La porta del cielo

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Alessandro Nardin, fantastico

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Alessandro Nardin

LA PORTA DEL CIELO

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LA PORTA DEL CIELO Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Alessandro Nardin ISBN: 978-88-6307-359-1

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Maggio 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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Tanto tempo fa, nei recessi di un tempio consacrato alla Vergine e al sapere, un vecchio amanuense finì di redigere il Libro degli Uomini Grandi, ove tutti le vite meritevoli erano raccontate. A opera compiuta il pesante tomo venne affidato al suo apprendi-sta, affinché lo riponesse con cura. Ma il giovane curioso, di nascosto dal maestro, volle aprire il vo-lume e leggerne il contenuto. Passò la notte avidamente avvinto, appassionandosi delle tante sto-rie, tanto che il tempo trascorso consumò la candela che illuminava la stanza. Giunto al lumicino, al culmine della lettura, dovette av-vicinare la fiamma per vedere meglio. Allora una goccia di cera fusa colò sulla pagina aperta, cancellan-do per sempre una storia, una vita, un nome fra i tanti.

Questo libro è dedicato a quel nome.

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Prologo Diciassette anni prima. La battaglia di Pavia, 24 febbraio 1525 Una fiammata improvvisa, una fumata acre che si impenna e si dissolve: era il falò che reagiva alla colata di grasso proveniente da uno stinco di maiale, che un ruvido uomo puzzolente brandiva ancora come un’arma. Quel bamboccione rise allo svaporare del fumo, e urlando sguaiato diede il via a un nuovo boato: grida di giubilo da gole cosmopolite gli rispose-ro, coprendo in quel momento tutte le colate di grasso che attizzavano tutti i fuochi da campo, accesi a perdita d’occhio lungo la distesa di Mi-rabello, attorno al castello, dentro e fuori le mura di Pavia. Eroi da un giorno: erano i vivi dell’esercito vittorioso che si facevano sentire e vedere. Canti e balli si alternavano a banchetti trucidi e orge sfrenate: si mangiava alla tedesca, si beveva all’italiana, si ballava alla spagnola. E si baciava alla francese, che per quella sera voleva dire ba-ciar le chiappe ai vincitori. Trionfo. A Pavia, l’esercito assortito del sempre soleggiato imperatore Carlo aveva decretato la fine della cavalleria, la cancellazione dell’onor feudale, l’obsolescenza dell’avanti miei prodi. La Francia umiliata, il re Francesco catturato e rinchiuso. Tutto perduto, financo l’onore, anch’esso sconfitto e imprigionato assieme al suo re, e tuttora unico suo compagno di cella. Francesco I era l’ospite d’onore della gran baraonda pavese: il nome del re sconfitto rimbalzava di voce in voce, accompagnato da motteggi sgrammaticati e rigurgiti di vino e acidi gastrici. A quelle invocazioni assistevano estasiate frotte di baldracche, che erano calate sui resti dello scontro a investire ufficialmente del titolo di vincitori le masse pulciose dei soldati senza nome, gli ignoti muratori della storia. Esse officiavano come sacerdotesse il rito eucaristico della vittoria per tutti: prendete e mangiatene, perché potrebbe essere l’ultima volta. Prendetene voi, mastri

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ferrai, e voi, beccamorti. E ce n’è pure per voi, avanzi di galera. Siete vi-vi e smaniosi: avete vinto sul campo il diritto a usare l’aspersorio! Erano i figli derelitti del destino, le bestioline del laboratorio di un perfi-do naturalista, che le osservava a piacere e con lo stesso distacco se ne dimenticava. Sulla palude ululante la sua torre svettava, ombra fra le ombre, e le finestre illuminate, tante piccole scintille, quasi sfiguravano al cospetto dei fuochi selvaggi del campo. Il castello Visconteo di Pavia osservava inosservato. Fra le sue mura, protetto dal disinteresse, il burat-tinaio attendeva. La finestra sigillata della stanza di cui si era da poco impossessato riu-sciva a isolarlo dai rumori della marmaglia e dai rigori dell’inverno mo-rente. La battaglia era davvero finita là dentro: il duce supremo delle for-ze vincitrici aveva già deposto le armi, e si accingeva a sostener la guerra di un nuovo cammino senza pietade. L’unico rumore che seppe distrarre dal proprio isolamento Carlo di Montpesser, Connestabile di Borbone, fu un deferente bussare alla sua porta. Lo stava attendendo: era la risposta a un suo ordine diretto. «Avanti.» Alla soglia si affacciò un militare. «Mio Signore, il soldato che ha chiesto è qui.» L’emozione di quell’uomo gli aveva reso ancor più sconclusionata una lingua masticata a fatica. Il suo sguardo invocava che il suo idolo lo ri-cambiasse, ma il Borbone si guardò bene dal soddisfarlo: rimaneva in piedi accanto a un tavolo, gli occhi avidamente assorti su un libro di fi-nissima fattezza che cullava fra le mani quasi fosse un bambino «Fallo entrare» si limitò a ordinare. «Sì, mio Signore» rispose pronto il milite profondendosi in un inchino tanto più perfetto quanto più ignorato, e con la stessa studiata maestria si fece da parte. Sulla soglia apparve un uomo, un generico esemplare maschio dalla gio-vinezza irsuta, dalla serenità tradita e dalla cura del corpo assonnata. Gli abiti civili non ingannavano: ogni militare orpello era stato rimosso con troppa premura per non lasciare sulla sua figura reliquie venerande. Non parlava, questo criptosoldato: che fosse per deferenza o presunzio-ne, il suo silenzio lo lasciava spettatore di un teatro alla rinfusa, dove i vessilli dell’autorità giacevano in attesa di essere riordinati. Nella stanza erano ancora stipati bauli un po’ aperti e un po’ chiusi, e tut-to ciò che vi era dentro attendeva di trovare una degna collocazione. In

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mezzo, sorretto da un’impalcatura, un arazzo a soggetto bellicoso sem-brava dividere in due l’ambiente. Tutto grondava ricchezza, una ricchezza abusata e ora trascurata. Potevano attendere tutte quelle chincaglierie dorate: il duce stava leg-gendo. Incuriosiva il visitatore quanta attenzione rivolgeva il Connestabile al tomo nelle sue mani. Sorridendo smaliziato, muoveva gli occhi avidi lungo le righe: e quello stesso movimento ne tradiva in parte il segreto, poiché la lettura procedeva al contrario, da destra a sinistra, seguendo i tratti di inchiostro su pagine illustrate in sanguigna. E a dose di pazienza esaurita, fu il disinteresse artificioso del nobile a soccombere a quello spontaneo del soldato. «Come ti chiami?» Il Connestabile richiuse il libro, e interpellò il suo ospite studiandolo con sguardo freddo. «Voi mi avete fatto chiamare. Il mio nome dovete saperlo già.» Chiamata alle armi: il Borbone, comodamente asserragliato sui suoi spal-ti, avrebbe dovuto forse entrare in giostra e competere con quello scono-sciuto sottoposto? «Giovanni Nerclavis…» gli rese ragione in un mormorio «quella stessa impudenza che ho scorto oggi nel tuo sguardo, adesso osi rivolgermela anche a voce, diritta diritta come una schioppettata.» «E ho fatto centro?» scaricò nuovamente l’archibugio il soldato Nercla-vis. «C’è chi impara a sparare e c’è chi nasce per farlo» spiegò paziente il Connestabile «un tiratore scelto posiziona l’arma sulla spalla e prende la mira chiudendo un occhio. Tu non ne hai bisogno: sei il Polifemo dei ti-ratori. Perché hai la faccia come il culo.» «Per questo non mi inchino ai signori: potrebbero prenderlo come un af-fronto» spiegò con indifferenza il soldato. «E invece dovresti: è l’affronto che i signori preferiscono. Soprattutto quando vincono. Quel rassicurante corteo di prefiche e parassiti, che con sguardi succubi tributano incensi al trionfatore, al capobranco. Non è piaggeria: è intinto vitale.» Il Borbone non fece sforzi di memoria per percorrere a ritroso la parata degli incensatori «È da stamane che tutti mi fissano svenevoli, tutti coloro che mai ose-rebbero rivolgermi anche solo un fiato mi venerano con lo sguardo, dai

