Il Grido Del Cielo

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Commento al libro del Nuovo Testamento Apocalisse

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Jacques Doukhan

IL GRIDO DEL CIELOStudio profetico dell’Apocalisse di Giovanni

Edizioni ADV

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Titolo originale dell’opera: Le cri du cielTraduzione dal francese: Raffaele BattistaRedazione: Giuseppe MarrazzoProgetto grafico e grafica di copertina: Valeria CesaraleImpaginazione: Enza Laterza

Prima edizione: 2001Prima ristampa: 2001Seconda ristampa: 2004

Copyright originale:© 1996 by Editions Vie et Santé, Dammarie-lès-Lys (France)

I testi biblici citati sono tratti da La Sacra Bibbia, versione Nuova Riveduta, @1994 Società Biblica di Ginevra, CH 1211 Ginevra (Svizzera)

ISBN: 88-7659-113-3

Per l’edizione italiana:© 2004 tutti i diritti riservati alle Edizioni ADV dell’Ente Patrimoniale U.I.C.C.A. via Chiantigana 30, Falciani,50023 Impruneta FI.

La riproduzione in qualsiasi forma,intera o parziale, è vietata in italiano e in ogni altra lingua. I diritti sonoriservati in tutto il mondo.

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A Lilianne, mia moglie

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«Il SIGNORE avanzerà come un eroe,ecciterà il suo ardore come un guerriero; manderà un grido, un grido tremendo, trionferà sui suoi nemici!Per lungo tempo ho taciuto, me ne sono stato tranquillo, mi sono trattenuto; ora griderò come una che sta per partorire, respirerò affannosamente e sbufferò a un tempo»

Isaia 42:13,14

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Prefazione

I folli dell’Apocalisse

«Non ho mai conosciuto una persona che,avendo intrapreso lo studio delle profezie o scritto sull’argomento,

non sia in seguito diventata folle» William Ramsey

«Il fatto di non essersi mai occupati dell’Apocalisse è segno di un buon equilibrio mentale» Johann G. von Herder

«L’Apocalisse: o trova dei pazzi o li fa diventare» Anonimo

I pazzi che si radunano intorno al libro dell’Apocalisse sonolegioni. E non sono mai stati tanti come in questi ultimi anni.Nel dopoguerra, con il ricordo pesante dell’Olocausto e diHiroshima, e ora, assillati dal timore del disastro ecologico, dal-l’epidemia dell’Aids e dell’esplosione demografica, il riferimen-to all’Apocalisse è diventato drammaticamente comune. Nonsolo nell’ambito delle scienze religiose,1 ma anche nella lette-

1 Nell’ambito degli studi biblici, si trovano, in modo particolare in lingua francese,queste opere: J. Ellul, L’Apocalypse, architecture en mouvement, Parigi, 1975; J.Duvernoy, L’Apocalypse a déjà commencé, Neuchâtel, 1980; J. Lambrecht e AA,L’Apocalypse johannique dans le NT, Louvain, 1980; D. Mollat, Une lecture pouraujourd’hui: l’Apocalypse, Parigi, 1982; E. Corsini, L’Apocalypse maintenant, Parigi,1984; J.Marshal, L’Apocalypse de Jean, un message pour notre temps, Parigi, 1987; P.Prigent, L’Apocalypse de Saint Jean, Ginevra, 1988; J. de Pousseur, R. Montalembert,Le cri de l’Apocalypse, Parigi, 1990; J.P. Charlier, Comprendre l’Apocalypse, Parigi,1991; J.P. Prevost, Pour lire l’Apocalypse, Parigi, 1991; C. Tresmontant, L’Apocalypsede Jean, Parigi, 1993; J. Grosjean, Lecture de l’Apocalypse, Parigi, 1994; H. Linsey,The late great planet earth, 1980. Best seller degli ultimi anni, più di quindici milio-ni di copie vendute, a cui farà seguito, Countdown to Armageddon, 1980.

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Prefazione

ratura2, nel cinema,3 nella musica4 e nella pittura,5 una vera epropria «febbre» apocalittica ha contagiato molti, a testimo-nianza delle angosce e delle nevrosi dei nostri contemporanei.In prossimità dell’anno 2000 e con l’entrata nel terzo millennio,la tendenza aumenta. Negli anni Ottanta si è verificata una veraesplosione dei temi apocalittici.6 E non si tratta affatto di untema astratto, con il solo scopo di distrarci o al massimo ispi-rarci. In uno scenario autentico, dei veri pazzi si sono fatti avan-ti per diventare gli attori del dramma Apocalisse.

Negli Stati Uniti, il ricordo di David Koresh è ancora moltovivo. Attraverso il ricorso ossessivo all’Apocalisse, libro di cui

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2 Nell’ambito letterario si contano alcuni romanzi di grande successo. Il nome dellaRosa, di U. Eco (1980); Les bouffons de Dieu, di M. West (1982); La colère de l’a-gneau, di G. Hocquenghem (1985); saggi come: Années d’Apocalypse (1980-2030), diJ.M. Leduc (1980); 1984, L’Apocalypse, di P.J. Moatti (1981); L’Apocalypse, un messa-ge pour notre temps, di J. Maarchal (1987); il recente, Il viendra di J. Attali (1995).3 Nel campo cinematografico sono apparsi sugli schermi film d’ispirazione apocalitti-ca: Apocalypse Now (1979), Le jour de la fin du monde (1980), Armagheddon, (1999),End of Days, (1999).4 La musica è probabilmente il campo nel quale l’Apocalisse ha influito maggior-mente, citiamo per esempio: O. Messiaen, Quatuor pour la fin des temps (1941),Couleurs de la cité célèste (1963), Des canyons aux étoiles (1974) D.Maxwell,Apocalypse et chute (1980); I Mareo, Apocalypse sinphonique (1982), B. Matuszczak,Apocalypse, (1985); O.S. Joachim, Apocalypse et apothèose (1989); S. Wellman,Simphonie d’Apocalypse (1980); R.M. Schafer, Apocalypse (1986); W. Josephus, Lesquatre chevaux de l’Apocalypse (1980).5 Nella pittura, gli anni ’80 hanno visto manifestazioni tra cui emerge quella tenuta alNew museum of Contemporary Art, dal titolo: La fine del mondo, visioni contemporaneedell’Apocalisse (1983-1984). Tra i pittori citiamo J. Foret (1961) e i suoi collaboratori, S.Dalì, O. Zadkine, B. Buffet, A. Kiefer, M. Paladino. La pittura israeliana merita una cita-zione. L’esposizione della primavera 1992, dedicata alla fine dei tempi e all’Apocalisse,presso la galleria d’arte di G. Shreiber, all’università di Tel Aviv è significativa. Inoltre, leopere di D. Y’acoby (1989-1990), Y. Parbuchrai (1991), T. Geva (1991).6 J.P. Prevost, Pour lire l’Apocalypse, 1991, p. 7; cfr. B. Mc. Ginn, ApocalypticSpirituality, Londra, 1980, p. 141; cfr. T.K. Freiman, Postscripts, p. 157: «A manoa mano che il mondo si avvicina al terzo millennio, a partire dagli anni ottanta, iriferimenti alla fine del mondo si fanno sempre più frequenti».

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I folli dell’Apocalisse

conosceva interi brani a memoria, Vernon Howell, alias DavidKoresh, si fece prima riconoscere quale messia e Dio, in seguito,reclamò diritti coniugali su tutte le donne del suo gruppo (spo-sate o meno, giovani o meno giovani). Dopo aver accumulato unenorme arsenale, trasformò la sua casa in un fortino, nel qualeattendere la fine del mondo e ingaggiò un estenuante combatti-mento con i reparti speciali della polizia che lo assediavano, peruna durata di cinquanta giorni. I deliranti discorsi e gli atti irre-sponsabili del leader, resero difficili i negoziati. Alla fine, nell’i-nevitabile scontro finale, il 19 aprile 1993, condusse alla mortepiù di un centinaio di persone, tra cui numerosi bambini. Unfolle martirio che sconvolse il mondo intero.

Una tragedia simile colpirà, non molto tempo dopo, ilGiappone. Questa volta, il messia in questione si chiama ShokoAsahara e si presenterà come un guru intriso di spiritualitàbuddista e induista. La setta era apparsa, sulle prime, comeun’innocente scuola di yoga, ma in seguito, si rivelò come unafanatica comunità apocalittica che attendeva la fine del mondoprevista per l’anno 1997. Nel libro, Il disastro si avvicina alpaese del sol levante (1995), Asahara annuncia la venuta diHarmaghedon, nella forma di un gas micidiale provenientedagli Stati Uniti, risultato di un complotto giudaico-massonico.Come David Koresh, il guru dominava sui suoi discepoli, spin-gendoli, nello stesso tempo, a commettere ogni sorta di crimi-ne. L’attentato alla metropolitana di Tokyo del 20 marzo 1995,porta la loro firma. Un gas mortale, il sarino, prodotto dai nazi-sti per lo sterminio di massa, venne liberato in cinque puntistrategici del percorso metropolitano durante l’ora di punta. Ilbilancio delle vittime salì a una decina di morti, mentre gl’in-tossicati si contarono a migliaia. Secondo il rapporto della poli-zia giapponese, nel covo della setta fu ritrovato materiale capa-ce di sterminare cinque milioni di individui.

Più vicino a noi, in Svizzera, nella zona di Friburgo e nelValais, il 17 ottobre 1994, le cittadine di Chairy e di Granges-sur-Salvan sono state ugualmente sconvolte. L’incendio nelquale sono morte più di cinquanta persone, tra cui molti bam-bini, testimonia di questa nuova follia, frutto malato della settadel Tempio solare. Il suo capo, il medico omeopata Luc Jouret,era ossessionato dalla fine del mondo e predicava l’Apocalisse

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Prefazione

in modo distorto. All’interno della sua proprietà furono rinve-nuti numerosi cadaveri vestiti con tuniche bianche, rosse enere, disposti in cerchio e giustiziati con un colpo di pistola allanuca. Non è certo se si può parlare di suicidio collettivo o distrage. Forse si trattò di tutti e due. La polizia scoprì, anche inquesto caso, un arsenale assai nutrito, messo insieme in vista diuna fantomatica battaglia finale.

L’anno seguente, il 23 dicembre 1995, lo stesso orrore colpìla Francia. Nei dintorni di Grenoble, nelle vicinanze del paesi-no di Pierre-de-Chérennes, una quindicina di adepti della settadel Tempio solare, tra cui alcuni bambini, furono trovati uccisinelle stesse drammatiche circostanze.

Questi tre eventi7 sono sintomatici del disagio che pervadela nostra civiltà. L’analisi del fenomeno rivela un certo numerodi fattori comuni:1. Presenza di un profeta-messia-Dio carismatico che pretende diavere il monopolio della verità fino ad attuare una forma di plagiosu tutti i suoi discepoli, disposti a tutto pur di piacere al maestro.2. Rigetto del sistema politico-sociale e diffidenza verso tutto ciòche non rientra nello schema ideologico del gruppo. Questo hacome conseguenza una vita comunitaria chiusa a ogni influen-za esterna, percepita come malvagia. Contro una realtà monda-na radicalmente negativa, in casi estremi si ricorre al crimine,gesto punitivo anticipatore del giudizio finale.3. Focalizzazione del messaggio su temi apocalittici che annullanoogni riflessione sull’uomo, la ragione, l’etica e l’amore cristiano.4. Ansia di vedere compiute le profezie apocalittiche, subito, qui eora. Urgenza che spinge gli adepti delle sette dell’Apocalisse,8 adiventare gli attori del dramma, tanto da eseguirne le sentenze.

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7 Tornano alla memoria gli avvenimenti della Guyane del 1978, quando oltrenovecento persone si avvelenarono per ordine del loro guru, Jim Jones.8 L’espressione appartiene al sociologo americano J.R. Hall (in: «The Apocalypseat Jonestown», tratto da: Violence and Religious Commitment, Ken Levi ed., ThePennsylvania State University Press, 1982, p. 37). L’autore osserva il paradosso seguente: diventando attori degli avvenimenti apo-calittici, gli adepti delle sette stabiliscono il regno dei cieli sulla terra, superandoe trascendendo l’Apocalisse stessa.

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I folli dell’Apocalisse

Talvolta questi caratteri sono presenti nello stesso individuoche vive completamente chiuso in se stesso, ma nello stessotempo è profeta e setta. Notiamo, quindi, come il fenomenoappare trasversalmente in tutte le tradizioni religiose. Lo si puòrilevare in ambienti cristiani, ma anche in misura variabile, inquelli giudaici,9 musulmani,10 nelle religioni orientali11 e nelNew Age;12 infine, paradossalmente, anche in gruppi politiciestremisti neonazisti.13 Da McVeigh, autore dell’attentato diOklahoma City fino a Ygal Amir, assassino di Yitzhak Rabin, pas-sando da Koresh e Luc Jouret, corre un filo rosso apocalittico,distorto dall’umana follia.

Nonostante alcune eccezioni presenti nella storia del cri-stianesimo,14 possiamo dire di trovarci davanti a un fenomeno

9 Negli ambienti ebraici si osserva in modo particolare l’ascesa del movimentoChabad Loubavitch, con il suo maestro Rebbe, considerato il messia. L’accentoapocalittico di questo movimento (che si trova in alcuni slogan del tipo «Vogliamoil messia ora!» e nell’appello rivolto ai fedeli di prepararsi alla sua venuta), il suoproselitismo acceso all’interno del giudaesimo (come la presenza negli aeropor-ti), le sue attività pedagogiche (la scuola elementare Kerem Menahem a Nizza eil liceo Haya Mouchka a Parigi) ne fanno il gruppo ebraico contemporaneo piùdinamico. Sull’altro versante, vi sono gruppi d’estrema destra (Kahane Hay) cheispirano atti criminali e formulano appelli alla lotta a oltranza (il massacro diHebron, le minacce alla moschea di Omar, l’omicidio di Yizhak Rabin).10 Nel mondo islamico, ai margini di movimenti estremisti più noti e consistenticome i «Fratelli Musulmani» di Hamas e la Jihad, si muovono gruppi di estremadestra fascista come quello che fa capo al nero americano Farakhan, sedicenteprofeta di Dio, che sostiene di aver ricevuto delle visioni apocalittiche annuncia-trici del prossimo sterminio dei bianchi e, soprattutto, degli ebrei.11 Nell’ex Urss, a Kiev e a Mosca, notiamo le sette di Maria Devi Khristos, inGiappone, quella di Shoko Asahara.12 Tra gli altri è il caso di Luc Jouret.13 Confronta alcuni gruppi paramilitari americani (Arkansas Patriots, AryanNation, Michigan Militia, ecc.) partigiani votati a una Armagheddon razziale. Ilfenomeno non è solo americano. Si riscontrano gruppi analoghi in Francia,Germania, Italia, Russia, tutti di estrazione neofascista e neonazista.14 Pensiamo, per esempio, ai Taboriti di Boemia del XV secolo, o agli «esaltati» diMuntzer del XVI secolo.

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Prefazione

nuovo, tipico della nostra civiltà, che si sta ammalando di apo-calittica. Si parla talvolta di paranoia.15

I casi si sono talmente moltiplicati da spingere alcuni ospe-dali psichiatrici a creare dei reparti specializzati in pazientiaffetti dal «complesso del messia».16

Bisogna riconoscere che questo strano libro di cui SanGerolamo ha potuto dire che: «contiene tanti misteri quanteparole»,17 sembra fare di tutto per portare il lettore alla confu-sione e al delirio. Con la sua sovrabbondanza d’immagini, disimboli, di tempeste e di violenza, l’Apocalisse si presta all’in-tensità dell’emozione e all’irrazionalità del pensiero.

L’Apocalisse, quindi, non ha niente a che vedere con tuttequelle letture folli e allucinate di cui abbiamo parlato fin qui. Itragici malintesi sulle Scritture non sono un fatto nuovo. GalileoGalilei stesso, condannato a morte dai suoi contemporanei, iquali non avevano letto correttamente la Bibbia, ha predicatosulle Scritture, nonostante i pericoli e i fraintendimenti.

Sì, nonostante tutto, l’Apocalisse è un’altra cosa!

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15 Cfr. J.G. Gager, «The Attainment of Millennial Bliss Through Myth: The Bookof Revelation», in Visionaries and Their Apocalypses, P.D. Hansons ed., FortressPress, 1983, p. 149.16 Vedi, per esempio il centro di Kfar Shaulalla, periferia di Gerusalemme, diret-to dal dottor Carlos Bar-El. In questi ultimi anni sono stati diagnosticati più di 470casi, conosciuti come «sindrome di Gerusalemme».17 «Tot verba, tot misteria», citato in P. Schaff, History of the Christian Church,Eerdmans, 1910, vol. 1, p. 826; cfr. M. Lutero: «Nessuno sa cosa c’è dentro» (ibidem).

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Introduzione

Il Dio che viene

L’Apocalisse e il libro di DanieleIl primo incontro con il nostro libro determina già una sfida chesuscita la curiosità e stimola l’intelligenza. Il termine «apocalis-se»18 ci avverte immediatamente che ci troveremo di fronte a unsegreto da svelare. Nella lingua greca, apocalypto, significa pro-prio svelare un segreto. Nel libro di Daniele il verbo in questio-ne, svolge un ruolo chiave tanto da apparire all’inizio della rive-lazione profetica.19

18 La parola «apocalisse» ha dato il nome a una vasta corrente letteraria all’inter-no della tradizione ebraica e cristiana e si applica a testi biblici e non. Per l’AnticoTestamento, cfr. Daniele, Ezechia, Aggeo, Zaccaria e alcuni testi di Isaia. Per ilNuovo Testamento, Matteo 24, Marco 13; 1 Tessalonicesi 4:13-18; 2 Tessalonicesi2:1-12; 1 Corinti 15:20-26,51-53. Al di fuori della Bibbia (apocrifi e pseudo epigra-fici), notiamo tra gli scritti giudaici: 1 Enoch, 2 Enoch, 4 Esdra, 2 Baruch,l’Ascensione di Mosè, l’Apocalisse di Abramo, l’Apocalisse di Adamo, l’Apocalissedi Elia, il libro dei Giubilei, i Testamenti dei dodici patriachi, alcuni testi deimanoscritti del mar Morto. Tra gli scritti cristiani, ricordiamo l’Apocalisse diPietro, l’Apocalisse di Paolo, l’Apocalisse d’Isaia, ecc. Per una lista completa delleopere denominate «apocalissi», cfr. J.P. Prevost, Pour lire l’Apocalypse, pp. 67,68.Per i testi dell’Apocalisse cfr. La Bible. Ecrits intertestamentaires, Bibliothèque dela Pléiade, A. Dupont-Sommer e M. Philonenko éditeurs, Paris, 1987. Bisognanotare che questa classificazione sulla base dell’Apocalisse, rimane spesso artifi-ciale e arbitraria; in più, l’Apocalisse, presenta un certo numero di caratteri chela differenziano dagli altri scritti apocalittici (le sue caratteristiche profetiche, lesue valutazioni etiche, il suo ottimismo, il suo autore, identificabile e non unopseudonimo preso in prestito a un illustre predecessore, ecc.).19 Delle sette citazioni, sei si trovano all’inizio del libro (Daniele 2:19,22,28,29,30,47; 10:1).

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Introduzione

L’eco di quel libro dell’Antico Testamento è udibile nel-l’Apocalisse, fin dall’inizio, così che, per comprenderla, il letto-re dovrà tenere conto dei richiami che, a più riprese, verrannofatti al libro di Daniele. Per esempio, l’Apocalisse esordisce conuna benedizione che si riferisce chiaramente a quella posta inchiusura del libro di Daniele: «Beato chi legge e beati quelli cheascoltano le parole di questa profezia e fanno tesoro delle coseche vi sono scritte, perché il tempo è vicino!» (Ap 1:3). Comenell’Apocalisse, l’espressione «beato chi...», del libro di Daniele, siriferisce alla prospettiva della speranza: «Beato chi aspetta e giun-ge a milletrecentotrentacinque giorni! Tu avviati verso la fine; tuti riposerai e poi ti rialzerai per ricevere la tua parte di eredità allafine dei tempi» (Dn 12:12,13).20

L’autore dell’Apocalisse, dunque, si colloca sulla linea e nelproseguimento della profezia di Daniele. Non soltanto a causadel titolo scelto, Apocalisse, ma anche per quel riferimento allaformula benedicente, alla beatitudine che accomuna i due librie orienta la lettura della profezia di Giovanni. Il libro di Danieleè, dunque, il testo veterotestamentario più citato dal-l’Apocalisse.21 Molti sono i vocaboli in comune. Vi si trovano lestesse visioni, gli stessi temi e le stesse lezioni tipologiche, lequali si svolgono lungo il medesimo itinerario, gli stessi daticronologici espressi, talvolta con parole esattamente utilizzateda Daniele. La prospettiva profetica copre lo stesso periodo sto-rico, impartendo lezioni etiche analoghe. Infine, i due libri sonoorganizzati, da un punto di vista letterario, su uno schema chesi definisce «chiastico».22

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20 L’Apocalisse contiene sette beatitudini (1:3; 14:13; 16:15; 19:9; 20:6; 22:7,14)tutte ispirate dall’idea della venuta di Dio.21 Cfr. H.B. Swete, The Apocalypse of St. John: The Greek Text whith introduction,Notes and Indices, 2 ed. Londres, 1907, p. clii.22 Sui rapporti tra il libro di Daniele e l’Apocalisse, cfr. R. Lehmann, «RelationshipsBetween Daniel and Revelation», in Symposium on Revelation - Book I, F.B.Holbrook ed., Biblical Research Institute, Silver Spring, MD, 1992, pp. 131-144. Cfr.J.P. Ruiz, Ezekiel in the Apocalypse: The transformation of Prophetic Language inRevelation 15,17-19,10, Frankfurt am Main, 1089; cfr. G.K. Beale, The Use of Danielin Jewish Apocalyptic Literature and in Revelation of St. John, Lanham, MD, 1964.

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Il Dio che viene

Per il nostro studio è essenziale riconoscere, fin dall’inizio,lo stretto legame che unisce i due libri. Solo così potremo capi-re in che modo dobbiamo leggere l’Apocalisse e coglierne ilsenso profondo e oggettivo. Nella lettura del libro di Danielesarà di sicuro aiuto il commentario Le soupir de la terre23 operache raccomandiamo vivamente per seguire e apprezzare megliogli echi che troverete in questo libro. È significativo come labeatitudine che introduce l’Apocalisse, analogamente a quellache conclude Daniele, venga trasportata dallo stesso vento disperanza e di attesa della venuta di Dio. L’apostolo Giovanninon si limita, comunque, a parlare di una beata attesa; eglidescriverà il contenuto e la natura stessa di questa attesa. Essaè composta da tre esperienze: leggere, ascoltare e osservare.

Innanzitutto troviamo un appello alla lettura. «Beato chilegge». Certo, potremo sbagliare e cucinare la nostra felicitàcon ingredienti diversi da quelli proposti da Dio. La scopertadella felicità implica una rivelazione. «Un segreto svelato»,un’Apocalisse, appunto. Bisogna cominciare da questa convin-zione. Senza questa fede non potremmo andare avanti nellostudio e il nostro libro verrebbe ridotto a un’amalgama di suoniinutili. Il carattere della nostra lettura è eminentemente reli-gioso. Da notare come il verbo «leggere» è il solo a essere coniu-gato al singolare: «Beato chi legge»; mentre gli altri due sono alplurale: «quelli che ascoltano... e fanno tesoro...». La lettura nonè, tuttavia, di tipo soggettivo e privato. Letta da una sola perso-na, la profezia deve essere ascoltata e ricevuta da molti, secon-do la pratica liturgica della sinagoga. Equivale a una immersio-ne immediata nell’atmosfera sacra dell’assemblea, assorta nel-l’atto comunitario dell’adorazione. Il testo va letto, prima ditutto, come una liturgia; con tutto quello che ciò implica in ter-mini d’esperienza emotiva e mistica, di poesia, ritmo, ma anchedi simboli e lezioni spirituali.

Questo carattere liturgico non ci deve, però, potare fuoristrada. Queste parole sono chiaramente definite come una pro-fezia. Il materiale, per quanto liturgico, non mira alla sola emo-zione religiosa. La verità di cui si occupa il libro è essenzial-

23 J. Doukhan, Le soupir de la terre, Éditions Vie et Santé, Dammarie-lès-Lys, 1993.

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Introduzione

mente di ordine storico. Si parla di avvenimenti che dovrannoaccadere. L’Apocalisse non parla soltanto ai mistici o ai senti-mentali della religione. Del resto, il suo messaggio valica i limi-ti stessi delle mura ecclesiastiche. La profezia non deve esseresolo letta, ma anche ascoltata. Non si tratta di un puro eserciziocultuale. La parola profetica deve diventare l’oggetto di studiodi chi la riceve. Dietro la parola «ascoltare» s’intravvede la con-cezione ebraica dello sforzo e della responsabilità di un intel-letto che fatica a comprendere e che, nondimeno, ha il doveredi tradurre in atti concreti e vita vissuta, ciò che si è capito. LoShema Israel («Ascolta Israele» cfr. Dt 6:4-9) non deve essereinteso come una dolce melodia che culla e propizia emozionisublimi. In ebraico, la parola ascoltare significa anche «osser-vare», «obbedire».

In fondo, è quello che dice il seguito del versetto: «quelli chefanno tesoro delle cose che vi sono scritte». All’orizzonte di unalettura che risuona alle orecchie come una melodia, avendo pre-sente le esigenze dell’intelligenza razionale, il lettore si accingea vivere una vita nuova guidata da Dio. Perché ciò che determi-na la scelta e l’orientamento morale, non è un’opinione o unaverità soggettiva, ma le «cose che vi sono scritte». È quella paro-la, proveniente dall’esterno, che deve dirigere il mio cammino.L’Apocalisse si definisce, altresì, come portatrice di verità asso-lute, di verità che esistono, mettendoci in guardia dalle inter-pretazioni personali e fantasiose; essa ci obbliga a cercare.

MetodologiaNell’esordio del libro vengono immediatamente denunciati ipossibili errori d’interpretazione. Come se l’autore, profetaanche a questo livello, avesse previsto i deliri e le deviazioni dialcuni futuri lettori. Egli sembra voler gettare, già nelle primerighe, le basi per una metodologia sana, una lettura corretta,intonata alle parole ispirate della rivelazione.

Fin dal primo impatto con questo «strano» libro, l’Apocalisseindica l’atteggiamento con il quale dobbiamo avvicinarci altesto. Occorre, prima di tutto, un tipo di ascolto attento che rice-ve la parola e la sonda con rispetto. L’intelletto ricercherà, esi-gente, il senso del testo, collocato nel suo contesto storico e let-terario, con attenzione particolare per il vocabolario tipico del

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Il Dio che viene

libro, la sua sintassi, la sua struttura, le fluttuazioni poetiche. Indefinitiva, la ricerca del pensiero dell’autore che si muove inuna precisa epoca e società (approccio esegetico). Non dimen-tichiamo che siamo comunque di fronte a una lettura sacra chechiama i credenti a vibrare nell’adorazione, al ritmo dei simbo-li e delle lezioni spirituali che trascendono e orientano il tempo(approccio liturgico). Infine, il libro rappresenta un impegno a«ricordare», a vivere nella nostra carne ciò che abbiamo sco-perto all’ascolto della parola (approccio esistenziale). Ma, l’a-scolto della profezia non si limita all’esperienza religiosa delpresente. La ragione fondamentale della «beatitudine» risiedenell’attesa di un avvenimento futuro: «perché il tempo è vicino».

Struttura dell’ApocalisseQuesta molteplicità di piani di lettura emerge dalla strutturastessa del libro che possiamo definire «a candelabro» (occorrepensare al candelabro ebraico a sette bracci; cfr. grafico p. 30).

Questa struttura presenta le caratteristiche seguenti:1. Essa si sviluppa in sette cicli simultanei e paralleli di sette

visioni.24 In questo è simile alla struttura di Daniele,25 descri-vendo anche qui, una curva di tipo chiastico (dalla lettera grecac «Chi», a forma di X). Schema in cui la seconda parte è in paral-lelo inverso con la prima (ABC/C’B’A’).

2. Con regolarità, nell’esordio di ciascuno dei sette cicli, lavisione ritorna sull’atmosfera del tempio e volge sui toni litur-gici segnati dal calendario delle feste religiose d’Israele, sullabase delle indicazioni presenti in Levitico 23. Ogni tappa profe-tica è posta nella prospettiva di una festa israelitica, rievocataanche all’interno del ciclo stesso.26 L’autore ci invita a una let-tura che prende le mosse dalle feste d’Israele, i cui rituali sono

24A partire da Beda il Venerabile, questa divisione dell’Apocalisse in sette visio-ni, è stata sostenuta da un gran numero di commentatori (cfr. R.J. Loenertzop,The Apocalypse of St. John, H.J. Carpenter trad., Sheed & Wand, London, 1947).25 Cfr. Le soupir de la terre, op. cit., pp. 15,16.26 Le feste giudaiche saranno indicate con il nome ebraico tradizionale: Shabbat (saba-to), Pessah (Pasqua), Shavuoth (Pentecoste), Rosh hashanah (giorno dell’anno, festadelle trombe), Kippur (festa delle espiazioni), Succot (festa delle capanne/tabernacoli).

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Introduzione

utilizzati come una luce simbolica, capace di far emergere ilsenso profondo della storia umana.

3. Oltre a questo, come il libro di Daniele, anche l’Apocalissesi divide in due fasi (storico/terrestre ed escatologico/celeste)dove la parte centrale è rappresentata dal giudizio di Dio allafine dei tempi e dalla venuta del «Figlio dell’uomo» (cfr. Dn7:14).27 L’Apocalisse si presenta essenzialmente come una visio-ne profetica che attraversa la storia, a partire dall’epoca dell’a-postolo Giovanni fino alla venuta di Dio (prima parte). Piuttostoche decodificare l’Apocalisse come una semplice rappresenta-zione di fatti contemporanei all’autore (interpretazione preteri-sta),28 è più corretto cercare d’interpretarla a partire dalla suastessa prospettiva, cioè come una visione che predice avveni-menti storici che arrivano fino all’ultimo dei giorni (interpreta-zione della storia continua), con tutto ciò che questo implica intermini d’impegno e di fede (lettura esistenziale). Questa lineainterpretativa «storico-profetica», non ha solo il merito di tenerconto dell’intenzione dell’autore, ma anche quello di essere lapiù antica.29 Si può paragonare al «Bolero» di Ravel; gli stessitemi sono ripresi e intensificati in un crescendo inesorabile.30

20

27 Cfr. Le soupir del la terre, op. cit., pp. 15,141.28 Questa interpretazione viene esposta per la prima volta negli scritti del gesuita spa-gnolo Luis de Alcazar (1554-1614). In reazione ai riformatori che applicavano la pro-fezia al papato, il teologo gesuita l’applicò al giudaismo e alla Roma pagana dell’epo-ca di Giovanni. Queste vedute, che trovarono un terreno propizio nel razionalismotedesco del XIX secolo, arrivarono fino a noi nelle interpretazioni storico-critiche.29 Essa è già attestata presso Ireneo di Lione (130-202). Nato dopo alcuni annidall’apparizione dell’Apocalisse, questo padre della chiesa sarebbe stato discepo-lo di Policarpo, un martire che avrebbe conosciuto Giovanni personalmente (cfr.Eusebio, Historia Ecclesiastica, 5.20.6, NPF 1.238,239). Caduta in disuso nel corsodel medioevo, dove prevalevano le interpretazioni allegoriche, spiritualeggianti emorali, grazie all’opera di Ippolito ed Origene, essa sarebbe riapparsa nel sedi-cesimo secolo, a opera dei riformatori, fedeli alla lettera delle Scritture.30 Cfr. J. Lambrecht, secondo il quale «ricapitolazione e progressione» sono lecaratteristiche essenziali della struttura dell’Apocalisse: «A Structuration ofRevelation 4,1-22,5», in L’Apocalypse johannique et l’Apocalyptique dans leNouveau Testament, Gembloux, 1980, p. 103.

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Il Dio che viene

Giovanni segue il modello degli antichi autori ebrei chescrivevano le loro profezie secondo le regole del parallelismoproprio alla poesia ebraica (cfr. Dn capp. 2,7,8).

L’interpretazione delle visioni deve tener conto di questotipo particolare di scrittura poetica che ripete e intensifica lostesso tema (interpretazione ricapitolista). Va da sé che questainterpretazione esclude la lettura lineare e cronologica chepone gli avvenimenti dei suggelli dopo quelli delle lettere, quel-li delle trombe dopo quelli dei suggelli, e così via (interpreta-zione futurista e dispensazionalista).31

GiovanniContrariamente a tutti gli altri scritti apocalittici, il libro in que-stione, non è uno pseudoepigrafico che cerca credibilità attri-buendosi la paternità di un antico eroe. L’autore è vivo e vege-to, ben inserito nelle vicende della sua epoca. Si tratta di qual-cuno che «ha visto» (Ap 1:2), un uomo come noi, «vostro fratel-lo», (v. 9), che condivide le stesse sofferenze. Questo Giovanni,dall’ebraico yohanan (la grazia di YHWH), è probabilmente lostesso Giovanni autore del vangelo,32 figlio di Zebedeo e fratel-lo di Giacomo,33 il discepolo che Gesù amava.34 Le tradizioni piùantiche sono unanimi al riguardo.35

31 Questa interpretazione, difesa per la prima volta dal gesuita spagnolo FranciscoRibera (1537-1591) sarà sviluppata nel sistema cosiddetto «dispensazionalista» rappre-sentato, soprattutto, dalla Bibbia di Scofield. Secondo queste vedute, l’Apocalisse siapplica, per la maggior parte (capp. 4-22) al lontano avvenire della fine dei tempi.32 L’Apocalisse e il vangelo di Giovanni mostrano un gran numero di assonanze.Sono i soli due libri neotestamentari a parlare del Logos (Gv 1:1; Ap 19:13).Entrambi impiegano l’immagine dell’agnello e dell’acqua della vita. Alcuneespressioni sono comuni: certo, vero, vincere, osservare i comandamenti, testi-monianza, ecc. La stessa maniera di pensare (contrasto tra il bene e il male,assoluti), il medesimo interesse liturgico.33 Matteo 4:21.34 Giovanni 20:2; 21:7,20.35 Cfr. Giustino Martire (110-165) in Dial. Triph. 81:4 e Ireneo (120-202) in Adv.Haereses IV, 17,6. Clemente d’Alessandria (153-217), Tertulliano (145-220),Origene (185-254), Ippolito (170-236) hanno conservato la stessa tradizione.

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Introduzione

Policarpo, vescovo di Smirne (martire nel 155 o nel 177),attesta che Giovanni dell’omonimo vangelo, passò molti anni aEfeso, la qual cosa spiega l’attenzione particolare dell’autoreper le chiese d’Efeso e dell’Asia.36

Un Giovanni reale di cui si conosce la storia e le storie.Giovanni si trovava, in quell’epoca, in un luogo preciso, una pic-cola isola lunga 84 chilometri e larga tre. Intorno, il mar Egeocome unica vista possibile (la parola thalassa, mare, è utilizzata25 volte nell’Apocalisse). Secondo la tradizione, Giovanni visarebbe stato esiliato da Domiziano, il primo imperatore (81-96)ad aver preso veramente sul serio la propria divinità, tanto daesigere l’adorazione di Cesare. Questo imperatore ce l’aveva amorte con gli ebrei e con i cristiani, cioè con quelli che lui chia-mava «razza di atei». Secondo Girolamo,37 Giovanni sarebbestato deportato quattordici anni dopo la persecuzione di Nerone,cioè nel 94 della nostra era, e riacquistò la libertà nel 96, allamorte di Domiziano. Questo genere di pena veniva inflitta dairomani a quelle personalità politiche di cui si voleva neutraliz-zare l’influenza. Il deportato perdeva i diritti civili e le proprie-tà, diventando un apolide.

Lo scrittore dell’Apocalisse è, dunque, uno sradicato, taglia-to fuori da tutto, dal suo passato, dalla sua famiglia, dai suoiamici, dalla sua terra. Questo tipo di uomo testimonierà dellasua attesa di Dio, scriverà l’Apocalisse verso l’anno 96. Lanostalgia per la patria e il confronto quotidiano con lo stranierooppressore fa di Giovanni un giudeo ancora più tale di quellirimasti nella propria terra. In modo significativo, il suo libro èquello del Nuovo Testamento che cita maggiormente l’Antico eche pulsa al ritmo della feste ebraiche e delle sue istituzioni.38

Le allusioni alle Scritture sono circa duemila, di cui quat-trocento sono implicite, mentre una novantina sono assoluta-mente letterali e riguardano il Pentateuco e i profeti.

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36 Policarpo, Epistle to Victor and the Roman Church Concerning the Day ofKeeping the Passover, ANF, vol. 8, p. 773.37 Girolamo, De vir. illus. IX.38 A. Feuillet vede nell’Apocalisse «una rilettura dell’Antico Testamento alla lucedell’avvenimento cristiano» (L’Apocalypse, p. 65).

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Il Dio che viene

Un dato interessante è costituito dalla maggiore fedeltàdell’Apocalisse all’originale ebraico, maggiore addirittura dellaversione dei Settanta39. Lo studioso Renan osserva che: «la linguadell’Apocalisse ricalca l’ebraico, è pensata in ebraico e non puòessere compresa che da coloro che conoscono l’ebraico»40.Questo carattere particolare dell’Apocalisse aggiunge, agli altrigià menzionati, il dovere di tener conto delle radici e della suaprospettiva, entrambe, profondamente ebraiche. Per compreder-la, bisogna leggerla alla luce dell’Antico Testamento. E, questasarà una delle preoccupazioni maggiori dello studio presente.

Per cercare di scoprire l’intenzione dell’autore, i testi del-l’Antico Testamento ai quali l’Apocalisse si riferisce o fa allusio-ne, devono essere decodificati e analizzati a partire dal lorocontesto. In altre parole, l’esegesi dell’Apocalisse passa spessoda quella veterotestamentaria.

DioDalle prime righe scritte, nel suo stesso saluto, l’autore radicala sua parola profetica nella persona di Dio, così come è rivela-ta nell’Antico Testamento: «da colui che è, che era e che viene»(Ap 1:4). La frase ricorda la definizione che il Dio dell’esodoaveva dato di se stesso, nel rivelarsi a Mosè (Es 3:14): «Io sonocolui che sono». Il Dio d’Israele si presenta come colui che nonpuò essere racchiuso in nessuna definizione teologica, il veroDio, il Dio che esiste veramente già qui, ora, nella nostra vita. IlDio presente che si sperimenta nella nostra vita quotidiana è lostesso che ha parlato in passato. Questa è la lezione contenutanel secondo verbo, «colui che era». Il Dio del ricordo, il Diodelle nostre radici, è il Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe.Giovanni, a questo punto ci dice che, Dio che «è» presente, che«era» nel passato, «sarà» ben più che un Dio «futuro».Curiosamente, Giovanni, invece di usare il verbo essere, quan-

39 P. Prigent, L’Apocalypse de saint Jean, Lausanne, Paris, 1981, p. 19.40 E. Renan, L’Antéchrist, Paris, 1873, p. xxxi. Questo fatto spiega il carattere par-ticolare del greco dell’Apocalisse, che comporta un gran numero d’irregolaritàgrammaticali e sintattiche, tanto più che l’esiliato di Patmos non disponeva, inquel momento, di un segretario, al contrario della stesura del suo vangelo.

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Introduzione

do parla del Dio del futuro, egli cambia espressione verbale.Dal verbo essere (coniugato al presente e al passato) passa alverbo «venire». Certo, Dio esiste in sé, esiste ed è esistito connoi e per noi, ma alla fine, resta confinato lassù. A discapito diquello che sappiamo di lui e di quello che ha compiuto nellastoria umana, egli resta, comunque, «altrove», non è ancoravenuto. Il futuro è più ricco del presente e del passato. Solo l’av-venire, contiene la promessa della venuta di Dio. Più che il Diodelle radici, della tradizione, del ricordo, dell’esistenza, delquotidiano, dell’esperienza spirituale, Dio è il Dio che viene.Inoltre, affinché il messaggio della speranza porti con sé unaconvinzione profonda, l’esordio del libro si arricchisce del rife-rimento allo Spirito che dimora «davanti al suo trono» (Ap 1:4).La parola profetica non è l’opera di un cartomante nebuloso odi un futurologo ambiguo. Essa è certa perché proviene diretta-mente dal trono di Dio, cioè dal giudice sovrano di tutto l’uni-verso che conosce ogni cosa.

Quando il profeta Isaia menziona i sette Spiriti che sarebbe-ro scesi sul Messia, evidenzia la giustizia e la lucidità del giudi-zio che conduce al Regno dei cieli: «Respirerà come profumo iltimore del SIGNORE, non giudicherà dall’apparenza, non daràsentenze stando al sentito dire, ma giudicherà i poveri con giu-stizia, pronuncerà sentenze eque per gli umili del paese. Colpiràil paese con la verga della sua bocca, e con il soffio delle sue lab-bra farà morire l’empio. La giustizia sarà la cintura delle suereni e la fedeltà la cintura dei suoi fianchi. Il lupo abiterà con l’a-gnello, e il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello, illeoncello e il bestiame ingrassato staranno assieme, e un bam-bino li condurrà. La mucca pascolerà con l’orsa, i loro piccoli sisdraieranno assieme, e il leone mangerà il foraggio come il bue.Il lattante giocherà sul nido della vipera, e il bambino divezzatostenderà la mano nella buca del serpente. Non si farà né malené danno su tutto il mio monte santo, poiché la conoscenza delSIGNORE riempirà la terra, come le acque coprono il fondo delmare» (Is 11:3-9).

Grazie alla pienezza dello Spirito che viene dall’alto, tutti isegreti saranno svelati in vista della salvezza e del giudizio delmondo. Il libro si qualifica ancora una volta come apocalittico.

In seguito, la penna si fa più gravida, il tono diventa più sen-

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Il Dio che viene

tito e intimo: «... e da Gesù Cristo» (Ap 1:5). Questa è la parte cheattira maggiormente l’attenzione. Quest’ultimo titolo cristologi-co è il più lungo di tutti e comprende tre attributi (testimonefedele, primogenito dei morti, principe dei re della terra) che simanifesteranno successivamente attraverso tre azioni descrittenel prosieguo del passo biblico «A lui che ci ama, e ci ha libera-ti... che ha fatto di noi un regno» (v. 5).

L’elenco dei titoli di Gesù Cristo, descrivono, in effetti, le tregrandi tappe della sua opera salvifica:

1. L’incarnazione che lo rende testimone di Dio tra noi. 2. La morte e la risurrezione, nostra salvezza e promessa di

vita eterna. 3. La sua regalità, garanzia della nostra cittadinanza nel

regno di Dio.L’apostolo Paolo, nel quadro della sua riflessione sulla risur-

rezione, descrive il medesimo itinerario in tre tappe: «Ma oraCristo è stato risuscitato dai morti, primizia di quelli che sonomorti. Infatti, poiché per mezzo di un uomo è venuta la morte,così anche per mezzo di un uomo è venuta la risurrezione deimorti. Poiché, come tutti muoiono in Adamo, così anche inCristo sarannno tutti vivificati; ma ciascuno al suo turno: Cristo,la primizia; poi quelli che sono di Cristo, alla sua venuta; poiverrà la fine, quando consegnerà il regno nelle mani di DioPadre, dopo che avrà ridotto al nulla ogni principato, ogni pote-stà e ogni potenza. Poiché bisogna ch’egli regni finché abbiamesso tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi» (1 Cor 15:20-25).

Si tratta dello stesso schema sviluppato dall’apostolo Pietronel suo discorso della Pentecoste (cfr. At 2:22-25; 7:56).

