnon contro Sahlins

• Chagnon e l’evoluzionismo

• Il darwinismo sociale

• Fattori matematici

• Chagnon e Harris: un connubio (per fortuna!) mancato

Riduzionismo, essenzialismo,

etnocentrismo

• La rilettura di Chagnon delle pratiche rituali,

del concetto di utilità e del concetto di natura

umana

• Pratiche generali nel trattamento delle donne

(p. 231)

• Machiavelli e l’intelligence (p.258)

• Il concetto di restituzione: lo sterminio degli

Yanomamö

Una rapida incurisone e…

• «L’idea complemetare che l’egoismo sia innato è stata recentemente rinforzata da una ondata di determinismo genetico che trova la sua espressione nel «gene dell’egoismo» dei sociobiologi e nel redivivo darwinismo sociale degli psicologi evoluzionisti. Inoltre, tutti quegli elementi della cultura non riconducibili alla naturale predisposizione genetica a massimizzare il proprio tornaconto possono essere spiegati dalle teorie del «attore razionale» con cui gli economisti spiegano ogni cosa, dal tasso di suicidi alla delinquenza giovanile fino al saggio utilizzo del «capitale umano». Tutto questo «realismo» e «naturalismo» è stato elogiato come «disincanto del mondo», anche se ciò che singifica realmente è l’incanto della società ad opera del mondo, ad opera del simbolismo del corpo e della materia piuttosto che dello spirito. Non solo la società è concepita come il risultato collettivo dei bisogni corporei, ma il mondo stesso è conseguentemente irretito dalla pregnanza simbolica del valore commerciale dell’oro, del Pinot nero, dell’olio d’oliva, del filet mignon e della pura acqua minerale delle Fiji. C’è qui una costruzione della natura mediante particolari significati e pratiche culturali le cui qualità simboliche sono nondimeno concepite come puramente materiali, la cui origine sociale è attribuita ai bisogni corporei e il cui soddisfacimento arbitrario è mistificato come scelta universalmente razionale». (M. Sahlins, Un grosso sbaglio)

…un ultimo paragone

• «Come sono divenuto un sociobiologo: La mia prospettiva teorica sull’Antropologia del comportamento umano è stata progressivamente influenzata dalle nuove scoperte nel campo della biologia teorica, compresa la crescente consapevolezza, tra i biologi e alcuni antropologi, che «l’unità» su cui agisce più concretamente la selezione naturale è quella dell’individuo e non del gruppo.Il tradizionale punto di vista dell’antropologia sulla selezione naturale ha teso a enfatizzare l’importanza del «gruppo», della «società», e della «cultura». Dalla metà degli anni ’70, gli antropologi erano in generale estremamente critici verso i lavori di E.O. Wilson, R. Dawkins, G. Williams, W. Hamilton, che rappresentavano il pensiero nuovo. Nelle mie ricerche e pubblicazioni, tuttavia, ho sostenuto con consapevolezza sempre maggiore i loro lavori. Non sorprende, quindi, che un cresente numero di antropologi, compresi alcuni dei più insigni, come Harris, Sahlins e Geertz, incominciarono a concentrare la loro critica sul mio lavoro per il mio supporto a Wilson e agli altri studiosi.» (p.371)