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generali agli ultimi dei fantaccini. Tutti tranne uno. L’unico che, fissan-domi, osava dirmi “io ti ho capito, e non gioco con te”.» «Chiamate quel fellone» canzonò Giovanni, esibendo un ghigno lusinga-to «e insegnategli le buone maniere.» «Non sono buone maniere, sono leggi di natura. Che né da una parte si insegnano, né dall’altra si può scegliere di seguire. Il problema è: chi è, o cos’è, un essere che non si sottomette alle leggi di natura?» «Un vincitore?» azzardò Nerclavis senza indugiare in riflessioni. Vi fu un attimo allora in cui lo sguardo del Borbone calò come un’investitura sul giovane soldato. Sarcasmo e sussiego gli affiorarono sul labbro, a mezzo piegato in un sorriso ambiguo. «Vincitore lo sei per una pura contingenza. Per fortuna tua hai scelto di venderti all’imperatore, trovandoti così nel campo giusto. Ma, amico mi-o, uno che già dalla prima mattina di un giorno di battaglia era presso al fossato a pulirsi e imbellettarsi, nella migliore delle ipotesi può definirsi il più sconfitto dei vincitori.» La battaglia, cominciata di notte, per Nerclavis era già finita la sera anco-ra prima. Un po’ come concludere un incontro amoroso neanche ai pre-liminari, ma già sulla soglia della camera da letto. La sua lancia infatti, quella quindicina di uomini raggranellati fra la feccia del Trentino con i soldi che il padre gli aveva lasciato, era stata assegnata alla scorta dell’artiglieria spagnola. Ma erano bastate poche scariche dei fucilieri francesi per mettere subito in rotta non solo la sua, ma anche tutte quelle compagniucole italiane raccogliticce, già poco avvezze all’arma bianca, figurarsi alla polvere da sparo. «Solo perché me la sono data a gambe?» volle difendersi Giovanni «al-meno sono stato libero di farlo. Sempre meglio essere il più sconfitto fra i vincitori che il più vincitore fra gli sconfitti. A proposito: come sta il re dei francesi?» Al diavolo le gerarchie: il pezzente soldato Giovanni Nerclavis si era ap-pena posto al di sopra dell’autorità regia, complice un fortuito esito belli-co. E il Borbone rispose pure, alimentando da par suo quella parodia di una chiacchierata fra amici. D’altronde Nerclavis non avrebbe potuto of-frirgli boccone più ghiotto di re Francesco, un tempo padrone del Borbo-ne, e ora suo prigioniero. «Sai qual è la fortuna del re? Non aver ancora capito di aver fatto un’idiozia. L’ho visitato in cella e stava scrivendo alla madre non so qua-li farneticazioni sull’onore della sconfitta. È convinto di non avere nulla

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da rimproverarsi: un regno ha perso il suo sovrano e dovrà dissanguarsi per averlo indietro, tutto perché lui ha voluto caricare alla testa dei suoi cavalieri come un templare alle crociate, finendo sotto il tiro dei fucilie-ri.» Accolse queste parole con il rispetto dovuto, il soldato Nerclavis. «Parlate bene, duca, con cognizione e passione. Devo arguire che queste siano le parole del più vincitore dei vincitori?» disse, chinando legger-mente il capo e allargando le braccia, in segno di deferenza. «La storia ne cerca sempre uno» rispose il nobile accettando quel gesto «tutti faranno a gara per salire a quel soglio: tutti si vanteranno dei meriti dell’impresa. Il marchese di Pescara, perché le truppe erano al suo co-mando. Il viceré di Napoli, che con i suoi uomini ha accerchiato France-sco e lo ha imprigionato. Ci sono già tre cavalieri spagnoli che si litigano la cattura. Ma a strepitare di più è l’italiano che gli ha abbattuto il cavallo con l’archibugio. Tutti a spartirsi una spoglia disseccata dalla propria in-coscienza. Tutti questi presunti eroi del nuovo corso storico credono di essere gli artefici del loro glorioso destino. Ma devono solo ringraziare la dabbenaggine del re: quella sì che merita il plauso della storia.» «Se questo è vero, perché dovrei considerarmi un vincitore indegno? So-no stato messo a guardia dei vostri cannoni con il compito espresso di farmi massacrare. E mi sono sottratto a quel dovere. Non avrò deciso il mio destino, ma ho cancellato quello scritto per me. Da voi.» «Tu non hai cancellato proprio un bel niente» una risata pacata, un motto di scherno. Carlo di Borbone rigettava quel ruolo di Parca. «Il volto, il volto con cui mi hai fissato oggi pomeriggio, io lo conosco bene: è quello dello sconfitto, quello di un uomo che sapeva di essere uno sconfitto. Avrai vinto pure la battaglia assieme a tutti noi, ma hai perso la tua guerra. Non puoi ingannarmi: tu inseguivi la morte.» Giovanni Nerclavis vacillò. Un fiume di parole pronto a riversarsi dalla sua bocca rimase improvvisamente prosciugato. Le acque torbide e ver-bose in cui celarsi d’un tratto erano scomparse. Rimaneva un unico rivo-lo, sottile e cristallino. Risalirlo era come profanargli l’anima. «Volevo solo che mi desiderasse» si giustificò, fanciullino disilluso «ma ho visto la morte avere schifo di me. Così l’ho tradita. Sono andato con la puttana più facile.» «E allora, viva la vita! Che ben più di sorella morte ha dimostrato di vo-lerti tenere stretto a sé. Tanta dedizione va premiata, non credi? Ti ci ve-do, giovane soldato, a danzare follemente in mezzo ai colpi e agli scoppi,

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a radunare le tue truppe in fuga, disperse dal terrore. Senza né sperare né scappare, semplicemente attendendo il colpo fatale a spazzarti via. Inve-ce eccoti qui. Contro la tua volontà.» «La mia volontà?» domandò accigliato «mi avete appena insegnato di non contare nulla. È solo ricominciata un’altra mascherata, a cui la pa-drona della festa brama che io partecipi voluttuoso. Non sentite, eccel-lenza? Essa mi chiama. E io non posso più indugiare.» Passi lenti riavvicinavano il Connestabile al tavolo. «È da irriconoscenti fare aspettare la tua benefattrice.» Sul tavolo attendevano i manoscritti. A loro si volse nuovamente il Si-gnore, accarezzandoli con lo sguardo, quasi tremando nell’accostarvi le mani. Ma l’intimità dovuta non poteva ancora dispiegarsi. «Ti ho congedato, soldato. Che cosa aspetti?» «Mi avete sottratto alla mia festa. E ancora non mi ha detto il motivo per cui l’avete fatto.» Alzò lo sguardo curioso per l’ultima volta. «Solo per vedere come ti sta la tua nuova maschera.» Aprì la copertina del tomo. E Nerclavis seppe che non avrebbe più otte-nuto altro. Carlo di Borbone lo sentì uscire, e richiudere la porta alle spalle. Il soldato Nerlavis era ormai lontano, quando il duca riprese a parlare. «Questo incontro si è rivelato senza scopo» disse ad alta voce «lui stesso è senza scopo, il suo procedere è incerto, senza meta.» «Tu dici bene» rispose una voce. Calava dall’alto, esalando dal cuore della guerra. Era l’arazzo che si animava? «Incerto è colui che non ha meta. Certo è colui che ne ha una. Ma Gio-vanni Nerclavis le ha tutte. Tutte le mete e tutti i cammini assieme, chiu-si in sé.» «Non ha rispetto. È uno sconcio imboscato, presuntuoso e inetto. Un uomo senza fede non può esserci di alcun aiuto.» Da dietro all’arazzo la voce rispose ancora, profonda e sicura. «Au contraire, mon capitain. Navi e capitani si impelagano nei loro asso-luti. C’è chi naviga a vista e chi si aggrappa alla stella polare: ai primi l’ignoranza, ai secondi l’illusione. Nerclavis homo novus est: capace di navigare quando le coste si inabisseranno, e le stelle si spegneranno.» Dixit Dominus Domino Meo. Fu il mistico pensiero di Carlo. Che tradus-se il suo scetticismo. «Siete voi l’oracolo…»

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«E voi il Gran Maestro. Farete la cosa giusta.» Il Borbone tacque, e per un istante il solo suono udibile fu il frusciare delle pagine da lui sfogliate con devozione. Volti, schizzi, progetti, mac-chine. Discorsi interi a rovescio, come se il genio capace di vergarli a-vesse voluto lasciare inequivocabile la sua considerazione sull’esistenza. E mentre ogni certezza vacillava, la via tracciata dalla voce si mostrava sempre più chiara. «Farò come volete» annunciò il Connestabile «l’inquieto viaggiatore ci sarà da guida, senza che nulla sappia di ciò. Sarà libero, e liberamente tornerà a noi. Solo una cosa dovete dirmi: credete che possa egli giunge-re fino alla fine del Cammino?» Nessuna risposta. «Siete ancora qui?» Carlo di Borbone si scosse dalla sua lettura, alzò la testa di colpo. Depo-se cauto il libro e si accostò all’arazzo. Ancor prima di scostarlo ebbe già chiaro di essere solo. Si affacciò dall’altra parte, e dell’uomo che aveva ascoltato nascosto non vi era più traccia. Rimaneva il suo sorriso ad aleggiare nell’aria.