L’Apocalisse pone a preludio della profezia, il piano dellasalvezza, come è stato compreso dai primi cristiani. Il Dio cheviene non è altri che Gesù Cristo stesso. L’attenzione sulla suapersona s’impone. La profezia non riguarda soltanto la buonanotizia della nostra liberazione e della felicità della vita eterna.Non è solo un avvenimento che aspettiamo, ma prima di tutto,una persona che amiamo, conosciamo e dalla quale siamo amatie conosciuti. Questo rende l’attesa ancora più intensa e sicura.

La prima profezia del libro riguarda proprio la sua venuta.Gesù è visto allo stesso modo in cui Daniele vide la venuta delFiglio dell’uomo: «... sulle nuvole» (Dn 7:13; cfr. Ap 1:7).

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Introduzione

L’espressione sorprende e più di una persona ha sentito latentazione di sorridere o di scherzare su questo Gesù... paraca-dutista. Molti, hanno cercato di attutire l’effetto di queste parole,spiritualizzandole. Saremmo di fronte, quindi, a una sempliceimmagine che indica la discesa di Cristo nel cuore dell’uomo.Più sbrigativi, altri, hanno relegato la profezia nell’ambito deimiti. Ma, l’intenzione dell’autore è chiaramente un’altra: «... ogniocchio lo vedrà... anche quelli che lo trafissero» (Ap 1:7). Il testoriprende una profezia di Zaccaria: «... essi guarderanno a me, acolui che essi hanno trafitto, e ne faranno cordoglio come si facordoglio per un figlio unico, e lo piangeranno amaramentecome si piange amaramente un primogenito. In quel giorno cisarà un gran lutto in Gerusalemme, pari al lutto di Adadrimmonnella valle di Meghiddo» (12:10,11).

Di fronte a un regno di sacerdoti «liberati (...) con il suo san-gue» (Ap 1:5,6), Giovanni descrive lo scenario di «tutte le tribùdella terra» che si lamentano e sono confuse davanti alla realtàdella venuta di Dio (v. 7). In una successiva profezia, egli descri-verà negli stessi termini, il dolore e i lamenti dei seguaci diBabilonia, nel vedere la sconfitta del loro dio, alla venuta delSignore (cap. 18; 16:12-16).

Il nemico di Dio è sorpreso da un simile epilogo, che nonaveva previsto e che aveva fatto di tutto per impedire. Il Signoresorprenderà prima di tutto coloro che hanno partecipato allasua morte, coloro che l’hanno crocifisso. Certo, tornano subitoalla mente i funzionari romani, troppo solerti nel conficcare ichiodi e nell’assistere alla sua morte, verificandola fino infondo. Ma, tornano alla memoria tutti coloro che in un modo oin un altro, parteciparono alla sua crocifissione. Quei sacerdotigelosi della sua popolarità, i discepoli vigliacchi che lo rinnega-rono, che tacquero o fuggirono; e infine quella folla immensa diuomini e donne che, nei secoli, hanno continuato a crocifigger-lo con le loro trasgressioni (cfr. Is 53). Si pensa anche ai miscre-denti, a coloro che ci ridono sopra e che non si convincerannomai. Ecco la prova per eccellenza, assoluta e irrefutabile: essi lovedranno.

Ancora una volta la risposta liturgica risuona per conferma-re l’adempimento della promessa: «Sì. Amen!» (Ap 1:7). Sembra,quasi, che la frase sia pronunciata da colui che sta per appari-

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Il Dio che viene

re; è lui che dirà subito dopo: «Io sono l’alfa e l’omega dice ilSignore Dio, “colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente”»(1:8). I nomi che definiscono Dio, in questi passi, sono gravididella stessa promessa. Prima di tutto si parla del Signore Dio,YHWH Elohim della creazione, dell’inizio della storia, ma anchedella fine della storia; l’alfa e l’omega (la prima e l’ultima lette-ra dell’alfabeto greco). Colui che è, che era e, soprattutto coluiche viene, l’Onnipotente, El Shadai.

Questo nome rappresenta l’appellativo più antico della tra-dizione ebraica. Il Dio dei patriarchi, ma anche quello più cari-co di promesse e di benedizioni.41

ShabbatOra, questa visione del Dio che viene, Giovanni la riceve pro-prio «nel giorno del Signore» (v. 10). I cristiani che leggono que-sto testo pensano istintivamente alla domenica.

Dimenticano, però, che è un ebreo che scrive, nutrito delleScritture ebraiche e ben radicato nella religione dei suoi padri.Oltre a ciò, l’espressione «giorno del Signore» riferito alla dome-nica s’incontra solo a partire dalla fine del II secolo, e anche lì,si presenta eccezionalmente, negli scritti dell’epoca, lasciandospazio a larghe controversie.42 È assai più ragionevole pensareche il giorno del Signore di cui parla Giovanni, si riferisca alsabato, chiamato, appunto, «giorno del Signore» (o giorno diAdonai) nelle Scritture ebraiche.43 D’altra parte, il ricorrerecostante nell’Apocalisse, del numero 7 rende assolutamenteverosimile il riferimento al sabato, settimo giorno, in aperturadella profezia, come in una sorta di intonazione.

Questa interpretazione si giustifica, infine, per il fatto che ilsabato introduce il ciclo delle feste giudaiche che strutturano illibro intero dell’Apocalisse. Troviamo la lista nel Levitico al

41 Genesi 17:1; 28:3; 35:11; Giobbe 22:17,18; 29:5; ecc.42 In effetti, tra gli scritti dell’epoca, solo l’apocrifo: «Il Vangelo di Pietro» (35 e50) applica questa espressione alla domenica. Cfr. S. Bacchiocchi, From Sabbathto Sunday, Roma, 1977, p. 118.43 Il nome Adonai, «Signore» è la lettura tradizionale del nome di Dio YHWH,generalmente reso con «SIGNORE» (Es 20:10; Lv 23:3; Dt 5:14).

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Introduzione

capitolo 23: «Si lavorerà sei giorni; ma il settimo giorno è saba-to, giorno di completo riposo e di santa convocazione. Non fare-te in esso nessun lavoro; è un riposo consacrato al SIGNORE intutti i luoghi dove abiterete» (v. 3).

Secondo la tradizione biblica, il sabato è il primo giorno difesta con Dio, celebrata dall’uomo e dalla donna (cfr. Gn 2:1-3)è anche il solo giorno la cui istituzione risale prima della pro-mulgazione della legge sul Sinai (cfr. Es 16:23,29); è il solo gior-no la cui osservanza non dipende né dalle stagioni né dagliastri; neppure, in definitiva, dalla storia umana. Dunque, ènaturale che si cominci proprio da lì.

Probabilmente, Giovanni si riferisce anche a un altro «gior-no del Signore», allo yom Yahweh dei profeti biblici, che desi-gna, nell’Antico Testamento, il giorno del giudizio di Dio e dellasua venuta alla fine della storia umana.44 Come nel NuovoTestamento45 e nella letteratura giudaica46 a lui contempora-nea, l’espressione «giorno del Signore» si applica alla parusia diCristo o alla venuta del Messia.

Il contesto immediato conferma la nostra interpretazione.Anche senza tenere conto che l’associazione tra il sabato e ilgiorno escatologico della speranza è fortemente attestata sianella Bibbia sia nella tradizione giudaica, comunque, il sabatoè stato spesso compreso come il segno del gran giorno dellaliberazione e del regno di Dio che viene.47 In altre parole,Giovanni ebbe la visione dell’ultimo giorno (giorno del giudiziofinale e della parusia), durante il giorno del sabato (altro gior-no del Signore).

Si ritrova la stessa coincidenza nel libro di Daniele, dove ilprofeta riceve una visione relativa a una cerimonia di Kippur,

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44 Sofonia 1:7; 2:2,3; 3:8; Malachia 3:2; 4:1,5; Gioele 1:15; 2:1,2,11.45 1 Tessalonicesi 5:2; 2 Tessalonicesi 2:2; 1 Corinzi 1:8; 5:5; 2 Corinzi 1:14;Filippesi 1:6; 2:16.46 II Baruc 48:47; 49:2; 55:6.47 La Lettera agli Ebrei riflette questa identificazione del sabato con il giornoescatolico (Eb 3,4); nello stesso modo, la tradizione ebraica percepisce il sabatocome il segno del giorno escatologico di Dio (Talmud di Babilonia, Sanhérin 98a;cfr. A. Heschel, Les batisseurs du temps, Paris, 1957, p. 176).

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Il Dio che viene

proprio durante il tempo del Kippur.48 Stupisce come lo stessometodo di comunicazione sia utilizzato nei due testi. Questo per-ché si riferiscono entrambi alla stessa visione del sacerdote dagliocchi di fuoco e dalla tunica di lino.49

Ma, Giovanni è altresì colpito nel suo spazio vitale. La paro-la lo coglie come un colpo impreviso, sferrato alle spalle.L’esperienza è simile a quella di Maria di Magdala al sepolcro.In due momenti, ella dovette girarsi per capire chi le stava par-lando (cfr. Gv 20:14-16). Maria credeva che Gesù fosse morto elo cercava nella tomba, mentre la voce del Risorto le giunse,come per Giovanni, dall’altro lato, alle spalle.

Un’altra intenzione del testo è quella di far percepire que-sta voce come proveniente dal futuro. Nel pensiero ebraico, ilpassato è percepito davanti a noi, mentre l’avvenire è situatoalle nostre spalle, è ciò che viene dopo.50 Mosè, al pruno arden-te aveva ascoltato la stessa definizione di Dio, formulata al futu-ro: «Colui che si chiama “Io sarò”, è colui che mi ha mandato avoi» (Es 3:14, traduzione letterale).

Questa forma verbale coniugata al futuro si ritrova nellostesso nome di Dio, YHWH (egli sarà).

Come per Maria di Magdala, per Mosè, gl’israeliti del-l’Esodo, anche per Giovanni, la parola proveniente dall’alto,sorprende; voce di Gesù risorto nel presente e prossimo a tor-nare. Essa è la voce di Dio che risuona da lontano, dal futuro; èla voce di un Dio che viene.

48 Cfr. Le soupir de la terre, p. 225.49 La parola greca poderes è quella che la Settanta utilizza in Esodo 28:4; la parolaebraica meyl designa l’abito del sacerdote (cfr. Zac 3:4; Sapienza 18:24, ecc.).50 La parola ebraica qedem significa «ciò che sta prima» (Sal 139:5) e designa, diconseguenza, la più remota antichità, il passato; la parola ahar significa «davan-ti, le cose che devono accadere e designa, di conseguenza, le cose che verrannodopo, l’avvenire» (cfr. T. Boman, Hebrew Thought Compared with Greek, 1960,p. 149).

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Prima parte

Tempeste

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Capitolo 1

Lettere aperte alle chiese

Preludio sul Figlio dell’uomoLa descrizione del personaggio conferma la duplice natura delFiglio dell’uomo. Gesù assomiglia a un ordinario figlio dell’uo-mo; è il Gesù dei vangeli,51 incarnato e ben presente tra gliuomini del tempo di Giovanni. Ma, è nello stesso tempo, il«figlio d’uomo» glorioso del libro di Daniele, dai capelli bianchi,gli occhi di fuoco (10:6), implicato nel giudizio finale e cheviene sulle nuvole del cielo per inaugurare il regno di Dio (7:9-13). Egli è, quindi, nello stesso tempo, il Dio vicino, personale epresente, il Gesù familiare e il grande Dio lontano, glorioso efuturo che parla a Giovanni. Il Dio che schiaccia il profeta, pro-strato e come morto, a seguito della sua visione. Un Dio capa-ce, anche di rassicurare con il tocco della sua mano destra e chedice: «Non temere...» (Ap 1:17). La speranza si articola nella ten-sione di un Dio che viene nel futuro e la prossimità di un Diopresente oggi nella nostra vita. Privi di questa tensione non èpossibile sperare. Senza la sicurezza di un «dopo» che valica unpresente che uccide, non avremmo alcuna ragione per attende-re. L’esperienza quotidiana e la relazione con Dio suscita ildesiderio di aspettarlo. Queste due categorie sono necessarieper forgiare la speranza.

Pessah (Pasqua)Non è certo un caso che la visione introduttiva del ciclo dellesette chiese ci trasporti nell’ambito dei candelabri. Dopo ladistruzione del tempio di Gerusalemme nel 70, e la sparizionedel candelabro nel bottino dell’esercito romano, come attesta il

51 Matteo 8:20; 10:23; 17:9; Luca 7:34; Giovanni 6:53.

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Capitolo 1

famoso bassorilievo dell’arco di Tito, parlare ancora di candela-bri è un insulto alla storia. Tuttavia, la fine del tempio diGerusalemme non equivale alla fine dell’incontro con il Diodella storia. Il candelabro è là, incarnato nelle sette chiese; e inmezzo a loro cammina il Dio del cielo. Il suo popolo non è dun-que abbandonato a sè stesso, alle vicissitudini della storia. Dioè presente in mezzo al suo popolo come la shekhinah lo era inIsraele. «Camminerò tra di voi» aveva promesso YHWH a Israeledurante l’esodo (cfr. Lv 26:12) e Gesù ripeté la promessa nell’o-ra della sua ascesa al Padre: «... io sono con voi tutti i giorni,sino alla fine dell’età presente» (Mt: 28:20). È la presenza dellashekhina luminosa che dà impulso e orienta il cammino delpopolo nell’esodo; è la stessa presenza del Figlio dell’uomodagli «occhi... come fiamma di fuoco (Ap 1:14), e dal «volto...come il sole quando risplende in tutta la sua forza» (v. 16), i cuipiedi sono «simili a bronzo incandescente arroventato in unafornace (v. 15) a fornire la luce ai candelieri per orientare ilcammino del suo popolo. Questa visione luminosa del Figliodell’uomo, dalla «cintura d’oro» (v. 13), che si fonde con la visio-ne eclatante dei candelabri d’oro, fa presagire, in un aureoflash, la visione della città futura.

Dopo quello del sabato, è, a questo punto, il messaggio dellaPasqua a essere veicolato; già a partire dalla forte evocazionedella morte e della risurrezione di Gesù52 (v. 18), per seguirecon la rassicurante presenza della sua shekhinah in mezzo alpopolo. La Pasqua è la festa che segue immediatamente quelladel sabato nella lista del Levitico (cfr. 23:4-14). È la prima festadel calendario ebraico (Es 12:2).

La citazione della Pasqua non è, dunque, occasionale. Essacommemora l’uscita dall’Egitto e la nascita d’Israele.

Soprattutto, la Pasqua si carica di profondi significati mes-sianici. Il sacrificio dell’agnello ricorda il Pessah, il passaggiodell’angelo sulle case degl’israeliti, asperse del sangue dell’a-gnello, e rinnova nel cuore degli ebrei, la speranza della libera-

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52 È soltanto nel capitolo 5:6 che l’Agnello è esplicitamente menzionato; ma inquel caso si tratta di un Agnello già immolato; ciò implica che la sua morte hapreceduto la scena del trono di Apocalisse 5.

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zione futura (cfr. Es 12:7,13). La proibizione a rompere le ossatrasmette il messaggio della risurrezione.53

La consumazione dei pani che non hanno il tempo di lievi-tare, i matsoth, ricordano la condizione nomade del popolo,sempre in piedi e in attesa della terra promessa (v. 11), fino ainostri giorni, il canto liturgico dell’hagada, ripetuto di genera-zione in generazione nelle famiglie ebraiche, come nella stessaGerusalemme, il profondo sospiro d’Israele, «l’anno prossimo aGerusalemme» (leshana habaah birushalayim). Anche nellatradizione cristiana, la santa Cena (o eucarestia), inaugurata daGesù durante la sua ultima Pasqua, ripete i gesti liturgici delSignore e ricorda la sua promessa: «In verità vi dico che nonberrò più del frutto della vigna fino al giorno che lo berrò nuovonel regno di Dio» (Mc 14:25).

Commenta l’apostolo Paolo: «Poiché ogni volta che mangia-te questo pane e bevete da questo calice, voi annunciate lamorte del Signore, finché egli venga» (1 Cor 11:26). E non ècerto per caso che la più antica liturgia dell’eucarestia terminacon il saluto aramaico maranatha, «il Signore viene», che rias-sume tutta la speranza dei primi cristiani.54

Le sette chieseQuesta tensione tra presente e futuro costituisce l’essenza dellasua visione profetica. Quello che Giovanni vede concerne nellostesso tempo le cose che «sono e quelle che devono avvenire inseguito» (Ap 1:19). Immediatamente, viene così data la chiaved’interpretazione delle lettere alle sette chiese. Il messaggioindirizzato alle sette chiese dell’Asia, contemporanee diGiovanni, deve essere letto come una profezia che concerne lachiesa del futuro attraverso i secoli. Un certo numero d’indizi ci

53 Nella tradizione biblica e giudaica, l’evocazione delle ossa è significativamen-te associata all’idea della risurrezione (cfr. Ez 37:1-14; 2 Re 13:21; Gb 10:11; Sal34:21; Is 66:14; Gn 50:25). Nel libro apocrifo dei Giubilei (I secolo a.C.), la proi-bizione di rompere le ossa dell’agnello pasquale è esplicitamente rapportata almiracolo della risurrezione «perché le ossa degli Israeliti devono restare integrein vista della risurrezione» (Giubilei 49:13).54 Didaché 10:6.

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Capitolo 1

permettono di andare in questa direzione. Nell’associare lesette chiese alle sette stelle che il Figlio dell’uomo tiene nellamano destra (cfr. vv. 16,20), la parola profetica proveniente dal-l’alto, ci invita a una lettura orientata verso l’avvenire.

Nel mondo antico si credeva, infatti, che le stelle reggesse-ro i destini dell’umanità; da ciò derivava l’importanza deglistudi astrali, soprattutto in Mesopotamia, al fine di predire ilfuturo. Gli autori biblici erano coscienti di questo, cosa che sitrova, per esempio, nella domanda che Dio rivolge a Giobbe:«Puoi tu stringere i legami delle Pleiadi, o potresti sciogliere lecatene d’Orione? Puoi tu, al suo tempo, far apparire le costella-zioni e guidare l’Orsa maggiore insieme ai suoi piccini? Conoscile leggi del cielo? Regoli il suo dominio di esso sulla terra?» (Gb38:31-33).

Secondo questo testo biblico è Dio che regge le stelle nellesue mani; ne deriva che egli controlla il cammino della storiaumana. Il profeta Daniele, insistendo sull’idea di Dio quale redel cielo, trasmette ai babilonesi, nutriti d’astrologia, il sensodella sua signorìa sullo spazio e sul tempo.55 Giovanni, da partesua, spinge lo sguardo oltre le chiese a lui contemporanee, finoa coglierne lo sviluppo nella storia. Il fatto stesso che ne elen-chi sette, numero simbolico nell’Apocalisse, conferma questainterpretazione. Dai tempi più remoti, il numero sette contieneun profondo valore simbolico. Presso i sumeri, i babilonesi, icananei e gli stessi israeliti, il numero sette evocava l’idea dellatotalità e della perfezione.56

Nel periodo intertestamentario, sotto l’influenza della spe-culazione pitagorica (a partire dal V secolo a.C.) l’interesse perla numerologia, e in particolare per la simbologia del sette, videla sua massima espressione.57

Ma, è soprattutto nell’Apocalisse che il numero sette vieneparticolarmente utilizzato. Basti pensare che su ottantotto cita-zioni presenti nel Nuovo Testamento, ben cinquantasei si trova-no nell’Apocalisse. In essa si menzionano sette candelieri, sette

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55 Cfr. Daniele 2:28; cfr. 2:27,44,45; Le soupir de la terre, pp. 42,43.56 Cfr. Genesi 1; Esodo 34:18; Levitico 23:36; Numeri 28:11,19,27, ecc.57 Cfr. 2 Esdra 13:1; Ecclesiastico (Siracide) 7:3; 20:12; 22:12; ecc.

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stelle, sette sigilli, sette spiriti, sette angeli, sette piaghe, settecorna, sette alture, ecc. La struttura stessa dell’Apocalisse si ar-ticola su di uno schema settenario.

Le sette chiese di cui parla Giovanni non devono esserecomprese in senso strettamente letterale. Del resto, le chiesedell’Asia erano ben più di sette. Ricordiamo Colosse e Ierapolimenzionate nel Nuovo Testamento.58 Le sette chiese rappre-sentano, essenzialmente, la chiesa nella sua totalità. Questalinea interpretativa che denomineremo «simbolico-profetica»,è, in assoluto, la più antica. Essa è attestata in un manoscrittodel III secolo d.C.59

Oltre a ciò, noteremo come il ritornello che conclude ognu-na delle lettere sembri confermare questa impostazione: «Chiha orecchie ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese».60 Le let-tere sono destinate alle chiese e ogni credente, in tutte le epo-che, potrà trarne alcuni insegnamenti.

Questa intenzione è esplicitamente rivelata nella letteracentrale (la quarta, indirizzata a Tiatiri) che contiene l’espres-sione «tutte le chiese» (Ap 2:23).

Inoltre, queste sette chiese sono state scelte, non soltanto inbase al fatto che facevano parte di un ambiente familiare aGiovanni, ma soprattutto per quello che rappresentavano sim-bolicamente. Questo metodo di trarre un messaggio profeticoda una realtà geografica non è nuovo per la cultura giudaica. Ilprofeta Michea aveva costruito tutta la sua visione del futuro suinomi delle città che sorgevano in Palestina.61

Nello stesso modo, Daniele si era ispirato alla situazionegeografica e strategica del nord e del sud, per situare la suavisione profetica.62

Lo stesso ordine cronologico nel quale sono menzionate lesette chiese, non è casuale. Alcune antiche ricerche geografichehanno dimostrato che l’autore segue un andamento circolare,

58 Colossesi 1:2; 4:13.59 Canon Muratorianus, S.P. Tregelles ed. 19.60 Apocalisse 2:7,11,17,29; 3:6,13,22.61 Michea 1:10-1662 Cfr. Daniele 11; cfr. Le soupir de la terre, pp. 238-255.

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suggerendo così, l’itinerario di un viaggiatore ideale.63 Il per-corso inizia da Efeso e prosegue per Smirne, Pergamo, Tiatiri,Sardi, Filadelfia e infine, Laodicea.

Di città in città, la profezia di Giovanni segue le fluttuazionidella storia della chiesa; dal suo inizio, periodo di cui Giovanniè contemporaneo e testimone, fino alla fine dei tempi.

All’interno delle lettere alle chiese, la progressione dei temiche le percorrono, rivela questo sguardo profetico che attraver-sa i tempi. In questo modo, la lettera alla prima chiesa, Efeso,rappresenta il punto di partenza della storia umana, con la pro-messa del giardino dell’Eden (cfr. Ap 2:7), mentre la lettera aLaodicea evoca la fine della storia con la promessa del regno diDio (cfr. 3:21).

Si nota ugualmente, dalla prima alla settima lettera, unaprogressione nell’evocazione della venuta di Gesù che si fasempre più prossima:

1. Efeso: «... colui che cammina in mezzo ai sette candelabrid’oro» (2:1).

2. Smirne: colui «... che fu morto e tornò in vita» (2:8).3. Pergamo: «Ravvediti dunque, altrimenti fra poco verrò da

te e combatterò...» (2:16).4. Tiatiri: «Soltanto, quello che avete, tenetelo fermamente

finché io venga» (2:25).5. Sardi: «se non sarai vigilante, io verrò come un ladro» (3:3).6. Filadelfia: «Io vengo presto» (3:11).7. Laodicea: «Io sto alla porta» (3:20).Ma, bisogna entrare nel cuore di queste lettere, leggerle

una dopo l’altra, dall’interno, per coglierne l’intenzione profeti-ca. Lo sguardo che esse portano sulle istituzioni cristiane non ècerto indulgente. La visione rimane attenta alle crisi che lascruteranno, tempesta dopo tempesta, rivela i retroscena di unastoria complessa e problematica.

Lo studio di queste lettere seguirà, quindi, questa improntaprofetica, per cercare di riconoscere l’avvenimento oggettodella denuncia, senza comunque negligere le lezioni prove-nienti da altri approcci esegetici. Come abbiamo già menziona-

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63 Cfr. W.M. Ramsay, The Letters to the Seven Churches of Asia, London, 1909, p. 191.

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to, le lettere alle sette chiese riguardano le chiese contempora-nee a Giovanni (interpretazione preterista) come ogni personache «ha orecchie per intendere» (interpretazione idealista osimbolica).

Certamente, le chiese dell’Asia hanno ricevuto il messaggioche era loro indirizzato; attraverso le epoche, tutti coloro chehanno letto l’Apocalisse ne hanno tratto un insegnamento par-ticolare. Tuttavia, ciò che rende il nostro presente, un po’ spe-ciale è che ci troviamo nel XXI secolo, alla fine del ciclo profe-tico. Oltre a questo, le letture preteriste e idealiste sono svan-taggiate rispetto alla lettura profetica, che si trova in una posi-zione di privilegio, perché, per la prima volta, essa può essereverificata alla luce della storia e dei fatti trascorsi.

EfesoÈ la prima tappa del viaggio provenendo da Patmos, probabil-mente, il porto più importante dell’epoca. Le sue luci sono leprime che si percepiscono dal mare. Non è dunque per caso cheEfeso è stata scelta per rappresentare la prima chiesa portatri-ce della «prima luce». L’accento posto dalla lettera è proprio suquesta caratteristica di essere «la prima». Come Daniele avevafatto partire il suo ciclo profetico dai tempi in cui viveva, eaveva identificato il regno di Babilonia con il giardinodell’Eden;64 anche Giovanni inizia il suo ciclo con un riferi-mento alla sua epoca, che associa al giardino dell’Eden: «A chivince io darò da mangiare dell’albero della vita, che è nel para-diso di Dio» (Ap 2:7).

Sono i tempi del primo amore. Efeso significa in greco«desiderabile». La passione è ancora fervente e i ricordi freschi(v. 5). Si tratta della chiesa che ha conosciuto i tempi apostolici(v. 2) e che ha appena ricevuto il passaggio della fiaccola. Èaltresì la chiesa dei primi convertiti dal paganesimo. Il conver-tito deve guardarsi dal pericolo dell’orgoglio, ricordando dadove proviene e qual era la sua condizione originale (v. 5).

È la stessa ammonizione dell’apostolo Paolo ai romani (Rm11:18). Per i cristiani di Efeso, alto luogo di Artemide, la famo-

64 Daniele 2:37,38; cfr. Genesi 1:28; cfr. Le soupir de la terre, pp. 42,43.

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sa Diana degli efesini (At 19:28), questo appello a priori è parti-colarmente gravido di senso. Gli efesini erano conosciuti per laloro superstizione, e il commercio degli amuleti era tra i più fio-renti. L’immoralità e il crimine avevano fatto piangere il filoso-fo Eraclito (576-480 a.C.), fatto che gli valse il soprannome di«filosofo piangente». È la chiesa dei primissimi tempi dell’eracristiana (circa 31-100).

Ora, questa chiesa, nonostante sia così vicina alle fontiautorevoli, è già minacciata dall’apostasia. L’andirivieni di coluiche le si rivolge, tradisce la preoccupazione del Signore (cfr. Ap2:1). Una sorta di agitazione nervosa di qualcuno che è seria-mente preoccupato. Lo stesso verbo (peripatei) è utilizzato daPietro per descrivere il comportamento di Satana.65

Ciò che sostanzialmente viene rimproverato è che il suoentusiasmo è stato un fuoco di paglia: «[Tu] hai abbandonato iltuo primo amore» (v. 4). Segue un appello pressante al penti-mento: «Compi le opere di prima» (v. 5). Questo ritorno aglislanci di prima ricorda la «teshuvah» della tradizione profetica.Questo appello si risolve in un avvertimento: «Ravvediti... altri-menti... rimoverò il tuo candelabro dal suo posto» (v. 5). La lucesarà affidata a qualcun’altro, a meno che tu non ti penta, ripetel’oracolo. Niente è definitivo.

Per quanto possa essere pura, anche la chiesa primitiva puòperdere la sua luce. Il fatto che una chiesa sia stata suscitata daDio e che essa compia i primi passi con lui non garantisce il suofuturo. La chiesa può traballare in qualsiasi momento. Puòaddirittura cadere e assistere alla rimozione del suo mandatoper essere affidato ad altri. Pesante lezione da assimilare daparte di chi difende le istituzioni a ogni costo. Il rischio dell’a-postasia, di sbagliare, esisterà sempre perché la chiesa non èDio, non è infallibile. Non basta esserne membro per assicurar-si la salvezza, parafrasando la nota proposizione: «Anche nellachiesa nulla salus».

Comunque, la lettera non resta immobile su questa nota, percosì dire, minacciosa. Nonostante alcuni passi falsi, la chiesaconserva ancora la sua integrità. Essa odia le opere dei nicolaiti

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65 1 Pietro 5:8; cfr. Giobbe 1:7 nella Settanta.

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(v. 6), questo odio è a maggior ragione lodevole, per il fatto checoincide con la passione di Dio che, anche lui, «odia».

Il male che minaccia la comunità cristiana delle originiporta i tratti dei nicolaiti. Si tratta dei discepoli di Nicola, men-zionato dal libro degli Atti (6:5) come appartenente alla chiesadi Antiochia, non lontana da quella di Efeso. Non è ben chiarose Nicola sia diventato eretico o fosse stato frainteso dai suoidiscepoli. Comunque sia, dalla testimonianza dei Padri dellachiesa sappiamo che i nicolaiti si caratterizzavano per la lorocondotta licenziosa.66 Una cattiva assimilazione della predica-zione dell’apostolo Paolo sulla legge e la grazia, li aveva con-dotti a rigettare ogni esigenza posta dalla legge di Dio. Poiché lagrazia libera dalla legge, essi credevano che il cristiano potevatranquillamente abbandonarsi alle passioni terrene.

Questa tesi era supportata da una visione antropologica for-temente dualista. Il corpo ha origine dalla materia e dal male,sfugge, quindi alle categorie dello spirito. Si può fare del corpociò che si vuole. Solo lo spirito conta. All’interno della dialetticatra la legge e la grazia, questa maniera di pensare colloca ilcorpo nell’ambito della legge, quindi viene disprezzato.L’anima, appartenente al mondo della grazia verrà, al contrario,esaltata.

Se diamo credito a questa testimonianza profetica, i primiframmenti d’apostasia hanno riguardato la legge e l’antropolo-gia. Si rigettò la legge con la scusa di accogliere la grazia, men-tre si disprezzava il corpo per esaltarne lo spirito. I primi cri-stiani resistettero a questa tentazione dualista. Per questo rice-vettero una lode dal Signore. Infatti, rigettare la legge equivalea rigettare Dio stesso, il quale si rivela e s’incarna nelle scelteetiche dell’esistenza. Rigettare il corpo significa, poi, respinge-re il Dio della creazione e della vita.

SmirneLa seconda tappa del nostro viaggio ci conduce a Smirne, di-stante una cinquantina di chilometri da Efeso. Grande agglo-merato commerciale, brillava per bellezza e ricchezza. Era

66 Cfr. Ippolito, Adv. Haereses 7.24, e Epiphane, Adv. Haereses 1.2,25.

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divenuta famosa per una delle sue strade completamente pavi-mentata in oro. Era una delle poche città antiche a essere statarigorosamente progettata e ricostruita. Fondata dai greci nel-l’anno 1000 a.C., fu distrutta dai Lidii nel 600 a.C. e cancellatadalla carta geografica dell’epoca.

Fu ricostruita quattrocento anni dopo da Lisimaco, uno deicomandanti di Alessandro Magno. Il miracolo della sua rinasci-ta era ancora presente nella mente di tutti. Non a caso, parlan-do di Smirne, l’Apocalisse parla, appunto, di morte e di risurre-zione. L’autore della lettera si proclama come colui che è pas-sato dalla morte alla vita (cfr. 2:8) I destinatari della lettera sonoessi stessi candidati alla morte, ma a loro viene promesso solen-nemente che torneranno a vivere (vv. 10,11). Il nome di Smirnederiva, del resto, da «mirra», una resina utilizzata per imbalsa-mare i morti; l’allusione si carica di un significato funesto.

Al di là del richiamo alle origini della città di Smirne, la let-tera evoca l’epopea tragica dei martiri cristiani che perseguita-ti, uccisi, incarcerati, rimasero fedeli fino alla morte. I loronemici non erano solo la prigione e la morte, ma anche la mise-ria e la povertà. Il cristianesimo non aveva ancora raggiunto lacondizione di ricchezza che esibirà più tardi, quale presuntosegno del favore divino. Siamo nell’epoca in cui essere cristianinon implica la benedizione materiale e il successo economico.È l’epoca della sconfitta. Convertiti delle classi più basse dellasocietà, i primi cristiani non facevano certo bella figura nellaricca città di Smirne. Essi era attaccati da ogni parte, dall’inter-no, come dall’esterno.

È il tempo delle persecuzioni (100-313 d.C.). Per i pagani,ogni pretesto era buono. Essi accusavano i cristiani di canniba-lismo a causa del rito della santa Cena, che simboleggiava ilcorpo e il sangue di Gesù. Giravano voci su presunte orge ses-suali, che avrebbero avuto luogo durante le agapi, dove si cele-brava l’amore fraterno. Si rimproverava loro di essere atei per-ché adoravano un Dio invisibile. Lo stato diffidava dei cristiani,mettendo in dubbio la loro lealtà politica a causa del fatto cherifiutavano di chiamare Cesare, loro «signore». Si diceva checredessero alla fine del mondo attraverso il fuoco. Fu naturaleaccusarli di essere incendiari per vocazione. Nerone, dal cantosuo, non perse l’occasione per sfruttare la diceria. Veri e propri

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«paria», i primi cristiani avevano tutto per attirarsi l’odio e il dis-prezzo dei contemporanei. Per di più, venivano assimilati aigiudei, la cui religione era impopolare e disprezzata. I cristianierano, tra le altre cose, vittime dell’antisemitismo dell’epoca.

Sul versante ebraico le cose non andavano molto meglio.Non si vedeva di buon occhio questi seguaci di un messia giàvenuto e andato via. Alcuni giudei reagirono con tutte le forzecontro questa «nuova setta». Saulo da Tarso, colui che sarebbediventato l’apostolo Paolo, ne è un chiaro esempio.67 La letteraa Smirne li qualifica come calunniatori e si limita a notare cheessi non sono dei veri ebrei, «dicono di essere giudei» (Ap 2:9).Questo linguaggio è assai significativo. Testimonia del fatto chei primi cristiani si consideravano ebrei a tutti gli effetti. Negliambienti cristiani, oggi, l’accusa suona come un «voi non sietedei veri cristiani, siete una chiesa di Satana». In quel tempo, icristiani si sentivano più vicini agli ebrei che non ai pagani.L’antisemitismo cristiano non era ancora nato. Gettati in prigio-ne o in pasto ai leoni dai pagani, calunniati dai fratelli ebrei, icristiani si trovavano a essere i diseredati della terra.

La persecuzione s’intensificò, soprattutto, sotto il regno diDiocleziano che gli storici chiamano «l’era dei Martiri».68 Conun editto del 303, l’imperatore ordinò che «le comunità cristia-ne fossero sciolte, le loro chiese demolite e i manoscritti biblicibruciati».69 Un gran numero di cristiani pagarono la loro fedel-tà con la vita. Molti furono resi schiavi.

I nomi di alcuni di loro sono ricordati dalla chiesa cattolicacome oggetto di particolare venerazione. San Sebastiano, unufficiale, fu legato a un albero e trapassato da un centinaio difrecce. Santa Cecilia, patrono della musica sacra. Santa Agnese,morì tra le fiamme. L’ultima di queste grandi persecuzioni ebbefine nel 311 e, finalmente, nel 313, l’imperatore Costantino pro-mulgò un editto che concedeva ai cristiani il diritto di ricostrui-re le loro chiese e di praticare il loro culto in tutta libertà. È

67 Cfr. Atti 7-9.68 Cfr. P. Auge, «Diocleziano», in Larousse universel, 1948, p. 551.69 C. Grimberg, Histoire universelle, vol. 3, Roma, L’Antiquité en Asie orientale eles grandes invasions (Marabout université), Verviers, 1963, p. 284.

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interessante notare come questa ondata di persecuzioni duròdieci anni, esattamente come predetto dalla lettera a Smirne(cfr. Ap 2:10), se si applica il principio profetico dell’equivalen-za di un giorno uguale a un anno.70 Ma siamo, comunque, difronte a un linguaggio profetico.

Nella tradizione giudaica e biblica, il numero dieci è spessoutilizzato nel senso spirituale, per tradurre l’idea della verifica,della prova. Ricordiamo Daniele, sottoposto a una prova di diecigiorni (cfr. Dn 1:14-15).

Questo simbolismo è presente anche nel calendario ebraico.Dieci giorni separano Rosh hashanah, la festa delle trombe, dalKippur, il giorno del giudizio; un tempo concesso agli ebrei perprepararsi al giorno dell’espiazione. La Mishna riprende lo stes-so schema e si riferisce alle dieci generazioni che intercorronoda Adamo fino a Noé, da Noé ad Abramo. Dieci sono le proveattraversate da Abramo, dieci le piaghe d’Egitto. Si può dedurreche il numero dieci segni nel tempo, il ritmo della prova.71 Unaprova, appunto. La parola è già, in sé, portatrice di speranza.Annuncia che all’orizzonte si profila la ricompensa. La sconfittae la morte non avranno l’ultima parola. La corona del vincitore,stephanos, è riservata a questi martiri della fede (Ap 2:10).

Si intravede, nel testo, come un sorriso ironico. Falciatidalle spade dei gladiatori, essi riceveranno la corona dei vinci-tore. Morti, riceveranno «la corona della vita» un’immaginespesso rappresentata sui monumenti funerari dell’antichitàgreco-latina72 per rappresentare la vittoria sulla morte.

Il testo, tuttavia, non promette l’immortalità dell’anima,tanto cara alla filosofia greca e che finirà per trovare il suo cam-mino nelle tradizioni giudeo-cristiane. Il testo vuol dire preci-samente che, essi non saranno colpiti «dalla morte seconda» (v.11). Nella Bibbia, quest’espressione si trova unicamentenell’Apocalisse.73

Altrove è presente nella letteratura rabbinica e, in partico-

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70 Cfr. Le soupir de la terre, pp. 205,206.71 Aboth 5:1-972 F. Cumont, Etudes Syriennes, p. 63ss.73 Apocalisse 20:6,14; 21:8.

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lare, nel Targum.74 Nei passi in questione, la «seconda morte»designa l’estinzione definitiva del malvagio, priva della speran-za della risurrezione. In seguito, il verso di Apocalisse 20:6 chia-risce l’argomento parlando di due risurrezioni. La prima,riguarda i giusti alla venuta di Gesù Cristo in gloria e maestà; laseconda, i malvagi. Solo la prima risurrezione introduce nellavita eterna. La seconda, al contrario, porta alla morte eterna. Indefinitiva, tutti dovranno morire, ma solo i malvagi morirannouna seconda volta.75 La promessa formulata ai martiri diSmirne che non moriranno una seconda volta, equivale all’a-pertura dell’orizzonte della speranza nella risurrezione, quellache conduce alla vita eterna. Le concezioni dualiste dell’epocasono spazzate via.

Per la Bibbia, il superamento della morte non si compieattraverso l’immortalità dell’anima. Solo il miracolo della risur-rezione, la quale implica la totalità dell’individuo, permettel’accesso alla vita eterna.

PergamoIl viaggio prosegue verso nord, a circa trentacinque chilometrida Smirne. La città di cui parleremo si ergeva superba e mae-stosa su di un’altura e merita ampiamente il nome che porta,Pergamo, che significa «cittadella», «città gloriosa». Fuori dallegrandi arterie dei traffici commerciali, essa non era meno con-siderata delle grandi città dell’Asia. Il geografo greco Strabone(58 a.C.- 25 d.C.) la definisce «la città illustre», lo storico roma-no Plinio (23-79 d.C.) la considera «la più famosa d’Asia».

Pergamo aggiungeva alla sua fama di capitale politica, unasolida reputazione culturale e religiosa. Vi si fabbricava anchela pergamena da cui trae il nome. Con i suoi duecentomila roto-li, la biblioteca cittadina rivaleggiava con quella di Alessandria.La città era celebre per la sua vita religiosa. I suoi ospedali esuoi templi dedicati a Esculapio, dio della guarigione, attirava-

74 Targum di Geremia 51:39,57; cfr. Targum del Deuteronomio 33:6 e d’Isaia22:14; 65:6, ecc. 75 È probabilmente a questi due tipi di morte e di risurrezioni che Daniele faallusione (12:29).

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no ogni anno migliaia di pellegrini, fenomeno testimoniato dal-l’immensa varietà di monete rinvenute dagli scavi archeologici.

La città di Pergamo riflette la situazione della terza chiesanella storia. Al contrario delle precedenti, Pergamo si caratte-rizza per il successo e la gloria. I cristiani non sono più oggettodi disprezzo. L’era dei martiri sembra tramontata. Vi si fa riferi-mento come a un epoca trascorsa (Ap 2:13). Questo è il tempodella prosperità e dell’istituzionalizzazione.

Questo successo ha un costo. La lettera denuncia una prati-ca che ricorda le azioni di Balaam, profeta pagano al serviziodel re moabita che aveva spinto Israele al sincretismo.76

Balaam, nome che significa, «divorare il popolo», avevacompreso che il modo migliore per «divorare» e neutralizzare ilpopolo d’Israele era di portarlo al compromesso. Ancor più chela persecuzione e la morte, l’introduzione di elementi estraneinell’assemblea d’Israele, riuscì quasi a distruggere questo testi-mone di Dio.

Il compromesso con il male si rivelò quasi più letale dellacompleta iniquità. Infatti, è più facile riconoscere il nemico, fintanto che resta al di fuori delle mura. Ma, quando egli s’infiltranelle file del popolo di Dio, la sua identificazione è assi più dif-ficile e la sua eliminazione molto delicata.

Questa era la situazione della chiesa che stiamo conside-rando. Per la prima volta, il paganesimo e l’errore si mescolanoalla testimonianza della verità. Si nota un’evoluzione rispettoalla chiesa di Efeso. La prima chiesa ricevette la lode delSignore perché «odiava» i nicolaiti. Ora, essi si trovano in mezzoa loro: «Così anche tu hai alcuni che professano similmente ladottrina dei nicolaiti» (v. 15). All’azione di Balaam, divoratoredel popolo, si unisce quella dei nicolaiti, il cui nome significa «ilconquistatore del popolo». In questi due nomi traspare lo stessopericolo per il popolo di Dio.

La storia mostra, in effetti, che in questo periodo ebberoluogo molti compromessi. Per rafforzare le sue basi politiche, lachiesa divenne morbida e permeabile; essa fece alleanza anchecon il potere politico. I decreti imperiali promulgati in questo

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76 Numeri 25:1-5.

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periodo riflettono le nuove tendenze della chiesa. Un esempiotra gli altri: il riposo domenicale, giorno del sole per romani,prende il posto del riposo sabatico, giorno ordinato dal Diod’Israele e osservato dai primi cristiani. Questo fatto emergenettamente nel decreto di Costantino al concilio di Laodicea:«Che i cristiani non si comportino come gli ebrei osservando ilgiorno del sabato. Che tutti i giovani, le popolazioni delle città etutte le categorie di lavoratori cessino le loro attività nel giornovenerabile del sole (domenica)» (Canone 29 del concilio diLaodicea).77

La tendenza al compromesso, tipica di quest’epoca, fumessa in risalto anche dal profeta Daniele in due riprese; nellavisione della statua e in quella dei quattro animali. Nella visio-ne della statua (Dn cap. 2), la chiesa era rappresentata dall’ar-gilla, simbolo della dimensione spirituale e religiosa, mescola-ta con il ferro, simbolo del potere politico.78 Nella visione deiquattro animali, essa appare nella forma di un corno, simbolodel potere politico, con un volto umano, simbolo della dimen-sione spirituale.79

Nell’appello al pentimento, lanciato alla chiesa di Smirne,ritroviamo lo stesso rimprovero. La spada a due tagli che escedalla bocca del Figlio dell’uomo (Ap 2:16) rappresenta la paro-la di Dio che giudica e che separa la verità dall’errore. La pro-messa come ricompensa per la vittoria, la «manna nascosta» ela «pietruzza bianca» (v. 17), riflettono la stessa preoccupazione.L’evocazione della manna è associata al ricordo dell’Esodo,nella prospettiva della terra promessa. Questo pane caduto dalcielo e mandato da Dio80 diviene un segno di speranza.

Secondo un’antica leggenda ebraica, alla caduta di Geru-salemme e alla distruzione del tempio, nel VI secolo a.C., il pro-feta Geremia si sarebbe affrettato a nascondere il vaso dellamanna, conservato nell’arca dell’alleanza.81 Sarà solo alla venu-ta del Messia e del suo regno che verrà ritrovato e se ne potrà

77 W. Rordorf, Sabbat et dimanche dans l’Eglise ancienne, p. 49.78 Cfr. Le soupir de la terre, pp. 48-53.79 Ibidem, pp. 149-160.80 Esodo 16:15; Salmo 78:25.81 Esodo 16:33,34; Ebrei 9:4.

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mangiare di nuovo.82 Secondo questa tradizione, l’identità deglieletti sarà rivelata solo nell’ultimo giorno. Per il momento, essinon s’identificano necessariamente con la comunità visibiledella chiesa.

È la stessa lezione contenuta nel simbolo della pietruzzabianca sulla quale è scritto un «nome nuovo» (v. 17). Il riferi-mento alla pietruzza bianca s’ispira alla procedura dei tribuna-li greco-ramani. Dei sassolini bianchi e neri erano usati dai giu-rati dell’epoca per indicare il loro verdetto. Il bianco significavaassoluzione e il nero condanna. Ricevere una pietruzza biancaequivaleva a una dichiarazione di salvezza.

Quanto al nome nuovo donato da Dio, esso è il marchiodella nuova nascita che proviene dall’alto, il segno di un nuovocammino. Così, Abramo fu chiamato Abraamo per annunciarela promessa di un popolo numeroso.83 Giacobbe divenneIsraele, per indicare il nuovo destino che lo attendeva: quello dilottare con Dio.84

Anche i luoghi possono seguire lo stesso itinerario spiritua-le. Gerusalemme ricevette il nome di «l’Eterno nostra giustizia»,come caparra dell’eterna presenza di Dio tra il suo popolo.85

Nello stesso modo, l’eletto di Pergamo riceve un «nome nuovo»situato al di là di ogni comprensione umana. Si tratta di unnome che nessuno può conoscere (v. 17).

La Bibbia e la tradizione ebraica parlano in modo concordesul nome impronunciabile di Dio e impossibile da racchiuderein un’unica formula.86 D’altronde è la stessa spiegazione data dauna lettera successiva: «Chi vince io lo porrò come colonna neltempio del mio Dio, ed egli non ne uscirà mai più; scriverò sudi lui il nome del mio Dio e il nome della città del mio Dio edella nuova Gerusalemme che scende dal cielo...» (3:12).

Quel nome nuovo non è altri che il nome di Dio stesso,

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82 Mekhita 16:25; cfr. 2 Baruch 29:8; Hagigah 12b.83 Genesi 17:5.84 Genesi 32:28.85 Geremia 33:16.86 Cfr. Esodo 3:13-15; Genesi 32:29,30; Giudici 13:17,18; da cui deriva la proibizionea pronunciare il nome di Dio (crf. Talmud di Babilonia, Kid 71a; M. Sanhedrin 10:1).

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nome che si confonde con quello della nuova Gerusalemme.Ritroviamo la stessa equazione nel cuore dell’Apocalisse. Glieletti di Dio, i cittadini della nuova Gerusalemme, i centoqua-rantaquattromila, riceveranno un nome che s’identifica con ilnome di Dio (cfr. 14:1; 22:4).

All’inizio della lettera, i pionieri ancora fedeli, erano statidesignati come coloro che erano rimasti fedeli al nome di Dio(2:13). In seguito viene precisato che il rimanente della chiesadi Pergamo riceverà il nome di Dio. Il popolo di Dio è chiamatoa diventare, per gli altri, il segno visibile del Dio invisibile. Ilnome Antipa, spiega questa esigenza, significando, appunto,«rappresentante del Padre». La vocazione del figlio è di portareil nome del padre e di rappresentarlo in sua assenza. Si com-prende allora perché questo nome è conosciuto solo da chi loporta. Se l’eletto di Pergamo è il solo a conoscere il nome cheDio ha inciso sulla pietruzza, ciò è dovuto al fatto che egli intrat-tiene con Dio, una relazione personale. Questa condizione svelala natura di questi eletti: sono nascosti a tutti. Nell’epoca diPergamo, la chiesa visibile comincia a perdere la sua identità ela sua vocazione. Essa sta perdendo il nome di Dio.

TiatiriOra, la lettera ci spinge ad andare verso est; a circa cinquanta-cinque chilometri da Pergamo. Tiatiri è la città di gran lungapiù insignificante delle sette. Plinio la descrive come mediocre.

Tuttavia, sarà quella che riceverà il messaggio più lungo earticolato. Riceverà, anche, le accuse più ardenti. Pochissimiapprezzamenti (cfr. 2:19)e una lunga invettiva che occupa quasitutta la lettera (vv. 20-27).

Mentre le prime chiese si tenevano a una certa distanza dalmale, dopo Pergamo si stabilisce una nuova tendenza. Se, aPergamo il male aveva un suo posto, a Tiatiri imperava, gover-nava la chiesa stessa.

A Pergamo, l’apostasia era stata rappresentata dai tratti diun profeta pagano, Balaam, la cui influenza si esercitava a par-tire dall’esterno. A Tiatiri, l’apostasia regna. Essa si presentasotto il segno di Jezabel (v. 20). Regina menzionata dall’AnticoTestamento era sposa di Achab, re d’Israele. Di origine fenicia,era figlia di Ethbaal, re di Sidone (1 Re 16:31), il quale, secondo

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la tradizione, era sacerdote del culto di Baal e Astarte.87 LaBibbia la ricorda come una sovrana potente che riuscì a trasci-nare il marito e il popolo intero, al culto di Baal. Alla sua tavolasedettero quattrocentocinquanta profeti dell’idolo cananeo. Ilsuo zelo pagano la condusse a perseguitare il profeta Elia e tutticoloro che volevano restare fedeli a YHWH. L’influenza diJezabel si estese anche sulle generazioni successive, fino allafamosa Athalia.88

Il ritratto di Jezabel rivela il carattere della nuova chiesa.Ormai, l’apostasia è ufficialmente insediata, e nei seggi più alti.Si fonde con il potere stesso della chiesa. Siamo nell’epoca incui la chiesa si struttura come un’istituzione politica a caratte-re monarchico (VI sec.). Non è per caso che la città di Tiatiri furinomata per la porpora che produceva; colore della regalità89 edel sacerdozio.90 Ricordiamo Lidia di Tiatiri, la quale viveva conil commercio della porpora.91

Tiatiri era anche la città dedicata al culto di Tyrimnos (diodel sole), che sarebbe diventato in seguito, il culto dell’impera-tore romano. Con un accenno ironico, l’emissario della letterasi presenta a Tiatiri come un personaggio radioso, dagli occhi difuoco e dai piedi in rame rovente. Questo, allo scopo di far risal-tare, per contrasto, il pallore del dio sole venerato da Tiatiri edenunciare la sua presuntuosa vanità. Lo stesso messaggioviene ribadito alla fine della lettera. La verga di ferro che pasce-rà le nazioni è posta nella mano di Dio, Padre e Figlio.L’espressione è presa dal Salmo 2:8,9, un salmo messianico cheprofetizza l’autorità del Messia Re, avente autorità sulle nazionidi tutta la terra. L’autorità di Jezabel è dunque usurpata.Purtroppo, quello fu il tempo dell’usurpazione dell’autorità divi-na da parte della chiesa.

L’accusa è grave. Ed essa ci riguarda tutti. Tutte le chiese(2:23) sono interpellate dalla lettera. Quella tentazione le

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87 Cfr. Giuseppe Flavio, Antichità, VII. XIII 2.88 2 Re 8:18,26; 10:11.89 1 Maccabei 8:14; Omero, Iliade, 4:141-145.90 Esodo 25:4; 28:5,6; 39:29; Giuseppe Flavio, Guerra, 5:5.91 Atti 16:14,15,40.

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minaccia tutte. Accade, talvolta, che il testimone di Dio dimen-tichi e alla fine sostituisca l’oggetto della sua testimonianza conla sua stessa persona. È il rischio presente in tutte le religioni ein tutti i profeti. La tradizione, le istituzioni prendono il soprav-vento sulla verità che le aveva legittimate. Ogni testimone diDio corre il rischio di usurpare la posizione che compete solo alSignore. Ogni volta che questo succede, l’intolleranza, la perse-cuzione, i massacri prendono piede.

Il regime di Jezebel si è distinto per queste atrocità com-messe ai danni del popolo fedele a YHWH. Lo stesso volto tragi-co si manifesta nella chiesa di Tiatiri, la chiesa-istituzione delmedioevo che inizia la sua storia nel 538, quando la minacciadell’eresia ariana era stata debellata,92 per finire nel 1563 con ilconcilio di Trento. L’inquisizione, le crociate, gli eccidi: mainella storia dell’umanità l’intolleranza religiosa ha raggiuntolivelli d’intensità e di durata come in questo periodo. Si com-prende l’ira di Dio e l’annuncio del suo giudizio, «una grandetribolazione» (v. 22). La chiesa pagherà cara la sua intolleranza.Ancora oggi, si parla di quell’epoca.

Occorre osservare, comunque, che non sono gl’individuiappartenenti a Tiatiri a essere esaminati dalla lettera; l’oggettodell’attacco rimane la chiesa istallata al potere, la chiesa usur-patrice dell’autorità di Dio. A Tiatiri ci sono ancora uomini edonne rimasti fedeli. Essi non hanno «conosciuto le profonditàdi Satana» (2:24).

Siamo di fronte a una espressione idiomatica costruita percontrapposizione con il passo di 1 Corinzi 2:10. Nel testo paoli-no si parla di coloro che fondano la loro ispirazione sullo Spiritodi Dio, piuttosto che sulla «saggezza umana» (v. 5).

Come ai tempi di Jezabel, c’è chi non ha «piegato le ginoc-chia» (1 Re 19:18) e resta fedele allo Spirito che proviene dal-l’alto. La lettera riconosce queste eccezioni che non esita a met-tere in risalto. Siamo di fronte, paradossalmente, a una chiesaparticolarmente virtuosa. Sono quattro le qualità attribuitele:l’amore, la fede, il servizio fedele e la costanza (cfr. Ap 2:19).Inoltre, questa chiesa segna un progresso in rapporto alle opere.

92 Cfr. Le soupir de la terre, p. 266.

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A Efeso era stato rimproverato di aver dimenticato le opere diprima (cfr. 2:5). Tiatiri, al contrario, presenta opere più nume-rose delle precedenti (cfr. v. 19). Parliamo del periodo della sto-ria della chiesa in cui visse Francesco d’Assisi, S. Luigi, fonda-tore di scuole, dei primi ospedali e di numerose università.Questa è l’epoca dei primi appelli al ravvedimento. Pensiamo aPietro Valdo (1140-1217) in Italia, a John Wyclif (1320-1384) inInghilterra, a Jan Hus (1369-1415) in Boemia. Per finire conMartin Lutero (1483-1546) in Germania. Tutti questi uomini emovimenti controcorrente sono incoraggiati dalle parole:«Quello che avete, tenetelo fermamente finché io venga» (v. 25).

Non è facile rimanere in piedi quando la folla ti spinge con-tro. Non è facile pensare, amare in un tempo d’intolleranza eoscurantismo. La sola consolazione resta la speranza, la sicu-rezza che presto le tenebre saranno dissipate. È il messaggiocontenuto nella promessa della «stella del mattino» (2:28), l’ul-tima stella che annuncia la fine della notte e il sorgere del sole.

SardiA circa quarantacinque chilometri a sud di Tiatiri, la città diSardi si stende a due livelli, da cui il nome declinato al plurale(sardeis in greco). Originariamente, la città sorgeva su di unaltipiano a millecinquecento metri d’altezza; in seguito, si este-se sui pendii e nella vallata. Dal primo sguardo, la topografia diSardi testimonia della decadenza che ha segnato la sua storia.

Sardi è il perfetto esempio del contrasto tra un passato digloria e la miseria del presente. All’epoca di Giovanni, Sardipoteva vivere solo di ricordi. Cinque secoli prima era annove-rata tra le città più prestigiose del mondo.

Il ricchissimo Creso era stato il suo ultimo sovrano (560-546a.C.). Sotto il suo governo la città cadde nelle mani di Ciro.Sicuro di sé, corrotto e infiacchito da uno stile di vita edonisti-co, Creso fu preso alla sprovvista. Quando i soldati di Ciro giun-sero alla sommità della collina, trovarono una città completa-mente aperta e offerta all’aggressore.

Nel tempo che seguì la disfatta, Sardi perse ogni indipen-denza e divenne il fantasma si se stessa. La fiera cittadella diuna volta, che aveva sfidato e impressionato Ciro era stataridotta a un antico monumento, atto a nutrire la nostalgia dei

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suoi abitanti, ricordando loro il prezzo doloroso che si devepagare quando si manca di vigilanza.

Le esortazioni presenti nella lettera s’ispirano al drammavissuto da questa città. La dominante è quella del ricordo:«Ricordati dunque come hai ricevuto e ascoltato la parola, con-tinua a serbarla e ravvediti» (Ap 3:3) I numerosi echi con la let-tera a Efeso lasciano intendere una sorta di movimento di ritor-no verso questa prima tappa della storia del cristianesimo. Ilmittente si qualifica nello stesso modo, «colui che ha… le settestelle» (Ap 3:1; cfr. 2:1). È anche la sola chiesa, con Efeso, allaquale è concesso di «avere». Nel cuore stesso delle accuse rivol-te, nelle due lettere si comprende che, nonostante tutto, questedue chiese «hanno» qualcosa. Lo stesso termine greco alla (tra-dotto «tuttavia» in Ap 2:6; 3:4), introduce elogi che s’intersecanocon rimproveri. Entrambe ricevono la stessa promessa di vita.«L’albero della vita» a Efeso (2:7), «il libro della vita» per Sardi(3:5). Entrambe anticipano un incontro festoso, un banchettocon Dio. Nella lettera a Efeso il banchetto è evocato attraversola consumazione dell’albero della vita (2:7), mentre, nella lette-ra a Sardi si parla di vesti bianche (3:4,5). È evidente che gliabiti bianchi simbolizzano la purezza, come indicato dal conte-sto: «Essi non hanno contaminato le loro vesti» (3:4). Ma, laveste bianca è ugualmente associata alla festa e alla cena che lacelebra (cfr. Ec 9:8). Vestirsi con un abito bianco equivale amettersi nel clima della festa, significa anticipare le delizie delbanchetto con il Signore. La chiesa di Sardi segna, nella storiadel cristianesimo, un movimento di ritorno alle fonti. È il tempodella Riforma. Le antiche verità sono riscoperte. Si ritorna almessaggio originale della Bibbia, a ciò che si è «ricevuto e udito»(Ap 3:3). La parola di Dio diventa nuovamente l’oggetto dellostudio da parte dei credenti. Le menti si aprono e si ritrova ilgusto per gli studi. I riformatori valorizzano l’accesso diretto allefonti della rivelazione. Non si dipende più dal sacerdote o dallatradizione per comprendere la parola di Dio. Lo studio del grecoe dell’ebraico (lingue usate nella Bibbia) torna a essere qualco-sa d’importante, se non d’indispensabile. Questa è l’epoca delleprime grammatiche ebraiche.

Ma, molto presto il movimento si sclerotizza. Anche in que-sto caso la chiesa produce la sua tradizione e il suo proprio

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credo. La preoccupazione dell’ortodossia, che predomina nellascolastica protestante, prende il posto della relazione personalecon Dio e con l’impegno nella vita. Si ricade talvolta nell’intol-leranza. Anche i protestanti hanno conosciuto inquisitori e pro-cessi. Calvino condannò al rogo studiosi come Michel Servet,che osavano distaccarsi dalle sue vedute. Lutero s’infiammò incrociate anticattoliche e antigiudaiche, abbandonando alladistruzione schiere di oppositori. Anche allora furono commes-si dei crimini in nome di Dio. La chiesa protestante, al pari diquella cattolica, s’installò al potere, cercando riconoscimenti. Inaltre parole, si dimenticò quello che si era scoperto, per ricade-re negli errori contro i quali ci si era ribellati.

«Coloro che non si ricorderanno delle lezioni della storia,saranno condannati a riviverne gli errori». Non fu mantenuta lavigilanza dei primi tempi. I guardiani della città ne hannoabbandonato le porte. Si comprende, allora, il tono di costanteappello alla vigilanza che caratterizza la lettera a Sardi. «Siivigilante» (Ap 3:2), «se non sarai vigilante, io verrò come unladro» (v. 3).

Gli appelli schiaffeggiano Sardi a colpi d’imperativi. «Siivigilante, sii fermo, ricordati, custodisci, pentiti». Il motivo diqueste espressioni risiede nella rilassatezza di questi credentiche, al pari degli abitanti di Sardi, dopo la lotta, si erano seduti.

Ma, sospira l’autore della lettera, non tutti sono in quellostato. C’è chi non ha contaminato le sue vesti (cfr. v. 4). Ancorauna volta, si tratta, però, di una minoranza. La nozione di«rimanente» è profondamente radicata nella Bibbia. Da Seth, ilterzo figlio di Adamo, ai costruttori del tempio sotto la guida diEsdra e Neemia, passando dai patriarchi Abraamo, Isacco eGiacobbe, per i profeti come Elia, e tutti i fedeli a YHWH che nonhanno piegato le ginocchia davanti a nessun vitello d’oro, la sto-ria sacra presenta sempre uomini che sono sopravvissuti all’in-fedeltà. Un rimanente resterà.

Questa promessa risuonò anche ai tempi del profeta Isaia, ilquale la rese indelebile nel nome di uno dei suoi figli, Sear-Jasub (cfr. Is 7:3), sarebbe stato un segno per un popolo spiri-tualmente assopito. Anche Giovanni gioca sul nome di Sardi pertrasmettere, attraverso un’allitterazione, il suo appello al risve-glio (sterison) di un rimanente (Ap 3:2). Nel nome della città si

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avverte, imperiosa, l’esigenza e il dovere di salvare una mino-ranza in via di estinzione.

FiladelfiaA soli quarantacinque chilometri a est di Sardi, Filadelfia, portale tracce del suo passato sconvolto dai terremoti. La grande pia-nura vulcanica che rivela, nel nome, la sua storia: katakaume-na (terra bruciata). La città fu fondata durante il regno di AttaloII (159-138 a.C.) da coloni provenienti da Pergamo, desiderosidi propagare la lingua e la cultura greca. Il nome deriva dalsentimento assai vivo, nutrito dal re per il fratello Eumene.

Filadelfia significa appunto: «amore fraterno». Non è il solonome posseduto dalla città. In onore di Tiberio, che fornì ingen-ti aiuti per la ricostruzione a seguito del terremoto, essa preseil nome di Neocesarea (la nuova città di Cesare). In seguitocambierà ancora in Flavia, per gratitudine verso l’imperatoreomonimo. La lettera riflette questa storia tormentata. Anche inquesto caso, per costruire il suo messaggio, la profezia si basasu dati storici. Come la città, anche la chiesa è stata fondata dacoloni. Questo è il tempo delle missioni oltre le frontiere euro-pee, in Africa, in Asia, nel Nuovo Mondo (dalla fine del XVIII alXIX secolo). Un tempo nel quale il cristianesimo sembra vivereuna stagione nuova, forse caratterizzata da alcune ingenuità,ma sicuramente zelante e pieno della speranza delle origini.«Pur avendo poca forza, hai serbato la mia parola e non hai rin-negato il mio nome» (Ap 3:8).

Gli eletti di Filadelfia, camminano sul sentiero tracciato dalrimanente di Sardi che ha custodito la parola, ed è andato ancheoltre. Mentre la lettera a Sardi incoraggiava a «custodire» (3:2),la lettera a Filadelfia riconosce la perseveranza dei fedeli, iquali «hanno custodito» (vv. 8,10).

Siamo a uno stadio più avanzato. L’opera iniziata a Sardi siè compiuta a Filadelfia. A Sardi, la venuta del Signore è parago-nata a quella di un ladro. Non è attesa. A Filadelfia, questa atte-sa è, invece, impaziente: «Io vengo presto» (v. 11). L’alleanzacon Dio, viene ora rinnovata. La promessa contenuta nella let-tera ricorda lo stile del Salmo 23. I nemici sono convocati perriconoscere che «io ti ho amato» (3:9; cfr. Sal 23:5). La recipro-cità dell’alleanza e dell’amore è resa dall’eco esistente tra i due

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verbi: «Tu hai custodito», «io ti custodirò» (Ap 3:10). È la formu-la utilizzata dai profeti: «Tu sarai il mio popolo e io sarò il tuoDio».93 La stessa dichiarazione d’amore «il mio amico e mio, eio sono sua» è presente nel Cantico dei cantici (2:16; 6:3; 7:11).Questa relazione d’amore esclusiva e rinnovata è descritta nelnome stesso della città. Filadelfia significa «amore»; essa riceve,come l’antica città greco-romana, il nome del suo maestro, lostesso nome di Dio, fino a confondersi con il nome della nuovaGerusalemme che scende dal cielo (Ap 3:12).

La chiesa trova la sua identità specifica nella speranza delregno di Dio. Probabilmente, è il momento storico nel qualel’attenzione per la venuta del regno di Dio raggiunge il puntopiù alto. Negli Stati Uniti come in Germania, in Scandinavia, inFrancia, Svizzera e Olanda, folle intere di credenti sono coltedalla stessa impaziente attesa del ritorno di Cristo. Uno storicodell’epoca, John McMaster (1852-1932) riferisce che «quasi unmilione di persone su diciassette che popolavano gli Stati Uniti,seguirono il movimento di risveglio, tra i quali un migliaio dipastori».94 L’attesa è così intensa che alcuni credono di discer-nere nella loro epoca, il momento in cui si compie la profezia.Viene perfino identificata una data: il 1844.

Quello che stupisce è che la stessa febbre circola in ambien-ti ebraici e musulmani. Tra i primi, sorge il movimento hassidi-co, nel cuore stesso dell’Europa, che aspetta la venuta delMashiah per l’anno 5603 (1843-1844).95 I musulmani bahaigiungono alla stessa conclusione. Essi prevedevano per l’anno1160 (1843-44) l’apertura della bab, porta che introduce allaconoscenza dell’imam nascosto, incarnazione del messia.96

Anche tra i laici sorgono movimenti, come il marxismo, chesi richiamano all’idea di progresso e rivoluzione, in vista di unanuova era. È un’epoca di forti speranze che pervadono il mondointero. Questo tratto caratteristico emerge ancora meglio,ascoltando la promessa contenuta nella lettera indirizzata a

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93 Esodo 6:7; Geremia 24:7; 30:22; 31:33; 32:38; Ezechiele 36:28, ecc.94 R. Lehmann, Les adventistes du septième jour, p. 14. 95 Machiah Maintenant 46, 30 gennaio 1993, p. 3.96 Cfr. C. Cannuyer, Les Bahaiis, p. 11.

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questa chiesa: «Ti ho posto davanti una porta aperta che nessu-no può chiudere» (Ap 3:8). Questa immagine della porta apertaverrà chiarita maggiormente nel capitolo seguente (4:1), allor-ché si parla di una porta che si apre anche sul trono di Dio.

La «porta aperta» possiede, dunque un duplice significato.Essa rappresenta l’apertura di nuovi orizzonti nella propagazio-ne del messaggio del Vangelo.

Il XIX secolo è stata l’epoca in cui l’opera missionaria dellachiesa ha conosciuto la massima espansione. Ma, un’applica-zione non secondaria della nozione di «porta aperta» si trovaanche nell’esplosione della ricerca biblica e profetica. Grazie aquesto rinnovato interesse, molti scoprirono verità inerenti ilpiano della salvezza e realtà di ordine celeste. Ebbe inizio unstudio profondo dell’opera attuale di Cristo Gesù nel cielo. Iltempo della chiesa di Filadelfia, sottolineato dalla porta apertasulla terra, come nel cielo, si evidenzia anche come il tempodell’attesa e della speranza. Riprende vita l’annuncio della libe-razione del mondo.

LaodiceaDopo Filadelfia, il profeta dell’Apocalisse ci trasporta a cin-quanta chilometri verso sud, a Laodicea, l’ultima tappa delviaggio. È il tempo in cui viviamo; è la chiesa di oggi, qualun-que sia il nome che le diamo, poiché siamo tutti coinvolti inquesto ultimo sussulto della storia. Per tutti è il tempo dellafine. Lo si comprende già dal fatto che Laodicea è la settimatappa del viaggio. Il numero sette parla di conclusione e siamo,infatti, all’ultima lettera. L’idea di fine, domina tutta la lettera.

Emerge già dalle prime parole del mittente: Dio si presentacome l’«Amen» (3:14). È la parola della fine, del compimento ditutte le promesse e tutte le preghiere. Il profeta Isaia aveva qua-lificato Dio in questi termini: «Dio dell’amen» (Is 65:16).97

Nei due testi l’amen è seguito dal riferimento alla creazione.Nel libro di Isaia, il Dio dell’amen promette «... nuovi cieli e

una nuova terra» (v. 17). Nella lettera di Laodicea, il Dio dell’a-

97 La versione Nuova Riveduta traduce «Dio di verità». La parola ebraica amenderiva dal termine emet (verità).

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Capitolo 1

men si presenta come «Il principio della creazione di Dio» Laparola greca arché traduce il termine ebraico bereshit (princi-pio) in Genesi 1:1.98

Il Dio della fine è anche il Dio del principio. Dio si rivela quicome colui che ha seguito il corso della storia dall’inizio allafine. La venuta di Dio darà compimento e fine alla vicendaumana e, ancor più, questa venuta è vicina. La lettera raffigurail Signore, in piedi, mentre bussa alla porta (3:20). Nel Canticodei cantici egli è il beneamato che si tiene dietro la porta, inattesa dell’incontro (cfr. 2:8,9; 5:5). Gesù è alla porta. Nel lin-guaggio neotestamentario significa che la fine è prossima.99

L’evocazione dell’intimità della cena si carica dello stesso mes-saggio: «Io cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3:20).

L’immagine è familiare già dai tempi più antichi, per espri-mere la nostalgia per il ricongiungimento finale. Probabilmenteè il significato nascosto in ogni pasto rituale e sacro, presentenella tradizione levitica e giudaica.100

Allo stesso modo, troviamo questa lezione nel Salmo 23,quando viene delineato, all’orizzonte dell’umana sofferenza, lasperanza di un’immensa tavola apparecchiata da Dio per i suoifigli fedeli. Nel Nuovo Testamento, l’importanza del pasto nelministero di Cristo, si arricchisce dello stesso accento.101 È ilsenso fondamentale dell’ultima Cena, consumata durante ilPessah, divenuta per tutti i cristiani il segno della speranza.102 Lacena che riunirà Dio con il suo popolo, costituisce uno dei temifavoriti dell’Apocalisse.103

Ma, la speranza di cui parla la Bibbia trae origine dalla real-tà e dalla vita concreta. Ne gioiremo con tutte le nostre facoltà.Non si poteva tradurre meglio la natura di questo regno, se noncon l’immagine del pranzo. I profumi, il tatto, i colori, il gusto;

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98 Giovanni 1:1.99 Matteo 24:33; Marco 13:29; Giacomo 5:9.100 Genesi 14:18-20; 31:54; Deuteronomio 12:5-7,17,18; 14:23,26; 15:20, Esodo18:12; 24:8-11; 1 Samuele 9:11-14; Proverbi 9:1-5.101 Matteo 5:6; 9:11; 22:1-14; Marco 6:35-44; Luca 13:29.102 Marco 14:25; 1 Corinzi 11:26.103 Apocalisse 2:7; 3:20; 19:7,9; 22:2.

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tutto l’essere partecipa e si dona alla vita. Per non parlare dellapresenza dell’altro che arricchisce l’esperienza.

L’intimità e la reciprocità della relazione è resa, ancorameglio, dalla formula classica del patto coniugale che fa dire alleparti: «Io cenerò con lui ed egli con me» (3:20). Questa cenarende bene l’intimità dell’incontro. Per cogliere appieno l’imma-gine bisogna immaginare la scena come era vissuta nel MedioOriente antico. Si mangiava nello stesso piatto, con le mani, ci sitoccava, si condivideva, si correvano gli stessi rischi. Era davve-ro un atto di comunione. L’incontro con Dio è atteso, dunque,come una esperienza reale, fisica e storica. Curiosamente, qui,non è l’uomo il soggetto della speranza, ma Dio stesso. La spe-ranza è descritta come una supplica di Dio, il quale sta in piedidavanti alla porta, come uno straniero non accettato, un mendi-cante nel bisogno che grida: «Io sto alla porta e busso. Se qualcu-no ascolta la mia voce...» (3:20). È Dio che si fa invitare. La cenadeve essere consumata, innanzitutto qui, a casa nostra.Contrariamente alla porta di Filadelfia, questa deve essere aper-ta quaggiù, dalla parte rivolta verso di noi: «se qualcuno apre laporta, io entrerò da lui». Questa richiesta di Dio conclude il lungoappello per una presa di coscienza e un cambiamento (vv. 15-19),un appello tanto accorato, quanto non richiesto da Laodicea, chenon ne sente il bisogno. Laodicea si crede giusta, come indica ilsuo nome che significa «popolo giusto» e come si ricava dallestesse sue convizioni apertamente confessate: «Tu dici: “Sonoricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di niente!”» (v. 17).

L’antica Laodicea era famosa per la sua ricchezza, in quantoera il centro di un sorta di società bancaria. Quando Cicerone, ilconsole romano (63 a.C.-43 d.C.) viaggiava per l’Asia Minore, sifermava in questa città per cambiare le sue lettere di credito. Apartire dal II secolo a.C. gli abitanti di Laodicea coniavano la loropropria moneta, le cui effigie raffiguravano gli dèi locali.Laodicea bastava a se stessa e non aveva bisogno di nessun aiutoesterno. Lo storico Tacito (55-120 d.C.) si meravigliò del fatto che,dopo il terremoto del 61, essa si rimise in piedi senza sovvenzio-ni da parte del governo romano.104

104 Annales, XII, 27.

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Capitolo 1

Laodicea doveva la sua ricchezza anche alla fertilità delsuolo, alla particolarità delle sue pecore che fornivano una lanadal profondo colore nero.105 Fioriva l’industria dell’abbiglia-mento, si produceva un collirio esportato in tutto il mondo allo-ra conosciuto. Tutte le sue ricchezze sono la causa della suaprofonda povertà. La lettera costruisce la sua requisitoria pro-prio su questo paradosso. Laodicea non si rende più conto cheil suo tesoro non vale più niente. Il suo oro non ha più valore, lasua purezza è dubbia. Il consiglio è quello di acquistare dell’o-ro provato col fuoco (Ap 3:18). Essa si vanta della sua eleganza,ma va in giro nuda. Il consiglio è di acquistare in fretta degliabiti per coprirsi. La cosa peggiore è che è divenuta cieca, cosache le impedisce di vedere la sua nudità. L’ironia della letteraschiaffeggia tutti quegli snob ridicoli che camminano sicuri diloro stessi, convinti di essere splendidi e provvisti di ogni cosa,mentre, in realtà sono nudi. Allora, il grido paterno ad acqui-stare del collirio per tornare a veder chiaro su se stessi.

Dunque, tutte le ricchezze di Laodicea, l’oro, i vestiti, il col-lirio, tutto ciò che credeva di possedere in abbondanza e quali-tà, si dimostrano inutili. La ragione di questa aberrazione èsemplice. È contenuta nel consiglio finale che proclama:«Compra da me» (v. 18). La ricchezza di questi cristiani dell’ul-tima ora è vana e falsa, perché essa non proviene da Dio. Lasituazione è tanto più tragica perché essi non sanno nulla e sicredono ricchi. Tutta una mentalità, qui viene messa alla berli-na. Si possono riconoscere i sintomi della nostra società umani-stica e laica dalla quale Dio è escluso.

Le ricchezze spirituali, culturali e religiose, s’accumulano apartire dallo sforzo della ragione, in stretto collegamento con lacultura umana e solo umana. Gli autori della letteratura reli-giosa non sono mai stati così prolifici, i dottori in teologia, maicosì numerosi. Ma l’appello al soprannaturale è diventatosospetto anche negli ambienti più tradizionalmente religiosi.

Non si crede più ai miracoli dall’alto. Il regno di Dio si co-struisce quaggiù sulla terra. La chiesa istituzionalizzata, quan-do non è un vero e proprio Stato, prende il posto della città che

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105 Strabone, XII 578.

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viene dal cielo. La politica si sostituisce alla religione e i ragio-namenti alla rivelazione, l’umano al divino. Questi mali si sonopropagati nella cristianità stessa, presso coloro che dicono diattendere il regno di Dio. La complessità delle conoscenze dot-trinali, non permette di discernere tutto quello che ancora c’èda conoscere, da ricercare. Si è fieri e soddisfatti di se stessi. Laricchezza materiale e il successo delle operazioni missionarie,amministrative ed ecclesiastiche, possono accecare. Non si èpiù in grado di discernere la propria miseria. Quando in unosprazzo d’onestà si ammettono i propri errori, tutto si spegnenella mancanza di passione, di coerenza, di autentico ritornoalle origini evangeliche. A Laodicea convivono, l’incoscienza,l’indifferenza e la tiepidezza. È la diagnosi che scaturisce dallalettera: «Tu non sei né freddo, né fervente... sei tiepido» (vv.15,16). Alla periferia dell’antica città, abbondano le terme. Gliabitanti di Laodicea sono esperti in materia di... acqua tiepida.Non abbiamo bisogno di dare particolari suggerimenti.Ognuno, se vuole, può riconoscersi nelle parole della profezia.I tratti di Laodicea si riflettono nei nostri.

La lettera di Laodicea è anche un giudizio contro il suopopolo. Il secondo significato della parola Laodicea è, infatti,«giudizio del popolo». Allora, che cosa fare? Secondo l’autoredella lettera, la risposta non deve essere cercata qui sulla terra,nella retorica dei colloqui, nelle discussioni dei comitati, neigiochi del potere e del denaro. La soluzione viene da altri luo-ghi. Questi falsi ricchi hanno bisogno di quel falso mendicante.Di quel Dio che gioca a fare il mendicante, bussa alla porta sup-plicando che gli si apra. La soluzione si trova al di là della porta.Occorre fare come il beneamato del Cantico dei cantici e anda-re ad aprire (cfr. 5:5).

A colui che corre questo rischio, a colui che vincerà, Dio pro-mette il suo regno intero, infinito e generoso dicendo: «Io ti faròsedere presso di me sul mio trono» (Ap 3:21). È la sicurezza diun altro tipo di esistenza, di un’altra sovranità, di un’altra liber-tà nell’usufrutto di beni che non abbiamo guadagnato. A coluiche gli apre la porta, sulla terra, Dio aprirà la sua, nei cieli.

È significativo che, immediatamente dopo, la visione men-ziona una «porta aperta» sul trono di Dio nel cielo (4:1,2).

Ci sono quindi due porte. Quella terrestre, alla quale Dio

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Capitolo 1

bussa, impazientemente e appassionatamente. La lettera diLaodicea riprende il Cantico dei cantici: «Sento la voce del mioamico che bussa e dice: Aprimi, sorella mia, amica mia!» (5:2).Secondo questo passo i colpi risuonerebbero molto forte. Ilsenso del verbo ebraico dapaq è «bussare con violenza». Laparola utilizzata da Giacobbe per evocare la violenza del pasto-re che colpisce le sue pecore per costringerle a camminare piùvelocemente.106 I colpi non sono dolci e tranquilli. Sono comeun martellare frenetico. E questa passione di Dio racconta laserietà del problema e l’ardore del suo amore. L’apertura diquesta porta dipende dalla nostra buona volontà. In definitiva,si tratta della porta del nostro cuore. È il cristianesimo vissutonella carne dell’esistenza e della storia. Sono le nostre scelte ele nostre lotte. È la nostra risposta all’appello di Dio che vuoleentrare nella nostra vita.

L’altra porta è nel cielo. Solo Dio può aprirla. Essa si spa-lanca sul perdono di Dio e sul suo regno. Il cristianesimo non èuna religione d’ordine puramente esistenziale, un’etica o un’e-mozione, che riguarda il solo credente, qui e ora. Il regno di Dionon è solo «in mezzo a voi» (Lc 17:20,21). L’Apocalisse parla diun’altra porta, quella del cielo, di cui solo Dio possiede la chia-ve. Il regno di Dio è anche cosmico (vv. 24). La stessa immagi-ne della porta viene ancora utilizzata, suggerendo un rapportotra le due dimensioni. Il regno di Dio comincia qui sulla terra,dal momento in cui apriamo la porta.

La cena con il Signore è già cominciata nelle nostre esi-stenze. Dio è sceso tra noi e tollera il nostro menù e il nostrogusto. Egli mangia alla nostra tavola. Ma, al suo contatto, unaltro gusto si forma, si affina. Questa intimità ne domanda dinuove e di più profonde. La cena del Signore diventa un anti-pasto che chiede un programma più ricco. Più si vive in comu-nione con lui, maggiormente si fa sentire il bisogno della suapresenza. Il pasto consumato con lui ci porta a bruciare dinostalgia per quel regno dei cieli ancora lontano da noi. Piùapriamo la nostra porta quaggiù, più sospiriamo perché si apral’altra porta, quella del cielo.

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106 Genesi 33:13.

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Capitolo 2

Il silenzio del cielo

Preludio sul trono del cieloCome in risposta al sospiro che sale dalla terra, la visioneseguente si apre all’improvviso su «una porta aperta nel cielo»(Ap 4:1); Giovanni è nuovamente colto dalla stessa voce delFiglio dell’uomo che l’aveva sorpreso all’inizio della sua visio-ne. Ma, questa volta è il profeta che deve spostarsi nello spazioin cui opera il Figlio dell’uomo, come indica esplicitamente lavoce che proviene dall’alto: «Ed ecco, un trono era posto nelcielo e sul trono c’era uno seduto» (4:2). L’Apocalisse è il librodel Nuovo Testamento che più si riferisce all’immagine deltrono. Su sessantadue citazioni della parola, quarantasette sitrovano nell’Apocalisse. La percentuale dà un’immagine chiaradell’importanza di questo motivo nella visione di Giovanni.

Per i lettori contemporanei al profeta, preoccupatissimi daitroni terrestri e, in modo particolare da quello di Cesare, per ilettori di tutti i tempi che temono il potere o che vi aspirano,l’Apocalisse moltiplica le referenze, al fine di ricordarci che c’è«un trono nel cielo» che domina su tutti gli altri. Il trono è laparola chiave del capitolo 4, su quarantasette citazioni presentinel nostro libro, quattordici sono in questo capitolo.

Il trono in sé è praticamente indescrivibile. Giovanni siaccontenta di menzionarlo. Lo stesso vale per il personaggioche prende posto sul trono. Non si azzarda nessuna descrizione.Una vaga comparazione è appena abbozzata. Il profeta utilizzala parola greca omoios «come, avente l’aspetto di…, simile a...»(4:3). Giovanni è incapace di identificare quello che vede.

La realtà va oltre le parole. Il profeta descriverà la sua visio-ne in poesia, utilizzando immagini che fanno parte del suomondo. Il personaggio divino gli appare sotto forma di tre pie-tre preziose: il diaspro, il sardonio e lo smeraldo. Il fatto che

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Capitolo 2

queste tre pietre siano menzionate esattamente in questo ordi-ne, dimostra che la loro citazione non è semplicemente un arti-ficio stilistico o sensoriale. Quelle tre pietre figurano nel petto-rale del sommo sacerdote (cfr. Es 28:17). Infatti, si trovano asso-ciate solo in quel contesto. Giovanni non vede i tratti somaticidel personaggio divino, coglie l’essenziale, che sono le tre pietre.L’intenzione rimane quella di evocare l’ambiente del tempio.

L’arcobaleno che sovrasta il trono, oltre ad aggiungeregrandiosità alla scena, ricorda il diluvio. Dio assicura la suamisericordia a temperare l’esigenza della giustizia.

Comparendo in mezzo a nuvole, lampi e tuoni (4:5), segnidella tempesta che allude alla collera di Dio,107 l’arcobaleno è ilsegno dell’amore di Dio che si unisce alla sua giustizia per sal-vare l’uomo e aprirlo alla speranza. Esso è anche, come sostie-ne Ezechiele, «l’immagine della gloria di Dio» (1:28), cioè dellasua grandezza infinita e della sua potenza. L’universo intero ècompreso nell’abbraccio dell’arco.

Intorno al trono prendono posto ventiquattro anziani. La loroetà li identifica col giudice divino dai capelli candidi (Ap 1:14),così come la loro posizione, seduti come lui su dei troni (4:4), liqualifica come giudici.108 Ma bisognerà aspettare il capitolo20:4, per vederli effettivamente all’opera in quella funzione. Peril momento essi sono descritti nell’atto di lodare e adorare (4:9-11); le due attività non sono, del resto, incompatibili. Seduti sultrono come il sommo sacerdote, essi sono investiti della dupli-ce funzione di giudici e sacerdoti.

Questo accorpamento risale ai tempi di Mosè, quando ilsacerdote esercitava anche la funzione di giudice.109 I venti-quattro anziani rappresentano i vittoriosi di cui parla la letteraa Laodicea; quelli, cioè, che sono chiamati a sedersi sul tronoper giudicare in compagnia del Figlio dell’uomo e del Padre suo(3:21). Così, essi sono incaricati di trasmettere «le preghiere deisanti» (5:8) e uno di loro aiuta Giovanni a identificare il popolodei salvati (7:13,14). Il numero 24 è, certamente, simbolico;

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107 Giobbe 37:4; cfr. Apocalisse 11:18,19; 14:2.108 Apocalisse 20:4.109 Deuteronomio 17:9; cfr. Geremia 18:18.

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gioca sul numero 12, numero dell’alleanza (4, numero dellaterra e 3, numero di Dio). Le dodici tribù d’Israele nell’AnticoTestamento, i dodici apostoli nel Nuovo Testamento, testimonia-no dello stesso simbolismo presente nell’Apocalisse (21:12,14). Ilnumero 12 rappresenta il popolo dell’alleanza.

A essere menzionato è dunque l’Israele completo, del Nuovoe dell’Antico patto. L’attenzione di Giovanni è concentrata sullaloro azione sacerdotale. Il numero 24 è anch’esso intenzionale,in quanto allude al servizio del tempio, assicurato grazie a uncorpo di ventiquattro gruppi di sacerdoti (cfr. 1 Cr 24:18). Ognigruppo aveva il suo presidente, conosciuto generalmente con ilnome di «capo» (v. 5). È interessante notare che la Mishna lidesigna con il termine «anziani».110 Come i sacerdoti, i levitierano anch’essi suddivisi in 24 gruppi (cfr. 25:31) e, come glianziani dell’Apocalisse, adoravano Dio suonando l’arpa (Ap 5:8;1 Cr 25:6-31). Tramite gli anziani, Giovanni assiste in definitiva,a un servizio di adorazione celeste, il corrispondente ideale diciò che si celebrava nel tempio israelitico.111 Il mare, di un vetrotrasparente come il cristallo, si stende all’infinito davanti altrono di Dio, accentuando la dimensione cosmica dell’avveni-mento. Il trono di Dio, sospeso sull’elemento acqueo, proclamail controllo di Dio e il suo potere sulle acque. Dio è presentatocome il Creatore. Nel libro della Genesi, nella prima paginadella Bibbia, la creazione è descritta, in effetti, come la vittoriasull’acqua, simbolo del nulla e delle tenebre.112 Il tema è ripre-so, del resto, nei salmi113 e nel libro di Isaia.114 Quando il Salmo104 pone il trono di Dio al di sopra delle acque, vuole intenderela sovranità del Signore sulla creazione: «Egli costruisce le sue

110 Taanith 2:6; Sukkah 5:6-8; Yoma 1:5.111 Esodo 25:40; cfr. Ebrei 8:5; 9:23.112 Ezechiele 26:19-21; Giona 2:6; Abacuc 3:10; cfr. P. Reymond, L’Eau sacrée, sa vieet sa signification dans l’Ancien Testament (VT Supplemento 6), Leiden, 1958, p.213. L’immagine si ritrova nelle altre culture dell’epoca, ma in quei casi essa èrivestita del linguaggio mitologico. A Babilonia, per esempio, la genesi del mondoviene attribuita alla vittoria di Marduk, dio di Babilonia, su Tiamat, dio dell’acqua.113 Salmo 136:6.114 Isaia 27:1; 40:12.