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Capitolo Primo Oggi, primavera inoltrata, Anno Domini 1542 Venezia, la piazza di San Marco Con il calare del buio, un vento secco aveva cominciato a sferzare la piazza di San Marco, spargendo cenere sul selciato fin quasi all’ingresso del Palazzo Ducale. Il sole aveva scaldato i veneziani assiepati per tutto il pomeriggio; ades-so, con lo sfollare del popolo nel disinteresse, lo spettacolo era davvero finito. Vi era un morto da spazzare. Chi ne sapeva il nome? Chi le colpe? Forse neppure coloro che lo aveva-no legato al palo. E se pure il boia, colto da un improvviso sussulto di improfessionalità, avesse voluto chiederglielo, non avrebbe ottenuto ri-sposta poiché le nuove, magnanime indicazioni prevedevano che il con-dannato venisse bruciato sul rogo già cadavere. Di quel cadavere rimaneva poco: le gambe, le prime a carbonizzarsi, e-rano già precipitate sulle cataste di legna prima del tramonto. La testa si era appena ripiegata su se stessa, quindi aveva ceduto all’imbrunire, pro-vocando l’ultimo urlo dei pochi affezionati ancora presenti. Ad assistere alla consunzione del tronco ormai restavano in pochi, e lo facevano solo per dovere: erano coloro che al termine dell’agonia del tizzone sarebbero intervenuti per ripulire. Fissato troppo bene, le braccia legate dietro alla schiena ad abbracciare la trave. Si dovette attendere parecchio prima di vederlo vacillare. Tremò più forte, quasi a tentar la fuga. Quindi venne giù. Un nugolo di fiammelle si levò verso il cielo, e ogni occhio indisciplina-to si trovò a seguirle. Un uomo solo non se ne lasciò distrarre. Si teneva in disparte rispetto agli altri, si celava fra le ombre coprendosi fino ai piedi con un lungo manto, il cappuccio calato sul capo.

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Aveva fissato quel tronco fino allo stremo, lo aveva accompagnato nel crollo, e lì, dove si era frantumato, aveva lasciato cadere lo sguardo. Lo conosceva, il tronco. Se lo ricordava ancora con la testa attaccata. Ri-cordava il volto femmineo di un giovanotto biondo, la cui fresca vitalità aveva potuto appena intuire. Gli occhi azzurri lo avevano fissato solo con preoccupazione e paura, in quelle due volte in cui i loro destini si erano incrociati. Quell’uomo incappucciato era l’unico sulla piazza che ne conoscesse il nome. Il condannato si chiamava Fiorenzo. Ed era morto senza saperne il moti-vo. «Avanti, sfaticati!» si sentì riecheggiare «prima si comincia, prima si fi-nisce.» La squadretta di spazzini si era accostata al cumulo fumante, i primi a versare secchi d’acqua per spegnere le ultime braci, a seguire quelli che con le pale frangevano i detriti ancora compatti. Ma quell’uomo, quello solitario e celato, era già penetrato nel cuore della consunzione. Si era mischiato ai manovali, e ora si aggirava ai piedi del palo, scheletro abbrustolito che come un obelisco invocava la pietà dei cieli per la colpa di non essersi estinto. Là era scivolato il reo. «Sei nuovo?» Una voce acre si era intromessa. L’uomo incappucciato né la temette, né volle assecondarla. Si aggirava fra le ceneri laddove erano più fitte, e le fissava quasi con fervore, come se stesse separando con lo sguardo i resti del corpo da quelli della legna. «Speri anche tu di trovare qualcosa?» Quella voce non aveva cessato di importunarlo. Una voce ingenua, capa-ce di metterlo sull’allerta perché senza saperlo aveva colto il vero. «Che domanda scema che ti ho fatto» proseguiva da par suo l’operaio chiacchierone «è chiaro che cerchi qualcosa. Sennò perché avresti accet-tato questo mestiere di merda?» L’uomo col cappuccio doveva porre un freno. «Tu cosa vai cercando?» chiese d’un tratto. Aveva un accento straniero, un’eleganza orientale, moresca. Rispettabile, a Venezia, e per questo né sorprendente né sospetta. Se sorpresa doveva essere, era sentirla risuonare con tanta purezza dalla bocca di un becca-morto ambulante.

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«Non cerco niente, come tutti. Ma si spera sempre di trovare qualcosa. In genere ci sono solo i sassi, al massimo le monetine che la gente tira ad-dosso al condannato. Sai, un mio amico mi ha detto che una volta hanno trovato diamanti: il condannato era un ladro, e li aveva mangiati. Poi, una volta bruciato, li hanno trovati in mezzo alla catasta.» «E se li trovassi tu?» aveva proseguito la voce sotto il mantello. «Io?» domandò, come se ci fosse stato da sorprendersi. O da mettersi in guardia. «Ah, ho capito! Tu stai facendo la spia per il padrone. Mi stai mettendo alla prova. Ma io non ci casco! Tutto quello che troviamo si mette là in fondo» indicò un carretto, accanto a cui aspettava il caposquadra «e poi si porta tutto al padrone, che ci paga di più se il piatto è ricco.» Le parole andavano a perdersi. Il derelitto non mollava. Raccontava, rac-contava ancora la sua vita e il suo lavoro; i sogni erano bruciati via con i morti. E fra la morte, nel nero più nero, l’uomo dall’oriente affondava le mani, poiché sapeva, lui solo, cosa lo attendeva. Vi era un fuoco sotto la cenere, un fuoco gelato ed eterno. Un fuoco che amava essere toccato, e che avrebbe investito il suo scopritore del dono della morte e della condanna a vivere. Era quel fuoco a guidare i gesti. Una Pietra fra le ceneri, che bramava ricongiungersi al sé disperso in ogni fibra della materia. Spirò una folata improvvisa, proprio sulla piazza, proprio nel centro, in mezzo alle colonne di Giustizia. Fu allora che la vide. Le rimanenze del corpo di Fiorenzo erano state soffiate via. Sotto di loro, come un uovo che si schiude, era la Pietra. Meno di un ciondolo, meno di una moneta. Un disco grande quanto una falange, grigio, levigato. Alla vista pareva viscido, colore del catrame e lucentezza di una pozza d’acqua stagnante. L’uomo allungò la mano, tremante. Attese ancora un istante. Affondò l’artiglio, e la ghermì. Era dura, impenetrabile. Ostile. Il freddo che emanava risalì lungo il braccio, volse verso il cuore. E lì si arrestò, prima di profanarlo, o di es-serne profanato.

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La sollevò dalle ceneri, non senza sforzo, sorpreso dal suo peso: pareva che quel dischetto rifiutasse di staccarsi dal suolo. Lo ripose sotto il man-to, quasi a volergli donare un nuovo nido. E se ne andò. Attraversò le ceneri, passando sotto al naso del lavorante che tanto a lun-go l’aveva importunato. Questi lo fissò, sorpreso della naturalezza di quel gesto senza senso. «Ma dove vai?» gli gridò dietro il maledetto cialtrone «non puoi avere già finito!» Perché non taceva? Troppi suoni potevano attirare attenzioni non volute: doveva sparire in fretta. Era già nei pressi della basilica, e dietro di sé aveva lasciato il gruppo di lavoranti nel disinteresse. Era sicuro che nessuno dei suoi improvvisati colleghi lo stesse seguendo; e se anche il chiacchierone avesse richiama-to l’attenzione del suo responsabile, ormai era già sufficientemente lon-tano per non doversene preoccupare. Tutta la sua attenzione era adesso riversata sul preziosissimo carico che aveva prelevato. Troppa della sua attenzione. Perché di quell’uomo in abiti scuri che lo aveva spiato fin dal suo arrivo alla pira, ben celato dietro al colonnato del Palazzo Ducale, non aveva colpevolmente neppure sospettato la presenza. Silenzioso e infido, al momento giusto era sgusciato fuori dal nascondi-glio. E gli si era posto alle spalle, marcandone ogni passo fra le calli, os-servandolo inosservato.

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Capitolo Secondo La peggio locanda del sestiere. Parole, schiamazzi, tintinnii, clangore. E ancora parole, per lo più urlate, e rutti incontrollati. Qualche stoviglia in frantumi ogni tanto, e litanie di imprecazioni e bestemmie. Qualcuno cantava, e la massa teneva dietro. E gli osti mescevano, e i cuochi cocevano, e le serve servivano. E a ridere come infanti alle giostre, più sguaiati di tutti, due lanzichenec-chi della prima ora e due ragazzotti fuoriusciti dal ducato di Milano. Gottfried, Kurt, Domenico, Valerio. Soldati di ventura. Fuori dalla porta erano rimasti i loro nomi e il loro grado, a stento era rimasto attaccato loro un barlume di raziocinio. Si scendeva una scala, e lì si apriva una puzzolente stamberga specializ-zata in palati grezzi. E come tutte le sere, era stipata. Avevano dovuto lottare i quattro per quel tavolo, fare a gara con quattro dalmati nella nobile arte dell’intimidazione, ma da quando si erano sedu-ti, avevano contribuito con onore all’arricchimento del proprietario. E quando un incauto avventore, con uno sgabello rimediato chissà dove, si era accostato al tavolo per sedervisi a capo, ci era mancato poco che d’istinto il più giovane e irruento dei due milanesi non lo tramortisse con un pugno. O meglio, il pugno era in effetti partito, ma l’ultimo arrivato, ancora in debito con l’alcol, l’aveva bloccato in presa, stringendogli nocche e fa-langi nella mano ferma. Gli occhi dei due si incrociarono. «Capitano…» mormorò stupito Valerio Morandi, rendendosi conto che il polso cominciava a torcersi dolorosamente. «Brutto coglione: conciato come sei, ti faresti sodomizzare da un eunu-co.»