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Capitolo 2

alte stanze sulle acque» (v. 3). Probabilmente, è questa immagi-ne che ha ispirato la costruzione della fonte del mare, nellastruttura del tempio (cfr. 2 Cr 4:2), che spesso è assimilata altrono di Dio.115 Veniva ricordato, in questo modo, che il giudicedivino, re dell’universo, era il creatore. Solo il creatore puòessere il re dell’universo.116 È significativo che il riferimento almare di vetro, ricordo del miracolo della creazione, sia intro-dotto dallo Spirito di Dio (cfr. Ap 4:5), di cui è noto il ruolo nellacreazione (cfr. Gn 1:2).

Subito dopo la presentazione del mare di vetro, si passa allavisione delle quattro creature viventi, altro punto significativo, lequali rappresentano l’ordine della terra. Nella Bibbia come nellacultura mediorientale, il numero quattro simboleggia l’universoterrestre. I quattro punti cardinali,117 per esempio, e i quattroangoli della terra.118 Il profeta Daniele parla dei quattro venti delcielo (7:2) per alludere alla totalità dello spazio terrestre, poi, siriferisce ai quattro regni per descrivere il cammino di tutta lastoria umana. Da notare, a questo proposito, l’aspetto di questequattro creature viventi. La prima fa pensare a un leone, laseconda a un vitello, la terza a un uomo e la quarta a un’aquila.Un’antica parabola ebraica, un midrash, riprende la stessaimmagine. Secondo Rabbi Abahu, sono quattro le creature piùpossenti: l’aquila, tra i volatili, il bue tra gli animali domestici, illeone tra gli animali selvatici; l’uomo, fra tutte le creature.119

Secondo questa tradizione, i quattro animali rappresentanola creazione intera, come i ventiquattro anziani sono il simbolodell’umanità. Il cuore della visione del trono risulta essere lacreazione dell’universo. La liturgia che parte dal canto dellequattro creature e trova risposta nel coro dei ventiquattro anzia-ni, mette ulteriormente l’accento, sul tema della creazione. Inun primo tempo, le quattro creature si agitano intorno al trono,

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115 Geremia 13:7.116 Salmo 74:12,13; 89:13-15.117 Geremia 49:36; Daniele 7:2.118 Apocalisse 7:1; 20:8.119 Strack H.L.P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud undMidrasch, Munchen, 1978, t. III, p. 799.

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cantando a un ritmo ternario, per esaltare il Dio del cielo:«Santo, santo, santo... che era, che è, e che viene» (Ap 4:8). Laliturgia suggerisce che la santità di Dio si manifesta nei tretempi della storia e dell’esistenza: il passato, il presente e ilfuturo. Il profeta Isaia aveva ricevuto la stessa visione (6:1-3).Anche in quel passo la santità di Dio è ripetuta tre volte e siripercuote sulla terra: «Santo, santo, santo è il SIGNORE deglieserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria!» (v. 3).

Dopo la fine del canto delle creature viventi, i ventiquattroanziani si prostrano in adorazione e gettano le loro corone ai piedidel trono. Poi il movimento riprende. Il servizio liturgico non hamai fine, perché i quattro esseri non cessano di ripetere il lorocanto. Lo spettacolo riempie lo spazio e il tempo. Il paesaggio, glioggetti, le grida, i canti, le parole, le immagini e i personaggi pre-senti sono tutti protesi nello stesso atto di adorazione che si riferi-sce all’evento della creazione: «Tu sei degno, o Signore e Dionostro, di ricevere la gloria, l’onore e la potenza: perché tu haicreato tutte le cose, e per tua volontà furono create ed esistono»(Ap 4:11). Ciò che rende Dio degno di essere adorato, in qualità digiudice e re, deriva dal fatto che egli è il creatore dell’universo.Senza questo, l’adorazione perde ogni senso e diviene idolatria.Infatti, o si adora il creatore, o una delle creature. Dio solo, per ilfatto di essere il creatore, può giudicare e decidere del destino del-l’universo; il nostro destino e la nostra salvezza. «Dio solo èdegno». Questa affermazione conclude la scena del capitolo 4, perritornare immediatamente all’inizio del capitolo 5, sotto forma dieco: «Chi è degno?» (v. 2). La domanda risuona come un fortegrido, riferendosi a un libro sigillato che il profeta vede nellamano destra del giudice divino seduto sul trono: «Chi è degno diaprire il libro e di sciogliere i sigilli?». Ma la domanda resta sospe-sa nel vuoto. Solo il silenzio dell’universo le risponde: «Ma nessu-no, né in cielo, né sulla terra» (v. 3) ne è degno. Giovanni si scio-glie in lacrime e il suo dolore tocca uno degli anziani che lo rassi-cura: «Non piangere; ecco il leone della tribù di Giuda, il discen-dente di Davide, ha vinto per aprire il libro e i sette sigilli» (v. 5).

ShavuothA questo punto, egli vede lui, in mezzo alla scena fra le creatu-re viventi e «in mezzo al trono» (v. 6). Giovanni ha appena udito

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Capitolo 2

parlare del leone di Giuda, possente e vittorioso, quando il suosguardo viene attratto da una vittima debole, da un agnellosacrificato e provvisto di sette corni. In altre parole, un agnelloforte, come viene suggerito da queste armi naturali, simbolo dipotenza nella Bibbia.120 L’agnello è dotato anche di sette occhi,simbolo della pienezza dello Spirito (v. 6).

Questa figura rappresenta, in modo evidente, Cristo Gesù, ilMessia, figlio di Davide, leone di Giuda (v. 5), vincitore dellamorte e del male proprio grazie alla sua umiliazione e alla suamorte. Giovanni vede l’agnello avvicinarsi al trono divino eimpadronirsi del famoso libro sigillato: «Egli venne e prese illibro dalla destra di colui che sedeva sul trono» (v. 7).

Gesù Cristo sta in piedi alla destra di «colui che è seduto sultrono», scena che l’apostolo Pietro vede compiersi durante laShavuoth, festa delle settimane (Pentecoste), che egli interpre-ta come l’intronizzazione di Gesù Cristo dopo la sua risurrezio-ne: «Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato; di ciò, noi tutti siamotestimoni. Egli dunque essendo stato esaltato alla destra di Dioe avendo ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, ha spar-so quello che ora vedete e udite» (At 2:32,33).121

Questa immagine, presa in prestito dalla cultura del MedioOriente antico, rappresenta i gesti rituali dell’intronizzazione diun nuovo re, il quale deve leggere il contratto di alleanza che lolega al suo sovrano.122 Anche in Israele la cerimonia di intro-nizzazione prevedeva la lettura da parte del principe del testodel «libro dell’alleanza»,123 cosa che lo dichiarava vassallo di Diosovrano supremo. Lo stesso scenario caratterizza la cerimoniad’alleanza del Sinai (Es capp. 19,20). Anche in quella circostanzail popolo ricevette un documento scritto da Dio su due tavole(32:15; Ap 5:1). L’avvenimento è accompagnato da tuoni, lampie squilli di schofar (19:16; 20:18; Ap 4:1,5). Ancora una volta, ilprofeta è invitato a «salire» per ricevere la rivelazione di Dio (Es

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120 Cfr. Salmo 132:17; Geremia 48:25; Daniele 7:8,11,21; Zaccaria 1:18,19, ecc.121 Atti 7:55,56; Filippesi 2:9-11; Ebrei 8:1,2; 10:19-22.122 Cfr. L.C. Allen, Psalms 101-150, p. 80; G. Von Rad, «The Royal Ritual in Judah»,in The problems of the Hexateuch and Other Essays, Londra, 1966, p. 103.123 Esodo 24:7; 2 Re 23:2,21; Deutoronomio 17:18; 2 Re 11:12,13; 23:3.

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19:24; Ap 4:1). Anche qui il popolo è invitato a diventare unregno di sacerdoti (Es 19:6; Ap 5:10). Nei testi in questione ilsantuario viene inaugurato sulla terra in Esodo 19 e 40 e nelcielo in Apocalisse 4 e 5.124

L’intronizzazione di Cristo è interpretata dal profeta dell’A-pocalisse come un’inaugurazione del santuario. La lettera agliEbrei spiega l’intenzione profonda presente nel testo: «Ora, ilpunto essenziale delle cose che stiamo dicendo è questo: abbia-mo un sommo sacerdote tale che si è seduto alla destra deltrono della Maestà nei cieli, ministro del santuario e del verotabernacolo, che il Signore e non un uomo, ha eretto» (Eb 8:1,2).Questo complesso d’immagini impregnate di cultualità leviticaera destinato a far comprendere ai giudeo-cristiani dell’epoca,il ruolo e il valore del sacrificio di Cristo e, soprattutto, a mo-strare la realtà della sua opera: Gesù Cristo è vivente e agisceancora in nostro favore. È interessante notare come la scenadell’intronizzazione di Cristo è posta nel contesto liturgico dellaPentecoste. I suoi numerosi paralleli con Esodo 19 e 20, testoprincipale della liturgia ebraica della Pentecoste, lo indicanochiaramente. Il libro degli Atti attesta la stessa cosa, per quantoriguarda l’epoca dei primi cristiani. L’intronizzazione di Gesùnel cielo è associata alla Pentecoste cristiana, avvenuta sullaterra (At 2:1,34). Nell’Apocalisse, la Pentecoste che prepara

124 È interessante notare che il passo dell’Apocalisse, come il testo che riportal’inaugurazione del santuario nel libro dell’Esodo (cap. 40), si riferisce agli ele-menti riguardanti i componenti del santuario. L’unica volta in cui il santuarioviene menzionato in tutte le sue parti è durante la festa delle Espiazioni (Lv 16).La presenza dell’agnello esclude la possibilità di un riferimento alla festa delleEspiazioni, poiché l’agnello fa parte dei sacrifici di inaugurazione del santuario(Es 40:29; Lv 1:10) e non di quelli della festa delle Espiazioni. Al contrario, ilnostro testo è assolutamente privo di termini relativi al giudizio. Non vi si trovaalcuna allusione all’arca dell’alleanza, così importante nella festa delleEspiazioni (Lv 16:11-15). Inoltre, la parola «naos», termine tecnico che designanell’Apocalisse il luogo santissimo, è assente in Apocalisse 4 e 5. In modo signi-ficativo, la maggior parte delle citazioni della Parola appare nella seconda partedel libro: 11:2 e 19; 14:15 e 17; 15:5,6,8; 16:1,17; 21:22. I soli due testi che lo uti-lizzano nella parte iniziale del libro concernono il tempo futuro (3:12; 7:15).

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Capitolo 2

all’apertura dei sette sigilli, si situa in diretto rapporto con laPasqua, che a sua volta aveva introdotto le sette lettere.

L’Apocalisse segue da vicino il calendario ebraico. LaPentecoste segue immediatamente la Pasqua e segna la fine delperiodo di cinquanta giorni, a partire dal secondo giorno dellaPasqua (Lv 23: 15-16); da qui deriva il nome di Pentecoste che,in greco, significa «cinquantesimo», mentre nell’ebraico abbia-mo la parola Shavuoth, che significa settimane, allusione allesette settimane (7x7) che copre questo periodo. Praticamente,tutte le lezioni della Pentecoste ebraica si ritrovano in quellacristiana. È il tempo delle primizie, delle prime conversioni alcristianesimo, della fondazione della chiesa. È il periodo in cuisi avvera il sogno che Dio aveva formulato per Israele all’uscitadall’Egitto, al momento della prima Pentecoste: «Tu ne hai fattoper il nostro Dio un regno e dei sacerdoti» (Ap 5:10; Es 19:6).

La Pentecoste cristiana segna l’inizio della dispensazionedello Spirito Santo, in tutta la sua pienezza;125 il nostro passo vifa allusione attraverso la citazione dei «sette Spiriti di Dio» (Ap4:5). Per i cristiani, il tempo che segue la risurrezione è untempo glorioso, quello dell’intronizzazione nel cielo. Il testoapocalittico che identifica in Cristo il leone della tribù di Giuda,il discendente della stirpe di Davide, si carica di nuovi signifi-cati (v. 5). L’antica promessa di una dinastia davidica eterna sicompie.126 Questo è il senso del rituale del Figlio dell’uomo, inpiedi alla destra del padre. Il cielo intero rimane commosso, insilenzio. La domanda di prima ritorna: «Chi è degno di aprire illibro?». La risposta arriva attraverso una straordinaria liturgiache coinvolge l’universo intero. Solo questo Agnello sacrificatoè «de-gno». Tutta la liturgia si fonda su questo tema in un cre-scendo in quattro tempi.

1. Inizialmente, si leva il canto delle quattro creature viven-ti e dei ventiquattro anziani che proclamano: «Tu sei degno diprendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolatoe hai acquistato a Dio, con il tuo sangue, gente di ogni tribù, lin-gua, popolo e nazione» (v. 9).

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125 Atti 1:8; 2:38,39; Efesini 5:18.126 Genesi 49:10; 2 Samuele 7; 1 Cronache 17; Daniele 9:24-27; Luca 1:32,33.

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I canti sono accompagnati dall’arpa, la musica si fonde con iprofumi d’incenso, simbolo delle preghiere di tutti coloro chehanno gridato alla speranza (v. 8). Questo canto è assolutamen-te originale, mai udito fino ad allora, una nuova poesia, nuoveemozioni, nuove melodie: «È un cantico nuovo» (v. 9).

L’espressione è frequente nei salmi per introdurre la lode aDio e tradurre i sentimenti della conversione, del passaggio dalletenebre alla luce, dalla morte alla vita. L’espressione appare abi-tualmente nel contesto della creazione.127

2. In seguito, miliardi di angeli rispondono all’unisono:«Degno è l’Agnello… di ricevere la potenza, le ricchezze, lasapienza, la forza, l’onore, la gloria e la lode» (v. 12). Sette attri-buti come sette sono i corni, simbolo di potenza.

3. Tutte le creature dell’universo (v. 13) si uniscono all’im-mensa corale di angeli di cui riprendono in eco, le ultime paro-le, ma questa volta in senso inverso. Gli angeli avevano termi-nato con le parole: «La forza, l’onore, la gloria e la lode» (v. 12);le creature dell’universo rispondono: «La lode, l’onore, la gloriae la potenza» (v. 13), come per ben sottolineare il loro accordoarmonico e la loro comunione con il canto precedente.

4. Infine, le quattro creature viventi concludono e donano laloro adesione con una sola parola che conferma quella confes-sione di fede: «Amen!» (v. 14). La scena termina con l’ingressodegli anziani che si prostrano e adorano. A questo punto le paro-le non servono più. Il silenzio può rendere l’ineffabile.

I sette sigilliIl destino dell’universo è in gioco. Già dalle prime parole, la vocesquillante come una tromba, lo aveva esplicitamente dichiarato:«Ti mostrerò le cose che devono avvenire in seguito» (4:1).

La visione dei sette sigilli è diversa da quella delle sette chie-se. In quest’ultima, il profeta vedeva anche le cose «che sono», enon solo «quelle che devono avvenire in seguito» (Ap 1:19).128

127 Salmo 33:3-9; 96:1,4-6; 98:1-9; 149:1,2.128 Ciò spiega la frase «in seguito» (Ap 4:1) che mira al tempo delle sette chieseletterali, e significa: nell’epoca immediatamente successiva a quella dei con-temporanei di Giovanni.

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Capitolo 2

La visione dei sigilli segna una svolta nel libro del-l’Apocalisse. A partire da questo punto la visione guarderà soloal futuro. Tutta la simbologia contribuirà a confermare questoorientamento. Il rotolo è tenuto dalla mano destra di Dio, manodell’azione salvifica, mano del controllo di Dio sulla storiaumana.129 Allo stesso modo, il gesto del Figlio dell’uomo cheprende il rotolo, allude al suo impegno di portare l’umanitàverso gli orizzonti fissati dal piano di Dio. Il contenuto del roto-lo non viene rivelato.130

È indicata solo la forma del documento. Si tratta di un opi-stographe, un manoscritto utilizzato su entrambi i lati; in usoper i documenti legali dell’epoca.131 Per aprire il rotolo, occor-re, dunque rompere tutti e sette i sigilli.

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129 Giobbe 40:9; Salmo 45:5; Luca 6:6; Atti 3:7; Isaia 48:13; Esodo 15:6-12; Salmo 17:7.130 Un certo numero di indizi fanno pensare che si tratta di un libro che impegnaGesù in relazione al suo regno futuro, un po’ come il «libro dell’alleanza» impegna-va gli antichi re d’Israele al momento della loro intronizzazione. Un altro parallelocon un brano di Ezechiele, dove anche lui menziona un rotolo sorretto da una manotesa, uscita dal trono di Dio (cap. 1) e ugualmente «scritto dentro e fuori» (2:9,10; cfr.Ap 5:1), conferma questo orientamento. Il testo di Ezechiele spiega che il rotolo con-teneva lamenti, lacrime e gemiti (2:10) che sono interpretati, in seguito, come avver-timenti e giudizi concernenti l’avvenire d’Israele (cap. 3). Allo stesso modo, il libro,visto dal profeta Giovanni contiene gli stessi avvertimenti e giudizi, indirizzati alpopolo di Dio in rapporto al regno di Cristo. Si potrebbe persino pensare che il pro-feta veda in retrospettiva dei giudizi futuri che saranno più tardi rivelatinell’Apocalisse. I due documenti (l’Apocalisse e «il libro» del cap. 5) sono del restodesignati con lo stesso vocabolo: biblion (1:11; 22:7, 9,18,19), parola chiave del cap. 5dove vi appare 7 volte (5:1,2,3,4,5,7,8). Entrambi sono dati da Dio a Gesù per far cono-scere «le cose che devono avvenire tra breve» (1:1; cfr. 22:6). Entrambi sono sigillatiin attesa della fine. Il mancato suggellamento dell’Apocalisse è messo in rapporto conla fine «poiché il tempo è vicino» (22:10); solo alla fine si comprenderà. In questosenso, l’Apocalisse è come il libro di Daniele, anch’esso sigillato fino al tempo dellafine. Poi, molti lo leggeranno «e la conoscenza aumenterà» (Dn 12:4; cfr. 12:9,10).131Cfr. I rotoli scoperti a Qumran tra le lettere di Bar Kokhba: Y. Yadin, The Findsfrom the Bar Kokhba Period in the Cave of Letters, Gerusalemme, 1963, p. 118;cfr. F.M. Cross, «The Discovery of The Samaria Papyri», in The BiblicalArchaeologist 26 (1963) pp. 111-115.

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Solo alla fine, cioè dopo il settimo sigillo, si comprenderà ilsenso di tutto; solo in quel punto la speranza si aprirà in tutta lasua estensione. Uno dopo l’altro, i sigilli vengono aperti e lasperanza prenderà sempre più corpo. Come è accaduto per imessaggi alle sette chiese, il verbo «venire» è il leit motiv cheattraversa i sette sigilli; cosa che suggerisce una progressionenel tempo:

I sigillo: «Vieni» (6:2)II sigillo: «Vieni» (6:3)III sigillo: «Vieni» (6:5)IV sigillo: «Vieni» (6:7)V sigillo: «Fino a quando?» (6:10)VI sigillo: «Egli è venuto» (6:17)VII sigillo: Scende il silenzio (8:1)

L’imperativo «vieni» pronunciato regolarmente da ognunadelle quattro creature viventi, non è indirizzato certo aGiovanni e si applica solo parzialmente al cavallo che appare ilquel momento. In realtà l’invocazione è indirizzata all’Agnelloe riguarda la venuta di Gesù Cristo, la «parusia». Il verbo grecoerchestai è, in effetti, il termine tecnico usato nell’Apocalisseper designare la venuta di Cristo.132 È la stessa forma imperati-va, erchou, che compare alla fine del libro per esprimere la pre-ghiera supplice (22:7,20). Al quinto sigillo, si alza il grido «finoa quando?» (6:10) gravido d’impazienza. È il grido di coloro chesono giunti al tempo della fine.133

Nel sesto sigillo, il ritorno è vissuto come un avvenimentocontemporaneo: «Egli è venuto». Infine, il settimo sigillo nonparla più di ritorno. Siamo immersi nel silenzio. Niente deve piùaccadere. Ci siamo!

I sette sigilli sono posti sul cammino della storia come deipali indicatori della venuta dell’Agnello, nella prospettiva delregno di Dio. I sette sigilli, come le sette lettere alle chiese,devono essere interpretati in senso profetico.

132 Apocalisse 1:4,7,8; 2:5,16; 3:11; 4:8; 16:15; 22:7,12,17,20.133 Cfr. Le soupir de la terre, pp. 263-267.

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Capitolo 2

La visione dei sette sigilli segue, infatti, quella delle settechiese. La stessa storia s’intravede, passo dopo passo, al soffiodell’ispirazione profetica. Mentre quest’ultima denuncia le infe-deltà e le apostasie della chiesa, quella dei sette sigilli, mette inevidenza le sue oppressioni, le sue violenze, le sue persecuzioni.

Il cavallo biancoL’agnello apre il primo sigillo e appare un cavallo bianco, sim-bolo di conquista e di vittoria. Quando un generale romanocelebrava il suo trionfo, appariva alla testa del suo esercito su diun cavallo bianco. Il commento del profeta conferma questainterpretazione simbolica: «Egli venne fuori da vincitore e pervincere» (Ap 6:2). È significativo il fatto che la venuta di questocavallo sia annunciata dalla prima delle creature avente le fat-tezze di un leone (4:7); ora, questa immagine messianica vieneassociata normalmente alla tribù di Giuda e alla vittoria di GesùCristo. Inoltre, viene conferita al cavaliere una «corona vittorio-sa» (in greco stefanos).

Nel capitolo 19 dell’Apocalisse, la stessa immagine vieneutilizzata per rappresentare la vittoria di Cristo: un cavallobianco montato da un cavaliere incoronato (19:11-16). Notiamo,però, come la corona di questo cavaliere sia regale (in grecodiadema). Anche se l’immagine del cavallo bianco del capitolosesto riguarda Gesù Cristo in gloria, essa non si riferisce,comunque, alla venuta del regno. Gesù è vittorioso, ma nonancora sovrano. Certo, una battaglia è stata vinta, ma la guerranon è ancora finita. Nel nostro testo, il cavaliere viene descrittoal momento della partenza, non a quello dell’arrivo: «Egli partì».La storia del cristianesimo e la sua conquista del mondo è par-tita bene. Questo è il tempo dei primi cristiani e della chiesaapostolica (I-III secolo).

In quel periodo la chiesa è ancora esente da compromessi,da giochi politici e da violenze, un tempo in cui il combattimen-to si svolge a partire dall’esperienza vittoriosa di Gesù Cristo.Curiosamente, la vittoria di cui parla il nostro testo non è asso-ciata a guerre letterali o strategie. La corona della vittoria (ste-fanos) viene donata gratuitamente (6:2). È una grazia che pro-viene da Dio. Il cavaliere ha un arco in mano ma nessuna frec-cia. La sua è una vittoria pacifica, senza spargimento di sangue.

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Il cavallo rossoAll’apertura del secondo sigillo, appare un cavallo rosso. La suavenuta è annunciata dalla seconda creatura vivente, che ha lesembianze di vitello. Colui che lo cavalca riceve la missione dilevare la pace dalla terra (6:4). Gli uomini si uccidono l’uno conl’altro. Il cavaliere brandisce una «grande spada».

La seconda tappa segna un cambiamento nella storia delcristianesimo. Si passa dalla pace alla guerra. Non si tratta dipersecuzioni, ma di guerre intestine. Tutto depone a favore diquesta interpretazione. Il colore rosso del cavallo suggerisce l’i-dea del sangue versato (cfr. 2 Re 3:22); il vitello evoca il macel-lo (Lc 15:27); la grande spada annuncia la guerra. La stessaparola machaira si trova nel libro di Enoch (162-130 a.C.), dove«una grande spada» è donata a Israele per combattere ed elimi-nare gli infedeli (2 Enoch 90:19).

In quest’epoca, la chiesa si batte per il potere politico. Poi,le lotte tra cristiani ariani e cattolici. Per la prima volta, gliimperatori danno il loro appoggio politico e militare all’espan-sione della chiesa. Costantino (306-337), e in seguito Clodoveo,imperatore franco (481-511), si batteranno per essa. È il tempodescritto da Jules Isaac, in cui «la chiesa cristiana si elevò (o siabbassò) dalla condizione di perseguitata a quello di chiesa vit-toriosa e, presto, ufficiale».134

Il cavallo neroL’apertura del terzo sigillo suscita l’apparizione di un cavallonero. Il cavaliere regge con le mani una bilancia che serve amisurare le razioni alimentari e rappresenta, quindi, la care-stia, nello stesso ordine d’idee di Ezechiele: «Figlio d’uomo, iofarò mancare del tutto il sostegno del pane a Gerusalemme; essimangeranno con angoscia il pane razionato» (4:16).

Il cavallo nero segue quello rosso, come la carestia segue laguerra. La voce si leva dal gruppo delle quattro creature viven-ti, proviene cioè dall’Agnello, perché egli si trova seduto inmezzo a loro. «E udii come una voce in mezzo alle quattro crea-ture viventi che diceva: “Una misura di frumento per un dena-

134 J. Isaac, Genèse de l’Antisémitisme, Paris, 1956, p. 133.

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ro e tre misure d’orzo per un denaro”» (Ap 6:6). La parola dicolui che è seduto sul trono per giudicare è intesa come quelladell’Agnello; la giustizia incontra la misericordia. La vocecomanda, infatti, di «non danneggiare né l’olio né il vino» (v. 6).Questa esclusione stupisce. Normalmente, l’olivo e la vigna,dalle profonde radici, resistono più facilmente dei cereali.Inoltre, il frumento, l’olio e il vino sono generalmente associa-ti, nella Bibbia, per rappresentare i prodotti tipici della terrad’Israele.135 Questa innaturale limitazione, suggerisce un’inter-pretazione d’ordine spirituale. Questo orientamento è propizia-to dall’apparizione del terzo essere vivente dalle sembianzeumane. Il volto umano, in opposizione con quello animale dellecreature precedenti, rappresenta la dimensione spirituale, alcontrario delle altre creature che suggeriscono la condizionenaturale, non religiosa (cfr. Dn 4:16,34; 7:8,13).136 Se ne deduceche la carestia di cui si parla riguarda l’ambito spirituale.Inoltre, la distinzione tra una parte di grano e l’altra parte divino e di olio, richiama un’applicazione simbolica separata.Nella Bibbia ciascuno di questi alimenti ha un significato sim-bolico preciso:

- Il grano si riferisce alla parola di Dio.137

- L’olio è simbolo dello Spirito di Dio.138

- Il vino è una metafora del sangue di Cristo.139

L’oracolo del terzo sigillo parla di carestia spirituale chemetterebbe in crisi la Parola di Dio, ma non il suo Spirito e ilvalore del sacrificio di Cristo. Si comprende allora, perché isimboli vengono suddivisi in due categorie. Essi corrispondonoai due elementi di un’alleanza biblica: l’umano e il divino. Sulversante umano, la chiesa ha perduto il senso della sua voca-zione. Essa non provvede più ai bisogni spirituali e teologici(intellettuali) dei fedeli. Il popolo non viene nutrito. Lo studiodella Parola è negletto e la conoscenza s’impoverisce. Da parte

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135 Deuteronomio 11:14; 14:23; 28:51; 2 Cronache 32:28; Nehemia 5:11.136 Cfr. Le soupir de la terre, p. 168.137 Cfr. Deuteronomio 8:3; Matteo 4:4; Giovanni 6:46-51; Nehemia 9:15; Salmo146:7.138 Salmo 45:8; Zaccaria 4:1-6.139 Luca 22:20; 1 Corinzi 11:25.

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di Dio, grazie all’influsso dello Spirito Santo e al valore delsacrificio di Cristo, egli continua ad assicurare la salvezza agliuomini di buona volontà, che esistono tra il suo popolo. Questapromessa è come un balsamo sulle ferite. Interessante notarecome, nelle Scritture, il vino e l’olio sono utilizzati per la curadelle piaghe.140 È assai probabile che questi simboli, per asso-ciazione d’idee, veicolino due significati che non si escludono avicenda. La simbologia biblica funziona spesso in questo modo.In certi casi, rappresentando l’era redentrice di Dio, il vino e l’o-lio agiscono come balsamo sulle ferite.

La profezia del terzo sigillo guarda al tempo in cui la chiesaè preoccupata dal successo temporale, tanto da negligere il com-pito di nutrire il popolo spiritualmente. Nel testo, questa preoc-cupazione economica e materialista è suggerita dal grano misu-rato e dal denaro che compra tutto. Anche qui, il simbolo è ambi-valente. Evidenzia nello stesso tempo l’attenzione materialistadella chiesa e la carestia spirituale dei cristiani, e le due cosevanno di pari passo. La chiesa si afferma, quindi, come un pote-re temporale, con un territorio ben definito. L’Italia si è appenaliberata dell’offensiva ariana (538). La chiesa può prenderepiede senza ostacoli. Come nota giustamente Yves Congar «Lebasi per una visione gerarchico-discendente, e finalmente teo-cratica del potere»,141 sono poste. Gregorio il Grande (590-604) èconsiderato il primo papa che «accentra le funzioni, i doveri e leresponsabilità di capo di stato e della chiesa».142

Contemporaneamente al successo temporale e politico, lachiesa perde contatto con lo studio della Bibbia.

L’istituzionalismo e la tradizione sostituiscono poco allavolta il riferimento alla parola ispirata delle Scritture. Questalezione della storia della chiesa grida forte anche oggi e suonacome un avvertimento per tutte le chiese che perdono dinami-smo. Ogni volta che la chiesa ha concentrato i suoi sforzi soprat-tutto sulla pietra e la struttura, ne sono derivati frutti di miseriaspirituale per il popolo. A forza di occuparsi delle cose relative,si perde il contatto con l’assoluto.

140 Luca 10:34.141 Y. Congar, L’Eglise de Saint Augustin à l’époque moderne, Paris, 1970, p. 32.142 J. Isaac, Genèse de l’Antisémitisme, Paris, 1956, p. 196.

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Ma il rischio è ancora più grave. La storia mostra anche unaltro pericolo. Forte di tutti i poteri e garantita sul piano politi-co, la chiesa si afferma d’autorità come depositaria della verità.Il dogma sostituisce la ricerca e il confronto con la Parola. Aquesto punto, siamo a un passo dall’intolleranza e dall’oppres-sione. E, presto verrà compiuto.

Il cavallo giallastroL’apertura del quarto sigillo libera un cavallo dal colore livido(in greco cloros), che suggerisce la morte e il terrore. Questocavallo è annunciato dal quarto essere vivente che assomiglia aun’aquila in pieno volo, pronta a piombare sulla preda.

Immagine che, nelle Scritture evoca la persecuzione e lamorte.143 In questo periodo la chiesa impersona la morte al suomassimo grado. Non soltanto il cavaliere si chiama «morte», maè accompagnato per la prima volta da un secondo cavaliere cheprende il nome di ades «soggiorno dei morti». Con questo nomela Settanta traduce il termine ebraico Scheol, cioè il luogo, lostato dei morti. Le parole «morte» e «soggiorno dei morti» sonospesso associate nell’Apocalisse.144

Quest’ultima piaga supera tutte le altre: dopo la spada e lacarestia, subentra la morte. Quanto alle «bestie selvagge», essenon fanno altro che aggiungere intensità alla realtà della morte.Il soggiorno dei morti è spesso rappresentato nell’immaginariobiblico come un luogo infestato da belve.145 Un’epoca, questa,dove la chiesa si rivela portatrice di morte e oppressione. Ellaperseguita e persegue tutti coloro che dal suo punto di vista,sono sospetti, tutti coloro che considera eretici e infedeli. Tempodi crociate, roghi e inquisizione; infine di guerre di religione.

All’orizzonte di questa mentalità, si può addirittura intrave-dere l’ombra dell’oppressione nazista, nutrita da quell’«insegna-mento del disprezzo»146 totalitario e usurpatore della chiesa. Il

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143 Deuteronomio 28:49; Giobbe 9:26; Lamentazioni 4:19; Abacuc 1:8; Matteo24:28.144 Apocalisse 1:18; 20:13,14.145 Salmo 22:14-29; 91:13.146 L’espressione è di J. Isaac, op.cit., p. 131.

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cavallo giallastro evoca ugualmente l’Olocausto, con i suoi morti,la sua opera sinistra di sterminio sistematico. Questa lettura delmessaggio profetico può sorprendere. Perché non si è mai volu-to comprendere a sufficienza il rapporto esistente tra l’odio anti-semita di Hitler e il terreno preparato dalla chiesa, nel corso didiciotto secoli di appelli all’odio e alla violenza contro gli ebrei.147

Hitler, probabilmente, non si rese conto di aver detto il veroquando, in un colloquio con due vescovi cattolici, affermò divolere continuare e concludere l’opera che la chiesa aveva ini-ziato contro gli ebrei, durante i secoli precedenti.148 Anche se laShoah (il genocidio nazista), non ha contatti diretti con la pro-blematica religiosa, essa non è poi così estranea alla storia dellachiesa, è un frutto pericoloso di una mentalità millenaria, notacome antisemitismo. La chiesa, certo non è stata coinvolta nellatragedia, ma si può dire che non abbia alcuna responsabilità? Senon altro per i silenzi e per alcune complicità.149 Il quarto caval-lo segna l’ultima tappa della «jihad» della chiesa. Mentre la con-quista del mondo era iniziata pacificamente, con un cavallobianco e un cavaliere che portava un arco vuoto, una conquistacondotta da Gesù Cristo in persona, a partire dal secondo caval-lo, la chiesa assume il comando e si prende la briga di combat-tere al posto di Cristo. Non è più Gesù che si batte per lei.Qualcosa è cambiato nella mentalità cristiana e le guerre direligione sono un sintomo eloquente della malattia. La veritàcristiana di un Dio che scende dal cielo e lavora per l’uomo, nonè più attuale. La situazione è ora capovolta. È la chiesa che si

147 Sul rapporto tra l’Olocausto e l’antisemitismo cristiano attraverso i secoli,citiamo tra le altre cose, lo storico cristiano F. Lovsky: «La frenesia nazionalso-cialista non è nata per caso, né è cresciuta come un fungo; essa si è impadroni-ta delle nazioni che nutrivano nel profondo di loro stesse, un risentimento anti-co. Il cristiano battezzato odiava Israele. Il greco Crisostomo, il protestanteMartin Lutero, il cattolico Bossuet, non hanno avuto la prudenza intellettuale ela carità evangelica di esorcizzare i demoni dell’antisemitismo» - La déchirure del’absence, Paris, 1971, p. 13; cfr. J. Doukhan, Boire aux sources, pp. 42,43,50,51.148 Hitler’s Table Talk, citato da Rosemary Ruether, Faith and Fratricide, NewYork, 1974, p. 224.149 Cfr. S. Friedlander, Pie XII et le III Reich, Documents, Seuil, 1964.

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arroga il diritto di difendere Dio, pretende di agire al suo posto.Le opere dell’uomo, il potere, la tradizione, prendono il posto diquella salvezza che proviene dall’alto. L’intolleranza parte daquesto fatto: il testimone di Dio s’identifica con Dio stesso.Quando il successo di un’istituzione conta più della proclama-zione della parola del Vangelo e del regno di Dio. Quando le sta-tistiche e l’ebbrezza dei numeri prevalgono sulla conversione,quando la soluzione è attesa dalle ricette e dalle strategie, piut-tosto che dall’appello di Dio, quando, in definitiva, l’uomo pren-de il posto di Dio, ci si può aspettare qualsiasi abuso.

Le cause del meccanismo sono semplici. La sicurezza che sibasa su ciò che è visibile, palpabile, immediatamente controlla-bile, si sostituisce alla fedeltà a un Dio invisibile, umilmentericercato e accettato. L’orgoglio e la sicurezza basata sull’uomo,aprono la porta a ogni sorta d’intolleranza.

La violenza e l’oppressione sono i prodotti naturali dell’usur-pazione dei poteri di Dio. Dalle crociate ai campi di sterminio,ogni volta che l’uomo si è innalzato anteponendosi a Dio, perbattersi in nome della croce o del «Gott mit uns», milioni di vitti-me innocenti ne hanno fatto le spese e gridano giustizia a Dio.

Le vittimeIl quinto sigillo segna una svolta. L’apertura dei primi quattro,associata ad altrettante creature viventi, all’appello ripetutoquattro volte: «Vieni!», sbocca nell’ingresso dei quattro cavalli,chiamati a rappresentare gli avvenimenti. L’apertura dei suc-cessivi sigilli, invece, ci introduce direttamente su avvenimentiprofetici.

Nel quinto sigillo udiamo le voci di quelle vittime. La storianon è più raccontata a partire dalle vicende dell’istituzione cheperpetrava l’oppressione, ma viene data la parola alle vittimestesse. Il profeta non vede più né cavalli né creature, ma uomi-ni e donne che sospirano e invocano il giudizio di Dio.

Dal punto di vista delle vittime, due cose sole contano: sape-re il perché della sofferenza e, soprattutto, fino a quando durerà.

La prima domanda pesa, lancinante e destabilizzante, l’e-terna domanda relativa alla sofferenza del giusto. Ma, qui, lasofferenza è ancora più ingiusta: è la sofferenza di chi muore acausa «della parola di Dio» (Ap 6:9).

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È il grido degli ebrei in esilio a Babilonia, gettati nella for-nace ardente, per aver rifiutato di prostrarsi davanti a un idolo.Il grido dei primi cristiani gettati nei circhi a causa della lorofede nel Dio d’amore. È il grido dei cristiani emarginati, impri-gionati, arsi vivi, per aver osato aprire la Bibbia, la verità di Dioche procede dall’alto. Ma è anche il grido degli ebrei, attraver-so il medioevo, fino ai tempi moderni, che sono stati spogliati ditutto, deportati, massacrati e asfissiati, semplicemente perchéerano ebrei e testimoniavano del Dio antico. È sempre lo stessotipo di vittima, sempre la stessa ragione a renderla tale. Essimuoiono come i martiri di Dio. Crocifissi a causa di Dio, sonomorti per Dio. Questa ambiguità è voluta dal testo biblico chedescrive questa prova, come un olocausto. La loro morte èdescritta come quella degli animali sgozzati sull’altare (Lv 4:7).Tutto il loro essere grida vendetta a Dio, come il sangue di Abelegridava nei tempi antichi (Gn 4:10).

Il linguaggio del testo in questione è ispirato al Levitico, cheidentifica l’anima al sangue (Lv 17:11), per esprimere ancorameglio il carattere sacrificale della prova. Il loro sangue è ver-sato sull’altare di Dio, nello stesso tempo la loro morte rivesteun carattere religioso che chiama in causa Dio. Giustizia saràfatta. Il profeta promette loro, non soltanto la salvezza - le vitti-me ricevono una veste di colore bianco - ma anche vendetta suicolpevoli. Per essere completa, la salvezza esige la giustizia. Persalvare, Dio deve giudicare.

Verità scomoda, spesso ignorata dagli ambienti cristiani. Cisi compiace di sottolineare l’importanza della croce, della gra-zia, dell’amore di Dio. La religione si riduce a un’emozione o auna verità d’ordine intellettuale; si dimentica la dimensione sto-rica della salvezza. La vittima schiacciata non vede le cose inquesto modo. Le dolci parole, le belle idee, i teneri sorrisi nonpossono bastare. Solo una salvezza che lo strappi alla sua soffe-renza risponde al suo problema. La vittima sospira invocando lapropria liberazione. Da qui il suo grido: «Fino a quando?».

Il grido non si accontenta di una consolazione religiosa, diuna fede nel Dio del presente e del passato. Questo grido sitende di quell’urgenza appassionata che esige l’azione di Dionella realtà della storia. «Fino a quando? (...) tu tardi a giudica-re?» (Ap 6:10).

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Questo significa che il giudizio non è ancora avvenuto e cheè atteso in un momento preciso della storia. Lo stesso grido ri-suona nei salmi,150 carico della stessa impazienza.

Incontestabilmente, è Daniele 8:13151 che trasmette il gridopiù simile a quello del nostro testo. Anche in quel passo si parladella sofferenza dei santi perseguitati dalla chiesa (v. 12). Anchein quel caso il giudizio di Dio è la logica conclusione.

Alla domanda: «Fino a quando?» l’angelo risponde collocan-do il giudizio nel tempo: «Fino a duemilatrecento sere e matti-ne; poi il santuario sarà purificato» (v. 14). La purificazione delsantuario, nel linguaggio levitico, indica la festa dell’espiazione,o Kippur,152 ossia il giudizio cosmico di Dio. È il momento in cui,secondo Daniele 7, nel testo parallelo, «... si tenne il giudizio e ilibri furono aperti» (v. 10).

Il quinto sigillo ci trasporta fino al tempo in cui il giudizioinizia nelle sfere celesti. Secondo questa visione, non siamoancora alla fine dell’umana sofferenza. L’avvenimento della sal-vezza definitiva è rinviato al momento in cui il numero dei sal-vati sarà completo (Ap 6:11). Perché la salvezza sia effettiva,occorre la presenza di tutti. La salvezza dell’individuo implicaquella dell’universo intero. La salvezza è cosmica o non esiste.Non si può essere salvati nelle condizioni attuali, perché il regnodi giustizia esige una purificazione, una creazione di un’altranatura. Questa è la lezione fondamentale del Kippur.153

Dati questi elementi, l’immagine di Dio non è basata solosulla croce, la grazia, l’esistenzialismo o il misticismo. Dio èanche giustizia e santità. Questo volto di Dio qui è evocato inmodo preciso: «Signore (greco despotes) santo e veritiero» (v. 10);è un linguaggio teologico già riscontrato nella lettera aFiladelfia (3:7). Le due visioni si congiungono sul tema dellafratellanza, il termine adelphoi è contenuto nel nome Filadelfia(v. 11). Questa eco furtiva ci introduce in una successiva epocastorica, per cui siamo ora nel XIX secolo.

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150 Salmo 13:2; 35:17; 79:5; 89:47; 94:1-3.151 Daniele 12:6.152 Levitico 16:30; cfr. Le soupir de la terre, p. 182.153 Cfr. Le soupir de la terre, p. 184.

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Questa profezia può stupirci, inclini come siamo a conside-rare la religione cristiana come una verità esistenziale e atem-porale. Il Dio che si rivela qui è il solo che risponde veramenteal grido delle vittime. Un Dio d’amore, certo, ma proprio perquesto, Dio di giustizia che agisce concretamente nella storia.

Uno sconvolgimento cosmicoAl grido delle vittime schiacciate, che anelano alla liberazione diDio, risponde ora il grido di terrore degli oppressori che tremanoalla collera di Dio. L’apertura del sesto sigillo rivela l’altro latodella giustizia di Dio. Nel quinto sigillo, il giudizio di Dio riguar-dava le vittime il cui sangue versato, «grida vendetta sugli abi-tanti della terra» (v. 10). Il giudizio ha come scopo la loro salvez-za, protagonista il Dio della grazia che dona una «veste bianca». Ora, il giudizio si rivolge all’oppressore e vede in scena il Diodella giustizia che colpisce gli abitanti della terra con la sua col-lera. Le due facce di Dio sono complementari e svolgono lastessa opera di salvezza. Per salvare davvero, Dio deve neces-sariamente passare da una nuova creazione. Con tutto quelloche implica in termini di sconvolgimento e rinnovamento, maanche di annientamento del vecchio ordine di cose.

Il peccato dell’uomo produsse un effetto che è andato oltrela sua sfera e si ripercosse sull’universo intero (quello da noiconosciuto). Questo principio biblico fu annunciato nell’istantedella creazione. L’uomo e la natura sono creati dipendenti l’unodall’altro. Ogni crimine morale o religioso ricade sull’ambiente.La disubbidienza di Adamo portò spine e triboli. L’iniquità deiprimi uomini portò il diluvio sulla terra. La perversità degli abi-tanti di Sodoma fece piovere fuoco e zolfo sulla città. Il paese diCanaan vomitò i suoi abitanti a causa del loro peccato. La men-zogna di Acan esplose nella vallata che divenne tenebrosa,prendendo il nuovo nome di valle di dolore. E Akhor (dolore) faeco ad Acan.

I profeti d’Israele non hanno mancato di sottolineare questoprincipio nei loro avvertimenti al popolo. Nel solco di Mosè,Osea, Isaia, Geremia, hanno gridato su Israele per ricordargli lasua responsabilità sul mondo. Le piante, gli animali, lo stessotempo atmosferico, le montagne e soprattutto gli uomini e ledonne della comunità, sono toccati dal peccato.

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Nel Nuovo Testamento, la morte di Gesù scuote la terra edei terremoti succedono all’avvenimento. Ogni crimine control’uomo è un crimine contro l’umanità intera e contro l’univer-so. Il cielo, la terra e tutti i colpevoli rappresentano l’oggettodella collera di Dio. L’Apocalisse rivela questo principio, oltre lestorie sacre della Bibbia. Lo sguardo profetico lo mette in evi-denza fino al cuore stesso della nostra civiltà, laica e moderna.I tempi della fine sono descritti come degli sconvolgimenticosmici inquadrati in due momenti fondamentali.

La prima fase riguarda la terra. Il suo effetto è limitato allospazio in cui operano gli uomini. È il tempo della storia. «Guardaidi nuovo quando l’Agnello aprì il sesto sigillo; e si fece un granterremoto; il sole diventò nero come un sacco di crine e la lunadiventò tutta come sangue; le stelle del cielo caddero sulla terracome quando un fico scosso da un forte vento lascia cadere i suoifichi immaturi» (Ap 6:12,13). Non è fuori luogo riconoscere inquesto quadro le catastrofi che hanno colpito il mondo tra la finedel XVIII secolo e il XIX secolo. Pensiamo al terremoto diLisbona (1 novembre 1755) dove morirono più di settantamilapersone, circa la metà degli abitanti. Possiamo ricordare anchele tenebre che sorpresero gli abitanti dell’America settentriona-le, in Canada, poi, Inghilterra, Olanda, Francia, Svizzera e Italia,intorno agli anni 1780 e 1880. Inoltre, la pioggia di meteoriti d’in-tensità eccezionale, registrata in tutto il XIX secolo, in Europacome in America, ma anche in Africa e Asia. Stranamente, que-sto periodo coincide con quello che, il profeta Daniele definiscecome il tempo della fine dell’oppressione. Questo tratto della sto-ria umana è, in effetti, segnato nel calendario profetico. È unmomento di quiete per coloro che sono stati perseguitati dallachiesa. Siamo alla fine di quel periodo profetico detto dei «tretempi e mezzo», la persecuzione di cui parla il profeta Daniele(7:25).154 Durante la bufera della Rivoluzione francese, tutte lestrutture sono sovvertite. La chiesa non minaccia più nessuno. Isegni cosmici fanno da palo indicatore nel cammino della storia,dando un significato nuovo allo scorrere del tempo. Dalla fasedel tempo della fine, si passa alla fase della fine dei tempi.

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154 Cfr. Le soupir de la terre, p. 155.

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La visione del sesto sigillo segue così lo stesso percorso neltempo di quella relativa al quinto. I due sigilli sono contempo-ranei e portano alla considerazione degli stessi avvenimenti.Cambia solo la prospettiva.

Nel quinto sigillo, lo sguardo profetico si concentrava sulpopolo di Dio, vittima dell’oppressione, il cui grido «fino a quan-do?», associato alla profezia di Daniele 8, ci aveva condotto allametà del XIX secolo. Poi, la visione aveva attraversato il tempoe ci aveva portato oltre la storia umana, nel momento in cui ilgrido è ascoltato da Dio e il giudizio ha inizio. I giusti ricevonola veste bianca. Allo stesso modo, la visione del sesto sigillopassa dal momento segnato dalla fine dell’oppressione, XVIII-XIX secolo, al termine della vicenda umana, dove il male e l’op-pressore vengono annientati. Questa seconda fase riguarda ilcielo. «Il cielo si ritirò come una pergamena» (Ap 6:14).

A questo punto, l’avvenimento si estende a tutta la terra. Illinguaggio che lo descrive traduce la sua portata universale,con l’utilizzo d’immagini tipiche della cultura ebraica; in modoparticolare l’associazione dei contrari per esprimere totalità: «lemontagne... le isole»; «i re della terra... i capi militari...»; «tuttigli schiavi e gli uomini liberi» (vv. 14,15). L’ira di Dio pervadetutto. È il momento in cui Dio assume il controllo di tutta larealtà. Ormai, niente e nessuno gli sfugge (v. 16). Da cui conse-gue la domanda angosciata che conclude l’oracolo: «Chi puòresistere?» (v. 17). Nonostante tutto, la speranza si rivela in ognipiega di quella domanda. È il paradosso della speranza biblica,il fatto di trovare la speranza là dove non ci si aspettava piùnulla. La domanda è ispirata al linguaggio dei profeti Naum eMalachia. La speranza sorge per rassicurare i sopravvissuti, nelcuore stesso della disperazione; «egli conosce coloro che confi-dano in lui» (Na 1:6,7; Ml 3:2,3). Anche nell’Apocalisse, ladomanda si pone nell’ambito di una parentesi: un interludioche riguarda i sopravvissuti dalla tempesta.

Interludio: i sopravvissuti di GiacobbePrima di descrivere il giorno terribile dell’ira di Dio, il profetaapre una parentesi e la sua visione si sofferma su coloro che«possono resistere» (Ap 6:17). La collera è trattenuta per unistante, il tempo per suggellare con un segno distintivo coloro

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che devono essere salvati. La situazione ricorda l’uscitadall’Egitto, quando l’angelo della morte aveva risparmiato gliisraeliti grazie al segno di sangue che era stato asperso sugli sti-piti delle porte (Es 12:23), anche in quella circostanza l’obietti-vo era la terra promessa (v. 25).

Questa volta, però, lo scenario abbraccia tutta la terra. Iquattro venti del cielo che trasportano l’ira di Dio, soffiano daiquattro «canti della terra», cioè dappertutto.155

Il ritmo chiastico (ABA1) che struttura l’ordine dato all’an-gelo, avvertito dell’identità dei salvati. Il primo ordine (A)risparmia la terra, il mare e gli alberi (Ap 7:1). Il secondo ordi-ne (B) minaccia la terra e il mare (v. 2). Il terzo ordine (A1) dinuovo, risparmia la terra, il mare e gli alberi (v. 3).

Il centro del chiasmo (particolare tipo di parallelismo) rive-la più precisamente l’elemento della natura che viene rispar-miata dai venti. Quando parte l’ordine di distruggere, l’angelocolpisce la terra e il mare (v. 2), rappresentazione del pianetaterra.156 Gli alberi sono esclusi dall’obiettivo, come se fossero gliunici sopravvissuti dell’ordine terrestre.

Questa osservazione stilistica è confermata implicitamentesul piano della sintassi. Nel primo ordine che apre tutti gli altri,la parola «albero» (v. 1) viene declinata differentemente, rispettoa «terra e mare». «Albero» è un accusativo (complemento ogget-to), mentre «terra e mare» sono dei genitivi (complemento dispecificazione). Questo procedimento stilistico e sintattico espri-me l’intenzione di mettere «gli alberi» in un quadro diverso. Essirappresentano la resistenza. Grazie alle loro radici che affonda-no nella terra, essi potranno resistere alle raffiche di vento. Fuoridalla metafora, nella Bibbia, gli alberi rappresentano il giusto(Sal 1:3; Ger 17:8), mentre la paglia trasportata dal vento, rap-presenta i malvagi (Sal 1:4; Gb 21:18).

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155 Daniele 7:2.156 Apocalisse 10:2,5; Genesi 1:1-9; Esodo 20:11; Neemia 9:6; Salmo 95:5; Matteo 23:15.

A (7:1) B (7:2) A1 (7:3)Non danneggiare: Non danneggiare: Non danneggiare:terra, mare, alberi terra e mare terra, mare, alberi

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La preservazione degli alberi deve essere letta come un’al-lusione alla protezione dei giusti. Ma, curiosamente, questialberi/giusti non devono la loro salvezza alle loro radici incu-neate nella terra. La vita, la salvezza proviene loro dall’alto. Laloro fronte è segnata da un sigillo. L’operazione è eseguita daun angelo che viene dall’est, da dove nasce il sole, la vita e laluce. Dall’est viene la speranza, il giardino dell’Eden (Gn 2:8), ilre salvatore Ciro (Is 41:2) viene anch’egli dall’est e infine il Diosalvatore stesso verrà dall’oriente (Ez 43:2).

Contrariamente agli altri sigilli portatori di messaggi dimorte, questo sigillo proviene dal Dio della vita (Ap 7:2). In con-trasto con tutti quei sigilli che annunciano il giudizio e la distru-zione della terra, quest’ultimo parla di salvezza e di creazione.Questo sigillo si distingue già dalla sua funzione. I precedentigarantivano la chiusura di un documento, mentre questo indi-ca l’appartenenza a qualcuno. Gli antichi usavano, in effetti,segnare con un sigillo alcune proprietà, come delle mercanzie.Generalmente, si trattava di una piastrina metallica o una pie-tra preziosa (Es 28:11; Est 8:8); vi si incideva il nome del pro-prietario o un disegno, talvolta le due cose. Il sigillo venivaimpresso solitamente nell’argilla (Gb 38:14).

Nel testo, si parla di un sigillo sulla fronte. La prima voltache la Bibbia riferisce di una simile operazione è in relazione aCaino: egli ricevette un marchio sulla fronte avente lo scopo diproteggerlo (Gn 4:15). Ma è soprattutto il libro di Ezechiele checontiene il testo che più si avvicina al nostro passo. «“Passa inmezzo alla città, in mezzo a Gerusalemme, e fa’ un segno sullafronte degli uomini che sospirano e gemono per tutte le abomi-nazioni che si commettono in mezzo a lei”. Agli altri, in modoche io sentissi, disse: “Passate per la città dietro a lui e colpite; ilvostro occhio sia senza pietà... ma non vi avvicinate ad alcunoche porti il segno; cominciate dal mio santuario”» (9:4-6). Coloroche ricevono il marchio sulla fronte sono tutti coloro che sonorimasti fedeli a Dio e reagiscono alle «abominazioni» (v. 4) deiloro contemporanei.

Lo stesso termine abominazione è impiegato qualche ver-setto prima, per designare il peccato d’idolatria e l’adorazionedel sole (8:16,17). Il marchio sulla fronte rappresenta, dunque,l’adorazione del vero Dio, il Dio vivente, il Creatore. Questo è il

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senso preciso del testo apocalittico a cui fa eco il racconto dellacreazione. La sequenza terra, mare, alberi, si riferisce, infatti, alracconto della creazione nel terzo giorno (Gn 1:9-13). Se il sigil-lo è il segno dell’adorazione del Creatore, di conseguenza, saràil segno d’appartenenza a Dio.

Questo rapporto è spesso sottolineato dai salmi, dove Dio ècantato come il vero proprietario di tutte le cose, essendo ilcreatore di tutte le cose. «Al SIGNORE appartiene la terra e tuttoquel che è in essa, il mondo e i suoi abitanti. Poich’egli l’ha fon-data sui mari, e l’ha stabilita sui fiumi» (Sal 24:1,2).157

Riconoscere Dio come proprietario di tutte le cose, comecolui al quale apparteniamo, significa riconoscerlo come ilCreatore, il nostro Creatore. Tutta una mentalità religiosa sirispecchia nell’idea del sigillo di Dio. La Bibbia porta questalezione in tutte le sfere dell’esistenza. Si tratta di riconoscere,semplicemente, che tutto quello che abbiamo e che siamo lodobbiamo a Dio. Verità che si rende evidente nel principio delladecima, la consacrazione a Dio di un decimo delle nostre entra-te nella consapevolezza che tutti i nostri beni appartengono alui. Questa è la spiegazione che lo stesso Melchisedec presentaper fondare l’offerta della decima, Dio è il «padrone dei cieli edella terra» (Gn 14:19). La stessa ragione è apportata dal librodel Levitico. Prima di entrare nella terra promessa, il popolod’Israele deve ricordarsi che il paese appartiene a Dio: «... laterra è mia e voi state da me come stranieri e ospiti» (Lv 25:23).Da questo principio scaturisce che: «Ogni decima della terra,sia delle raccolte del suolo, sia dei frutti degli alberi, appartieneal SIGNORE» (27:30).

Non è neppure un caso che il sabato occupi nel decalogo ilposto centrale normalmente riservato al sigillo, negli antichidocumenti d’alleanza.158 Il sabato, che esprime la fede nelCreatore e il riconoscimento che gli dobbiamo, assolve la fun-zione di sigillo di Dio. Esso è visibile anche nella scelta alimen-

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157 Salmo 89:12,13; 100:3.158 Cfr. M.G. Kline, The Covenant Structure of Deuteronomy, Studies andCommentary, Grand Rapids, 1963, pp. 18,19; The structure of biblical authority,Grand Rapids, 1972, p. 120.

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tare di Daniele e dei suoi amici, che rivelano il desiderio diaffermare la loro dipendenza dal Creatore, piuttosto che dal re(Dn 1).159 Il sigillo di Dio posto sulla fronte significa, in definiti-va, il segno di Dio sulla nostra persona intera, sul nostro corpoe nel nostro spirito. È il segno che apparteniamo a Dio.L’immagine di Dio che si riflette nella creatura umana, comericorda il racconto della Genesi (1:26), significa, in un certomodo, il sigillo di Dio. Vivere secondo Dio è, nello stesso tempo,affermare e dimostrare questa verità. Il suo sigillo è molto piùdi un tatuaggio sulla fronte, un gesto rituale o una qualunqueosservanza.

Tramite questa immagine, l’Apocalisse designa in modo piùampio, tutti coloro che confessano il Dio Creatore e Signore,nella loro religione, come nella vita quotidiana. Il sabato, ladecima, un determinato stile alimentare, il rispetto della leggedi Dio, non sono che degl’indici di una mentalità; certo, essipotrebbero attestare la presenza del segno di Dio, ma essi nonsono, quasi magicamente, il sigillo divino. Il sigillo di Dio ènello stesso tempo invisibile e vivente, proprio come il Dio crea-tore a cui si riferisce.

Il segno è di natura spirituale, come il Dio che rappresenta.Lo stesso si può dire dei portatori del sigillo di Dio. Siamo difronte a una compagine spirituale. Il loro numero, 144.000,composto da 12x12, è simbolico. Il numero dodici, qui intensifi-cato, è il numero dell’alleanza tra Dio e il suo popolo (quattro èil numero della terra, moltiplicato tre, il numero di Dio). Èaltresì il numero delle dodici tribù d’Israele, elencate nel testostesso (Ap 7:4-8).

Ogni tribù comprende dodicimila persone. Quanto al nume-ro mille che moltiplica il dodici, si può dire che esso non tradu-ce soltanto l’idea di moltitudine,160 ma anche quella di tribù(secondo l’etimologia ebraica). In ebraico, la parola elef (mille)designa la tribù, la folla, il clan, il reggimento.161

Il numero dodicimila significa, dunque, la tribù in tutta la

159 Cfr. Le soupir de la terre, p. 25.160 Giudici 15:15; 1 Cronache 12:14; 16:15; Salmo 91:7.161 Esodo 18:21; Deuteronomio 33:17; Giudici 6:15; Numeri 1:16; Giosuè 22:21.

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sua pienezza. Ora, al tempo di Giovanni, la maggior parte delletribù in quanto tali, erano scomparse. Restavano Giuda,Beniamino e Levi. Concludiamo che l’Israele di cui si parla quinon è quello letterale. Il ritmo regolare della lista delle tribù,rafforza questa impressione di pienezza e di perfezione. Siamodi fronte a un esercito in parata. D’altra parte, la parola grecaokhlos tradotta qui con «folla» significa ugualmente «eserci-to»;162 i versi 9 e 10, descrivono, in effetti, un esercito vittoriosodopo la battaglia. Le vesti bianche, come le palme, fanno partedel rituale guerriero di celebrazione della vittoria.163

Nella simbologia del numero, nello stesso stile del testo,come nella descrizione della folla, la parola profetica trasmettelo stesso messaggio: i centoquarantamila rappresentano Israeleal gran completo. Si tratta di quel «tutto Israele», sognato dall’a-postolo Paolo (Rm 11:26), il numero «completo» dei salvati alquale fa allusione il quinto sigillo (Ap 6:11). Giovanni vede unafolla multiculturale e multinazionale, vestita della stessa tunicabianca (7:9; 6:11) sopravvissuta all’oppressione (7:14; 6:9,11). Ilnumero, non ancora completo, descritto nel quinto sigillo, icentoquarantaquattromila e la moltitudine, sono lo stesso popo-lo, tutti presenti al gran completo. Questi sradicati della storia,queste minoranze straziate, il cui unico punto di riferimento eranei cieli, che avevano perduto il loro senso di appartenenza,perché sempre soli, sempre controcorrente, cittadini di un altroregno, finalmente si ritrovano e, improvvisamente scoprono laloro identità di un Israele spirituale. Uniti nello spirito, con lostesso passato di lotte e sofferenze, ora sono riuniti in carne eossa, con gli stessi sentimenti. L’emozione è al culmine e siesprime in una liturgia che trascina il mondo intero in un gridoimmenso che celebra la vittoria di Dio (cfr. 7:10).

Al suono di questo grido, gli angeli, gli anziani e le quattrocreature viventi risposero immediatamente con un «Amen»pieno di un’adorazione in sette tempi: «Amen! Al nostro Dio lalode, la gloria, la sapienza, il ringraziamento, l’onore, la poten-za e la forza nei secoli dei secoli! Amen» (7:12).

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162 Cfr. Theological Dictionary of the New Testament, vol. 5, p. 58.163 Cfr. 2 Maccabei 11:8; 1 Maccabei 13:51; cfr. Giovanni 12:13.

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Il silenzio del cielo

La visione si colloca, adesso, nella dimensione celeste, tra-sportandoci nel lontano futuro, nel momento in cui gli essericelesti si uniranno all’adorazione umana; quando Dio abiterà,realmente con il suo popolo. Esso servirà Dio: «... giorno e notte,nel suo tempio» (v. 15).

L’immagine, presa in prestito dalla storia d’Israele, evoca ilsantuario nel deserto. Attraverso la lingua greca kenosei «driz-zare una tenda» si risale alla parola ebraica Shekhinah, dalverbo shakhan «abitare», che si riferisce alla nube di fuoco,segno del Dio che abita in mezzo al popolo (Es 40:34-38).

La presenza di Dio è effettiva. Dio è là fisicamente. Il testotermina con un’allusione al Salmo 23.164 Dal pastore che con-duce le sue pecore alle fonti d’acqua viva, si passa al Dio pros-simo che arriva fino a toccare e asciugare «ogni lacrima dai loroocchi» (v. 17). Dio non si accontenta di sopperire a tutti i biso-gni. Non soltanto la fame, la sete, il caldo, la sofferenza, non col-piranno più l’uomo, ma Dio stesso s’avvicina per stringere unarelazione personale con i redenti: Dio li consola. Furtiva, l’im-magine del mondo nuovo e della sua felicità, si scorge in tra-sparenza.

Il silenzio del cieloA questo punto, lo sguardo del profeta ritorna sul libro liberatodai sei sigilli. Ne rimane uno da rompere, affinché esso si rive-li in tutto il suo messaggio. Già a partire dall’apertura del setti-mo sigillo, Giovanni è colto da stupore. È l’unica volta che nonsi trova implicato nella visione. Fino ad allora, ogni sigillo par-tiva con un coinvolgimento da parte sua. I primi quattro eranoregolarmente introdotti da «io udii», il quinto e il sesto da «iovidi», oppure «io guardai». Ma il settimo sigillo cade all’improv-viso nella coscienza di Giovanni, senza che lui possa vedere osentire. Per la prima volta, un avvenimento che prende il viadall’apertura di un sigillo, si svolge interamante nel cielo. Iprimi sei riguardavano la storia umana; in contrapposizionecon essi, il settimo, viene presentato dal testo come eccezional-mente breve. Esso copre un solo versetto (8:1), e l’avvenimento

164 J. Doukhan, Aux portes de l’espérance, Dammarie-lès-Lys, 1986, p. 243.

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Capitolo 2

che introduce, risulta radicalmente diverso. Dopo tutto quelrumore di guerre, grida di bestie selvagge, pianti umani, terre-moti e fenomeni astronomici, ora scende il silenzio più totale.

Questo avvenimento che non si può né vedere né sentire,rimane indescrivibile. Il silenzio esprime ciò che la musica e lapittura non possono descrivere. È il silenzio che accompagna lavenuta di Dio, la «parusia». Solo il silenzio è adeguato per espri-mere l’inesprimibile. Solo il silenzio può rendere la presenzadel Dio infinito.165 Esso dura mezz’ora.

Nel linguaggio profetico, un giorno equivale a un anno,166

per cui, il tempo che otteniamo è di una settimana letterale. La storia umana termina come era cominciata, con un

periodo equivalente a quello della creazione: la settimana disilenzio della fine fa eco alla settimana di silenzio del principio(Gn 1). Questa idea è largamente attestata nella letteraturaebraica.167 All’apertura del settimo sigillo si può finalmentedecifrare il messaggio del libro: si tratta dell’annuncio dellavenuta di Dio e la promessa di una nuova creazione e di unnuovo mondo. Questa è la sola risposta a tutte le domande, atutte le nostalgie, la sola soluzione a tutte le sofferenze.

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165 Abacuc 2:20; Sofonia 1:7; Zaccaria 2:13.166 Cfr. Le soupir de la terre, pp. 205-207.167 4 Esdra 6:39;7:30; 2 Baruc 3:7.

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Capitolo 3

Gli schofar della morte

Preludio davanti all’altareLa visione seguente ci riporta davanti al trono di Dio dove setteangeli si preparano a suonare i corni o le trombe, in ebraico èschofar (Ap 8:2). Si annuncia una nuova serie di sette eventi. Macome sempre in questi casi, come era già accaduto per le settechiese e per i sette sigilli, la storia profetica è preceduta da unpreludio che ci colloca nell’orbita del santuario ed evoca GesùCristo in relazione a una festa ebraica. Esattamente prima dellavisione delle sette chiese, avevamo visto Gesù risorto in rap-porto con la Pasqua. Prima della visione dei sette sigilli, abbia-mo visto l’intronizzazione di Gesù in rapporto con laPentecoste.

Adesso, in apertura dei sette squilli di schofar, la visione cheabbiamo davanti è quella dell’altare dei profumi (v. 3), nellaquale il profeta vede l’angelo intento a bruciare l’incenso. Eglinon si accontenta di far salire i profumi; improvvisamente gettail contenuto del braciere sulla terra.

La visione dell’angelo s’ispira al rituale levitico che obbliga-va il sommo sacerdote a mantenere un fumo permanente davan-ti a Dio, «ogni mattina», ma anche «tra le due sere» (Es 30:7,8). Ilrituale era praticato per tutto l’anno su un altare di forma qua-drangolare, sul quale dei carboni ardenti erano gettati con l’aiu-to, probabilmente, di un aspersorio d’oro.

Una volta l’anno, durante la festa dell’espiazione, l’incensoera messo direttamente nell’aspersorio, riempito di braci e por-tato «al di là della cortina», all’interno del luogo santissimo (Lv16:12,13). La visione dell’Apocalisse ci porta, quindi, nel conte-sto del rituale quotidiano nel corso del quale, il sacerdote, comel’angelo del testo, gettava il suo braciere incandescente a terra,tra il portico del tempio e l’altare.

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Capitolo 3

Tutta la cerimonia viene descritta nel più vecchio trattatorabbinico, il Tamid, uno scritto del I secolo a.C., incorporato poinella Mishna un secolo dopo, cioè una dozzina di anni primadella stesura dell’Apocalisse.168

Il parallelo tra il passo in questione e l’Apocalisse è degnodi nota: «Uno dei sacerdoti prese il braciere e lo gettò tra il por-tico e l’altare, e nessuno poteva udire la voce del proprio vicinoa causa del tonfo prodotto dal braciere» (Tamid V. 6) «Poi l’an-gelo prese l’incensiere, lo riempì del fuoco dell’altare e lo gettòsulla terra. Immediatamente ci furono tuoni, voci, lampi e unterremoto» (Ap 8:5).

Secondo un altro passo del Tamid (III. 8), il suono di questobraciere era così forte che si poteva udire fino a Gerico, per unraggio di venti chilometri. Questa eccezionale risonanza la sideve alla particolare struttura dell’oggetto.

Circa la testimonianza del Talmud di Gerusalemme (SukkaV. 6), la magrefa era provvista di un centinaio di fori (o di tubi)ciascuno dei quali poteva produrre una decina di suoni differen-ti; questo dava una sonorità composta da un migliaio di emissio-ni per volta. Siamo di fronte a un organo a canne ante litteram.Comunque sia, il rumore incredibile del braciere, associato aicarboni ardenti, era un’immagine chiara e suggestiva del giudi-zio e dell’ira di Dio.

Questa lezione non è sfuggita al profeta Ezechiele, il qualeriferisce di una visione dove un angelo-sacerdote, vestito dilino, getta dei carboni di fuoco su Gerusalemme (10:2). Il gestoè presagio del castigo che colpirà la città santa. Gerusalemmediventerà «un gran fuoco» (24:9; 21:3; 2 Re 25:9).

Il colpo di questo braciere dato dall’angelo dell’Apocalisse ècarico della stessa minaccia; risuona fortissimo come il bracie-re del sommo sacerdote, tra il portico e l’altare. Giovanni loassimila a «tuoni, voci, lampi e un terremoto» (Ap 8:5).

L’intero rituale dell’angelo segue la cerimonia levitica, cari-candosi di significati simbolici. I profumi che si alzano davantial trono di Dio rappresentano le preghiere degli uomini e delle

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168 Cfr. L. Ginzberg, «Tamid», Journal of Jewish Lore and Philosophy I, 1919, pp.33,38,197,263,291.

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Gli «schofar» della morte

donne che hanno gridato dal fondo della loro sofferenza affin-ché giustizia sia fatta. «Signore, io t’invoco; affrettati a rispon-dermi. Porgi orecchio alla mia voce quando grido a te. La miapreghiera sia in tua presenza come l’incenso, l’elevazione dellemie mani come il sacrificio della sera» (Sal 141:1,2).

Il nostro passo fa eco al quinto sigillo che faceva ascoltare,anch’esso, grida di vittime provenienti dai lati dell’altare (Ap6:9,10). Il colpo di braciere proveniente dall’alto acquista tuttoil suo senso. Esso annuncia che le preghiere degli oppressi sonostate ascoltate. Durante l’apertura del quinto sigillo, il sanguedelle vittime gridava vendetta «su quelli che abitano sopra laterra» (v. 10). Ora, gli schofar portano questa vendetta sugli«abitanti della terra» (8:13).

Questa intenzione è chiaramente rivelata al suono del setti-mo schofar: «la tua ira è giunta, ed è arrivato il momento di giu-dicare... e di distruggere quelli che distruggono la terra» (v. 18).

Gli schofar stanno ai sigilli, come la «vendetta» rispondeall’oppressione. Mentre i sigilli mostravano l’oppressione delpotere usurpatore attraverso le epoche, gli schofar mettono inevidenza un giudizio immanente, effettivamente inserito nelcorso degli eventi storici, preparatore del giudizio finale, prove-niente dal cielo.

Rosh hashanahL’immagine del suono del corno è, a questo punto, particolar-mente suggestiva. Perché qui si parla non di trombe ma delloschofar. La parola greca salpigx, che le nostre Bibbie traduco-no solitamente con «trombe», traduce, in realtà, nella Settantala parola ebraica schofar. Si tratta del corno dell’ariete che siutilizzava nelle occasioni solenni della guerra e del giudizio. Isacerdoti suonarono lo stesso strumento musicale durante laconquista di Gerico (cfr. Gs 6:4,6,8,13) per annunciare la vitto-ria. Poi, durante la festa dell’espiazione (cfr. Lv 25:9) per pro-clamare il gran giorno del giudizio di Dio.169

Fino a questo momento, nel libro dell’Apocalisse, il suono diquesto strumento era stato sporadico. Lo abbiamo incontrato

169 Cfr. Le soupir de la terre, p. 183.

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Capitolo 3

una volta prima delle sette lettere alle chiese (1:10) e un’altravolta prima dell’apertura dei sette sigilli (4:1).

Nei capitoli 8 e 9 risuona attraverso tutta la storia vista nellaprospettiva profetica. Come le preghiere salgono in ognimomento verso il cielo, similmente gli schofar fanno udire laloro voce continuamente. Questa associazione, schofar e pre-ghiera, ci ricorda l’atmosfera della festa denominata delle«trombe» (cioè degli schofar).

È la festa che segue la Pentecoste. Si celebrava il primogiorno del settimo mese (Tishri: settembre ottobre) del calen-dario ebraico (cfr. Lv 23:23-25). Essa diventerà il primo giornodell’anno ebraico (Rosh hashanah).

Per dieci giorni, seguito dal suono degli schofar, l’israelita sipreparava alla venuta della festa delle Espiazioni (il dieci diTishri). Ogni mattina, i selioth (richieste di perdono) venivanorecitati, e nel cuore della preghiera si ricordano i tredici attri-buti della misericordia di Dio (cfr. Es 34:6:7).

La lettura della Torah è tratta dal racconto della nascita edel sacrificio d’Isacco che apporta alla festa la nota positiva delDio che provvede ed esaudisce le preghiere impossibili (cfr. Gn21,22).

Nel contesto dell’Apocalisse, l’evocazione della festa deglischofar arricchisce la profezia degli stessi accenti di speranza edi giudizio lanciando, nello stesso tempo, un appello al penti-mento e alla conversione.

L’angelo vestito di lino fino che fa bruciare l’incenso davan-ti a Dio, rappresenta Gesù Cristo; il quale, dopo la sua introniz-zazione, intercede presso Dio nel cielo. Nello stesso tempo, ilbraciere riempito di carboni ardenti, lanciato dall’angelo controil portico e l’altare, si comprende come un appello al pentimen-to che fa eco ai drammatici squilli del corno.

Il libro del profeta Gioele merita qui di essere menzionatoin modo speciale. Anche lui associa, infatti, nella medesimavisione, il suono del corno che allerta e chiama al pentimento el’intercessione del sacerdote «fra il portico e l’altare». «“Non-dimeno, anche adesso”, dice il SIGNORE, “tornate a me con tuttoil vostro cuore, con digiuni, con pianti e con lamenti!”.Stracciatevi il cuore, non le vesti; tornate al Signore, vostro Dio,perché egli è misericordioso e pietoso, lento all’ira... Sonate la

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Gli «schofar» della morte

tromba a Sion... Piangano, fra il portico e l’altare, i sacerdoti,ministri del SIGNORE e dicano: “Risparmia, o SIGNORE, il tuo popo-lo...» (Gl 2:12-17).

Con la sua allusione alla festa degli schofar e gli appelli delprofeta Gioele, la visione dell’Apocalisse porta più di un avver-timento relativo alla venuta del giudizio di Dio, o una genericasperanza che assicura la risposta di Dio. Essa lancia un appellopersonale al pentimento che obbliga ognuno a lavorare nel suocuore per tornare a Dio completamente.

Nella prospettiva profetica, la festa degli schofar si riferisceal momento che precede immediatamente il gran giudizio diDio. Mentre il ciclo dei sette sigilli era posto a seguito dellaintronizzazione di Cristo, il cui tipo era scritto nella festa dellaPentecoste; il ciclo degli schofar è introdotto dall’avvenimentoche prepara al giudizio, il cui tipo è presente proprio nella festadelle trombe.

I sette schofar ricordano le sette feste mensili della lunanuova, che fanno da ponte tra le feste della primavera e quelledell’autunno, trovando il loro punto culminante nella festa deglischofar (cfr. Nm 10:2,10; 29:1).

I sette squilli di schofar che punteggiano la storia umanahanno la funzione di ricordare a ogni essere umano di tutte leepoche, il dovere di prepararsi per incontrare il nostro giudice.Poiché, anche se l’evento del giudizio è situato in un momentopreciso della storia, tutti ne siamo coinvolti.

I sette schofarGli schofar corrispondono al ciclo dei sigilli ma è solo che tra ilsecondo e il sesto sigillo che l’apostasia e l’oppressione dellachiesa si esplicano nella storia umana; gli schofar coprono esat-tamente questo periodo.

Il primo e il settimo sigillo che incorniciano questa epoca,sono immuni da ogni ingiustizia. Durante il primo sigillo, all’i-nizio dell’esperienza cristiana, la chiesa è pura, resta fedele allesue radici e si lascia ancora condurre da Gesù Cristo.

L’ultimo sigillo segna la fine della storia umana e annunciala discesa di Dio. È dunque da sottolineare che gli schofar fannoeco ai sigilli, inserendosi precisamente tra il secondo e il sestosigillo:

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Capitolo 3

Primo sigillo: cavallo bianco

Secondo sigillo: Primo e secondo schofar:fuoco, sangue fuoco e sangue

Terzo sigillo: Terzo schofar:◆ mancanza di pane (fame) ◆ mancanza d’acqua (sete)

◆ buio Quarto schofar: ◆ oscurità

Quarto sigillo: Quinto schofar:morte (due nomi) morte (due nomi)

Quinto sigillo: Sesto schofar:◆ il grido dei martiri ◆ voce davanti all’altare◆ voce davanti all’altare ◆ numero parziale dei martiri◆ numero parziale dei salvati ◆ numero parziale dei salvati, da completare in seguito da completare in seguito

Sesto sigillo: Settimo schofar:«il giorno della sua ira «la tua ira è venuta»è venuto»

Settimo sigillo:silenzio nel cielo.

Inoltre, al pari dei sigilli, gli schofar descrivono una pro-gressione cronologica molto evidente:

1. Attraverso delle transizioni che annunciano gli schofarcome avvenimenti successivi nel tempo (cfr. Ap 8:13; 9:12).

2. Suddivisione in un gruppo di quattro e in uno di tre, perogni serie.

3. Nota finale sull’ultimo schofar che proclama la venuta delregno di Dio.

Sulla base di queste considerazioni letterarie abbiamo fortiragioni di pensare che gli avvenimenti annunciati dagli schofarcorrispondono a quelli descritti dai sigilli.

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Gli «schofar» della morte

Fuoco e sangueIl primo e il secondo dei quattro schofar sono complementari. Icataclismi di cui parlano colpiscono la terra e il mare. Il primoschofar produce un fiume di fuoco e una pioggia di grandineche inaridiscono la terra (v. 7). Il secondo schofar produce unamassa solida incandescente, «una grande montagna», cheinsanguina il mare (v. 8). Nel primo caso come nel secondo, ilrisultato è lo stesso: la terza parte ne risulta contaminata. Ilfuoco e il sangue rappresentano la violenza delle guerre chedevastano tutto; nello stesso tempo ricordano le piaghe d’Egitto.

Anche in quella circostanza, l’oppressore d’Israele è colpitodal fuoco e dalla grandine (cfr. Es 9:23-25). Quanto alla «terzaparte», ciò significa che gli effetti della piaga saranno parziali eche la maggior parte della terra sopravviverà al flagello (cfr. Ez5:2; Zc 13:8). I due schofar corrispondono al secondo sigillo e siapplicano all’epoca in cui la chiesa cristiana è lacerata dalleguerre contro i barbari (IV e V secolo d.C.).

Né acqua né luceIl terzo e il quarto schofar riguardano entrambi i corpi celesti:la stella, il sole e la luna. Tutto ciò che era stato creato per esse-re fonte di luce e di vita, diventa tenebre e morte.Curiosamente, questo processo di decomposizione inizia dallastella, contrariamente alla normale sequenza, sole, luna e stel-le (cfr. Gn 1:16). Questa anomalia traduce l’intenzione dell’au-tore di far emergere il primato del ruolo della stella in rappor-to agli altri corpi celesti. La stella mette in moto il meccanismodegli eventi.

Un’altra anomalia consiste nel fatto che «la stella» è al sin-golare. Raramente vi si trova nella Bibbia e comunque sempreal plurale, in associazione al sole e alla luna. L’autore vuole atti-rare l’attenzione sulla «stella» al singolare. Nella Bibbia, Anticoe Nuovo Testamento, si parla di stella al singolare quando si fariferimento al Messia. Nella profezia di Balaam, la stella designail Re Messia chiamato a salvare Israele dai suoi nemici (cfr. Nm24:17). Nel Nuovo Testamento, la stella rappresenta Gesù Cristo(cfr. Mt 2:2; Ap 2:28; 22:16). Il solo passo dove la parola «stella»al singolare non si riferisce al Messia si trova nel libro del pro-feta Isaia, dove si applica all’angelo decaduto, Lucifero, personi-

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Capitolo 3

ficato dalla potenza di Babilonia (cfr. Is: 14:12). Qui, la stella rap-presenta il potere malefico che vuole, al pari dell’antica Babele(cfr. Gn 11:1-9), elevarsi fino a Dio per prenderne il posto,170

intenzione che causerà la sua caduta «nell’abisso»: «Come maisei caduto dal cielo, astro mattutino, figlio dell’aurora? Comemai sei atterrato, tu che calpestavi le nazioni? Tu dicevi in cuortuo: “Io salirò in cielo, innalzerò il mio trono al di sopra dellestelle di Dio; mi siederò sul monte dell’assemblea, nella parteestrema del settentrione; salirò sulle sommità delle nubi, saròsimile all’Altissimo”. Invece ti hanno fatto discendere nel sog-giorno dei morti, nelle profondità della fossa!» (vv. 12-15).

Il testo dell’Apocalisse si riferisce a questo brano. Vi si ritro-va lo stesso motivo di caduta della stella, quale potere usurpa-tore. L’unica differenza è che, in questo caso, la stella nasce quisulla terra e si colloca nella dinamica della storia della chiesa.Il profeta Daniele ne aveva ricevuto la rivelazione quando par-lava del piccolo corno che si sarebbe elevato «fino a raggiunge-re l’esercito del cielo... e fino al capo di quell’esercito» (8:10,11).

Nell’Apocalisse, come nel libro d’Isaia, la caduta di questastella è associata alla morte. In Isaia, si identifica direttamentecon il soggiorno dei morti. Nell’Apocalisse, provoca l’inquina-mento dei fiumi e delle sorgenti e, di conseguenza, la morte di«molti uomini» (Ap 8:10,11), sia a causa della sete, sia per avve-lenamento. Nel linguaggio simbolico del nostro libro, permeatodalle Scritture ebraiche, i fiumi e le sorgenti rappresentano ilnutrimento spirituale.171 D’altra parte, l’identificazione dellastella con l’assenzio, richiama l’esperienza degli israeliti a Mara(cfr. Es 15:23). I motivi si riuniscono nel tema comune dell’a-marezza che la Bibbia, generalmente associa all’apostasia.172

Il popolo muore di sete perché l’acqua non è più potabile.La verità è stata adulterata, quindi non può più vivificare i cre-denti. Il quarto schofar dice la stessa cosa in altri termini. Ilsole, la luna e le stelle, cioè il popolo di Dio (cfr. Gn 37:9; Ap12:1), passano attraverso le tenebre.

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170 Cfr. Le soupir de la terre, pp. 19,20.171 Deuteronomio 8:7,9; Salmo 36:8,9; Geremia 17:8,13.172 Deuteronomio 29:17,18; Geremia 9:15; 23:15.

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Gli «schofar» della morte

Al terzo schofar, la verità è stata alterata; al quarto addirit-tura cancellata. I due schofar annunciano, dunque, due misurecomplementari che riguardano la stessa epoca, inquadrata dalterzo sigillo.

È il momento in cui la chiesa si fa rappresentante di Diosulla terra (VI-X secolo). Roma assume il ruolo di «città di Dio».La tradizione, il potere temporale ed ecclesiastico prendono ilposto degli interessi spirituali. La verità si fa introvabile, letenebre s’impadroniscono del popolo che muore di sete spiri-tuale, come durante il terzo sigillo moriva di fame (cfr. Ap 6:6).A seguito della sua usurpazione, la chiesa perde il senso dellasua missione e della verità di cui è depositaria. Per aver volutoelevarsi fino a Dio e prenderne il posto, la chiesa conoscerà laconfusione. L’esperienza di Babele si attua per l’ennesima volta.

Come nel ciclo dei sigilli, anche durante quello degli scho-far, al quarto, abbiamo una svolta. Il capitolo 8, verso 13 segnauna transizione che introduce i tre schofar seguenti: «Guai,guai, guai agli abitanti della terra, a causa degli altri suoni ditromba che tre angeli stanno per sonare!».

Le cavalletteIl quinto e il quarto schofar sono direttamente collegati dalpunto di vista storico. L’attenzione è ancora fissa sulla stellacaduta dal cielo (9:1).

Ancora lo stesso potere usurpatore che agisce, una potenzache ricorda quella dell’antica Babele, una chiesa che pretendeun’autorità che solo Dio possiede, autorità che non può esseredelegata a nessuna organizzazione umana. Fino a questomomento, gli schofar indroducevano delle azioni divine di tipocosmico, provenienti dall’alto.

Da questo momento in poi, gli schofar annunciano delleazioni prodotte da forze che provengono dal basso, «dall’abisso»(vv. 1,2). Il termine greco abyssos è quello che la Settanta uti-lizza per tradurre la parola ebraica tehom (abisso). Questa paro-la caratterizza lo stato della terra prima dell’intervento creato-re di Dio (cfr. Gn 1:2).

Il termine tehom è associato, in modo significativo, ai con-cetti di acqua, tenebre e vuoto. Nel secondo racconto della crea-zione è messo in relazione con le parole «non» e «non ancora»

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Capitolo 3

(2:5).173 Il tehom - abyssos è il luogo della negazione di Dio. Piùtardi, i profeti ne faranno la sede simbolica del nemico di Dio,il dragone marino (cfr. Is 51:9; Sal 74:13). Nel libro apocrifo diEnoc (167-164 a.C.), il tehom designa la dimora degli angelidecaduti (Enoc 18:12-16; 19:1,2).

L’oracolo apocalittico arriva a personificare questo luogocon il nome ebraico di abbadon (9:11), che significa annienta-mento, perdizione.174 Il termine deriva dalla radice abad (peri-re, scomparire), utilizzato generalmente per descrivere il desti-no dei malvagi.175 Il termine Apollyon (9:11) che l’accompagnaviene dal sostantivo apoleia che significa perdizione, distruzio-ne; e, come abyssos, traduce nella Settanta lo stesso terminetehom. La parola ebraica abbadon e il termine greco apollyonripetono lo stesso concetto di nulla e di negazione di Dio, raf-forzandolo maggiormente.

Le tenebre che invadono la scena (9:2), non sono della stes-sa natura di quelle del quarto schofar. In quella circostanza letenebre erano determinate dal fatto che i corpi celesti eranostati colpiti (8:12). Ora, le tenebre hanno un’altra origine.Associate al tehom, sono quelle del tempo precedente la crea-zione. Le cavallette che il profeta vede sorgere dall’abisso (9:3)portano in loro la qualità di quel terribile luogo. La spessa nubeche esse formano, oscura la luce proveniente dall’alto e nega-no, in qualche modo, l’esistenza del cielo. Il quinto schofar svelail meccanismo di negazione di Dio che caratterizzò quel perio-do storico. La stella cade nell’abisso, questo provoca lo scate-narsi delle forze del nulla, delle tenebre. In altre parole, l’usur-pazione dell’autorità divina, con tutto quello che implica, in ter-mini di orgoglio, presunzione, intolleranza e oppressione, portainevitabilmente alla negazione di Dio.