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Lo liberò dalla morsa appena prima del punto di rottura. Valerio ritrasse la mano, mentre brandelli di pensieri di rabbia e vergogna si affastella-vano alla ricerca di una giustificazione. Ogni possibile replica venne stroncata da uno sguaiato giubilare germa-nico. «Jo! Jo! Jo! Un brindisi al capitano Nerclavis, che si è degnato finalmen-te di unirsi alla ciurma!» urlò Kurt Schneider con quanto fiato in corpo. A esso fecero eco gli altri, sia quelli al tavolo che qualche sodale dei pa-raggi, ansioso solo di una scusa per tracannare. «Capitano, questa è davvero una bella sorpresa» disse Gottfrie Ardach, il suo vice da sempre, appena terminata una profonda sorsata «come hai fatto a trovarci?» «È bastato chiedere quale fosse il locale più malfamato del sestiere.» «E non ti hanno mandato a Palazzo Ducale?» domandò caustico Dome-nico, il Morandi primogenito. Nerclavis sorrise. «Se anche fosse stato, mi sarei guardato bene dall’andarci. Ci sono luo-ghi che vanno al di là del malaffare: io la feccia voglio guardarla in fac-cia, non sentirla alle spalle.» Risero al tavolo, senza eccessi, perché l’aria viziata del centro del potere la stavano respirando tutti, e da troppo tempo. E nessuno sapeva ancora fino a quando. «Tanti giorni che ti ci muovi, e ancora non ti sei abituato» considerò Ar-dach. «Perché, tu sì?» domandò il capitano severo, rubando senza complimenti la birra del compagno che lo aveva stuzzicato «in quel palazzo siamo trattati con tutti i riguardi, non ci manca niente. Tranne una cosa: spiega-zioni. E questo mi dà sui nervi.» «Cosa ti aspettavi?» azzardò Valerio, ansioso di rimediare all’umiliazione «non siamo più i reucci della piccola contea. Prima era-vamo a capo della guarnigione del Brandolini. Adesso cosa siamo? Sia-mo gli scopritori di uno dei complotti meglio riusciti alle spalle della Repubblica. In pratica, siamo andati dal doge a dirgli “Guarda un po’ che coglione che sei”!» «Lo sai anche tu che non è il doge il problema» lasciò cadere il fratello Domenico. Il silenzio calò sul gruppo. Attorno a loro il guazzabuglio non accennava a diminuire, ma la presenza evocata da quell’allusione aveva esorcizzato il divertimento.

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I pensieri di tutti erano corsi al frate, al domenicano. A colui che per molti era la vera, suprema autorità dello Stato. Padre Innocenzo Marin, capo del Consiglio dei Dieci, già generale dell’ordine, oltre a questo, era anche il più efficace antidoto all’allegria. Ben lo ricordava Domenico Morandi, che per primo lo aveva incontrato, quando aveva scortato presso il Doge il conte Brandolini. E che per pri-mo era stato investito del suo untuoso inquisire. «Marin coordina le indagini, adesso» spiegò il capitano Nerclavis appena poté «in modo esemplare, aggiungerei. Parla con me. Parla con Nesham. Parla con Brandolini. Credo anche che riesca a superare il disgusto e tal-volta parli pure con voi. Ha tutto in mano, e tutto sa.» «Ma le informazioni corrono solo dal basso verso l’alto…» aggiunse Ar-dach. «Fosse solo questo. Lui è un maestro nel mantenere l’esclusiva della co-noscenza» sorseggiò riflettendo, come a lubrificare le parole «i tempi, capite? Ha i tempi e i modi giusti per carpire i segreti: quello che chiede a me non coinciderà mai con quello che chiede a te. E fra la prima e la seconda chiacchierata, lascia passare il tempo necessario perché l’argomento sfugga dalla memoria.» «Così, se anche volessimo riprendere in mano noi l’indagine, non sa-premmo più neppure da dove ricominciare» si trovò a considerare Ar-dach. «Allora, non ricominciamo!» urlò Schneider «e che diavolo, abbiamo fi-nito o no di corromperci? Prima la corte, adesso il frate. Compagni d’arme: non vi siete ancora resi conto che questa, questa è la prima serata normale da quando è cominciato tutto?» Il resto della compagnia fissò Kurt stranito: quel discorso così appassio-nato sembrava troppo serio per essere il parto della sbronza. «Vorresti spiegarci cosa intendi per “serata normale”?» «Non ve ne siete ancora accorti?» riprese, ebbro e spavaldo «da quando siamo arrivati in Valmarena, questa è la prima sera che sediamo tutti as-sieme, e ci parliamo, e ci guardiamo in faccia. Noi. La compagnia di Giovanni Nerclavis. Senza protocolli da seguire, senza etichette da ri-spettare, senza uniformi da esibire. Siamo noi, e noi stessi, in attesa di veder sorgere il sole di domani, come quando ci aspettavamo di non ve-derlo tramontare.» E mentre scarne emozioni facevano capolino fra i sodali, il rude druido completò il rituale.

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«Un brindisi alla compagnia!» urlò levando il boccale «a tutti quelli che furono. E a noi, quelli che sono. I soli che saranno.» I boccali già si innalzavano fin sopra le loro teste. «Un momento» Tutti i boccali, tranne uno. Su quello appoggiato davanti a sé, neppure ancora preso in mano, Giovanni Nerclavis, il capitano, aveva fatto cadere l’attenzione. «La compagnia non è al completo, lo sai. Uno di noi manca.» «Di noi?» fece eco Schneider «quando mai lui è stato uno di noi?» Era ben chiaro a tutti di chi si stava parlando. «In Valmarena siamo arrivati in sei, ricordi? E in sei siamo qui a Vene-zia» procedette Nerclavis a evocare. «Ma al castello siamo rimasti in cinque» evocazione che procedeva sen-za nome, come per una proibizione divina «e in cinque siamo qui anche adesso. Quando rischiavamo la pelle, lui non c’era. Non c’è mai stato. È con noi solo da quando abbiamo deciso di salvarcela a ogni costo.» «Ci ha aiutato, Kurt. È stato essenziale per le nostre indagini. Senza di lui oggi forse non saremmo qui» giustificò il capitano. «Infatti siamo qui. Dove non dovremmo essere, a essere ciò che non siamo» era sorprendente la compostezza delle argomentazioni di Schnei-der. «Non fraintendetemi: non ce l’ho con lui. Personalmente mi è pure sim-patico. Ma a volte mi fa paura» una compostezza spaventosa. Poiché so-lo una minaccia percepita come reale poteva spingerlo a rivelarsi. «È schivo, sfuggente. Sa tutto di tutti, senza concedersi a nessuno. Di lui non sappiamo nulla: chi è, da dove viene. E perché si è unito a noi» sor-seggiò, senza gustare, più che altro per spezzare pensieri che rischiavano di travolgerlo. «Lui lo sa, lo sa di sicuro. Come sa sempre tutto. E quella certezza che non possiamo neppure immaginare è terrificante. Noi siamo solo un mezzo di fortuna per lui. Siamo la chiatta che gli serve per attraversare un fiume. Possiamo solo domandarci cosa ne sarà all’approdo» trasse in-fine un profondo sospiro. «C’è qualcosa che lo spinge sempre oltre. E vi giuro che pagherei per non sapere mai di cosa si tratta.»

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Capitolo Terzo Le calli. Con inesorabile progressione, uomo dietro a uomo offendevano la bella e cupa Venezia oltraggiandola col loro disinteresse. Passo dopo passo, chi faceva l’andatura aveva condotto al rapido sgu-sciare fra le calli. Fluttuava, pennellando col manto gli spigoli dei muri oltre i quali svaniva, salvo riapparire a mezza via dopo un preoccupato accelerare di colui che faticava a stargli dietro. A sfuggire, era l’oscuro profanatore della pira. A inseguire era l’uomo che nascosto fra i portici lo aveva osservato in piazza San Marco. Un uomo che aveva vissuto un’esistenza intera alle spalle degli ignari, e che di un proprio cammino aveva perso ogni traccia. Le sue impronte e-rano orme di altri, il suo scopo un’eredità sconosciuta. Un nome inutile, abbandonato altrove. Per tutti e per sé era solo la spia. Il suo corpo semplice portatore di occhi e orecchi. Appiccicati ai calca-gni di colui che attendeva da anni senza saperlo. E che procedeva follemente nel dedalo, ormai quasi di corsa, svoltando senza ragione ai crocicchi. A un ultimo passaggio era quasi balzato via, imboccando una strettoia illogica, che lo avrebbe ricondotto indietro. Pessimo segno, quella corsa a scomparire ne richiamò una a rimediare. Aveva prevalso l’istinto, poiché la ragione avrebbe suggerito maggior prudenza. Affrettandosi, percorse un vicolo corto, e si ritrovò in uno spiazzo più ampio. Non aveva idea di dove fosse. E quel che peggio, non vedeva più la sua preda. Non fece neppure a tempo a farsi assalire dal timore, che sentì la punta di una lama appoggiarglisi sulla schiena. «Chi ti manda?»