Il quinto schofar descrive il processo che porta al castigo diDio. Il giudizio colpisce la chiesa dall’interno, quale conseguen-za neutrale delle sue opere. Il giudizio è già presente nell’erro-re. Sono le pretese di essere rappresentanti di Dio sulla terra che

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173 J. Doukhan, The Genesis Creation Story, pp. 64,65.174 Giobbe 26:6; 28:22; 31:12; Proverbi 15:11; 27:20.175 Proverbi 11:10; 19:9; 21:28; 29:3.

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hanno prodotto intolleranza e persecuzione, da queste è deriva-ta la ribellione degli uomini e il rigetto di Dio e delle istituzioniecclesiastiche. La storia conferma la profezia. La reazione popo-lare e laica prodotta dalla Rivoluzione francese trae origineanche da quei comportamenti del cristianesimo corrotto. Imovimenti anticlericali del XVII e del XVIII secolo, non sonoaltro che una risposta allo spirito delle crociate, dell’Inquisizioneche hanno segnato la storia dal XI al XVI secolo.

L’oracolo profetico utilizza l’immagine delle cavallette perrendere meglio la natura di questo assalto. Le cinque parole delflagello corrispondono al ciclo della vita di una cavalletta: dallanascita alla morte, passando dallo stato di larva. Si ritrova lastessa immagine nel libro di Gioele. Anche lì, il giudizio divinoè rappresentato da un’invasione di cavallette che assomiglianoa dei veri cavalli (cfr. 2:4; Ap 9:7).176 In quel passo veterotesta-mentario, le cavallette devastano i raccolti e oscurano il cielo(cfr. Gl 1:10), esattamente nel lasso di tempo di una generazio-ne (vv. 4-6).

Gli effetti del flagello previsto dal quinto schofar sono limi-tati nello spazio e nel tempo. Nello spazio, perché esse toccanosolo coloro che non hanno ricevuto il marchio di Dio sulla fron-te (cfr. Ap 9:5), cioè tutti coloro che non hanno perduto il sensodell’adorazione di Dio creatore. Soltanto la chiesa in quanto isti-tuzione viene attaccata dai rivoluzionari laici. Il popolo, dalcanto suo ne esce più libero e audace, nel pensiero come nellaricerca della verità. Il momento è propizio per una rimessa inquestione della tradizione, per la fioritura di quelle idee chefurono della Riforma. Nel tempo, perché le cavallette si accon-tentano di ferire come degli scorpioni (9:5). Il loro morso non èfatale; non uccide. La sofferenza non dura che un istante. Lachiesa (apostata) sopravvivrà al flagello. Secondo l’oracolo pro-fetico, il suo tormento durerà cinque mesi (5 moltiplicato per 30giorni), centocinquant’anni secondo il calcolo profetico chevuole un giorno corrispondere a un anno.177

176 Il paragone è felice, tenendo conto dell’aspetto delle cavallette, della lorovelocità e della loro stessa strategia militare (Os 14:3; Am 6:12).177 Cfr. Le soupir de la terre, pp. 205-207.

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Una simile depressione è senza precedenti nella storia dellachiesa. Il suo inizio è segnato dal grande urto della Rivoluzionefrancese che fa tremare le fondamenta della chiesa, tanto daimprigionare il papa (1798). La fine di questo periodo si attuacompletamente nel dopoguerra (1948), quando il papato haritrovato la sua sovranità temporale, grazie alla ratificazione deipatti lateranensi (1929). Inoltre, una delle particolarità piùsalienti della politica del dopoguerra, è l’ascesa di quei partitidetti «democratico-cristiani» attraverso tutta l’Europa; larga-mente dominati da membri della chiesa cattolica, essi sono statispesso a capo di governi, detti di coalizione. La chiesa si impo-ne allora sulla scena internazionale su tutti i piani; su quellopolitico, di fronte al comunismo, nella lotta contro le ingiustiziesociali, su quello religioso, impegnandosi nel dialogo ecumeni-co. Certo, si potrebbero fare altri calcoli e dare altri punti di par-tenza nella cronologia in questione. Ma, quale che sia il risulta-to, il messaggio è sempre lo stesso. L’irruzione delle cavallettenel cielo della chiesa deve essere letto come un giudizio di Dioche colpisce chi si è macchiato di crimini orrendi. I precedentiesistono nella storia biblica e parlano di giudizio di Dio.178

Questo è il senso particolare dei cinque mesi, un tempo chericorda il racconto del diluvio, il primo giudizio di Dio, nella sto-ria umana (cfr. Gn 7:24).

I cavalieriIl sesto schofar risponde al grido del quinto sigillo. Alle voci chepiangono davanti all’altare (6:10), fa eco una voce che libera iquattro angeli sull’Eufrate (9:13-14). Ancora una volta, l’avveni-mento in esame deve essere letto come un castigo contro l’op-pressore, identificato qui, chiaramente, con Babilonia. Il riferi-mento all’Eufrate ricorda, nella memoria biblica, la caduta diBabilonia.179 Allo stesso modo, «gli idoli d’oro, d’argento, dirame, di pietra e di legno» (v. 20) ricordano l’idolatria diBabilonia, come essa è ricordata dal profeta Daniele alla vigiliadella distruzione di Babilonia (v. 23). «I demoni» (v. 20) e le «loro

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178 Geremia 51:14; Gioele 1:4; Amos 7:1; Salmo 105:34.179 Geremia 51:59-64; cfr. Isaia 44:27,28; Geremia 50:38.

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magie» (v. 21) costituiscono, ugualmente, secondo il profetaIsaia, le caratteristiche di Babilonia e la causa della sua caduta(cfr. 47:12). Lo schofar precedente aveva sentito la venuta di unpotere la cui mentalità arrogante e orgogliosa ricordava lo spi-rito di Babele. Delle cavallette sorte dall’abisso, con la coda discorpione, erano state scatenate contro di lui. Il profeta avevadescritto questa minaccia con l’immagine di un esercito acavallo che corre «alla battaglia» (9:9). Quest’armata vieneannunciata dal sesto schofar. Anche in questo caso, l’esercito ècomparato a dei cavalli che hanno il loro potere offensivo nellacoda (v. 19).

Il sesto schofar riprende il filo della storia accennato nelquinto. Il combattimento, qui, s’intensifica. Il nemico diBabilonia diventa più minaccioso. I cavalli del quinto schofarhanno denti di leone. Questa volta, tutta la testa è leonina (v.17). Il potere malefico dei soldati del quinto schofar si esercita-va attraverso la coda. Questa volta, non solo essa è fatale, maanche la bocca (v. 19). La corazza dei combattenti del quintoschofar era di ferro (v. 9). Questa volta è del «colore del fuoco»(v. 17). Le cavallette scorpione del quinto schofar si accontenta-no di ferire senza uccidere (v. 5). I cavalieri del sesto schofaruccidono (9:18). Il fumo del quinto schofar (v. 2) diventa fuocoe zolfo nel sesto (v. 18). Il numero dei nemici è aumentato. Ilprofeta è sorpreso a tal punto da usare un superlativo, «duemiriadi di miriadi» (v. 16). La parola greca myrias, che significadiecimila, rende l’idea di un numero molto grande.180 Lo siritrova nella benedizione dei figli di Bethuel che auguravanoalla loro sorella Rebecca una posterità di «venti migliaia di deci-ne di migliaia» (Gn 24:60 Riveduta). Ricordiamo anche il cantodelle donne a seguito delle imprese di Davide: «Saul ha ucciso isuoi mille, e Davide i suoi diecimila» (1 Sam 18:7). Ora, quelnumero è gonfiato due volte: non solo 10.000x10.000, ma2x10.000x10.000.

La battaglia non è mai stata così grave. La forza uscita dal-l’abisso, laica e anticlericale, si sviluppa oltre ogni previsione.Contro la chiesa e contro tutto ciò che rappresenta in termini

180 2 Samuele 18:3; 1 Corinzi 4:15; 14:19.

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religiosi e di fede in Dio, le correnti politiche e filosofiche simoltiplicano e si sostengono a vicenda. A partire dal XIX seco-lo le ideologie nate dalla Rivoluzione francese, marxiste, mate-rialiste, evoluzioniste e razionaliste, mettono le basi di unamentalità che formerà le menti fino ai giorni nostri. Le vedutelaiche e atee penetrano ovunque e s’infiltrano anche negliambienti religiosi per affermare idee che eliminano il concettodi Dio, sostituendolo con la ragione umana e con le sue risorse.È una delle ironie più notevoli della storia. Per aver voluto sosti-tuire Dio sulla terra, la chiesa ha trovato il suo più feroce nemi-co proprio al centro della terra, nell’abisso che è la negazionedi Dio. L’Apocalisse conferma la visione di Daniele. Al capitolo11 del suo libro, il profeta aveva previsto un confronto tra i duepoteri.181 Il primo viene dal nord, Babilonia, e incarna il movi-mento d’usurpazione di Dio, che ha caratterizzato, purtroppo, lachiesa attraverso i secoli. L’altro, viene dal sud, l’Egitto, cheincarna quei movimenti laici e atei che hanno segnato l’occi-dente durante l’era moderna e contemporanea.

L’Apocalisse, come Daniele, fa allusione a Babilonia, comeall’Egitto. Babilonia si vede nel quinto squillo di schofar, nellastella caduta; nel sesto squillo, si percepisce nell’associazionecon l’Eufrate. Il potere dell’Egitto è ugualmente evocato dallepiaghe. Le cavallette, gli scorpioni, i serpenti, le tenebre, sonoaltrettanti motivi che richiamano l’esperienza dell’Egitto; inmodo particolare nella sua irriducibile negazione di Dio (cfr. Es5:2). L’Egitto è descritto nel nostro oracolo, soprattutto, per l’al-lusione ai carri e ai cavalli; nella tradizione biblica, questi ele-menti sono sempre stati associati alla potenza egiziana.182

Sono quindi le stesse circostanze storiche a essere visualiz-zate da Daniele, come da Giovanni. Ma le convergenze non sifermano qui. Come in Daniele 11, anche nell’Apocalisse si pre-vede la vittoria di Babilonia.183

I cavalieri del sesto schofar eliminano un terzo degli uomi-ni (Ap 9:18). I due terzi sopravvissuti continueranno nel loro

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181 Cfr. Le soupir de la terre, p. 238.182 Isaia 31:1-3; 2 Re 10:28; Geremia 46:8,9.183 Cfr. Le soupir de la terre, p. 247.

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atteggiamento idolatrico, senza pentimenti. Poi, non si dirà piùnulla sul nemico, come se fosse stato trascinato dal passo diBabilonia. Come in Daniele 11, la storia termina con la fusionedell’Egitto con Babilonia (v. 43).

Oggi, si può intravedere il compimento della profezia. Gliultimi avvenimenti lasciano indovinare gli sbocchi di questoantico cammino. La caduta del marxismo e la sconfitta delrazionalismo mostrano che sia Daniele sia Giovanni potrebbe-ro avere ragione.

Il processo non ha riguardato solo la cristianità occidentale.Il conflitto tra le forze rappresentate da Babilonia e dall’Egittoesce dai limiti propri della chiesa cattolica e dei movimenti laicinati dalla Rivoluzione francese. L’influsso della Rivoluzione si èesteso al di là delle frontiere religiose e politiche. Lo spiritolaico, giudicato come inoffensivo, si è agevolmente infiltratonelle società cristiane ed è penetrato anche nel giudaismo enell’islam; fino a produrre anche in quegli ambienti, una pas-sione umanistica e anticlericale. In queste due tradizioni si ècristallizzato un nuovo movimento. In reazione allo spirito cri-tico e razionalista, rigettato per la sua origine occidentale eimperialista, si è assistito al sorgere di movimenti fondamenta-listi, sia nel giudaismo che nell’islam. Più che mai, gli ayatollahe i rabbini hanno detto parole importanti per i destini politicidelle loro nazioni. In Iran, in Algeria e in Egitto, come anche inIsraele, la politica è stata messa al servizio della religione.

Mentre negli ambienti cristiani, i movimenti laici sono natiin contrapposizione alla religione, qui è avvenuto il contrario.La religione è stata assunta per reagire contro i movimenti laici.

Lo stesso fenomeno comincia a prendere piede in ambienticristiani occidentali. Anche qui, in reazione alle correnti laiche,razionaliste e liberali, alcuni movimenti fondamentalisti si sonoformati per proclamare il ritorno alle radici e prendere il potere.

Negli Stati Uniti, in particolare, una nuova destra si è postal’obiettivo di vincere le elezioni e creare un paese più cristiano.La tendenza è presente praticamente in tutta l’Europa. Questastoria, in sintesi, si è sviluppata in quattro fasi:

1. La chiesa prende i connotati dell’antica Babele, si elevafino a Dio per rappresentarlo sulla terra, imponendosi comemagistero morale e religioso su tutte le coscienze.

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Capitolo 3

2. Nel XIX secolo, sotto l’impulso della Rivoluzione france-se e per reazione alla chiesa, i valori umanistici e laici vengonoaffermati e sviluppati nel corso del XIX secolo dal marxismo,dal positivismo e dall’evoluzionismo. Profeticamente potremmodire che l’«Egitto» ha attaccato «Babilonia».

3. A partire dal XIX secolo fino all’inizio del XX secolo lospirito laicista si spande nelle differenti culture religiose, para-dossalmente, attraverso i canali missionari cristiani, ma anchea causa della politica colonialista dei governi dell’epoca.

4. Dopo la seconda guerra mondiale, sotto l’impulso deimovimenti d’indipendenza e di rinnovamento nazionale, nelricordo degli orrori della guerra, si assiste ovunque, in reazio-ne allo spirito razionalista e liberale, a un certo ritorno ai valo-ri religiosi, tradizionali e nazionali. È il tempo dei best sellersreligiosi e dei predicatori che diventano divi.

Siamo dunque arrivati alla fase 4 del ciclo che annuncia unafase 5 nel corso della quale i due campi sono in procinto diriunirsi nello stesso sforzo di usurpazione dell’autorità di Dio,nello spirito di Babele. I primi sintomi sono già visibili.All’interno stesso della moda del risveglio religioso, si avverteun forte accento antropocentrico che caratterizzava le correntilaiche dell’ottocento. La religione diviene sempre più «umana».Il Dio immanente del «profondo» prende il posto del Dio tra-scendente della Bibbia che si rivela per sua iniziativa, dall’alto,mettendo in crisi la natura umana.

Questo ritorno alla spiritualità, lo si deve, tra l’altro, al suc-cesso del New Age, la cui influenza si esercita su tutte le reli-gioni. Questo nuovo «evangelo» che non rinnega l’antico, vienepredicato da personalità cristiane e non cristiane. PadreTeilhard de Chardin, e sulle sue orme «ecoteologi» come Tho-mas Berry, esaltano la verità della «madre terra». L’evoluzione èinterpretata come un «processo sacro» attraverso il quale Dio sisarebbe incarnato nelle pulsazioni della natura.

Dio è in tutto e dappertutto. Da questo presupposto, crede-re alla relazione tra Dio e la natura, tra i morti e i viventi, ilpasso è breve; compierlo è facile grazie alla dottrina dell’im-mortalità dell’anima e della reincarnazione. Le manifestazioniparanormali, gli astrologi, le comunicazioni con l’aldilà nonhanno mai conosciuto tanta popolarità. Tutti questi fenomeni

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traggono origini da uno stesso spirito. Il Dio creatore che è neicieli non è più invocato. L’uomo e le potenze che provengonodal basso, lo hanno sostituito.

Sul versante cristiano, questa «ricerca del cosmo sacro» hatrovato un fervente interprete nella persona di Vaclav Havel.Durante un recente discorso tenuto presso l’università diStanford, il presidente ceco ha sostenuto la tesi di una dimen-sione spirituale che collegherebbe tutte le culture e, in definiti-va tutte le creature umane.

Questo appello a una «democrazia planetaria» non è priva diaffinità con l’ideale dell’Internazionale marxista. Ma dopo lacaduta del comunismo e sull’onda delle nuove spiritualità, unlinguaggio simile acquista un significato particolare. I valoriumanistici e antropocentrici si sono uniti ai valori religiosi.

Il mondo dello spettacolo non è estraneo a questo fenome-no. Madonna ha dedicato un canto a Gesù e a Maria nel film diLelouch. Mescolando il profumo d’incenso con lo splendore deigioielli, è nata una nuova cultura carica di tutti gli ingredientidella profezia apocalittica. L’Egitto e Babilonia cominciano adandare proprio d’accordo. Non è ancora tutto determinato. Lachiesa, le religioni, sono tutte entità presenti e separate, di fron-te ai movimenti laici e atei. Gli indizi sono, nonostante tutto,sufficienti per riconoscere una tendenza e riconoscere il cam-mino di una storia, così come è stata vista dai profeti dellaBibbia. Presto Babilonia ed Egitto danzeranno allo stesso ritmo.

Interludio: l’angelo di luce, il libro e i due testimoniDopo il sesto schofar il profeta fa una pausa, come era accadu-to dopo il sesto sigillo. Questa introduce il settimo schofar.Come nella serie dei sigilli, l’interludio si svolge nella dimen-sione di Dio.

L’angelo di luceAlla stella caduta, angelo dell’abisso che richiama il nulla e lamorte (cfr. Ap 9:1,2) si oppone, ora, un angelo potente di luceche guarda al Dio creatore (cfr. 10:1). L’arcobaleno sulla suatesta è il segno dell’alleanza tra il Dio dell’universo e l’uomo(Gn 9:12,13). I suoi piedi, posati successivamente sul mare esulla terra (cfr. Ap 10:2,5), ricordano l’azione creatrice di Dio, la

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quale si attua, prima sulle acque (cfr. Gn 1:1-8), poi, sulla terra(v. 9 e ss.). Questo personaggio ricorda il Figlio dell’uomo dellaprima visione dell’Apocalisse. Come lui, ha il volto che splendecome il sole (10:1; 1:16), i suoi piedi ardono come il fuoco (10:1;1:15), la sua voce è come il tuono (10:3; 1:15). Come lui, scendesulle nuvole del cielo (10:1; 1:7).

Ma, quando si considera la visione nel suo insieme, lamemoria va al profeta Daniele. Al capitolo 12 del suo libro,Daniele riporta la visione di un personaggio in piedi, sulleacque, che alza le mani verso il cielo che giura «per colui chevive in eterno» (v. 7). Questo solenne giuramento dell’uomovestito di lino risponde alla domanda di un altro essere celeste:«Quando sarà la fine?» (v. 6). La risposta non è completamentesoddisfacente, tanto che Daniele non comprende; la cosa obbli-ga l’uomo vestito di lino a precisare che quelle parole sonosigillate «fino alla fine dei tempi» (v. 13).

È qui l’ultimo periodo della profezia e, di conseguenza ilsolo che contiene la risposta completa e definitiva alla doman-da «fino a quando?» Solo questo periodo profetico conduce aquel «fine dei tempi». Infatti, il tempo della fine era già statol’oggetto di una rivelazione precedente.

Il capitolo 8 del libro di Daniele riporta la stessa visione deidue personaggi celesti che dialogano. Anche in questo caso l’in-contro prende il via con la domanda «fino a quando?» (v. 13).Nuovamente, la risposta conduce al tempo della fine. E unperiodo profetico viene tracciato.

In Daniele 8, il «tempo della fine» che risponde alla doman-da «fino a quando?» è posto al termine di duemilatrecento seree mattine, cioè nel 1844, ed è descritto come una festa dell’e-spiazione e purificazione del santuario.184

Poiché i milletrecentotrentacinque giorni portano ancheloro alla «fine dei tempi» come risposta alla stessa domanda«fino a quando?», si può dedurre che essi conducono agli stessiavvenimenti predetti dalla profezia delle duemilatrecento seree mattine, quindi alla stessa data e alla stessa festa dell’espia-zione dell’umanità, che è iniziata nel 1844. È da notare come il

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184 Cfr. Le soupir de la terre, pp. 179-184.

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personaggio celeste che annuncia questo Kippur del tempodella fine è vestito con l’abito di lino finissimo, proprio delsommo sacerdote, durante la festa dell’espiazione.

Questo tempo di giudizio (a partire dal 1843-44) è la rispo-sta alla domanda «fino a quando?», grido dei martiri del quintosigillo (Ap 6:10).

È il tempo definito dal profeta Daniele come «tempo dellafine» (Daniele 8:17,19,26). Ora, questo tempo è appunto quelloche è attraversato dal suono del sesto schofar. Si comprendebene, adesso, il senso di questa parentesi letteraria. Essa è unmodo per situare la visione dell’angelo di luce nel tempo. Il pro-feta Daniele aveva avvertito che la sua visione sarebbe statasigillata «sino al tempo della fine» (12:9). L’angelo dichiara, ora,che «questo tempo della fine» è arrivato e non ci sarà «più indu-gio» (10:6). Il tempo del sesto schofar segna il momento in cuila profezia di Daniele è aperta, la si può comprendere.

Il libroPer meglio esprimere questa verità, Giovanni si alza e, per ordi-ne di una voce celeste e in seguito dell’angelo, s’impadroniscedel «libro... aperto» che è nelle mani dell’angelo e lo mangia (Ap10:8,9). Questo gesto è significativo: la parola è ricevuta e assi-milata. «Il libretto» rappresenta dunque il libro di Daniele che,dopo essere stato sigillato per molto tempo, è infine «aperto» emangiato (cioè, letto e compreso). L’esperienza del profetadell’Apocalisse ricorda quella di Ezechiele: anche lui udì lavoce dello stesso angelo di luce (cfr. 1:28; cfr. Ap 1:12-15) che gliordina di mangiare un libro (cfr. Ez 3:1). Questo gesto strano èspiegato dai versetti seguenti. Indica il ministero del profetache, dopo aver «assimilato» il contenuto del libro, lo comunicaai suoi contemporanei (vv. 2-6).

Il parallelo tra i due testi non si ferma qui. Come Giovanni,Ezechiele trova il libro «dolce come del miele» (v. 3; cfr. Ap10:9,10). Per Giovanni, l’esperienza è ambigua. Alla dolcezza simescola un retrogusto amaro. Questo libro contiene «lamenta-zioni, gemiti e guai» (Ez 2:10). La ragione di questa ambiguitàrisiede nella natura stessa del messaggio profetico da trasmet-tere al popolo. Si tratta, nello stesso tempo, di un messaggio digiudizio e di restaurazione.

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Il giudizio di cui parla Ezechiele è diverso dagli altri annun-ciati fino a quel momento dai suoi predecessori: «la fine viene»(7:2,3,6). Ezechiele, profeta dell’esilio, annuncia la venuta immi-nente del giudizio di Dio. La distruzione di Gerusalemme è alleporte. Il profeta è posto in Israele come una sentinella che gridae avverte il popolo del disastro imminente. Ezechiele non siaccontenta di predicare la notizia per mezzo di oracoli, parabolee gesti simbolici (cfr. 33:2). Il profeta vive l’avvenimento doloro-so, sulla sua propria carne. Sua moglie, «la delizia» dei suoi occhi,muore (24:15-27). Egli porterà il lutto per tre anni; il tempo del-l’assedio di Gerusalemme, fino alla sua caduta (33:22).

Da un altro lato, oltre agli avvertimenti di morte e di distru-zione, Ezechiele annuncia la promessa della restaurazione. Ilritorno degli esuli è profetizzato; le tribù d’Israele saranno nuo-vamente riunite (37:21). La città di Gerusalemme sarà rico-struita (40-48). Il paese rifiorirà (47:12). Gli uomini e le donneavranno un cuore nuovo. La profezia vede l’avvenimento comeuna vera risurrezione. Le ossa, toccate dalla parola di Dio siricopriranno di carne, di nervi, di pelle, si alzeranno e torne-ranno in vita (cap. 37). Il miracolo della creazione è nuovamen-te proclamato. Come in Genesi 2:7, lo Spirito soffia per far vive-re la polvere della terra (37:9). Questo doppio messaggio, dolcee amaro nello stesso tempo, di giudizio e di creazione, si trovanell’Apocalisse e trova un’eco in Ezechiele. Questo è il messag-gio per eccellenza contenuto nella festa dell’espiazione.185

Le luci di Daniele e di Apocalisse convergono per rivelare ilcarattere del tempo della fine. In Daniele, questo tempo è espli-citamente designato quale festa dell’espiazione, cioè, un tempoambiguo di speranza che annuncia, contemporaneamente, ilgiudizio e la ricreazione del mondo. Nell’Apocalisse, questotempo è descritto attraverso la visione del profeta che mangia illibro di Daniele e lo trova sia dolce sia amaro.

I libri di Daniele e Apocalisse si completano. Il fatto stessoche il profeta Giovanni sia chiamato a mangiare il libro diDaniele è significativo e parla di una relazione di interdipen-denza tra le due rivelazioni.

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185 Cfr. Le soupir de la terre, p. 185.

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Questo reparto acquista tutto il suo senso quando, dopo averavvallato il libro, Giovanni è chiamato a profetizzare «su moltipopoli, nazioni, lingue e re» (10:11). La stessa frase la ritrovere-mo in seguito, al capitolo 14, per caratterizzare la missione delmessaggero profetico dei tempi della fine, anche lui chiamato aparlare «a ogni nazione, tribù, lingua e popolo» (v. 6). Anche inquesto passo il messaggio è centrato sul giudizio e sulla crea-zione (14:7-11). Il popolo di Dio del tempo della fine, imperso-nato da Giovanni che ha assimilato il libro di Daniele, è annun-ciato come un popolo di profeti la cui missione è di portare almondo il messaggio di Daniele riassimilato dall’Apocalisse.

I due testimoniLa visione seguente mette Giovanni nuovamente a confrontocon l’esperienza profetica di Ezechiele. Come lui, riceve unaverga per misurare il tempio della Gerusalemme futura (cfr. Ap11:1; Ez 40:3). Questo gesto simbolico diventa chiaro quando losi mette in parallelo con il ciclo dei sigilli. Dopo l’apertura delsesto sigillo, la serie si era interrotta per consentire a Dio disegnare il suo popolo, esperienza che gli consentirà di vivere intempi difficili (7:3). Allo stesso modo, dopo lo squillo del sestoschofar il profeta si ferma a misurare il tempio di Dio annun-ciandone la restaurazione (cfr. 11:1; Zc 2:2). Più esattamente,Giovanni deve misurare «l’altare» e contare «quelli che vi ado-rano». La visione si applica al popolo di Dio attraverso la storia.Questo popolo ha ricevuto la missione di «profetizzare» (11:3).La sua missione è simile a quella del popolo di Dio dei tempiultimi: testimoniare della rivelazione che viene dall’alto.Mentre, in precedenza la testimonianza verteva su Daniele el’Apocalisse, ora, arrivati alla fine della storia umana, la testi-monianza si allarga all’intero messaggio biblico. L’oracoloparagona questo popolo «profetico» a «due testimoni» (11:3) espiega: «Questi sono i due olivi e i due candelabri che stannodavanti al Signore della terra» (11:4).

Il profeta Zaccaria riporta un’analoga immagine di due olivie di un candelabro (4:1-6,11-14). Alla domanda del profeta:«Che significano queste cose?» (v. 4), l’angelo risponde: «“Nonper potenza, né per forza, ma per lo Spirito mio” dice il SIGNORE

degli eserciti» (v. 6).

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Capitolo 3

La spiegazione dell’angelo si basa sul rapporto tra l’olio d’o-liva e il candelabro. Come il candelabro illumina grazie all’olioversato dall’alto, così la parola profetica rischiara grazie alloSpirito che scende dall’alto.

Nella Bibbia, la Parola di Dio è spesso paragonata alla luce.Il salmista ne trae un principio dinamico proprio del camminoverso Dio: «La tua parola è una lampada al mio piede e una lucesul mio sentiero» (Sal 119:105). I proverbi compongono giochiverbali per riferire la torah, la legge di Dio rivelata, alla luce, ôr(cfr. Prv 6:23); le due parole derivano dalla stessa radice. NelNuovo Testamento «Dio è luce» (1 Gv 1:5) e, quando Gesù siidentifica con la luce, egli la riferisce alla via (cfr. Gv 8:12) nellospirito del Salmo 119, facendo, in questo modo, allusione allatorah, la rivelazione di Dio.

All’immagine dell’ulivo e del candelabro si aggiunge un’al-tra identificazione dei due testimoni. I miracoli che essi com-piono ricordano due personaggi importanti dell’AnticoTestamento, Mosè ed Elia. Mosè è ricordato per il miracolodelle acque mutate in sangue e delle piaghe che colpiscono laterra (cfr. 11:6; Es 7:14-18). Elia è ricordato dall’evento delfuoco che divora il nemico e della pioggia sottomessa al con-trollo (cfr. 11:5,6; 1 Re 19:10; 17:1). Ora, il solo testo dell’AnticoTestamento che associa questi due personaggi si trova inMalachia, l’ultimo profeta canonico delle Scritture ebraiche.«Ricordatevi della legge di Mosè, mio servo, al quale io diedisull’Oreb leggi e precetti, per tutto Israele. Ecco, io vi mando ilprofeta Elia, prima che venga il giorno del SIGNORE, giorno gran-de e terribile. Egli volgerà il cuore dei padri verso i figli, e ilcuore dei figli verso i padri, perché io non debba venire a col-pire il paese di sterminio» (4:4-6).

Il testo in questione è orientato in due direzioni diverse eopposte; la prima si riferisce a Mosè e guarda, di conseguenza,al passato. È un appello alla memoria, alla fedeltà all’anticopatto stipulato tra Dio e il suo popolo. Mosè rappresenta l’AnticoTestamento. Per i cristiani contemporanei di Giovanni, Mosèera associato alla rivelazione del primo patto.186

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186 Matteo 23:2; Giovanni 1:17; Atti 15:21.

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Secondo la tradizione ebraica, Mosè era all’origine di tuttol’Antico Testamento. «Mosè ricevette la torah sul Sinai e la tra-smise a Giosuè. Giosuè la trasmise agli anziani, gli anziani aiprofeti e i profeti ai membri della grande assemblea» (PirqeyAboth 1:1).

La seconda direzione si riferisce a Elia ed è orientata versol’avvenire. Si tratta della promessa della venuta del Messia eincoraggia la speranza. I cristiani dell’epoca di Giovanni asso-ciavano Elia alla venuta del Messia.187 Lo stesso fa la tradizionegiudaica. Le leggende che si tramandano, i gesti liturgici duran-te le sere pasquali del seder, i canti nostalgici del Shabbat sulfar della sera «sono pieni dell’attesa del Messia».188

Come Mosè riporta alle radici dell’Antico Testamento, Eliachiama alla speranza messianica del Nuovo Testamento.

Per Giovanni, nutrito alle sorgenti giudeo-cristiane, l’allu-sione a Mosè e a Elia non è casuale. Essa è carica di allusionialle due rivelazioni di Dio, che comunemente sono chiamate,Antico e Nuovo Testamento. I due testimoni sono qui presenti egiocano un ruolo nel processo profetico.

Tramite questo doppio riferimento scaturisce la lezione delrispetto per tutta la Bibbia. La complementarietà dei due testi-moni è ancora una volta testimoniata e sottolineata. Senzal’Antico Testamento, che profetizza la venuta del Messia e ponei principi fondamentali di una vita ispirata alla legge di Dio,proveniente dall’alto, non sarebbe possibile né riconoscere ilMessia né comprendere il suo messaggio né riceverlo. Senza ilNuovo Testamento, che compie le profezie e rivela il senso pro-fondo della legge dall’alto, non si potrebbe comprendere l’in-tenzione delle antiche istituzioni ebraiche né cogliere l’orienta-mento delle profezie messianiche.

Ma, al di là di questi due documenti ispirati, l’immagine deidue testimoni si applica ai popoli che li hanno trasmessi. Infatti,il profeta vede, prima di tutto, degli uomini e delle donne cheprofetizzano e che soffrono (Ap 11:3,7).

Occorre, innanzitutto, pensare al popolo ebraico, che ha

187 Luca 1:13-17; Matteo 17:10-13.188 A.R. Neher, Histoire, vol. 2, n. 272, p. 405.

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Capitolo 3

portato nella propria carne e al ritmo della sua esistenza quoti-diana, la testimonianza della legge che viene dall’alto. Gli ebreihanno conservato coscienziosamente e appassionatamente leScritture ebraiche con le profezie, specialmente quelle diDaniele.

Sono stati gli ebrei fedeli, quelli che hanno pagato con laloro vita o con lacerazioni sociali e affettive, per il solo fatto diessere ebrei. Ma occorre anche pensare alla chiesa, quella cheha portato al mondo la buona notizia della salvezza e dell’amo-re di Dio e ha fatto conoscere il nome di Gesù Cristo, che haconservato con cura e competenza gli scritti del NuovoTestamento; con le sue profezie, con l’Apocalisse. Pensiamo aquei cristiani che hanno conosciuto il martirio e sono morti peraver proclamato la loro fede, rifiutando ogni compromesso.

Senza questi due popoli, noi non avremmo potuto accederealle Scritture, all’Antico e Nuovo Testamento né alle verità dicui sono carichi. Senza di loro, persone in carne e ossa, inseritiin una cornice storica, questi documenti, sarebbero rimasti let-tera morta e ridotti a pezzi da museo.

In definitiva è perché l’uno o l’altro di questi testimoni, èstato trascurato, ignorato o addirittura rigettato, che si è resonecessario il fatto che Israele e la chiesa, sopravvivessero insie-me, testimoni complementari per il mondo, ma anche utili reci-procamente.

Ignorare una di queste due testimonianze conduce inevita-bilmente a una deformazione, se non a un’amputazione dellarivelazione di Dio. Essi, non soltanto si illuminano a vicenda, maanche si completano, portando una verità che manca all’altro.

Il principio dell’unità e della complementarietà dei duetestimoni è fondamentale per la comprensione del librodell’Apocalisse. Senza il libro di Daniele, l’Apocalisse rimaneoscuro, non soltanto a causa delle sue allusioni e referenze aquesto libro, ma perché si situa idealmente sulla stessa linea,utilizzandone il linguaggio e la stessa simbologia, riferendosiallo stesso filone di avvenimenti.

Ne abbiamo un esempio eloquente in quelle cronologie,periodi di tempo, che richiamano il calendario profetico diDaniele (Ap 11:2,3). In entrambi si parla di oppressione chedeve durare milleduecentosessanta giorni profetici, l’equiva-

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lente di quarantadue mesi (42x30). Daniele prevede una perse-cuzione che durerà «un tempo, dei tempi e la metà d’un tempo»(Dn 7:25).

L’analisi di questa espressione nel contesto del libro diDaniele189 rivela che il profeta pensa a un anno (360 giorni), dueanni (360x2) e la metà di un anno (360:2), per un totale di mil-leduecentosssanta giorni-anni. Per descrivere questo tempo dipersecuzione, Giovanni utilizza un linguaggio che richiamaquello di Daniele: «... le nazioni… calpesteranno la città santa»(Ap 11:2), come il piccolo corno calpesterà i santi (Dn 8:10).

Si tratta, dunque, dello stesso avvenimento visto da due pro-fezie. La storia mostra, in effetti, che per milleduecentosessan-ta anni, a partire dal 538 a.C., data nella quale la chiesa diven-ta un potere temporale, fino al 1798, data in cui esso viene dura-mente scosso, i testimoni delle Scritture vengono costantemen-te colpiti. Durante tutto questo tempo, ci dice l’Apocalisse, i duetestimoni profetizzano «vestiti di sacco» (11:3), precisa, in segui-to, che essi saranno colpiti a morte dalla «bestia che sale dall’a-bisso» (11:7).

Il luogo del dramma si colloca in un senso spirituale (11:8)in rapporto a tre luoghi che hanno segnato la storia biblica: «Lagrande» città, cioè Babilonia (14:8), che personifica l’usurpazio-ne dell’autorità di Dio; l’Egitto, che rappresenta la negazione diDio; e Sodoma che incarna la degradazione morale e l’ignoran-za di Dio. In questi luoghi Dio è morto; è stato sostituito, nega-to o semplicemente ignorato.

Perseguitando i testimoni di Dio, in realtà si è colpito più inalto. Il crimine è assimilato a un vero e proprio deicidio.L’accusa è portata in modo esplicito dall’Apocalisse che vede inquesto luogo un altro Golgota, «dove anche il loro Signore èstato crocifisso» (11:8).

Nel vento della Rivoluzione francese, che è rappresentatadalle forze che salgono dall’abisso (9:1,2), non soltanto la reli-gione ufficiale viene attaccata, ma anche tutto ciò che la ricor-da o la ispira. Il nuovo culto della Ragione promuove la distru-zione delle Scritture e la negazione di Dio. Sulle pubbliche piaz-

189 Cfr. Le soupir de la terre, p. 156.

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ze, i libri considerati come sacri, dai cristiani come dagli ebrei,vengono bruciati. La seguente testimonianza è riportata da ungiornale dell’epoca: «Ieri, giorno della Decade sono state can-cellate le ultime tracce della superstizione: una grande catastadi legna alzata sulla piazza era cosparsa da una moltitudined’immagini e di quadri portati via dalle chiese. La folla ha but-tato sulla legna circa seimila volumi cosiddetti religiosi; mentrelo faceva cantava degli inni repubblicani. Persino degli ebreipresenti in città sono venuti a portare libri sacri rinunciandoalla loro ridicola attesa del Messia. La massa dei libri portati eracosì tanta che il fuoco acceso arde ancora alle dieci di questamattina».190

Nel novembre 1793, la Convenzione promulgò un decretoche aboliva tutti i culti. Per la prima volta nella storia della chie-sa, è proclamata la fine della religione cristiana: «La ragione hariportato una grande vittoria sul fanatismo; una religione dierrori e di sangue è stata annientata; dopo diciotto secoli essanon ha causato che dei mali per la terra e nonostante questo èstata chiamata divina! I vespri siciliani, il massacro di SanBartolomeo, le Crociate, i Valdesi, ecco le sue opere, ecco i suoitrofei: che essa sparisca dalla faccia della terra».191

La storia ha dei risvolti ironici. La chiesa che ha soffocato latestimonianza delle Scritture, ha prodotto per reazione laRivoluzione francese che ha bruciato le Scritture. La chiesa hanegletto la rivelazione che viene dall’alto, ha perseguitato e difatto generato il suo proprio distruttore che in un attimo ne hacarpito l’anima; la Parola di Dio è stata rigettata. La cronacaprofetica degli avvenimenti contiene una lezione spiritualespesso ripetuta dall’Apocalisse: l’iniquità genera spesso il suoproprio giudizio. Ma l’Apocalisse guarda ancora più lontano. Aquesto giudizio immanente si unisce un giudizio dall’alto il cuieffetto è duplice. Da una parte un terremoto scuote «la città»(11:13), un luogo già definito come «la grande città», cioèBabilonia. Il potere, l’usurpatore riceve un terribile colpo.

Siamo nel 1798, nel momento in cui la chiesa, attaccata da

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190 Le Moniteur, I trim., anno II.191 Le Moniteur, 14 novembre 1793.

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due lati, vede il suo capo politico e spirituale, il papa, messo inprigione. Pertanto, la vitalità della chiesa non è per questodiminuita. Secondo la profezia, solo «la decima parte della cittàcrollò e settemila persone furono uccise» (11:13). Queste duemisure hanno un significato ben preciso nella tradizione bibli-ca. La decima simboleggia una grandezza minima;192 questosignifica che il colpo è inferto su una piccola parte della città.Le «settemila persone», nella memoria biblica, sono associateall’idea di «resto»;193 ciò significa che questo potere politico ereligioso si rimetterà molto presto da simile aggressione, per-ché il colpo ricevuto non è stato mortale.

D’altra parte, il popolo di Dio e i testimoni ritornano in vita.L’avvenimento è riferito in un linguaggio che evoca il miracolodella risurrezione. Dopo l’allusione alla crocifissione di Gesù, iltesto allude alla sua risurrezione. L’idea è già presente nei «tregiorni e mezzo»194 che ricordano la durata del soggiorno diGesù nella tomba prima della sua risurrezione (cfr. Mc 9:31; Gv2:19-22). «... uno spirito di vita procedente da Dio entrò in loro;essi si alzarono in piedi» (Ap 11:11). È anche il messaggio con-tenuto nel meccanismo di questa restaurazione che ricorda ilmiracolo della risurrezione descritto in Ezechiele 37:5,9,10.Nello stesso tempo, il seguito degli avvenimenti evoca l’ascen-sione di Gesù dopo la sua risurrezione: «Essi salirono al cielo inuna nube» (v. 12; cfr. At 1:9).

In effetti, a partire dagli anni 1797-98, nel momento in cuila chiesa è colpita e tre anni e mezzo dopo la proclamazionedella morte della religione cristiana, per la prima volta vieneindirizzato un appello alla tolleranza e alla libertà di tutti i culti.Lo scrittore e uomo politico Camille Jordan fu uno dei primi

192 Cfr. Isaia 6:13; Levitico 27:30; Le soupir de la terre, n. 486, pp. 148,299.193 1 Re 19:18; 20:15.194 Secondo le credenze dell’epoca, il processo di decomposizione non comincia-va che dopo tre giorni. Allora soltanto il defunto era ufficialmente morto. Parlaredi risurrezione dopo tre giorni, equivaleva a sostenere la realtà di un miracolo. Aldi là dell’esempio di Gesù, questa lezione si ritrova altrove, nelle Scritture. Lazzaronon risuscita se non il quarto giorno (Gv 11:17,39). Giona esce dal pesce dopo tregiorni, un tempo che egli identifica con il soggiorno dei morti (Gio 2:3; Os 6:1,2).

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ideologi della Restaurazione; egli scrisse nel maggio 1797 alconsiglio dei Cinquecento: «La fede in Dio è una garanzia diordine e di stabilità per lo stato, cosa che nemmeno le migliorileggi sono capaci di fare. Che tutti i nostri concittadini sianodunque oggi pienamente rassicurati: che tutti, cattolici, prote-stanti, credenti e non credenti, sappiano che è la volontà dellegislatore, come l’auspicio della legge, che essi seguano intutta libertà la religione che il loro cuore ha scelto. Io rinnovoloro, a nome vostro, la sacra promessa che tutti i culti sarannoliberi in Francia».195

Per la comunità ebraica, è chiaro che la Rivoluzione france-se e il suo erede Napoleone, hanno inaugurato una nuova era.Ovunque arrivavano gli eserciti francesi, cadevano i muri deighetti e gli ebrei liberati diventano cittadini con pari diritti. InSpagna l’Inquisizione è immediatamente soppressa e i «marra-nos» possono per la prima volta proclamare la loro fede ebrai-ca, per lungo tempo mantenuta segreta.196

Da quel momento inizia un movimento di ritorno alleScritture. Dopo appena un anno dalla frase di Voltaire che pre-diceva la sparizione della Bibbia votandola a una sorta di«calendario dell’anno scorso», il testo sacro ritrovava un postopreponderante nella cultura e nei cuori.

I due testimoni sono rimessi in piedi al momento dovuto, esat-tamente tre giorni profetici e mezzo, tre anni e mezzo dopo la loromorte. I testimoni sono risuscitati e ancora oggi sono vivi e vege-ti. La Bibbia è diventata il più grande best-seller di tutti i tempi.Quanto a Israele e alla chiesa, essi sono sopravvissuti più dinami-ci che mai. Israele all’olocausto e la chiesa alle ideologie atee.

L’ira di DioIl settimo schofar annuncia il «terzo guaio» (11:14) che colpiràdurante gli ultimi momenti della storia umana. L’avvenimentoè descritto come un tempo della fine. Nel corso della visioneprecedente, il settimo schofar è atteso come la realizzazione del

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195 J. Vuilleumier, L’Apocalypse, Dammarie-lès-Lys, 1941, p. 177.196 A. Chouraqui, Histoire du Judaïsme, Paris, 1963; A.L. Sachar, Histoire desJuifs, Paris, 1973, p. 324.

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«mistero di Dio» (10:7). L’espressione è familiare nel linguaggiobiblico-apocalittico;197 essa si applica al senso nascosto dellastoria. Paolo la utilizza per descrivere l’atto finale dell’azione diDio nella storia.198 Poiché è solo alla fine dei tempi che il miste-ro sarà svelato, al compimento della profezia in questione. Ilsettimo schofar fa dunque da specchio al sesto sigillo. Entrambisi rapportano agli stessi avvenimenti esprimendosi nei medesi-mi termini: questo è il tempo dell’ira di Dio e del giudizio dellenazioni (cfr. 11:18; 6:15-17). I due passi hanno una prospettiva,comunque diversa. Il sesto sigillo illumina uno scenario terre-stre, mentre il settimo schofar si apre a una prospettiva celeste.Nel sesto sigillo, la visione parte dalla terra e progredisce versol’avvenire, per culminare nel cielo, dove Dio regna sul suotrono. Nel settimo schofar, la visione parte dal cielo per finiresulla terra, un processo logico tipico del pensiero ebraico.199

La visione presenta tre fasi. La prima concerne il momentoin cui delle voci tonanti gridano che tutto è compiuto. «Il regnodel mondo è passato al nostro Signore e al suo Cristo ed egliregnerà nei secoli dei secoli» (11:15). Un raffronto con il capito-lo 4 rivela un certo numero di temi comuni. È la stessa cerimo-nia di adorazione e sono gli stessi attori. Anche in questo passoabbiamo «ventiquattro anziani che siedono sui loro troni (11:16;cfr. 4:4); anche qui, Dio è invocato con lo stesso titolo: «Dioonnipotente, che sei e che eri» (11:17; cfr. 4:8). Solo la menzio-ne del «Dio che viene» di Apocalisse 4:8, è assente in Apocalisse11:17. La sola spiegazione per questa omissione è che la paru-sia è già avvenuta, in quel momento.

Inoltre, nella liturgia di Apocalisse 4, l’intervento dei venti-quattro anziani è preceduta dal Sanctus pronunciato dalle quat-tro creature viventi. Come abbiamo già presentato, esse sono unrichiamo al tema della creazione. Quello è il momento in cuitutta la creazione riconoscerà in Dio il proprio re. È il fine ultimodi tutto il piano di Dio. Dio regna effettivamente e per sempre.

I ventiquattro anziani passano dall’adorazione all’evocazio-

197 Apocalisse 1:20; 17:5-7; Daniele 2:22.198 Romani 16:25,26; cfr. Colossesi 1:25,26.199 Cfr. Le soupir de la terre, p. 219.

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ne dell’evento che ha portato a questo momento finale, cioè ilgiudizio, scomposto in questo caso, in due successive operazio-ni (14:14-20):

a. Il giudizio dei morti che significa «la distruzione» dei mal-vagi, «le nazioni adirate» che «distruggono la terra» (11:18). Laprofezia riporta a una visione ulteriore dell’Apocalisse (20:12-15), che colloca questo avvenimento dopo i mille anni. Nei duetesti si parla, difatti, di giudizio dei morti utilizzando lo stessolinguaggio «grandi e piccoli». «E vidi i morti, grandi e piccoli, inpiedi davanti al trono. I libri furono aperti, e fu aperto anche unaltro libro che è il libro della vita; e i morti furono giudicati dallecose scritte nei libri, secondo le opere loro» (20:12).

b. Il giudizio dei «santi» che porta alla loro ricompensa(11:18). La visione fa qui allusione al momento della parusia,quando Gesù Cristo verrà a prendere i suoi, un avvenimentoche precede i mille anni. Anche qui, la visione rimanda a unpasso ulteriore sulla base di temi comuni: «Ecco, io sto per veni-re e con me avrò la ricompensa da dare a ciascuno secondo lesue opere» (22:12). In effetti, i due giudizi sono dipendenti l’unodall’altro: nel distruggere «coloro che distruggono la terra», Diosalva la terra.

Qui non si parla strettamente di ecologia. Bisogna com-prendere questo riferimento in senso spirituale. Nell’Apocalissee soprattutto nei testi paralleli, nell’ottica del sesto sigillo, laterra rappresenta gli esseri umani minacciati dal nemico (7:3);nel quinto schofar, «l’erba della terra», «la verdura», «gli alberi»,rappresentano coloro che sono segnati con il sigillo di Dio (9:4).

La distruzione della terra di cui si parla riguarda essenzial-mente il campo religioso e spirituale. Le nazioni sono «adirate»contro Dio, per questo distruggono la terra. Questo strano rap-porto è suggerito a partire dall’aggettivo che le qualifica. Laparola «adirate» è presa in prestito dal Salmo 2, dove vienedescritto il carattere del Messia che viene a prendere possessodel suo regno (v. 5). Ma, al posto del Messia del salmo, trovia-mo le nazioni con la loro rabbia. Esse si comportano come sefossero le proprietarie legittime della terra e la collera chedovrebbe essere di Dio, ecco che diviene la loro. Ancora, siamodi fronte a questa mentalità usurpatrice di Dio che porta allapersecuzione di altri uomini. A causa del loro rigetto di Dio in

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qualità di Signore della terra, avendone preso il posto, esse sisono trasformate in forze persecutrici. Di nuovo lo stesso mec-canismo d’intolleranza e oppressione religiosa. Questi uominiuccidono i loro fratelli perché hanno perso il senso del Padreceleste, al di sopra di loro. Il parricidio conduce fatalmente alfratricidio. Il rigetto del Dio assoluto e trascendente conduceinevitabilmente alla crociate, all’Inquisizione, al fascismo inte-gralista e nazionalista. Ecco perché il giudizio di Dio contro lenazioni diventa un giudizio salvifico per la terra.

Lo sguardo profetico del settimo schofar è posto indietro neltempo. Partito dall’instaurazione definitiva del regno di Dio,prosegue con il castigo delle nazioni e si conclude con l’eventoche aveva innescato tutto il processo: la venuta di Gesù Cristo.

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Seconda parte

Quando il cielo rosseggia

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Quest’ultima visione del «Dio che viene» ci porta al centrodell’Apocalisse, la quale fa eco alla prima visione del libro (1:1-8).Come nel libro di Daniele, la struttura dell’Apocalisse concentrala visione centrale, sul tempo della fine e del giudizio (cap. 7).200

Dopo la lunga serie di tempeste che hanno imperversato sulcorso della storia della chiesa, le nuvole minacciose, ora, sicolorano di speranza (Mt 16:2).

Il dragone sulla terra attacca la donna (primo segno, Ap 12),nel farlo chiede aiuto alle forze del mare e della terra (secondo eterzo segno, cap. 13. In un cielo pieno di attesa (interludio 14:1-5)tre angeli gridano agli ultimi uomini della storia, il messaggiodi speranza (quarto, quinto e sesto segno, 14:6-13). In effetti,alla fine di questo triplice grido, il cielo è finalmente riempitodella presenza di Dio che viene (settimo segno, 14:14-20).

Preludio sull’arcaPrima di entrare nella nuova serie dei sette, come sempre aquesto punto, la visione ci porta nello spazio del santuario:«Allora si aprì il tempio di Dio che è in cielo...» (11:19).

KippurL’attenzione, ora, volge sull’arca dell’alleanza nel luogo santis-simo. Ci troviamo durante la festa dell’espiazione (o Kippur, inebraico), il solo giorno dell’anno nel quale il luogo santissimo èaperto al sacerdote. Si tratta ancora di una festa ebraica chediventa il preludio di un nuovo ciclo di sette segni.

L’evocazione del Kippur giunge a proposito, proprio allafine della festa degli schofar (Lv 23:26-32), alla fine dei diecigiorni di preparazione (il 10 di Tishri, il settimo mese). La festadegli schofar era carica del messaggio del giudizio d Dio che lachiesa doveva ricevere a partire dalla morte e dalla risurrezio-ne di Cristo. Nello stesso modo, la festa delle espiazioni è, ora,piena del messaggio della venuta del giudizio di Dio sulla chie-sa alla fine dei tempi. E, non è per caso che l’arca occupi tuttolo spazio della visione. Essa svolge un ruolo centrale durante lafesta delle espiazioni.

200 Cfr. Le soupir de la terre, pp. 15,141.

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Sull’arca dell’alleanza veniva asperso il sangue dei sacrifici(cfr. Lv 16:13-15). Ora, questo oggetto posto in fondo al luogo san-tissimo, sul quale erano chinati i due cherubini in oro battuto(cfr. Es 37:7-9), rappresenta, nello spirito ebraico, il trono di Dionei cieli201 e la presenza di YHWH (Nm 10:35,36).

Portare il sangue sull’arca equivaleva a un giudizio divino,perché presupponeva che un animale fosse morto per il pecca-to; nello stesso tempo indicava la grazia di Dio, perché il sanguesull’arca indicava che Dio stesso si era caricato del peccato per-donato. La vita, dunque, poteva riprendere su di un nuovo cam-mino. La grazia va di pari passo con la giustizia. La grazia delperdono non si riceve se non nella misura in cui la giustiziadella legge viene soddisfatta. La giustizia e la grazia si trovanocompiute nel simbolo dell’arca dell’alleanza.

È significativo il fatto che l’arca contenga, con la legge, laverga di Aronne che era fiorita, con dei campioni di manna.202

Da una parte, la legge manifestava l’esigenza della giustizia; èsulla base di essa che la sentenza verrà pronunciata. D’altraparte, la verga fiorita di Aronne e la manna caduta nel desertoerano segni della grazia d Dio che crea dal nulla. La verità diquesta complementarietà è stata tramandata dalla mistica ebrai-ca, la quale ha visto nei cherubini chini sull’arca l’espressione didue attributi fondamentali di Dio: la giustizia e la misericordia.

Il fatto che il sangue di Gesù Cristo sia stato necessario perconseguire il perdono, attesta la giustizia di Dio. Che Gesù abbiaacconsentito a subire il martirio dichiara l’amore di Dio perl’uomo. Ma, nonostante questo atto inaudito, consumato sullacroce, si rende necessario un giudizio capillare di Dio, cosa chesottolinea l’esigenza della giustizia di Dio, in merito alla realiz-zazione della salvezza. Tutto il messaggio è concentrato su que-sta visione che apre la seconda parte dell’Apocalisse (11:19). Alcielo aperto che mostra l’arca dell’alleanza e proclama il perdo-no di Dio, si aggiungono «lampi e voci e tuoni e un terremoto euna forte grandinata», messaggio dolce e amaro per un giudizionutrito di speranza, per i goyim, gli abitanti della terra.

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201 Isaia 6:1-3; Ezechiele 1:4-28.202 Ebrei 9:4; Esodo 16:33,34; Numeri 19:10; Deuteronomio 10:5.

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Capitolo 4

Il diavolo e la donna

La donnaSu questo retroterra di speranza e di giudizio prende vita unanuova visione dell’Apocalisse. In quello stesso cielo, dove losguardo profetico si sofferma sull’arca dell’alleanza, nasce unadonna bellissima, incoronata da dodici stelle e risplendentedella luce del sole e della luna. La visione non ha niente delsogno meraviglioso, il cui senso si perde nelle nebulose dell’in-conscio. La sua figura si staglia in modo netto e i suoi simbolisono familiari nella Bibbia.

Nella tradizione ebraica, l’immagine della donna scorre sudue piani. Per un verso, la donna rappresenta la sposa o lafidanzata di Dio; attraverso questo riferimento si comprendebene la relazione d’amore di Dio per il suo popolo. Il Canticodei cantici, i profeti Isaia, Geremia, Ezechiele, Osea, Amos,testimoniano questa immagine, nata già all’inizio della relazio-ne di Dio con Israele.

In altri casi, la donna rappresenta la madre. L’immagine siarricchisce, allora, di promesse profetiche. Adamo chiama suamoglie Eva, cioè «madre di tutti i viventi» (Gn 3:20). Per ilprimo uomo, la donna rappresenta la garanzia di un futuro.Ella è il canale che permetterà al seme umano di fecondare l’u-manità. Per l’autore della Genesi, la donna porta il seme chesalverà l’umanità (v. 15). È evidente che le due funzioni dimoglie e di madre sono in relazione tra loro. Grazie alla rela-zione coniugale, la sposa diventa madre.

Nel testo dell’Apocalisse, la visione della donna ricorda ilsogno di Giuseppe (cfr. 37:9-11). Il sole, la luna e le stelle com-paiono quale simbolo della famiglia d’Israele: Giacobbe,Rachele e i suoi dodici figli. Associata a quegli astri, la donnarappresenta, dunque, Israele, il popolo di Dio.

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Inoltre, il profeta vede la donna in preda alle doglie; nellasimbologia ebraica è una chiara allusione alla speranza mes-sianica.203 Perché, in fondo, i sintomi che caratterizzano Israele«contorto» nello spasimo dell’attesa messianica, sono gli stessidi una donna che sta per partorire. La sua impazienza di vederapparire il neonato, si mescola all’angoscia dell’incertezza e aldolore vivido che scuote tutte le membra. Le promesse ci sonotutte, ma in concreto, ancora niente. Solo la fede immaginaattraverso lo spessore del silenzio, la vita segreta del seme checresce, nelle profondità della madre. Tutto questo è nascostonell’immagine della donna che soffre, nell’attesa.

Il diavoloDi fronte alla speranza che promette l’irruzione di Dio nella sto-ria, il profeta vede l’antisperanza personificata dal dragone.Anche qui, la visione è piena di riferimenti simbolici propridell’Antico Testamento. Già dalle prime pagine della Genesi, ilserpente incarna la potenza del male (cap. 3). È lui che seducee trascina i primi uomini nella disubbidienza e nella morte.

In seguito, sarà ancora il serpente che verrà utilizzato daiprofeti per illustrare la potenza orgogliosa e malefica del farao-ne d’Egitto.204 Il testo apocalittico si colloca nella linea di que-sta tradizione. Qualche versetto più lontano, il dragone è espli-citamente identificato come «il serpente antico, che è chiamatodiavolo e Satana» (Ap 12:9). Troppo sbrigativamente, il perso-naggio del diavolo è stato ridotto a un mito buono per esseresbattuto in soffitta come le cose inutili, invecchiate, come unacredenza ingenua valida solo per i nostri antenati. Non si è capi-to abbastanza il valore di questa nozione che si è cercato di eli-minare dalla religione. Notava ironicamente Baudelaire: «Carifratelli non dimenticate mai, quando udirete vantare il progres-so dell’Illuminismo, che la più straordinaria astuzia del diavoloè quella di convincervi che non esiste».205

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203 Isaia 13:8; Osea 13:13.204 Isaia 51:9; 32:2.205 C. Baudelaire, Le spleen de Paris, Oeuvres complètes, Bibliothèque de laPléiade, Paris, 1961, p. 276.

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Il diavolo e la donna

Lo sguardo lucido del profeta dell’Apocalisse perfora larealtà svelandola per quella che è. Il diavolo è identificato come«il seduttore di tutto il mondo» (12:9), cioè come colui di cui nonsi riconosce immediatamente la presenza e la potenza malefica.La figura del diavolo, così come è evocata, non ha niente a chevedere con il mostro dalle corna e zoccoli da caprone. Egli èqualcuno che si nasconde e si traveste dietro le azioni più cla-morose, le motivazioni più nobili e le cause più sacre. Il diavo-lo è qualcuno che ci trascina al male dandoci l’illusione diandare verso il bene. Il racconto della creazione ci svela questometodo fin dal suo esordio. Il serpente fece credere alla donnache disubbidire a Dio fosse una virtù (cfr. Gn 3:5). Il diavolo sinasconde anche in quelle idee che lo rimettono in questioneper ridurlo a un semplice principio di ordine psicologico. Perl’Apocalisse, invece, il diavolo esiste ed è proprio una persona.Egli agisce all’interno della storia umana. La descrizione dellabestia straordinaria che lo rappresenta supera, comunque,quella del serpente. Con le sue dieci corna, essa richiama laquarta bestia di Daniele 7. Il numero delle teste (sette) è sacroe traduce il carattere soprannaturale di questo dragone-serpen-te. Qui viene rappresentato il male assoluto e soprannaturale. Ilcolore rosso del fuoco aggiunge al quadro generale una conno-tazione di crudeltà e di violenza.

Tanto la donna sul punto di partorire appariva vulnerabile,tanto il dragone rosso, con le sue sette teste e le sue dieci corna,trasuda minaccia. Da questo momento in poi, la storia del drago-ne-serpente si riduce a una serie di aggressioni contro la donna.

Guerra a oltranza

Guerra nel cieloGiovanni vede il conflitto iniziare sullo scenario celeste. Il pro-blema del male non è specifico della condizione umana, ma èun problema cosmico. I profeti Isaia ed Ezechiele tracciano lostesso quadro. Partendo dalla realtà di Tiro e Babilonia, essievocarono quella stessa guerra primordiale che agitò il cielo efinì nella medesima tragedia: la caduta di un essere celeste chemirava troppo in alto. «Eri un cherubino dalle ali distese, unprotettore. Ti avevo stabilito, tu stavi sul monte santo di Dio,

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camminavi in mezzo a pietre di fuoco. Tu fosti perfetto nelle tuevie dal giorno che fosti creato, finché non si trovò in te la perver-sità… Il tuo cuore si è insuperbito per la tua bellezza; tu hai cor-rotto la tua saggezza a causa del tuo splendore; io ti getto a terra...ti riduco in cenere sulla terra...» (Ez 28:14-18, cfr. Is 14:13-15).Secondo il racconto dell’Apocalisse, questa guerra celeste scop-piò bruscamente. L’avvenimento è qui descritto senza l’apportodi alcuna ragione, privo di premesse razionali. La perversità èstata trovata in te, commenta Ezechiele (28:15). L’avvento delmale è irrazionale. Il mistero di questa assurdità che ci colpiscetutti è spiegato in questo modo: la terra è occupata da Satana edai suoi alleati. Essi sono stati precipitati giù dal cielo, espulsidalla presenza di Dio, confusi al nulla e alle tenebre che prece-devano la creazione.

Il fatto che Dio abbia scelto questo punto preciso per attira-re l’attenzione dell’umanità, può stupire se non addiritturacreare sospetti. In realtà, questa strana dichiarazione contieneuna lezione di ampia portata. Dio lancia una sorta di sfida all’u-niverso e alla storia. Siamo di fronte a un paradosso. Il pianodella salvezza si svolge e si realizza proprio su quel terrenotenebroso e caotico, nel quale Dio è negato e combattuto.Proprio la terra, diventata il rifugio di Satana, diventerà l’epi-centro dell’azione salvifica di Dio.

Guerra sulla terraGiunto sulla terra, il diavolo attacca la donna. Ella è il primooggetto della sua opera seduttrice (Gn 3:1). Anche in seguito èsu di lei che continuerà ad accanirsi. Attraverso la donna ilseme della salvezza sarà, infatti, salvaguardato e veicolato.Questa verità scaturisce dalle prime pagine della Bibbia. Dopola triste esperienza di Abele, Eva riceve Set, come un seme «col-locato» da Dio per far partire quella progenie dalla quale sareb-be venuto il Salvatore dell’umanità. Il nome di Set suggeriscequesta presenza di Dio nel tessuto della storia; significa «Dio haposto» (4:25). Il testo ebraico gioca sulle parole. Il nome Setevoca il verbo che aveva introdotto, qualche versetto prima, laprima profezia della Bibbia: «Io porrò inimicizia fra te e ladonna, e fra la tua progenie e la progenie di lei; questa proge-nie ti schiaccerà il capo e tu le ferirai il calcagno» (v. 15). I temi

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comuni della donna, del serpente, del parto e del conflittomostrano che il nostro testo apocalittico si riferisce a questaprofezia. All’orizzonte dei due testi si profila la stessa visione disperanza. I due testi predicono la vittoria sul serpente grazie acolui che nascerà dalla donna.

Oltre a Eva, «la madre di tutti i viventi», la profezia si appli-ca a Israele, la donna dell’alleanza, dalla quale uscirà «un figliomaschio il quale deve reggere tutte le nazioni» (Ap 12:5). Siintuisce dietro queste parole un’allusione al Salmo 2:9 cheevoca la venuta del Figlio di Dio (v. 7) re di tutta la terra.Secondo il testo dell’Apocalisse, il parto conduce al regno di Dio.Il bambino è posto sul trono. «Ella partorì un figlio maschio, ilquale deve reggere tutte le nazioni con una verga di ferro; e ilfiglio di lei fu rapito vicino a Dio e al suo trono» (Ap 12:5).

In seguito, il profeta scomporrà il meccanismo di questa vit-toria che porta al regno di Dio. «Allora udii una gran voce nelcielo, che diceva: “Ora è venuta la salvezza e la potenza, ilregno del nostro Dio, e il potere del suo Cristo, perché è statogettato giù l’accusatore dei nostri fratelli, colui che giorno enotte li accusava davanti al nostro Dio. Ma essi lo hanno vintoper mezzo del sangue dell’Agnello, e con la parola della lorotestimonianza; e non hanno amato la loro vita, anzi l’hannoesposta alla morte...”» (vv. 10,11).

La morte del serpente passa necessariamente dalla mortedel bambino. È un vero sacrificio. L’Apocalisse parla «del san-gue dell’Agnello» (v. 11). Genesi 3:15 utilizza lo stesso schema.La morte del serpente, lo schiacciamento della sua testa, passadalla morte di colui che deve nascere dalla donna.206

L’immagine della profezia suggerisce un’azione simultanea.Schiacciando la testa al serpente egli è ferito al tallone. Il testo

206 L’interpretazione, che consiste nel vedere nella posterità della donna un’im-magine del Messia personale, è molto antica. Essa è attestata già a partire dal IIsecolo a.C. nella Settanta che traduce la parola «posterità» (seme) con il prono-me personale maschile singolare (autos), invece del neutro (auton), che sisarebbe applicato al seme. Questa lettura messianica si ritrova anche nella tra-dizione giudaica (cfr. J. Doukhan, Boire aux sources, pp. 66,67), come in quellacristiana (cfr. Rm 16:20; Eb 2:14, Padri della Chiesa come Ireneo).

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ebraico rafforza questa impressione di simultaneità, con ungioco di parole. Lo schiacciamento della testa e il morso al tal-lone sono resi dalla stessa parola shuf.

Per il profeta dell’Apocalisse, la vittoria di Gesù Cristo e lasua intronizzazione passano dalla propria morte. Grazie alsacrificio della sua vita, egli neutralizzerà le accuse del sedut-tore. Dio perdona il penitente e il regno viene confermato.Comunque sia, il regno è ancora una realtà futura. La gioiaesplode nel cielo (12:12). Sulla terra ancora, imperversa il male.

Guerra nel desertoL’avvento del Messia, la sua morte e la sua risurrezione, la suavittoria sul male non hanno cambiato molto la faccia della terra.Il serpente rimane al suo posto. La morte, la sofferenza e il malecolpiscono sempre e dovunque. Il regno di Dio non è ancoravenuto. Il popolo di Dio è sempre in attesa.

In un certo senso, l’Apocalisse assimila la chiesa di Dioall’Israele dell’esodo. Come gli Israeliti, la chiesa si trova neldeserto ed è nutrita da Dio (12:6,14). Le ali d’aquila (cfr. Ap12:14; Es 19:4; Dt 32:11), la terra che ingoia il nemico (cfr. Ap12:16; Es 15:12) sono le stesse immagini che la Bibbia aveva uti-lizzato nel passato per descrivere l’uscita dall’Egitto e gli assal-ti dell’esercito del faraone.

Questi numerosi paralleli tra le due avventure portano allastessa lezione. Come il popolo d’Israele, in marcia verso la terrapromessa, così la chiesa, salva dalla schiavitù del peccato, cam-mina in direzione della nuova Gerusalemme. Anche lì siamo difronte alle prove. Siamo ancora nella storia. Il popolo di Diodovrà camminare per milleduecentosessanta giorni (12:6).

Questo periodo è ripetuto molte volte nell’Apocalisse, comeper sottolinearne il carattere storico. Il periodo è dato in giorni:Apocalisse 11:3 e 12:6 parlano di «milleduecentosessanta gior-ni». In un altro passo viene dato in mesi: 11:2 e 13:5 parlano di«quarantadue mesi». Infine, è dato in anni: 12:14 (come Daniele7:25 e 12:7) parla di «un tempo dei tempi e la metà di un tempo»[360 + (360x2) + (360:2) = 1260].207

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207 Cfr. Le soupir de la terre, p. 156.

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In effetti, dal 538, data in cui la chiesa ufficiale, sconfitta l’e-resia ariana è riconosciuta come un potere supremo, fino al1798, momento in cui il suo potere crolla sotto i colpi dellaRivoluzione francese e dei filosofi, sono passati 1260 anni. Laprofezia non poteva essere più precisa.

Guerra finaleSecondo l’Apocalisse, questi milleduecentosessanta giorni/anniportano al tempo della fine; cosa che giustifica l’impazienza el’irritazione del serpente (12:17). Egli sente che la sua influen-za volge al termine. Per questo concentrerà tutti i suoi sforzicontro «quelli che restano della discendenza di lei», il suo ulti-mo seme. Questo motivo della «discendenza» riporta nuova-mente alla profezia di Genesi 3:15. È il momento di farla finitacon questa donna che ha resistito ai suoi attacchi.

Secondo il serpente, i giusti degli ultimi tempi sono partico-larmente pericolosi. L’Apocalisse li descrive come degli irridu-cibili che «osservano i comandamenti di Dio e custodiscono latestimonianza di Gesù» (12:17). Ciò che li caratterizza è la lorofedeltà: «essi osservano». Il rimanente ha attraversato la storiaimmune dalle influenze del mondo e non ha alterato l’ereditàche gli era stata affidata. Essi se ne ricordano.

Sono gli ultimi testimoni di una verità che riunisce tutti icontrari e trascende tutti i partiti, verità della legge e della gra-zia insieme, della giustizia e dell’amore, del giudizio e dellacreazione e, potremmo arrivare a dire, dell’Antico Testamentoe del Nuovo. In definitiva, testimoni dell’intera verità. Questaverità non vola alta sulle nuvole, non è un’astrazione filosofica.Essa scava il suo cammino nei palpiti caldi dell’esistenza e dellastoria. Rappresenta un impegno quotidiano misurato secondo icriteri del regno dei cieli: ubbidienza ai comandamenti di Dio.Essa è anche discepolato di colui che si è incarnato provenien-te dall’alto: «la testimonianza di Gesù» (12:17).

Questo è il ritratto degli ultimi fedeli di Dio, quelli deltempo della fine (14:12). Contro di loro, il dragone raduneràtutte le sue forze. Il serpente si attesta sul terreno, sulla spiag-gia (12:18). Egli dimostra con questo gesto la sua dupliceinfluenza e la sua volontà di chiamare a raccolta le forze delmare e quelle della terra.

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La bestia che sale dal mareBen presto risponde anche il mare. Dalle sue onde sale unabestia che rassomiglia, in modo stupefacente al dragone. Comelui, è dotata di sette teste e dieci corna; come lui, si pavoneggiadelle sue corna (cfr. Ap 13:1). La profezia precisa anche cheessa riceve il suo potere dal dragone stesso (v. 4). La sua origi-ne acquatica, ne tradisce la natura malefica. Nella Bibbia enella letteratura del Medio Oriente antico, il dragone che escedalle acque rappresenta le forze opposte al Dio creatore.2O8 Leacque simboleggiano anche le nazioni pagane, i goyim che siprecipitano all’assalto del popolo di Dio.209

L’origine acquatica di questo animale tradisce ugualmentela sua identità politico-geografica: si tratta di Roma, la cui poten-za era percepita, dai popoli mediorientali, come proveniente dalmare. Nelle visioni del quarto libro di Esdra (libro apocrifo scrit-to nel 97 a.C.), Roma viene rappresentata da un animale cheesce dal mare (IV Esdra 11:1; 12:11). Tuttavia, la descrizione diquesta bestia oltrepassa i tratti tipici del dragone.

Sono, invece, evidenti le caratteristiche degli animali diDaniele 7. Il leopardo, l’orso, il leone (13:2; cfr. Dn 7:2,3), e,soprattutto, il quarto animale dalle dieci corna (13:1; cfr. Dn 7:7).Lo sguardo profetico si concentra più precisamente sull’ele-mento particolare che conclude la serie degli animali e checaratterizza il quarto animale: parliamo del «piccolo corno».

Come lui, questa bestia è provvista di una bocca che profe-risce parole arroganti (13:4; cfr. Dn 7:8). Anche questa, pretende

208 Isaia 27:1; 43:2; Ezechiele 29:3-5; 31;32; Salmo 69:1,2; 74:12-17; 124:1-5.209 Isaia 17:12; Geremia 46:6; Apocalisse 17:1,18.210.

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di elevarsi fino a Dio. Essa si fa adorare e assume titoli che sonouna prerogativa di Dio. «Chi è simile alla bestia?» (13:4). Questafrase ne richiama una simile: «Chi è come Dio?»; un’espressioneriferita al Dio d’Israele (Es 15:11; Sal 35:10), presente nel nomestesso di Michele (dall’ebraico mi-ka-el , «Chi è come Dio?»).

Inoltre, come il piccolo corno di Daniele, essa opprimerà ilpopolo di Dio per quarantadue mesi, alla fine dei quali, il pro-feta rivelerà che essa sarà «ferita a morte» (Ap 13:3). Questacronologia emerge dalla struttura stessa del testo, organizzatasul parallelismo: ABC//A’B’C’:

Primo paragrafo:A la bestia riceve la sua autorità dal dragone (13:2)B La testa viene ferita (13:3)C La ferita viene sanata, ammirazione del mondo (13:3,4)

Secondo paragrafo:A’ La bestia riceve una bocca e un potere (13:5)B’ Durante quarantadue mesi (13:5)C’ Apre la bocca, adorazione del mondo (13:6,7)

Questa sequenza suggerisce un rapporto tra B e B’. Nelprimo paragrafo, la bestia riceve l’autorità dal dragone (A) finoal momento in cui la sua testa viene ferita (B), dopodiché susci-ta l’ammirazione del mondo intero (C). Parallelamente, nelsecondo paragrafo, la bestia riceve l’autorità dal dragone (A’),durante quarantadue mesi (B’), alla fine dei quali viene adora-ta dal mondo intero (C’). La ferita della bestia giunge alla finedei quarantadue mesi.

Fin qui, la profezia non fa che riprendere le precedenti rive-lazioni. Nel solco delle profezie di Daniele, l’Apocalisse vedeuna potenza religiosa e usurpatrice dell’autorità divina che sicolloca, cronologicamente, dopo il quarto regno, in definitiva:sulle tracce di Roma. Secondo la stessa fonte, il quarto potereistituzionale opprimerà il popolo di Dio per «un tempo, deitempi e la metà di un tempo» (Dn 7:25), cioè per quarantaduemesi, ossia milleduecentosessanta giorni profetici (uguali adanni), cosa che aggiunge precisione alla visione della donna.L’elemento nuovo è costituito dal fatto che alla fine di questo

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periodo, la bestia sarà ferita, per guarire in seguito. La storiadella bestia si conclude con una prospettiva gloriosa:«L’adoreranno tutti gli abitanti della terra» (13:8).

Un semplice sguardo alla nostra storia, confermerà questoquadro profetico. I milleduecentosessanta anni che hanno ini-zio intorno al 538, anno che segna l’intronizzazione della chie-sa in quanto potere istituzionale, si compiono nel 1798, tempocaratterizzato dalla ferita di questo potere, perpetrata daNapoleone.210

Dopo quei fatti, il potere papale si riabiliterà presto. Nel XIXsecolo assistiamo al rinnovamento della chiesa cattolica. Ilprimo concilio vaticano (1870) segna l’apice della devozioneverso la figura del papa. Dopo i sommovimenti della Rivolu-zione francese e delle campagne napoleoniche, il papato è sem-pre più riconosciuto come un’autorità morale e civile. L’infal-libilità papale diventa un’esigenza imprescindibile, al fine direndere il potere papale effettivo.

A metà del secolo questa idea ha molti assertori nel mondocattolico. Il papa, dal canto suo, l’incoraggerà vivamente. Lapredicazione gesuitica sosterrà addirittura che, quando il papamedita, Dio stesso pensa dentro di lui. Vengono composti innialla gloria di Pio IX. Ci si spinge fino a definirlo «Santo Padre»,«Vicario di Dio per l’umanità».211

Nell’anno 1870, viene sancito il dogma dell’infallibilitàpapale. Da quel momento in poi, il prestigio del papato non hafatto che crescere. Oggi, all’indomani della crisi del comunismoe sull’onda delle tensioni sociali, politiche ed economiche, ilpapa è sempre di più invocato come l’autorità morale che offremaggiori garanzie. Alla fine del 1994, il periodico americanoTime gli dedicherà un numero speciale, definendolo «l’uomodell’anno».212

Partire dall’attualità, per osare l’identificazione della bestiaapocalittica con il papato, significa rischiare l’anacronismo.Questi argomenti non sono più in voga al giorno d’oggi, per noi

210 Cfr. Le soupir de la terre, p. 147.211 B.L. Shelley, Church History in Plain Language, Waco, 1982, p. 381.212 Time, 26 dicembre 1994 al 2 gennaio 1995.

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Capitolo 5

che viviamo sotto il cielo clemente dell’ecumenismo, aperto erispettoso. L’immensa popolarità del papa, eroe mondiale dellapace e della morale, sempre al fianco dei diseredati, deglioppressi di tutto il mondo, sembra smentire il verdetto della pro-fezia.

Paradossalmente, questi avvenimenti ultimi, danno ragionealla profezia, proprio a partire da quei fatti che sembrano con-traddirla. Invece di essere un argomento contro la verità dellavisione apocalittica, la popolarità del papa confermerebbe ilquadro profetico. Anche questo è stato previsto. Dietro questopotere religioso, l’Apocalisse vede radunarsi «ogni tribù, popo-lo, lingua e nazione» (Ap 13:7). Per la prima volta l’influenza delpapato si esercita oltre i confini della chiesa cattolica, dell’Italia,della Francia, «figlia primogenita della chiesa».

Ma, la pertinenza della parola profetica non giustifichereb-be uno sguardo accusatore rivolto verso la cattolicità. L’inten-zione della parola profetica non è quella di spingere al disprez-zo dell’altro, orgogliosamente attestati su di un piedistallo. Alcontrario, si vuole illuminare il senso della storia, affinché sisappia che esiste un Dio che opera dall’alto, per fortificare lafede e nutrire la speranza. Questa ultima lezione si desumedalla parte finale del verso che dice: «Qui sta la costanza e lafede dei santi» (v. 10).

La bestia che sale dalla terraAppena dopo la guarigione della bestia, nel momento in cui tuttii popoli adorano lei, il profeta dell’Apocalisse vede sorgere unanuova bestia; ma questa volta, essa sorge dalla terra. Il profetanon si è mosso. La scena si svolge nello stesso ambito. Laseconda bestia si colloca vicino alla prima, come per mostrarlesolidarietà e sostegno. La sua natura è subito svelata: parlacome un dragone (v. 11). Essa si affianca alla bestia che avevaricevuto autorità dal dragone (v. 4); un’autorità che le viene asua volta trasmessa: «Essa esercitava tutto il potere della primabestia, in sua presenza» (v. 12).

In un secondo momento, essa s’impegnerà a far sì «che tuttigli abitanti della terra adorassero la prima bestia» (v. 12). Essasedurrà attraverso molti prodigi (vv. 13,14). Si lancerà, poi, inuna campagna pubblicitaria nella quale innalzerà una grande

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statua, replica della bestia (v. 14). Giungerà ad animare questastatua e a farla parlare, come una marionetta di cui si tirano ifili. Verrebbe quasi da sorridere, se il processo non desse luogoalla minaccia e alla violenza.

Il testo apocalittico ricorda la disavventura occorsa aDaniele (cap. 3). Nabucodonosor eresse anche lui una statua,copia di quella che aveva visto in sogno (cap. 2)213 e ordinò a«ogni popolo, nazione e lingua» (3:4), a «tutti i popoli» (v. 7) diadorarla, pena l’essere gettati in una fornace ardente (v. 6). Lostesso progetto anima la bestia che sale dalla terra: essa fece inmodo che tutti coloro che non adoreranno l’immagine dellabestia saranno uccisi (Ap. 13:15).

Nell’Apocalisse, l’adorazione si manifesta con il fatto che isoggetti ricevono «un marchio sulla mano destra o sulla fronte»v. 16). Questa associazione s’ispira al libro del Deuteronomio,dove la fedeltà alla legge di Dio viene così espressa: «Te lilegherai alla mano come un segno, te li metterai sulla fronte inmezzo agli occhi» (6:8; cfr. Es 13:9).

Le intenzioni del potere rappresentato da una bestia chesale dalla terra, risultano chiare: fare in modo che tutti gli esse-ri umani si sottomettano alla legge della bestia del mare,seguendo lo stesso processo seguito dagli israeliti, quando sisottomisero alla legge di Dio, assumendola «sulla fronte e sullamano», cioè nel pensiero e nelle azioni; insomma totalmente.

Grazie alla politica attuata dalla bestia che sale dalla terra,quella che sale dal mare viene confermata e sostenuta nella suaambizione. È l’antica presunzione il cui emblema è Babele: pren-dere il posto di Dio, conquistare la vita e i cuori degli uomini.

Il «marchio della bestia», significa molto di più che un segnovisibile sulla fronte e sulla mano; il marchio incide in profondi-tà, nel modo di pensare; per continuare nell’esistenza, negli atticoncreti. A tutti i livelli, il marchio è il segno dell’usurpazionedell’autorità di Dio.

Il nome di questa bestia tradisce la natura della sua voca-zione: 666. L’Apocalisse spiega che si tratta di «un numero d’uo-mo» (13:18). Nella tradizione biblica, il numero 6 si collega

213 Cfr. Le soupir de la terre, p. 61.

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Capitolo 5

all’umanità. L’uomo, creato il sesto giorno, non è ancora entra-to in relazione spirituale e religiosa con il suo Dio, egli è anco-ra senza Dio. Il numero 6 simboleggia l’orgoglio umano che faa meno di Dio. Troviamo ancora, il numero 6 nella costruzionedella statua di Nabucodonosor, in Daniele, alla quale, il testoapocalittico fa allusione (Dn 3:1).214

Ora, l’obiettivo della statua era assicurare l’unità dal basso,per rimpiazzare il regno che viene dall’alto. Il numero 6 è ripe-tuto tre volte, l’intenzione di usurpare la dignità divina, risultarafforzata. Il tre è infatti il numero di Dio. Ripetere tre volte ilnumero 6 equivale ad elevare l’uomo al livello del Dio «tre voltesanto» (cfr. Is 6:3; Ap 4:8).

Nell’attribuire al potere in questione il numero 666,l’Apocalisse, ironicamente, ne svela la natura. Dietro questamaschera divina, si nasconde un’istituzione umana, troppoumana. Questa chiesa non ha niente a che fare con Dio. Tutto èpolitico; la storia lo dimostra chiaramente. Dopo Costantino eClodoveo, la chiesa si è affermata con la forza del potere politi-co. Nulla di strano se in questo momento cruciale della sua sto-ria, quando essa si radica fortemente nella storia dell’uomo,ancora una volta non è Dio a ispirarla e a sostenerla. È davveroun potere che proviene dal basso, quello che il profeta contem-pla, sottoforma di una bestia che sale dalla terra. Un certo nume-ro d’indizi ci permettono di identificare quest’ultimo potere.

La sua natura: questo potere è diverso da quello della bestiache sale dal mare. Non è un potere religioso. L’adorazione nonè indirizzata verso di lui (13:12,15). Al contrario, si definiscecome un potere economico che influenza il «comprare e il ven-dere» (v. 17), e un potere politico; infatti può amministrare lapena di morte (v. 15).

La sua epoca: l’apparizione di questo potere segue cronolo-gicamente, la venuta della prima bestia e la sua azione si eser-cita dopo che la sua ferita è stata guarita (v. 12). Questo poterecomincia la sua storia alla fine del XVIII secolo.

Il suo luogo d’origine: al contrario della bestia precedenteche esce dal mare, quest’ultima proviene dalla terra. Questa

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214 Cfr. Le soupir de la terre, pp. 63,64.

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origine diversa è assai significativa per l’ebreo dell’epoca.Mentre il mare rappresenta la minaccia, il nemico, la terraappare, invece, come un’entità familiare che ispira fiducia. Laparola ebraica haaretz (terra) designa il paese, la patria, lacasa.215 Proveniente dalla terra, essa si presenta come un allea-to rassicurante. Alcuni versi prima, del resto, la terra venivaevocata come un’entità che soccorreva la donna (12:16).

Il suo carattere: l’aspetto stesso della bestia, conferma que-sta impressione. Con le sue due piccole corna, essa è simile aun agnello (13:11) e ispira fiducia. La bestia precedente, con lesue dieci corna e le sembianze di una belva, appariva comeimpura e terrificante. Questo nuovo animale fa parte dell’uni-verso familiare israelita. Inoltre, a Giovanni, ricorda il dolceSalvatore Gesù Cristo, nell’atto di camminare in mezzo al popo-lo redento di Dio (14:1).

Nonostante queste premesse, non bisogna fraintendere.L’agnello parla come un dragone (13:11). L’associazione di que-sti due caratteri opposti è davvero sorprendente. Inoffensivo efamiliare, l’agnello ruggisce esattamente come il dragone.

Tutti questi indizi convergono per formare un ritratto cheriguarda un potere che non crederemmo mai di dover incon-trare, a questo punto del nostro studio.

Parliamo di una superpotenza politica ed economica, nataverso la fine del XVIII secolo, terra promessa per i cristianievangelici, per i protestanti perseguitati dalla chiesa cattolica,gli Stati Uniti d’America, appaiono, ora, sulla scena internazio-nale, come un dragone con testa d’agnello.

L’ambiguità del personaggio si manifesta tanto sul pianopolitico che psicologico. L’ingenuità idealista americana si con-fonde con la sua potenza politica, militare ed economica. Ma,spesso, le parole ruggenti del dragone americano, sorprendonoperché proferite dal suo volto d’agnello.

La storia che si svolge sotto i nostri occhi, da alcuni annimostra come l’Apocalisse ha visto giusto. Secondo la testimo-nianza profetica, questa potenza si manifesta su due livelli. Essa

215 Genesi 11:31; 12:1, 5-7; Levitico 14:34; Deuteronomio 18:9; 2 Re 5:2; cfr.Matteo 2:20,21; Efesini 6:3.

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Capitolo 5

agisce sugli abitanti della terra come sull’altra bestia apocalitti-ca. Da una parte, essa affascina gli abitanti della terra con i suoiprodigi, per la sua capacità di far «piovere il fuoco dal cielo». Perl’ebreo Giovanni, nutrito delle storie dell’Antico Testamento,questa immagine ricorda la potenza di Elia (1 Re 18:17-39).Nell’Apocalisse, essa caratterizza l’azione dei due testimoni(11:5). La bestia della terra realizza una sorta di contraffazionedei miracoli soprannaturali d’origine divina. Oltre alle azionistraordinarie nel campo militare o diplomatico, la cultura diHollywood, nutre le menti del mondo intero con lo spirito supe-rottimistico americano, salvatore del mondo. Il paranormale,d’altra parte, invade la vita quotidiana americana e mondiale,dominando i media. L’impatto dell’influenza americana si fasentire dappertutto. Il dollaro è diventato il metro per misuraretutte le monete. La Cnn si riceve nella maggior parte dei paesidel mondo. La musica rock, i jeans, la Coca-Cola sono diventa-ti i segni distintivi della gioventù mondiale, moderna, liberata,cosmopolita. Non c’è bisogno di molte parole per dimostrare ilfatto che la cultura americana ha conquistato la maggior partedei popoli.