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Sussurrò una voce alle spalle. Era minacciato, ma sapeva come comportarsi. Si mosse fulmineo. Non dare al nemico tempo di alzar di più la guardia, ruotare di lato ac-compagnando l’arma fuori bersaglio. Ci era sempre riuscito. Ma questa volta il pugnale seguì il suo moto. Sentì la punta grattare il fianco, strappandogli il vestito, la sentì appoggiarsi sul braccio e subito ritrarsi. Si trovò la manica zuppa di sangue. Era ferito, ma libero dalla minaccia. Adesso l’aggressore era in piedi di fronte a lui, il volto ancora celato dal cappuccio ma il pugnale ben in vista, proteso verso la sua gola. Quel pugnale così ben guidato avrebbe potuto lacerargli il dorso, aprire uno squarcio nel polmone. Che ciò non fosse avvenuto era un ottimo segno. Quell’uomo, quell’inaspettato professionista di morte, non aveva intenzione di ucci-derlo. Non ancora. Un gran vantaggio per lui che lo aveva non solo come intenzione, ma come dovere. Un balzo all’indietro permise alla spia di prendere la propria arma dalla cintola. L’avversario rimase impassibile: sembrava volesse concedergli di sottrarsi allo svantaggio. Una sicurezza ostentata, senza emozioni, che cominciava a turbarlo. Né valse a tranquillizzarlo il mettersi in guardia, minacciando un attacco imminente: colui che doveva essere la sua vittima lo ripagava di un’indifferenza inumana. Fu allora la spia a sentirsi in trappola. E come un animale intrappolato, agì senza riflettere. Partì all’attacco, vibrando fendenti rabbiosi, puntando senza complimenti ai punti vitali. L’altro attendeva, schivava, parava. E quando poteva, o voleva, contrat-taccava. Un passo di lato permise alla spia di toccarlo. Gli punse il costato, e ne sentì l’affanno. Non era un demonio, dunque: era un uomo in lotta per sopravvivere, come lui. Deposta l’idea di interrogarlo, aggredito e ag-gressore condividevano un solo proposito: la vita dell’altro per la pro-pria. La danza macabra dei due combattenti si protrasse ancora, fin tanto che un affondo più scomposto di altri non mise la spia in posizione di svan-

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taggio. Era sbilanciato, il peso lo trasse verso il basso, e il suo rivale ne approfittò. Gli bastò appoggiare la mano sulla spalla per schiantarlo a terra. La spia stesa al suolo non poté altro che voltarsi. Quel gesto, l’unico giu-stificabile, offrì la gola all’assassino. Gli si avventò addosso, e il cappuc-cio ricadde sulle sue spalle. Stupì nell’incrociare lo sguardo severo di un giovane mediterraneo, che più consono sarebbe stato in un’alcova di piaceri che non in un vicolo puzzolente a commettere un omicidio. La lama già grattava il collo, ma l’affondo finale non partì ancora. Un istante, uno ancora, di vana speranza di vita. Perché la spia seppe della fine dei suoi giorni quando lesse negli occhi del suo nemico la consapevolezza che non avrebbe mai ottenuto risposte. La lama entrò nel collo rapida, recise quello che doveva. Uno schizzo di sangue andò a lordare entrambi i manti. L’assassino si rimise in ginocchio, tentò di pulire alla meglio la lama del coltello, ma non fece neppure in tempo a rimettersi sul capo il cappuccio. Udì dei passi, vicinissimi e rapidi. Era la fine di una corsa di uomini ap-pesantiti. Fece per rialzarsi, inutilmente. «Fermo dove sei!» Sentì gridare. Si guardò attorno. Tre uomini lo avevano accerchiato, e due di essi gli puntavano addosso gli archibugi carichi. Alzò lentamente le mani in segno di resa, e non attese altre domande o comandi da quegli sbirri. Semplicemente parlò. «Mi chiamo Nesham, faccio parte della compagnia del capitano Giovan-ni Nerclavis. E non conferirò con altri se non con il Capo dei Dieci, In-nocenzo Marin.»

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Capitolo Quarto Le Stanze del potere. Un secolo e mezzo di Consiglio dei Dieci. Anno Domini 1310: il giorno quattordici del mese di giugno va in scena la Congiura del Tiepolo. Casate patrizie ribelli e democratiche decidono di rovesciare il potere aristocratico. Badoer, Querini, Tiepolo e miliziani assortiti all’assalto del Palazzo e alla conquista della testa del doge Pietro Gradenigo. Ma l’aristocrazia ha da sé gli anticorpi reazionari, e una sof-fiata opportuna mandò all’aria il piano. Grande fu il rischio corso quella volta dal potere: congiura straordinaria richiese quindi giustizia straordi-naria. Il Consiglio dei Dieci nacque così, per debellare gli ultimi germi della rivolta popolaroide e verificare che non ve ne fosse più incubazio-ne. Istituzione straordinaria e terminale, la cui condanna a estinguersi ne comportò pure la straordinaria resistenza. Straordinariamente attaccati a privilegi inconfessabili, il Consiglio dei Dieci venne rinnovato di anno in anno per un quarto di secolo. Dopodiché assurse a vita propria. E si raf-forzò, salvandosi da losche tentazioni di sconfinare nel ben più fragile potere reale. Inappellabilità. Ecco la parola magica, il sogno dell’uomo che tende per fantasticheria sua propria al divino. Avolo Adamo castigato e scacciato: quale sublime nemesi sarebbe stato sentirgli dire “No. Vattene via tu, vecchio!”. Inappellabile: una scossa barba bianca strisciante nella polvere, un corpo rugoso con un cesto di mele in spalla e un triangolo in testa verso un suolo maledetto, costellato di spine e cardi, a degustare erba campestre. Il Consiglio dei Dieci è quel sogno. Un sogno lungo un anno, per soli dieci uomini alla volta. Ma per quell’anno, comandare fra i Dieci significava strafogarsi del frut-to proibito. Di nascosto, per giunta.

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In cima erano relegati, come una vergogna necessaria. Al terzo piano del Palazzo Ducale, sopra tutto e tutti, le stanze dei Dieci incappucciavano il potere, e si susseguivano lungo l’ala orientale; l’andito, la sala del Con-siglio, quella dei Capi. A chiudere la litania di ambienti, le tre sale d’armi. Polveriere dapprima, crebbero di dignità con l’ascesa politica dell’istituzione per cui fungevano da magazzini. Da quando una necessa-ria difesa contro complottardi venne resa inutile dalla compulsiva piag-geria delle nuove vittime, doni munifici soppiantarono munizioni. Sicché delle tre stanze, solo l’ultima rimase di pratica utilità generale. La meno decorata era anche la più minacciosa. Perché, se tutte le finestre delle Stanze dei Dieci erano rivolte verso il corso del Rio di Palazzo, es-sa era l’unica che spalancava due occhi indagatori sul Bacino di San Marco. L’unica che rigettasse la riservatezza imposta a tutte le altre. Es-senziale e letale: l’unica stanza veramente amata da un vero capo dei Dieci. Era lì, padre Innocenzo Marin, come spesso capitava in genere, e come sempre accadeva nei giorni di pubblica esecuzione. Dalle due finestre, senza neanche doversi sporgere troppo, verso destra era facilmente visibile la spianata delle Colonne di Giustizia. E ciò che dalla bocca era uscito nel cuore più remoto del palazzo, ritornava al suo ispiratore attraverso gli occhi soddisfatti. Era l’esecuzione della senten-za: una parola generata in assoluta segretezza che segretamente veniva ammirata in tutta la sua terribile conseguenza. Colpevole! Un rogo abbagliante illuminava l’orgoglio del suo creatore. Genitori ge-nitoque! Era questo epilogo che padre Marin benediceva silenzioso, dopo aver se-guito le varie fasi dell’esecuzione di Fiorenzo, il servitore di Morgante Della Lena. Le braci avevano ormai smesso di ardere, e la squadra dei lavoranti ave-va già cominciato a rimettere ordine. E padre Innocenzo adorava il ri-comporsi dell’ordine dal caos. L’ordine è una piazza chiassosa e scomposta, di individui ordinatamente presi dai loro piaceri e doveri e vizi e capitali. Il caos è una folla vocian-te, soggiogata dal richiamo di un criminale in combustione, in cui non esistono individui per una futile gara alla purezza collettiva. L’ordine è distrazione consuetudinaria, il caos è attenzione eccezionale. L’ordine dissimula, il caos simula.

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Il caos di una pira adultera le coscienze, che si contorcono e spasimano col condannato, e si redimono di una posticcia redenzione. L’ordine meraviglioso delle cose conduce naturalmente alla colpa, poi-ché la coscienza che non sospetta, la coscienza che ordinatamente e ordi-nariamente procede, è già al cappio. E nell’ordine colpevole si pasce l’inquisitore. Il ricomporsi dell’ordine era il suo coito per quella sera. Lo osservava di sbieco, nascosto; ma in cuor suo fremeva. Poiché un inconsueto movimento distraeva l’incastonarsi consueto degli eventi. Uno strano movimento animava gli spazzini, vi era stato un gesticolare da ciò che restava della pira, un chiamare irruento. Poi qualcuno si era mosso, avevano confabulato, il responsabile con i manovali. Di lì qual-cuno se ne era partito, in direzione della Piazzetta. Era qualcosa che non vi doveva essere. Proprio quella sera, proprio con quel condannato. Perché Fiorenzo stesso era qualcosa che non sarebbe mai dovuto essere. Giornate anarchiche, insubordinate, avevano infastidito il dispiegarsi dell’autorità del Consiglio. Giovanni Nerclavis, intruso giustiziere, aveva portato con sé un’onta dal passato. Senza che nessuno glielo avesse chiesto, aveva rovesciato sulla Signoria il suo stesso letame, tenuto debitamente nascosto. Letame che era frutto di avidità ed eresia, e per questo doveva sparire. Fiorenzo il condannato poteva apparire come un primo, piccolo escre-mento cancellato. Ma era molto di più di questo. E Innocenzo solo lo sapeva. Ricordava ancora l’interrogatorio, quando quel mostro si era rivelato per quello che era: un insulto a Dio, all’ordine da Lui creato. I torturatori a-vevano osato riderne, e per questo erano già stati castigati, né le acque profonde del Canal dell’Orfano che già li accoglievano avrebbero più re-stituito il loro irridente segreto. E per Morgante Della Lena, reo e fuggiasco, al disprezzo si sommava così il disgusto: traditore non più solo della legge degli uomini, ma della legge morale dono di Dio, promiscuo tanto ai complotti quanto alle aber-razioni. Frattanto in piazza due guardie erano entrate nel suo specchio visivo. Si erano messe a parlare con il manovale che per primo aveva richiamato

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l’attenzione. Questi si sbracciava, indicando concitato verso il cuore del-la città. Bussarono. Innocenzo Marin dovette interrompete il suo vigilare. Fastidio sul fastidio, come un chiodo che ne schianta uno sotto di sé. Ma era previsto. Dopotutto era il Capo dei Dieci; era lì per porre ordine nel caos. «Avanti» ordinò, seguendo le regole della sua stessa autorità. Una giovane guardia gli si accostò. «Il prigioniero è qui, Eccellenza.» «Fallo entrare.» Quando Marin si distolse definitivamente dalla finestra, in piedi di fronte all’ingresso attendeva un uomo. Era solo, le guardie avevano richiuso la porta alle loro spalle e fuori at-tendevano, come da indicazioni ben precise. Gli avevano però lasciato i ceppi ai polsi, prudenza non richiesta che il domenicano dimostrò di non gradire. «Avevo chiesto di lasciarti libero. Tu qui sei un ospite.» Nessuna piega dal prigioniero. Un volto altero, che ancora rifiutava di emaciarsi, grondava di sporco e sudore. La barba sfatta, i capelli radi sfuggivano a ogni ordine. Abiti un tempo preziosi gli ricadevano addosso laceri. «Siediti, Cesare.» Innocenzo Marin quella sera non indossava la tonaca dell’ordine dome-nicano cui apparteneva. Esibiva una toga rossa bordata da una fascia ne-ra. Era l’uniforme dei Dieci. Avrebbe potuto trascinare quella recita con-fidenziale fin quando avesse voluto, ma l’impostura franava al cospetto dell’abito, che ben più del monaco faceva in quel contesto: Marin era nel pieno delle sue funzioni. Il prigioniero aveva di fronte a sé lo Stato. Uno Stato che gli ordinava di sedersi. Così fece, e Marin lo seguì. Due uomini ora sedevano uno in fronte all’altro, a separarli un tavolo in cipresso, a cui lesene intarsiate sul bordo e sulle gambe conferivano la solenne impostura di un altare. Il Capo dei Dieci raccolse da una cassettiera poco distante un plico di fo-gli e se li pose davanti. Voltò il primo, e lo scorse come a verificare che attendesse alle sue a-spettative. «Caesar Aerasmus Comes Brandolinus…» lesse imperturbabile.

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Alzò gli occhi sull’ospite. «Sei tu, vero?» «Cosa vuoi che ti risponda?» tremava la sua voce, più dall’inazione che dall’emozione «lo sai chi sono.» «Volevo solo ricordartelo…» un sorriso arcigno accompagnò la risposta, e lo scorrere di un altro foglio «e tuo padre era…?» in quelle righe un’altra risposta. Nelle orecchie un’attesa impaziente. «Antonio Maria, figlio di Ettore II Brandolini e legittimo conte di Val-marena.» Il frate assentiva, mentre altri fogli frusciavano fra le sue mani. «E poi? Cosa è successo?» si affrettò d’un tratto a chiedere, come tediato dal lungo silenzio. Cesare Erasmo brancolò alla ricerca della più logica delle risposte. «Mio padre è morto, dodici anni fa. E io ho ereditato il feudo, come dirit-to di successione stabilisce. Pertanto, io sono il conte Cesare Erasmo Brandolini, Signore di Valmarena.» Ma il sussulto di dignità non commosse l’inquisitore. «Questa non è la risposta che volevo» gli illustrò con serafica dottrina «adesso ti spiego meglio. Il signore di Valmarena siede sul suo scranno al castello Brandolini. Tu quindi non sei dove dovresti essere. A questo punto ti richiedo: e poi? Che cosa è successo?» Con quanto gusto giocherellava con i fogli, pane quotidiano di chi abita-va quelle stanze. Quei fogli erano da sé la risposta alla sua domanda, ma a Marin non ne bastava una sola da accarezzare: ne bramava un’altra, of-ferta alle sue orecchie da un servo umiliato. «Ero un ragazzino quando mio padre mi mise al seguito della compagnia di Augusto Da Narni, che doveva raggiungere l’Egitto e inoltrarsi in A-frica» raccontava quindi il nobile decaduto del suo sacrilego tentativo di ascesa. Raccontava di nuovo, da quando l’innocenza dell’ignoranza lo aveva ac-codato a una missione superba, fino a quando il peccato della conoscenza lo aveva trasformato in un assassino senza scrupoli. La sua colpa più grave: sapere ciò che la Repubblica non sapeva. Solo adesso quel raccon-to era un bene condiviso. La voce di Cesare non faceva altro che dar vita alle parole racchiuse nei fogli che Innocenzo Marin proteggeva fra le mani. E che a sua volta derivava dalle confessioni dello stesso Cesare. «Siete soddisfatto?» domandò l’interrogato alla fine del racconto.

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«Soddisfatto?» ringhiò il frate «come potrei esserlo? Tu hai osato riaf-fermare quel tradimento. Tu, un figlio prediletto della Repubblica, un privilegiato, che assieme ad altri rinnegati hai partecipato all’inganno e al disonore di chi vi ha creato. I tuoi antenati sono stati investiti del dirit-to feudale in virtù dei loro meriti nei confronti di Venezia. Adesso ri-spondimi, sciocco ragazzino mai cresciuto: e poi? Che cosa è successo?» Dallo scranno della pervicacia l’inquisitore attendeva. Egli non era più giudice: confessione e sentenza erano attesi dalla stessa voce del reietto. «L’unica cosa che poteva succedere» accondiscese quel che restava del Brandolini «Cesare Erasmo non è più conte di Valmarena.» Innocenzo Marin era intanto giunto all’ultimo dei fogli. Il grosso era ac-catastato capovolto alla sua destra. L’ultimo attendeva. «La Valmarena è cruciale per la vita di Venezia. Merita una guida affi-dabile, come è sempre stato con i membri della tua stirpe. Il doge Pietro Lando ha così provveduto, investendo tuo cugino Guido della contea.» Gli avvicinò quell’ultimo foglio, in modo che Cesare potesse leggere so-lo sporgendo il collo, quasi dovesse inchinarsi. Il documento, un atto ufficiale della Repubblica, ripercorreva l’origine del feudo e le norme di successione, ma il cuore del discorso era la legit-timazione della signoria di Guido VII, figlio di Cecco III, fratello minore di Anton Maria, il quale morì da legittimo signore del feudo nel 1530. Senza eredi. Il testo ratificava chiaramente quella menzogna. In portionem Antonij Mariae defuncti sine liberis. Cesare Erasmo Brandolini, che sapeva di esserne figlio, non cessava solo di essere il conte di Valmarena. Cessava di esistere. «Ti sconvolge?» irruppe Innocenzo nello sgomento del nobile «hai capi-to bene: io non ti sto destituendo. Ti sto cancellando dalla storia.» Innocenzo Marin si alzò. Appoggiò sul tavolo il documento, ben osten-tando il sigillo e la firma del doge. E gli altri fogli, il sunto di una vita intera, vennero via con lui. Con violenza trascinò un pesante braciere ac-canto al tavolo. Il primo foglio venne accostato alla fiamma viva della candela che finora aveva illuminato il dialogo. «Tu non sei mai esistito» sibilò, mentre gettava il foglio acceso nel bra-ciere «tuo padre è morto senza figli» già il secondo aveva seguito la stes-sa sorte, e il crepitare accompagnava sinistro le sentenze del domenicano «e la tua vita, le tue colpe, non saranno solo silenzio: saranno nulla.»

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Il plico intero si consumava. Ogni foglio un brano di vita, e l’inchiostro che lo tratteneva, ora anneriva il fumo che rapido svaniva. Brandolini assisteva, senza riuscire a comprenderne il senso. «Non puoi cancellare tutto» provò a sfidare, fissando le spire dissolversi «il mio nome è sulle bocche di tutti. I miei familiari, la nobiltà, gli stessi sudditi. Hanno scritto di me, e di me parlano quotidianamente.» «Tutto ciò che è scritto è distruggibile. Tutto ciò che non è scritto è già distrutto in sé. I nobili parenti tengono ben presente solo chi è un potente da usurpare, o una minaccia da arginare. Tu non rappresenti più nulla di tutto ciò. Sai meglio di me quanto infidi e immemori siano i consangui-nei. Quello che mi meraviglia è sentirti riporre fiducia nei sudditi.» «Li ho sempre rispettati» asserì Brandolini «mai vessati, mai coscritti. Mi amavano e non mi temevano.» «Ed è per questo che presto per loro sarai solo un sollazzo lontano. Cosa hai lasciato nel loro sangue da tramandare? Qualche festa? Elargizioni? Quando raschieranno la terra e stremeranno il bestiame per riempire le casse della corte, quando i più temerari fra loro penderanno dai cappi ad avvertimento, quanti di loro pensi daranno peso alla nostalgia delle tue facezie? No, amico mio, inutile sforzarsi. È responsabilità di chi governa scrivere non solo le leggi, ma la storia. E col tacere delle carte, nel giro di cinquant’anni Cesare Erasmo Brandolini non sarà più neppure un ri-cordo.» Occhi negli occhi, il conte decaduto reggeva ancora, seduto in ceppi al cospetto del massimo giudice della Repubblica, le cui parole a lungo ri-masticate spingevano il rancore alle radici stesse di quel potere. «Hai ragione, frate. Nel giro di cinquant’anni, il figlio di un falegname è diventato dio…» Fu l’azzardo del serpente. Che colse. «Sei solo un provocatore, un lurido bestemmiatore» reagì padre Marin con ferocia «è più che mai giusto che su di te si abbatta non il potere de-gli uomini, che crea e depone i regnanti, ma il potere di Dio. Che cancel-la dall’esistenza chi lo sfida.» Brandolini volle illudersi: quel fantoccio isterico poteva offrirgli un lem-bo di fragilità a cui aggrapparsi. Non avrebbe cambiato la sua sorte, ma forse lo avrebbe reso ancora padrone di uno straccio di destino. «Mi rendete troppo onore» procedette «impugnate la legge di Dio, mi condannate all’estinzione. Cosa giustifica tanto accanimento? Avete for-se paura?» Cesare colse con incauta soddisfazione il fremito di rabbia sul

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labbro dell’inquisitore «c’è molto di più di un semplice tradimento a preoccuparvi. Si trattasse solo di riaffermare l’autorità della Signoria sul suddito infedele, il mio nome condannato ben presente nelle memorie avrebbe fatto da esempio. Ma voi temete altro.» «E sarebbe?» stuzzicò Marin, ansioso di riprendere il timone della con-versazione. «Questo me lo dovete dire voi. Anzi. Me lo volete dire voi. Perché se co-sì non fosse, che senso avrebbe la mia presenza qui? Se davvero dovevo essere cancellato dalla storia, perché sono ancora vivo, e al vostro diretto cospetto? Padre Marin, lo chiedo con fermezza e rispetto: che cazzo vuoi da me?» Fu allora che le aride labbra del frate si socchiusero e si contrassero in quello che, non vi erano dubbi, voleva essere un sorriso. La sfrontatezza di Brandolini non aveva fatto altro che condurlo là dove voleva arrivare. Una risposta stava per abbattersi su di lui, una risposta che non era più sicuro di voler sentire. Proprio in quel momento qualcuno bussò. Con affanno e allarme, come solo avrebbe potuto giustificare Marin. «Che c’è?» sbraitò il frate. Sulla soglia apparve il giovane attendente. «Perdonate, Eccellenza, non avremmo mai voluto disturbarvi, ma c’è sta-to un omicidio, e…» «E non siete più in grado di catturare un assassino?» si avventò minac-cioso padre Innocenzo. «Veramente l’assassino è già qui, Eccellenza. Ma chiede di conferire so-lo con voi. E noi non possiamo interrogarlo perché è posto sotto la vostra protezione.» Sorpresa e sgomento assalirono allora il domenicano. «Chi è il prigioniero?» «È Nesham, l’egiziano della compagnia di Giovanni Nerclavis.» Nessun ordine dal caos, quella sera. Un nuovo canovaccio attendeva la sua rappresentazione, e protagonisti e comprimari rimettevano in gioco i loro ruoli. Cesare Erasmo attendeva una risposta: avrebbe atteso invano. «Riporta in cella quest’uomo» ordinò, accantonando ogni interesse «e accompagnatemi dall’egiziano» aggiunse, mentre già si precipitava fuori dalla stanza. Ma prima di uscire, aveva già ordinato di nuovo «e mandate a chiamare Nerclavis. Ditegli di raggiungerci ai pozzi.»

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Tre ordini, rivolti all’attendenza. Senza neppure badare che a riceverli era un ragazzo solo. «Perdonate, Nerclavis non è a palazzo.» «Dov’è il problema? È comunque a Venezia. Lo voglio ai pozzi entro mezz’ora.» Assenso uno e trino manifestò il giovane: carceriere, scorta e ora pure segugio. Che per ottemperare a tutto avrebbe dovuto inventarsi perfino comandante, e istruire e delegare. Troppe identità per una persona sola. Incapace di immaginare che sotto la sua custodia si trascinava un corpo che di identità non ne aveva più neppure una.

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Capitolo Quinto L’anticamera dei Pozzi. Raccattarli dalle prigioni, salvarli dai duelli, sottrarli alle rappresaglie di cornuti furibondi, rimediare alla loro ubriachezza devastatrice. Giovanni Nerclavis ripensava a quante volte le autorità locali lo avevano convocato per rispondere delle idiozie dei suoi soldati. E se quella sera non lo avesse avuto sotto gli occhi, avrebbe giurato che l’affannato aral-do del Doge lo avesse scovato per intimargli di rimediare alla solita stronzata del solito Valerio Morandi. Ma Valerio era lì. Tutti quanti erano lì, tutti coloro che per indole e for-mazione avevano in canna il colpo del franchissimo tiratore. Dover correre per Nesham invece non tanto lo sorprendeva: lo agghiac-ciava. Non poteva immaginare la sua lucidità ridotta in frantumi, non poteva neppure credere che troppa baldoria potesse scalfirne il controllo. Poteva essersi trovato in una rissa, ma per dio: Nesham sa sempre tutto. Sa dove trovarsi e dove non trovarsi, come se il tempo per lui si torcesse e ritor-cesse su se stesso, come se inchinandoglisi al cospetto lo favorisse, po-nendolo dove e quando solo a lui potesse più convenire. E se adesso attendeva presso l’anticamera dei pozzi, non poteva essere un errore. Interrogare l’assassino, questa la prassi di ordinaria e straordinaria giu-stizia. Ma se l’assassino era Nesham, allora da interrogare sarebbe dovu-to essere l’assassinato. E la giustizia avrebbe potuto non riconoscersi, e i piatti della sua bilancia sarebbero diventati gli attrezzi di un giocoliere bendato, che si esibisce al suono di una melodia orientale: al nay, il mae-stro Nesham. Pensando e ripensando, si trovò a varcare l’ingresso del palazzo senza neppure accostarsi alle guardie.

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Sapeva dove andare, il messaggero era stato chiaro. Sapeva anche che cosa vi avrebbe trovato. Appena prima di precipitarsi ai pozzi vi era una stanza spoglia, l’ultimo anfratto integro prima del dominio delle muffe e delle infezioni, le co-lonne d’Ercole dei grandi inquisitori. Lì Nesham attendeva seduto a un tavolo, le mani libere da catene. Di fronte al prigioniero nessun soldatino montava la guardia, ma tron-fiamente in piedi, refrattario a ogni scranno, il gran capo della birreria locale vigilava impaziente. Padre Innocenzo non aveva perso un frammento di esistenza di nessuno di loro, come se da ogni istante incontrollato potesse scaturire la sorgente della pura verità. E lì, nel cuore del suo dominio, il capitano della con-sorteria ospitata, assieme al suo più enigmatico sottoposto, si trovavano spalle al muro, a difendersi assieme dall’accusa di violazione aggravata di noia mortale. «Stavamo aspettando» si era espresso così l’inquisitore. Sorprendente quella singolare identificazione: stavamo. Cosa si aspettava di ottenere Marin investendo Nesham del suo inalienabile diritto all’impazienza? «Perché?» perché intromettersi lui, capitano in libera uscita, in quella singolare conventio ad excludendum? Marin non rispose, si limitò ad ammiccare in direzione di Nesham, come fosse un’imbeccata fra teatranti, l’Autore che inscenava il Prologo. «Ho commesso un omicidio, capitano» spiegò l’egiziano con incredibile naturalezza. «E io cosa dovrei fare? Bacchettarti il sederino? Non potete sbrigarvela da soli la vostra rissa da osteria?» neppure Nerclavis credeva al suo mi-nimizzare. «La storia è più complicata» esordì così Innocenzo «ma oggi il tuo uomo è restio a sintesi e chiarezza. Io amo entrambe, e lui me ne priva. Allora, soldato, vuoi spiegare al tuo superiore cosa ci facevi in piazza all’esecuzione?» e al silenzio aggiunse «avanti, non spazientirmi. Ripeti quello che mi hai detto.» «Ogni parola vive un istante. Nasce da una bocca, muore in un orecchio. Ciò che era per te, era per te solo.» «Nesham, non è il momento di sentenziare» lo richiamò il suo capitano, non tanto per il fastidio personale, quanto per prevenire pericolose ire ufficiali. Ma Marin sembrava avere comunque ancora una buona scorta

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di parole concilianti: spiegò dunque lui stesso, scambiandosi col neghit-toso. «Nesham è stato visto aggirarsi presso la pira dove oggi è stato bruciato Fiorenzo, il servo di Morgante Della Lena. Ha atteso fino alla fine, fin-ché gli addetti non hanno cominciato a ripulire la piazza dai resti del ro-go. Si è mischiato a loro e si è spinto in mezzo alle ceneri, ha cercato qualcosa, l’ha preso e se ne è andato. Solo allora un operaio lo ha segna-lato al caposquadra; questi a sua volta ha avvertito le guardie, che si sono messe subito sulle sue tracce. E forse non lo avrebbero mai più trovato, se nel frattempo un assassinio non lo avesse trattenuto.» «Sono stato aggredito» irruppe Nesham, teatralmente accorato «ho dovu-to difendermi.» «Da chi?» domandò Nerclavis. «Da un nemico di Venezia» annunciò spavaldo. «Smettila, marionetta!» Marin sembrava più divertito che arrabbiato, come se volesse mostrarsi complice in un gioco «non sei tu l’Inquisitore Generale della Repubblica. Sei solo un ospite, astuto e oltraggioso. Il nemico di Venezia sarà un problema nostro. Ma se ha aggredito te, è perché cercava la stessa cosa che cercavi tu. Vuoi aiutare Venezia? Co-mincia a dirci cosa facevi all’esecuzione di Fiorenzo. E cosa hai trovato fra le sue ceneri.» E se nel corso del discorso il tono del domenicano si era fatto sempre più intransigente, il silenzio che ne derivò fu tanto gelido quanto lo sguardo che Nesham posò su di lui. «L’ermafrodito giaceva nelle tenebre come morto» sereno, un tratto di seta fluì dalla sua bocca. Una voce solida e dolce, che sembrò dar vita a molte voci «il lupo lo divorò. Divorò il Re. Ma, incenerito, gli rese la vi-ta. Il Re è Rebis. Ed è doppio, in un solo corpo: maschio e femmina…» Uno schiaffo violento partì incontrollato. Lo schiocco sulla faccia di Nesham risuonò per le volte della fredda stanza. «Sei un satanico adoratore di bestemmie!» urlò inviperito Innocenzo Ma-rin, il palmo della mano dolente, incapace di controllarsi «se non mi ser-vissi, saresti già presso al mostro che hai visto bruciare. Tu devi parlare! Devi dirci cosa cercavi fra le sue ceneri! Oppure…» «Basta adesso!» eruppe Nerclavis. Il volto corrugato, pieghe di dolore gli segnavano gli occhi, aggrinzivano la fronte, solcavano le tempie. Là, do-

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ve una profonda cicatrice aveva distrutto l’equilibrata bellezza di Gio-vanni. «Certi discorsi mi danno il mal di testa. E tutti e due sapete che non è so-lo un fastidio» la ferita gli pulsava dolorosamente; era sempre così quan-do beveva e urlava, ma i presenti potevano ignorarlo. Indicò la ferita, prima di proseguire. «Tu sai perché ce l’ho, vero frate? Perché ho rischiato la vita per quella di un testimone. Brandolini ora vive grazie a me, e Venezia per questo mi è in debito» si volse allora verso Nesham. «Anche tu la conosci bene. Guardala!» costrinse così gli occhi di Ne-sham a correre lungo il solco, attraverso le cuciture, dove il colpo del proiettile aveva stravolto la fisionomia, portando via per sempre i capelli, l’epidermide, e frammenti di calotta cranica. «L’hai osservata a lungo, mentre non ero cosciente. L’hai toccata, sicu-ramente. Qualcuno pensa che tu l’abbia persino creata, unendo ciò che per i nostri medici era impossibile unire. Io ero morto, ero già morto. Tu non solo sapevi che sarei vissuto: tu mi hai reso la vita. E per cosa? Farti beffe di me? Sentenzi come un oracolo e ti nascondi. Tu non vuoi rimet-tere i debiti altrui, proprio come lui» disse, alludendo a Marin, e di lui non curandosi «tu come lui irretisci e nascondi il segreto del tuo potere. Ecco perché ti odia: perché sei più sacerdote di lui. Ho passato la vita a fuggire quelli come voi. Adesso, cosa più mi trattiene qui?» E così lo chiamò a sé. Non si poteva più negare ciò che era già scritto. Era solo questione di tempo, non di modi. Nesham infilò la mano sotto il tessuto della camicia. Non si sa da dove l’avesse tratto, se da una tasca, da una borsa o dalla pelle stessa, ma la mano chiusa a pugno rovesciò sul tavolo un piccolo disco di pietra scura. La ferita si ribellò. Gli occhi si strinsero. Lo stomaco si contrasse, mentre la gola annaspava arida. Suggestioni inattese erano la risposta a una corrispondenza profonda. Quel sasso era una sottile lusinga e un’implacabile coercizione. Giovanni ne ammirava la perfetta levigatura, il suo oscuro brillare, la ri-gorosa circolarità. Mano di uomo potrebbe donare alla pietra tale perfetto sembiante? «E quello cos’è?» vinse la ritrosia. E Innocenzo vinse la contemplazione, esibendo un salomonico disinteresse. «Non conta cos’è. Conta come ci è arrivato.»

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Era nel fuoco. Covava sotto la cenere e aveva atteso il compiersi di un barbarico rito per concedersi. Ma chi l’aveva posto nel fuoco? Qualcuno sulla Terra ne poteva arrogare l’autorità? «Sembra vivo» si insinuò Nesham «questo essere bisessuato appare mor-to quando gli manca l’umidità: celato nell’oscura notte, abbisogna di fuoco. Dateglielo, e rivivrà subito. Tutta la forza della pietra sta nel fuo-co…» Come ipnotizzata, la mano di Giovanni avanzava nelle tenebre. Non cu-rava più le parole, ma si trascinava con i suoni. La pietra era lì, sul tavo-lo. Prometteva inimmaginabile morbidezza. «Fermo!» urlarono Nesham e Marin all’unisono. Nerclavis si fermò. Osservò i presenti come risvegliato da un sogno. Ne-sham tremava, la sua paura era genuina. Per chi temeva dunque con tanto patema? «Giovanni, non toccarlo. Non toccarlo mai» gli parlò l’amico, come a preservarlo da una minaccia «Perché? Tu l’hai avuto in mano.» Risposte attendevano, e avrebbero atteso indefinitamente. Fu Marin a ir-rompere, svergognato. «Già. Lui l’aveva in mano. E Fiorenzo invece l’aveva dentro di sé. Non è vero, egizio?» L’inquisitore era di nuovo sullo scranno. «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà» riprese Nesham «ma chi perderà la sua vita per causa mia, la salverà. Lo dicono tutti, ed è scritto ovunque. Voi mi chiedete invece di spiegarvi della vita e della morte, ma non posso. Poiché io stesso non so. La vedete?» disse, accennando al di-sco. «È la Pietra. Vita e morte l’hanno generata, ed essa è capace di generare entrambe. Come l’ermafrodito, che è Rebis, e nasce da Ermes e Venere. E nel ventre della puerpera, nel fuoco sacro, si sono incontrati: vita, mor-te, maschio e femmina.» «Nesham, ti prego» sbottò Nerclavis «dai un senso alle tue parole. Parli di pietra, di esseri bisessuati. Solo simboli, e nessuna spiegazione.» «Non sono solo simboli» intervenne Innocenzo «anzi, non sono affatto simboli. Nella loro perversione, queste eresie hanno preso una sostanza criminosa. Sono dei malati, capitano Nerclavis. Ed è ora che tu te ne ac-corga.»

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«Sono chi?» stizzito, Giovanni non aveva mai sopportato gli insulti altrui ai suoi uomini, che considerava di sua esclusiva. «Lui. Il suo amico Della Lena. E il mostro.» «Ma di che mostro parli?» «L’ermafrodito» annunciò grave Nesham. Quella parola composta aveva il peso della sentenza. «Non l’hai ancora capito?» proseguì Marin «Fiorenzo, il servo, era un androgino. Aveva due sessi. E con quella deformazione aveva vissuto sotto lo stesso tetto di Morgante, in chissà quale turpitudine. Condivide-vano oscenità e stregoneria, al punto che quell’essere dentro di sé porta-va questo sasso. E bruciando lo ha liberato.» «Ma è assurdo!» replicò Nerclavis «e come diavolo sarebbe finito dentro di lui questo affare?» Fu Nesham a sorprendere tutti e di nuovo. «Ce l’ho messo io» annunciò. FINE ANTEPRIMACONTINUA...

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