Per altri versi, gli Stati Uniti giocano un ruolo determinantenel successo dell’altra bestia. La storia recente e persino la cro-naca, mostrano al mondo intero che il Vaticano e gli Stati Unitisi sono intesi a più riprese per le svolte di portata storica.Pensiamo alla caduta del comunismo. I primi sintomi della sto-ria annunciata dalla profezia cominciano a evidenziarsi sullascena internazionale.

Quello che oggi, è meno riconoscibile, è il carattere totali-tario di questo sistema che obbliga tutti gli esseri umani asegnarsi con il nome della bestia che sale dal mare. La profeziaci dice che nessuno potrà intraprendere qualsiasi attività socia-le, senza prima dimostrare la sua adesione al sistema. L’identitàd’ognuno dovrà essere forgiata sul numero 666. Se la profezia èvera, la culla della tolleranza e della democrazia, gli Stati Uniti,diventeranno l’ultimo bastione dell’intolleranza religiosa; illuogo stesso dove, secondo l’espressione dell’Apocalisse, verràformato il «marchio della bestia». In che modo questo marchiosi manifesterà, il testo non lo dice espressamente. Ci si limita adire che l’autorità di Dio verrà soppiantata, nello spirito come

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nelle azioni. L’adempimento della profezia, comunque, traspa-re già nei nuovi stili di culto che, in molte chiese si stannoaprendo un cammino. Il desiderio di successo, argomentazionidi tipo psicologico o sociologico, prevalgono sull’adorazione delgrande Dio che ritorna. Lo stesso si può dire per quei movi-menti che lavorano per imporre un giorno di riposo religioso,unico per tutti,216 con il pretesto della funzionalità o, più sottil-mente, per esigenza di unità e solidarietà tra i credenti.

Certo, si tratta di sintomi confusi con altri. Il marchio dellabestia è molto più che un giorno di culto o una forma di reli-giosità; è anche, più interiormente, il riconoscimento profondodella propria sintonia con la bestia, con il potere di Babele, contutto il suo potenziale di abuso, di alienazione, in tutti i momen-ti della vita.

Sembra incredibile. Però, un certo numero d’indizi sembra-no portare in questa direzione. Il successo crescente delladestra cristiana, dei suoi partiti votati all’abolizione della sepa-razione tra stato e chiesa; le fazioni nazionaliste e le milizie didestra che operano da qualche tempo negli Stati Uniti; la bombadi Oklahoma con le sue centinaia di morti, tutte quelle manife-stazioni di gruppi dall’ideologia neofascista, suggeriscono per-lomeno che, un certo terreno propizio è pronto per l’adempi-mento di questa audace profezia.

C’è molto da temere. E la profezia termina sulla prospettivaangosciosa, di un potere assoluto che controllerà tutte le strut-ture e tutte le coscienze. L’ultima nota è dura e pessimistica, lasua eco si ascolta nella freddezza del numero 666, come se lasperanza fosse tecnicamente e razionalmente impossibile.

Interludio: gli uomini del cieloA questo punto una nuova visione si impone, folgorante, agliocchi del profeta. Improvvisamente, in fondo all’orizzonte chesi credeva senza uscita da quel «numero di uomo» (Ap 13:12),

216 Cfr. «Lord’s Day Alliance Officials Have Audience With Pope John Paul II andOthers in Europe» in Sunday: The Magazine of the Lord’s Day, Alliance in theUnited States, October/December 1986, pp. 8,9; J.P. Wesberr, The Lord’s Day,Nashville, 1986, p.123.

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Capitolo 5

sorge una folla che canta la vittoria e la gioia. La scena contra-sta in modo evidente con quello che abbiamo appena visto etemuto. A coloro che sono stati calpestati dagli stivali di Babeleviene presentata una nuova ragione per sperare, la possibilitàdi avere un futuro. Di fronte alla terra e al mare che trionfanonel presente, si innalza il « monte di Sion» (14:1). È la sola voltache Sion viene menzionata nell’Apocalisse. La Sion di cui siparla è di ordine celeste.

La voce che il profeta ascolta viene dal cielo (v. 2), mentrela moltitudine dei salvati percepita dal suo sguardo si trovaradunata davanti al trono celeste (v. 3).

Gli antichi profeti ebrei avevano evocato l’esistenza di que-sto luogo sacro della dimora di Dio e del suo trono. Sulla basedell’esperienza storica d’Israele che viveva il sentimento dellapresenza di Dio a Sion, era stato chiamato con lo stesso nomequel luogo celeste: «il monte di Sion».217

I figli di Koré nel Salmo 48 collocano Sion, il monte santo diDio, nella «parte estrema del settentrione» (yarketey zaphon),naturalmente essi alludevano al cielo. Il profeta Isaia confermaquesta interpretazione, quando utilizza la medesima espressio-ne per designare un luogo «in cielo... al di sopra delle stelle diDio» (Is 14:13).

In opposizione alle bestie che «salgono» dal mare o dallaterra, l’agnello «sta in piedi» sul monte Sion. La stabilità e l’or-dine che regnano nella sfera di Dio contrastano con la turbo-lenta agitazione del mondo del dragone. Il contrasto si spingefino al modo con cui il segno di appartenenza viene posto. Sullafronte e sulla mano, in modo caotico nell’ambito del dragone,sempre sulla fronte nell’ambito dell’agnello (14:1). Anche ilnumero di 144.000 che simboleggia la perfezione dell’alleanzacon Dio (12x12.000) contrasta con il numero 666 che rappre-senta l’assenza di qualsiasi alleanza con Dio.

Le «vergini» dell’Agnello, cioè coloro che si sono conserva-te per il matrimonio, contrastano con coloro che si sono lascia-ti «sedurre» dalla bestia (13:3,14). Ancora una volta, la metaforaconiugale parla della natura particolare della relazione di Dio

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217 Salmo 2:6; 68:18; 87:1; 99:9.

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con il suo popolo. Nell’Antico Testamento, il popolo di Dio èspesso chiamato la vergine di Sion.218 Il Cantico dei cantici cele-bra l’amore sulla vita, che rappresenta Israele, continuamentein attesa del suo beneamato.219 Il profeta Osea piange di nostal-gia al ricordo d’Israele, ancora fidanzata di Dio nel deserto(2:16). Attraverso questa immagine della verginità del popoloeletto, non è certo l’astinenza sessuale a essere esaltata, mapiuttosto la virtù di chi attende Dio. Ciò che è rappresentato qui,è essenzialmente la natura della relazione con lo sposo cheritorna. Il popolo di Dio resterà sempre vergine perché il suosposo sarà sempre atteso. Il regno non è di questo mondo.

Contrariamente a tutti gli altri che cercano il Dio del pre-sente e si affannano nei regni di questo mondo, la vergine diSion si apparta per il Dio del futuro e non vive che per il regnoche viene dall’alto. Quando si parla dei 144.000 salvati come di«vergini», il nostro libro vuole intendere un popolo consacrato,messo da parte per Dio. La stessa idea traspariva nell’altro tito-lo che li caratterizza: «primizie a Dio» (14:4). Anche in questocaso il linguaggio è ispirato all’Antico Testamento ed evoca ilrituale del primo frutto della messe appartato per un’offerta par-ticolare consacrata a Dio. Questo veniva fatto prima di utilizza-re il raccolto per il sostentamento.220 Israele era considerato ilprimogenito di Dio,221 ma anche come la primizia delle messe(Ger 2:3), in definitiva come un popolo consacrato e messo aparte per Dio. I 144.000 si distinguono dagli altri, come il sacrosi distingue dal profano. Il contrasto esistente tra il popolodell’Apocalisse e quello del dragone si nota soprattutto dalleloro azioni e dai loro atteggiamenti. I discepoli del dragone sicomportano come degli automi senza anima. Stranamente, nonli si sente nemmeno parlare. La bestia parla per loro. Le lorodecisioni sono prese meccanicamente secondo la convenienzadel momento, seguendo la massa. Le loro preoccupazioni sonoessenzialmente materialiste e soggette alle leggi di mercato.

218 2 Re 19:21; Isaia 29:12; 37:22; Geremia 14:17; Amos 5:2.219 Cantico dei cantici 2:8,9; 5:2; 8:14.220 Deuteronomio 26:1-11; Levitico 23:9-21.221 Esodo 4:22; Geremia 31:9.

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Capitolo 5

Essi perseguono l’unico scopo di vincere qui sulla terra.I discepoli dell’Agnello presentano tutta un’altra immagine.

Essi seguono il loro Maestro spontaneamente (v. 4) e cantanoun «cantico nuovo» (v. 3). La creatività di questi poeti musicistisi oppone ai calcoli ottusi dei commercianti che belano tutti lostesso ritornello. La vita e l’immaginazione, i paesaggi dell’av-ventura e della scoperta, si oppongono alla morte e alla noiadelle masse che si muovono obbedienti allo schiocco della fru-sta del dragone. Questo è il senso dell’espressione «canticonuovo» presente nella Bibbia. La ritroviamo nei salmi dove essatraduce l’esperienza ricreatrice della salvezza.222 Per inciso, i144.000 vibrano del miracolo della risurrezione. Il loro cantoesplode in sinfonie mai sentite fino a quel momento, per espri-mere il meraviglioso e l’indicibile.

La visione profetica anticipa l’avvenimento lontano del grangiorno del giudizio finale. Si sentono rumori di tuoni e accordidi arpa. Questo è il momento in cui la giustizia e l’amore di Diosi abbracciano per mettere fine alla storia del male.

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222 Salmo 33:2; 40:4; 96:1; 98:1; 144:9; 149:1.

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Dal centro del cielo, il profeta Giovanni vede spuntare tre ange-li che si precipitano in direzione della terra. Eccoci nuovamen-te nel tempo della storia. I popoli della terra sono ancora pre-senti. I messaggeri dall’alto sono portatori di notizie che riguar-dano i destini di quaggiù. La venuta di questi tre angeli si col-loca immediatamente prima della venuta del Figlio dell’uomosulle nuvole del cielo (v. 14), e nel prolungamento dei quattroanimali di Daniele 7 (Ap 13:2). Il parallelismo tra i due passiindica che il momento di questa proclamazione, corrisponde inDaniele 7, al tempo del giudizio di Dio (7:9-12), ossia, il Kippur(8:14), il tempo della fine (v. 17).

Daniele 7 Apocalisse 13 e 141. Quattro animali (leone, 1. Bestia dalle dieci cornaorso, leopardo, bestia (caratteristiche del leone,dalle dieci corna) del leopardo, dell’orso)2. Potere usurpatore e 2. Potere usurpatore e oppressore oppressore (1260) (42 mesi)3. Giudizio celeste 3. Proclamazione dei tre angeli4. Ritorno del Figlio dell’uomo 4. Ritorno del Figlio dell’uomo

Secondo l’Apocalisse, la terra risuonerà di un triplice appel-lo eseguito in tempi particolari.

Il primo angeloA essere interpellato è, prima di tutto, l’ambito dei fedelidell’Agnello. Il primo angelo ha la missione di annunciargli il«vangelo eterno» (14:6).

Il termine greco euaggelion, tradotto generalmente convangelo, significa letteralmente «buona notizia». Questa espres-

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Capitolo 6

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223 Theologisches Worterbuch zum Neuen Testament, vol II, p. 722.224 G. Flavio, Antichità, 18:228,229.225 Esodo 18:13; 2 Re 15:5; 2 Cronache 1:10; Salmo 72:2.

sione è utilizzata nella letteratura greca classica per designarela notizia di una vittoria.223 Essa riguardava, sia la morte delnemico, sia l’apparizione dell’imperatore romano224 che venivaa «salvare» le nazioni dai loro problemi per imporre loro la paxromana (la pace romana).

Il messaggio del primo angelo è dunque un messaggio disperanza. Egli annuncia che la tragedia umana volge alla fine.Per coloro che hanno scelto di seguire l’Agnello, questa notiziaecheggia all’interno della loro esistenza, come un appello atemere Dio, in qualità di giudice e, nello stesso tempo a rico-noscerlo come Creatore. «Temete Dio e dategli gloria, perché ègiunta l’ora del suo giudizio. Adorate colui che ha fatto il cielo,la terra, il mare e le fonti delle acque» (14:7).

Timore del giudiceNel Medio Oriente antico, il re ricopre anche l’incarico di giu-dice supremo. Anche la Bibbia associa le due funzioni.225 Inquesto contesto glorioso nel quale Dio appare giudice e reoccorre collocare l’appello del primo angelo a temere Dio.

Questa nozione del timore di Dio è impopolare e malcom-presa. L’abbiamo in precedenza riscontrata al capitolo 11:18.Essa deve essere relazionata alla coscienza dello sguardo onni-presente di Dio. La parola ebraica che traduce questa nozioneyra è probabilmente della stessa famiglia di raah, «vedere».Temere Dio equivale a sapere che egli ci guarda ovunque citroviamo e qualunque cosa facciamo.

La Bibbia collega il timore di Dio alla legge: «Così che tutema il tuo Dio, il SIGNORE, osservando… tutte le sue leggi...»(Dt 6:2). Il timore di Dio è anche garanzia dell’etica: «Temi Dioe osserva i suoi comandamenti» (Ec 12:15).

In questo ultimo brano, la sintassi della frase ebraica dàalla congiunzione «e» non il valore aggiuntivo ma piuttostoesplicativo. In altre parole bisognerebbe tradurre «temere Dioequivale a osservare i suoi comandamenti». Per l’Ecclesiaste

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ogni uomo (kol haadam) è implicato in questa esigenza, questoè dovuto al fatto che esiste una prospettiva di giudizio, «Dioinfatti farà venire in giudizio ogni opera, tutto ciò che è occulto,sia bene, sia male» (12:16).

Temere Dio significa essere attenti al bene, al diritto, allagiustizia; significa osservare i suoi comandamenti, non soltantoin pieno giorno sotto lo sguardo di tutti, ma anche in famiglia enell’intimità. Siamo di fronte a una concezione generale dell’e-sistenza. La religione non è più confinata in alcune ore dome-nicali o sabatiche, o nel momento sacro della preghiera. Ogniprocedimento, ogni decisione, ogni opera, ogni pensiero sonomessi sotto l’autorità che viene dall’alto. Per questo motivo iltimore di Dio costituisce un leit motiv tanto importante nellaletteratura sapienziale. In quei libri, nel cuore delle tematicheesistenziali che abbracciano il quotidiano, al centro delle rifles-sioni profonde forgiate al fuoco del dubbio e dell’intelligenzacritica, il timore di Dio riceve il posto più alto «Il principio dellasaggezza è il timore del SIGNORE» (Prv 9:10; cfr. 1:7). Il timore diDio non ha niente della paura superstiziosa che paralizza e con-duce a una religione meccanica e magica. Nella Bibbia, il timo-re di Dio è spesso associato all’amore. Appena dopo aver parla-to del timore di Dio e dell’ubbidienza alla sua legge, il testo delDeuteronomio (6:1-3) si snoda sul principio che lo ispira: «Tuamerai dunque il SIGNORE, il tuo Dio con tutto il tuo cuore, contutta l’anima tua e con tutte la tue forze» (6:5).

Temere Dio significa amarlo sapendo di essere amati da lui.Significa avere la convinzione che il Dio d’amore ci segue dap-pertutto con il suo sguardo, non con l’intenzione di sorprender-ci in errore e di punirci, ma con la preoccupazione di chi vegliasui nostri passi per guardarci da ogni male, «l’occhio delSIGNORE è su quelli che lo temono» (Sal 33:18).

L’ubbidienza e il riferimento alla legge che viene dall’alto,presenti in ogni momento dell’esistenza, sono il risultato diquesta relazione d’amore reciproca. Una vita sotto lo sguardo diDio è una vita con Dio. Reciprocamente, poiché viviamo conDio, viviamo sotto il suo controllo. La vera religione è coerente.Dio viene preso sul serio.

Questa è la lezione che si desume dal testo dell’Apocalisse:l’appello al timore di Dio è seguito dall’appello a rendergli glo-

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Capitolo 6

ria (14:7). La parola ebraica kabod, tradotta con «gloria», con-tiene l’idea della pesantezza. Dio ha un suo peso, egli è rispet-tato. Il messaggio dell’Apocalisse colpisce duramente l’ipocrisiadelle religioni facili e superficiali che non hanno saputo ispira-re il rispetto di Dio; questo succede perché il riferimento a Dioè spesso effettuato prescindendo dal timore di Dio. Si parla diDio, si costruiscono delle cattedrali o delle sinagoghe, lo si chia-ma in causa continuamente, nel calore dei dibattiti teologici odella politica ecclesiastica, ma l’uomo non è cambiato; eglirimane carico delle sue menzogne e dei suoi crimini. Nelsecondo millennio, da poco alle nostre spalle, nel cuore dellanostra civiltà cristiana, l’Olocausto ha proclamato il fallimentodella religione e in modo particolare del cristianesimo.

Poiché la religione non è stata coerente, Dio non vienepreso veramente sul serio, tanto da diventare il «buon Dio» inof-fensivo e strumentalizzabile, o il piccolo Gesù che intenerisce leanime sensibili. Per altri, Dio è morto. Quest’ultima tesi si è dif-fusa persino nei circoli religiosi. La religione, quando esiste,non è altro che un’esperienza spirituale soggettiva, un codicemorale, o semplicemente una tradizione culturale. Non è piùattuale credere nel «gran Dio del cielo» e ancor meno sperarenel suo regno.

A causa del fatto che il timore di Dio è un sentimento per-duto non si riesce a immaginare e nemmeno ad augurarsi lasua venuta in gloria. Questo passo dell’Apocalisse all’inizio delXXI secolo, diventa più che mai attuale. Esso contiene un appel-lo a temere Dio, per donarci di nuovo il gusto di Dio, per sve-gliare nel cuore degli uomini e delle donne troppo occupati inopere terrene, il bisogno della venuta di Dio nella pienezzadella sua gloria, per tener desta la speranza.

L’adorazione del CreatoreL’angelo passa dalla visione del Dio da temere, al Dio creatore,oggetto della nostra adorazione. Dall’ubbidienza della legge dacui si riconosce la giustizia e la bontà di Dio, si passa ora all’a-dorazione piena d’amore che si meraviglia davanti alla gran-dezza della sua opera.

La creatura umana sconvolta dall’universo infinito e mera-viglioso, non può che sentirsi spinta ad adorare il suo Creatore.

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È interessante notare come i salmi e le preghiere, centro del-l’adorazione d’Israele, associano direttamente la creazioneall’adorazione.226 Infatti, è proprio creando che Dio dimostranello stesso tempo la sua potenza e la sua grazia.

La sua grandezza infinita conduce alla riverenza, mentre lasua vicinanza permette l’incontro e l’amore. Dio è prima e al disopra di tutti e di tutto, assolutamente indipendente e unico, maanche all’origine di tutta la realtà. Noi esistiamo grazie a lui eper mezzo di lui. Noi siamo dipendenti da lui. Questa è la lezio-ne della creazione. L’adorazione si colloca al centro di questatensione: il senso della distanza di Dio e l’esperienza intimadella sua presenza.

Fin dalle prime pagine della Bibbia, i due racconti dellacreazione testimoniano questa esigenza. Nel primo testo (Gn 1-2:4), Dio, Elohim, è trascendente, è potente e creatore dell’uni-verso. Nel secondo testo (2:4b-24), Dio, YHWH viene presentatocome immanente e personale, Dio dell’esistenza e della storia,Dio della relazione.

La Bibbia comincia con la creazione, non soltanto per delleragioni storiche e cronologiche evidenti, ma anche per sottoli-neare che fin dall’inizio l’essere umano che riceve questa paro-la di Dio può collocarsi correttamente nel rapporto verso di lui.Nel cominciare con la creazione, la Bibbia pone le basi per lavera adorazione.

Ma il testo dell’Apocalisse prende di mira molto più che unasemplice evocazione dell’evento della creazione. La menzioneinattesa delle «fonti delle acque» (14:7), espressione aggiuntivadei tre elementi tradizionali, cielo, terra e mare, traduconoun’intenzione speciale. Nel contesto dell’antico Israele, attor-niato dal deserto dove la vita dipendeva dall’acqua, le fonti delleacque rappresentavano la sopravvivenza. Nell’Apocalisse, essecontrastano con il deserto, luogo di morte e di malvagità(12:6,14; 17:3).

L’Agnello conduce, per esempio, il suo popolo verso le fontidelle acque (7:17; 12:6; 22:17). Allo stesso modo, nel libro diEzechiele, la Gerusalemme della speranza è immaginata come

226 Salmo 95:6; 102:19; Neemia 9:6.

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Capitolo 6

debordante di sorgenti (47:1-12); e in questo, essa si colloca nelsolco della descrizione del giardino dell’Eden (Gn 2:10-14).227

Con l’evocazione delle sorgenti, il nostro testo suggeriscedunque una visione dell’avvenire dove, la Gerusalemme idealeè descritta con i tratti del giardino dell’Eden. Quindi, non è percaso che l’appello all’adorazione del Creatore sia pronunciatoin una prospettiva di giudizio: «perché è giunta l’ora del suo giu-dizio» (Ap 14:7). Questa associazione è carica di speranza. Ilgiudizio che segna la fine della storia umana porta in sé, nellostesso tempo, l’annuncio della nuova creazione.228

Il secondo angeloPoi, d’improvviso, il tono cambia. Il secondo angelo rivolge losguardo nel campo avversario. Questa volta il messaggio è for-mulato in maniera opposta al precedente, in negativo. Invece diportare una buona notizia di speranza che rassicura e riempiedi gioia, si ascolta una parola di giudizio, dai connotati inquie-tanti. È l’annuncio della caduta di Babilonia. «Caduta, caduta èBabilonia la grande che ha fatto bere a tutte le nazioni il vinodell’ira della sua prostituzione» (v. 8).

Il verbo è coniugato al passato, per sottolineare il caratteredefinitivo della sentenza. Questo è lo stile degli oracoli dei profe-ti ebrei. Anche Isaia, gridava: « Caduta, caduta è Babilonia» (v. 9).

Allo stesso modo, Geremia dichiarava: «Babilonia era nellemani del SIGNORE una coppa d’oro, che ubriacava tutta la terra;le nazioni hanno bevuto il suo vino, perciò le nazioni sono dive-nute deliranti. All’improvviso, Babilonia è caduta, è frantumata»(51:7,8).

Siamo nel campo dell’illusione e del sogno. I discepoli diBabilonia ubriachi del suo vino hanno perduto ogni senso dellarealtà. Essi sono stati ingannati. Babele si è fatta passare per lacittà di Dio. Molti ci hanno creduto e si sono uniti a essa in unarelazione adulterina. Secondo il libro dei Proverbi, questo è l’i-nevitabile destino del bevitore: «Non guardare il vino quandorosseggia, quando scintilla nel bicchiere e va giù così facilmen-

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227 Gioele 3:18; Zaccaria 13:1; Salmo 46:4; Apocalisse 22:1,2.228 Cfr. Le soupir de la terre, pp. 186,187

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te! Alla fine, esso morde come un serpente e punge come unavipera. I tuoi occhi vedranno cose strane, e il tuo cuore farà deidiscorsi pazzi. Sarai come chi si coricasse in mezzo al mare,come chi si coricasse in cima a un albero di nave» (23:31-34).

In stridente contrasto con i 144.000 che rimangono verginiin attesa della città che viene dall’alto, quelli di Babele vengonodescritti come beoni trascinati nell’infedeltà. Le schieredell’Agnello sono caratterizzate dal timore di Dio vissuto in unarelazione d’amore e di fedeltà. Nell’ambito di Babele, al contra-rio, Dio è sostituito da un’istituzione terrena e la sua religione èvissuta come una relazione adultera.

La missione del secondo angelo consiste nello smascherarequesta mistificazione affinché gli abitanti della terra siano con-sapevoli di quello che sta succedendo. La maschera è calata.Grazie agli studi del libro di Daniele e dell’Apocalisse condottinel corso del XIX secolo, si è in grado, ora, di comprendere cheil potere religioso dominante non proviene dall’alto. Il piccolocorno dal viso umano che si leva fino a Dio (Dn 7:24,25; 8:9-11),rappresenta un’istituzione assolutamente umana. Questa sco-perta effettuata alla luce delle Scritture, rappresenta di per sé lacaduta di Babilonia.

Il messaggio è stato proclamato in tutte le direzioni dellaterra. Non si tratta qui di accusare qualcuno per suscitare sen-timenti di superiorità in altri, piuttosto, siamo di fronte al dove-re di avvertire il mondo a non cadere in questi pericoli. Lacaduta di Babilonia diventa il paradigma di tutte le cadute. Apartire dall’esempio della Babilonia storica, caduta sotto i colpidi Ciro nel 536 a.C., la profezia biblica ha creato un tipo la cuilezione diventerà universale. Essa deve essere compresa oltretutte le frontiere, su ogni terreno, sia esso politico, religioso opsicologico. Ogni orgoglio e ogni pretesa all’infallibilità portainevitabilmente alla confusione di Babele la quale ha comedestino la caduta. Non c’è ideale politico, ecclesiastico, umanoinsomma, che sia al riparo da questo pericolo. Babilonia è unamentalità, una caratteristica dello spirito che si trova ben oltrela famosa torre o il regno di Nabucodonosor, o della stessa chie-sa cattolica. La caduta di tutte queste Babilonie costituisce unamessa in guardia severa contro il nostro proprio orgoglio eannuncia la nostra propria caduta.

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Capitolo 6

Il terzo angeloDa questa caduta di Babilonia, il terzo angelo trae le conse-guenze per i due campi opposti. Nel campo di Babele, il suoannuncio significa che «chiunque adora la bestia e la sua imma-gine» (Ap 14:9), cioè Babilonia, è votato al suo stesso destino. Ilverbo «adorare» è intenzionale. Esso viene pronunciato dalprimo angelo in rapporto con il creatore (v. 7). La sua riappari-zione sulle labbra del terzo angelo indica la natura dell’usurpa-zione che egli denuncia: la bestia ha preso il posto del Creatore.Niente di stupefacente, allora, se i suoi discepoli sono caratte-rizzati nello stesso modo con cui lo sono i 144.000 adoratori delcreatore. Essi sono segnati con il suo nome (cfr. 14:9,11; 7:3).

Quello è il segno che parla della loro sottomissione all’au-torità della bestia; potere che si esercita nelle loro esistenze,nelle loro menti, come indica il marchio sulla fronte, e sulleloro azioni, come indica il marchio posto sulla mano.

Con ironia, l’Apocalisse annuncia che essi saranno le vittimedelle loro proprie illusioni. Un castigo è stato preparato conse-guente ai loro vizi, essi berranno «il vino dell’ira di Dio» (v. 10).Il vino di Babilonia che li aveva ubriacati si confonde, all’im-provviso, al vino della collera di Dio. Bevendo il vino diBabilonia è in realtà il vino del giudizio di Dio che essi stannobevendo. Il loro peccato diventa la loro propria punizione. Piùessi bevono, più si perderanno e mentre si perdono continuanoancora a bere...

Questo processo ha del tragico; come il Prometeo del mito diSisifo, chi ama Babele non sa più riprendersi. I costruttori diBabele (cfr. Gn 11:3,4) come i satrapi di Dario (Dn 6:6),229 eranocaratterizzati dallo stesso forsennato attivismo che agita glizelanti operatori di questa città che proviene dal basso: semprela stessa ansia di prevalere. Questa nevrosi che li attanaglia è laprova della loro fede esclusiva nelle proprie opere. Ma tutto que-sto, tutta questa euforia, tutti questi lavori, andranno in fumo: «Ilfumo del loro tormento sale nei secoli dei secoli. Chiunque adorala bestia e la sua immagine e prende il marchio del suo nome,non ha riposo né giorno né notte» (Ap 14:11).

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229 Cfr. Le soupir de la terre, p. 126.

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Il linguaggio è ironico. Esso evoca la famosa valle diHinnom (gué Hinnom) dalla quale proviene il famoso termine«geenna», luogo a sud di Gerusalmme dove venivano arsi deifanciulli sacrificati al dio Moloch.230 La Bibbia ci riferisce che ilre Giosia contaminò questo luogo per renderlo improprio ai ritiidolatri (cfr. 2 Re 23:10). Da quel momento in poi fu adottata l’a-bitudine di bruciarvi le immondizie della città. I mucchi di spaz-zatura che ardevano continuamente erano associati al ricordodelle abominazioni di Moloch. Quello è il destino finale degliorgogliosi di Babele.

L’Apocalisse non vuole qui insegnare la dottrina del fuocoeterno dell’inferno. La lezione riguarda altre cose. Attraversoquesto gioco di immagini e associazioni viene svelata la naturaimmonda e idolatra di Babele. Inoltre, l’espressione «nei secolidei secoli» non è relativa alla durata eterna del fuoco, ma al suoeffetto definitivo. I malvagi vengono bruciati per poi spariredefinitivamente.

Il profeta Isaia chiarisce queste espressioni mettendo inparallelo il «fuoco divorante» con le «fiamme eterne»: «Chi dinoi potrà resistere al fuoco divorante? Chi di noi potrà resisterealle fiamme eterne?» (33:14).

La caduta di Babilonia e dei suoi discepoli equivale a unamorte vergognosa, come quella riservata ai rifiuti: una morteassoluta e definitiva. Tra i seguaci dell’Agnello, la caduta diBabilonia ha un’altra valenza. Nel momento in cui questa notiziaviene annunciata, Babele è più fiorente che mai. L’istituzioneumana si impone all’attenzione di tutti. Il Dio del cielo, al con-trario, resta invisibile, ciò conferma il successo di Babele. Lachiesa di Dio sembra votata alla sconfitta.

In questo contesto, l’annuncio della caduta di Babele vienerecepito come una parola di speranza e di incoraggiamento acontinuare la lotta, nonostante tutto, a tenere duro conservandola propria peculiarità. «Qui è la costanza dei santi» commental’angelo (Ap 14:12). Troppo spesso il senso di questa ultimaparola è stato mal compreso. Il santo, nella Bibbia (in ebraico:qadosh) non ha nulla a che vedere con il bambino modello che

230 Salmo 106:38; Geremia 7:31; Isaia 30:33; 2 Cronache 28:3.

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Capitolo 6

ubbidisce sempre ai suoi genitori e non delude mai i suoi mae-stri. I santi sognati dal profeta sono l’incubo dei burocrati. Essiscuotono e disturbano l’ordine costituito. Essi camminano con-tro corrente. I santi degli ultimi tempi sono personalità indipen-denti e rivoluzionarie. Essi sentono che la fine è vicina e forgia-no se stessi al diapason del regno che viene dall’alto.

Questo è il carattere che emerge dalla definizione di cre-dente data dal testo apocalittico. Questi santi sono coloro che«osservano i comandamenti di Dio e la fede in Gesù» (v. 12).Contro la maggioranza che segue l’etica umana e terrena perossequiare l’autorità di Babele, i santi sono una minoranza chevive nel timore di Dio, rimanendo fedele agli antichi comanda-menti del Dio d’Israele e di Gesù.

Contro la maggioranza che non crede se non in ciò che vedee confida solo nelle proprie opere, questi sopravvissuti di untempo lontano, hanno conservato la fede in Gesù. Essi credono,nonostante le tenebre e il silenzio di Dio. Essi sperano no-nostante le sconfitte e la croce.

Ma oltre questo ritratto che delinea le caratteristiche psico-logiche del «santo», la definizione che abbiamo letto, fonda econforta il cammino del credente. Attraverso i «comandamentidi Dio» e «la fede in Gesù», l’Apocalisse guarda ai due avveni-menti che hanno segnato il cammino della rivelazione di Dio,nella storia e nell’esistenza umana. Da una parte, la Torah, lalegge di Dio, dall’altra parte l’incarnazione e la morte di Gesù.

L’Apocalisse s’impegna, una volta di più, ad abbattere ladivisione che il dramma giudeo-cristiano ha provocato, traMosè e Gesù, tra l’Antico e il Nuovo Testamento, tra la legge ela grazia. I santi del tempo della fine, sono visti dall’Apocalissecome coloro che si «ricordano» e che «osservano». Diventarecristiano non deve significare l’abbandono della legge. Il nuovopatto non deve significare il rinnegamento o la revisione del-l’antico; ma, al contrario, un radicarsi nell’antico per vivere unanuova giovinezza spirituale.

Tutta la Bibbia è rappresentata da questo ultimo testimonedi Dio. La fede di Gesù non esclude il timore di Dio. La fiducianel Dio che prende tutti i peccati del mondo su di sé per salva-re l’umanità con il suo sacrificio, riassume questa passione divivere e servire secondo i suoi comandamenti.

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Non c’è da stupirsi, quindi, se i messaggi di questi «santi»gravitano attorno al giudizio e alla creazione.

Da una parte, l’atto del giudizio implica la legge e il timoredi Dio. Poiché è sulla base della legge che un giudizio può eser-citarsi. In ebraico, la nozione di legge coincide con quella digiudizio a tal punto che, lo stesso termine mishpat231 significanello stesso tempo, legge e comandamento.232 È la prospettivadel giudizio che ispira e governa il timore di Dio e l’ubbidienzaalla sua legge.

D’altra parte, il miracolo della creazione implica la fede el’adorazione di Dio. Mentre è da sottolineare il fatto che la soladefinizione biblica della fede si riferisce all’evento della crea-zione: «Or la fede è certezza di cose che si sperano, dimostra-zione di realtà che non si vedono... Per fede intendiamo che imondi sono stati formati dalla parola di Dio; così che le cose chesi vedono non sono state tratte da cose apparenti» (Eb 11:1-3).

Credere che Dio è stato ed è capace di trasformare il nullanell’esistente e le tenebre in luce, equivale a fondare la propriaesistenza sull’invisibile e l’impalpabile. Significa correre deirischi. In questo senso, la creazione è un miracolo che esige lafede per eccellenza.

La tesi evoluzionista che rifiuta questa audacia del pensie-ro e concepisce la vita e l’essere come qualcosa che sorge«naturalmente» dalla materia, si colloca, ovviamente, agli anti-podi di questa fede nella creazione.

Non solo, i santi dell’Apocalisse ubbidiscono ai comanda-menti di un Dio invisibile e trascendente, ma credono in un Diocreatore, cioè un Dio che esiste al di fuori di loro.

Questi credenti si collocano sulla linea degli antichiIsraeliti, i quali, osservatori fedeli dei comandamenti di Dio ecredenti nella sua opera creatrice, vivevano la settimana alritmo del sabato del decalogo: «Ma il settimo è giorno di ripo-so, consacrato al SIGNORE Dio tuo; non fare in esso nessun lavo-ro ordinario, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né

231 Deuteronomio 1:17; Malachia 2:17; Salmo 1:5.232 Esodo 21:1; Levitico 5:10; 9:16; Geremia 8:7; Isaia 58:2; 42:4; 51:4; Ezechiele7:10.

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la tua serva, né il tuo bestiame, né lo straniero che abita nellatua città; poiché in sei giorni il SIGNORE fece i cieli, la terra, ilmare e tutto ciò che è in essi, e si riposò il settimo giorno; per-ciò il SIGNORE ha benedetto il giorno del riposo e lo ha santifi-cato» (Es 20:10,11).

Nel mettere da parte il tempo sacro dedicato a Dio, essimanifestano la loro fede nell’esistenza del vero Dio che vive aldi fuori di loro. Il Dio giudice, il Dio creatore.

Un messaggio simile è assai discordante rispetto alle ideecorrenti nella nostra epoca, che esaltano il Dio «interiore», dascoprire nelle pieghe nascoste della mente umana. Ormai le teo-rie spiritualistiche, panteistiche non sono mai state così popola-ri. Tipi di fede ristretti nell’ambito delle filosofie pagane, comela reincarnazione e la divinizzazione della natura, l’immortalitàdell’anima e la deificazione dell’io, fioriscono nel pensiero reli-gioso di ogni estrazione. L’influsso delle religioni orientali ispi-rato dal New Age, è certamente un segno dei tempi.

Bisogna dire che l’idea dell’immortalità dell’anima, giàradicata nelle tradizioni giudeo-cristiane ha favorito il successodi queste tendenze spirituali. La credenza secondo la quale l’es-sere si prolunga naturalmente, al di là della morte senza l’in-tervento esterno di Dio, traduce la stessa concezione delle cosee dell’essere.

La fede nella creazione, invece, esclude l’idea dell’immorta-lità dell’anima. Secondo la Bibbia, l’essere umano è stato creatodalla polvere ed è totalmente dipendente da Dio (Gn 2:7).

Fin dalle prime pagine di questo libro, questa verità risplen-de senza equivoci: «Certamente morirai»,233 afferma Dio inGenesi 2:17. In quanto creatura, l’uomo non è immortale pernatura. In quanto essere creato, tuttavia, l’uomo può crederenella nuova creazione. La fede in essa rende possibile la fedenella risurrezione.

Contrariamente ai seguaci di Babele, febbrili e angosciatida una fine assoluta, i discepoli dell’Agnello, sono definiti come«beati» (Ap 14:13) e sicuri di un futuro oltre il nulla della morte.«Le loro opere li seguono», dice l’Apocalisse (v. 13).

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233 Cfr. la nota della TOB ad loc.

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Questa parola «opere» (in greco erga) appartiene al lin-guaggio ebraico dell’epoca ed è applicato comunemente almomento del giudizio finale.234 Si tratta del termine tecnico chedesigna le buone azioni tipiche della vita cristiana (2:2,19) gra-zie alle quali i santi saranno giudicati favorevolmente e salvati(19:8; 20:12).

Nelle lettere dell’apostolo Paolo, questa parola, designatutto ciò che sopravvive alla prova finale del fuoco. «... l’opera diognuno sarà messa in luce; perché il giorno di Cristo la rende-rà visibile, poiché quel giorno apparirà come un fuoco; e ilfuoco proverà quale sia l’opera di ciascuno» (1 Cor 3:13).

Nella lettera agli Ebrei, «l’opera» è ciò che è conservatonella memoria di Dio in vista «di cose migliori e attinenti allasalvezza» (6:9). Il riferimento alle opere non ha nulla di legali-stico. In modo significativo, queste opere non hanno lo scopo diacquistare la salvezza. Al contrario esse la «seguono». Le operein questione saranno messe in luce solo quando colui che le hacompiute non esisterà più; quindi non potranno essere esibitecome mezzo di esaltazione di se stessi.

La vera opera è ciò che resta quando il suo autore è scom-parso. È ciò che sopravvive oltre la propaganda, le vanterie, lapromozione politica. È ciò che rimane nella memoria di Dio enon negli uomini, troppo spesso ingannati dal rumore delleapparenze. È l’opera giudicata da Dio.

La proclamazione del giudizio e della creazione presentenel programma dei tre angeli, implica dunque molto di più cheil semplice riferimento oggettivo ai due avvenimenti che incor-niciano la storia umana. Si tratta di una filosofia dell’esistenzae della natura dell’uomo, proposta nella sua interezza. Le lezio-ni che se ne possono trarre non riguardano, quindi, il giudiziosoltanto o la creazione in quanto tale.

Piuttosto, si coglie tutta una ricchezza di significati nell’as-sociazione del giudizio con la creazione. Vi si scorge un’intimatensione. Da una parte si vuole sottolineare il valore della crea-zione. Si afferma il dono di Dio, la natura, la gioia, la vita e l’a-more. Dall’altra parte, in un certo senso viene messo un freno a

234 2 Baruc 14:12; 24:1; 4 Esdra 7:77; Salmo di Salomone 9:9.

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un facile trionfalismo, quando l’accento è messo sulla legge, ladisciplina e il giudizio. Questa tensione è posta nella Bibbia sindagli inizi della storia dell’uomo, come si può intendere già dalprimo comandamento di Dio: «Mangia pure di ogni albero delgiardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del malenon ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certa-mente morirai» (Gn 2:16,17).

La stessa tensione attraversa il messaggio del sapientedell’Ecclesiaste: «Rallegrati pure, o giovane, durante la tua ado-lescenza, e gioisca pure il tuo cuor durante i giorni della tuagiovinezza, cammina pure nelle vie dove ti conduce il cuore eseguendo gli sguardi dei tuoi occhi, ma sappi che, per tutte que-ste cose, Dio ti chiamerà in giudizio!» (12:1).

Non è stato abbastanza compreso l’importanza e la necessi-tà vitale di questa tensione. Le comunità religiose sono spessolacerate tra le due tendenze. Alcuni, irriducibili santi, si riferi-scono al giudizio e alla legge e a un Dio grande, nell’alto deicieli, rigoroso e da rispettare. Si esige in questi ambienti unadura perfezione, senza la quale la salvezza è impossibile. Altri,liberali, generosi e sorridenti, si appellano alla grazia e all’a-more di un Dio vicino e umanista. La religione, qui, viene ridot-ta a dei buoni sentimenti che portano a una salvezza, ottenutatramite una conversione a buon mercato.

Nell’Apocalisse, invece, la proclamazione del giudizio edella creazione insieme, porta all’armonia delle due tendenzeprecedenti. Il filosofo ebreo Abraham Heschel lo aveva bencompreso quando proponeva l’ideale di un uomo «santo eumano».235

L’ideale qui descritto è presente in tutta la Bibbia. Israele sibatterà con Dio e con gli uomini. Abbiamo Gesù, il Dio perfettoche dimora con gli uomini e ride, mangia e canta con loro.Ricordiamo una delle sue preghiere: «Non prego che tu li tolgadal mondo, ma che tu li preservi dal maligno» (Gv 17:15); que-sto è l’ideale del sale che deve, nello stesso tempo, conservareil suo sapore e unirsi alla vivanda (Mt 9:50).

Ma al di là di questa lezione e di questo ideale che pervade

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235 A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Torino, 1969, p. 238.

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l’esistenza umana, la proclamazione del giudizio e della crea-zione mira anche ad altro.

Questa associazione giudizio/creazione costituisce l’essen-za della festa delle espiazioni. Allo stesso modo, sia i riti ceri-moniali del Kippur riportati nei testi biblici (cfr. Lv 16) sia lepreghiere tradizionali della liturgia ebraica, testimoniano dellastessa verità del giudizio collegato alla creazione.

Il simbolismo biblico del rituale del Kippur lo dimostra: isacrifici offerti in questo giorno unico hanno un effetto che vali-ca il destino particolare del singolo individuo. Non soltanto,infatti, il popolo intero è perdonato dalle sue iniquità (cfr. vv.21,22), ma il santuario stesso, carico dei peccati di un anno inte-ro, viene purificato (vv. 16,33).

Il grande giudizio di Dio porta con sé il messaggio di unavera e nuova creazione. Del resto, questo significa esattamente«la purificazione del santuario». Infatti, nel pensiero ebraico, ilsantuario rappresentava l’universo intero creato da Dio. Il tem-pio e il tabernacolo erano visti dagli antichi israeliti, come unametafora «microcosmica» della creazione.236

L’idea è esplicitamente contenuta nei salmi: «Costruì il suotempio, simile a luoghi altissimi, come la terra ch’egli ha fon-dato per sempre» (78:69).237

Il rapporto tra la creazione e il santuario traspare già nelracconto della sua costruzione che si sviluppa in parallelo conil racconto della creazione (cfr. Es 25-40).

Al pari del racconto della creazione, il testo relativo al san-tuario segue una struttura suddivisa in sette tappe. La settimatappa viene conclusa dalla stessa frase e dalle stesse paroleebraiche utilizzate dal testo della Genesi relativo alla creazione

236 Questa associazione del tempio di Gerusalemme con «i cieli e la terra» nonha simili nel Medio Oriente. Presso l’antica Sumer, si chiamava il tempioDuranki «luogo del cielo e della terra» e a Babilonia si conosceva un altare dalnome di Etenanki, «la casa dove si trova la fondazione del cielo e della terra».(Cfr. J.D. Levenson, Creation and the Persistence of Evil, New York, 1988, pp. 78-99; cfr. G.W. Ahlstrom, «Heaven on Earth at Hazor and Arad», in ReligiousSyncretism in Antiquity, ed. B.A. Pearson, Missoula, 1975, p. 68).237 Salmo 134:3; 150:1,6.

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di Dio. «Così Mosè completò l’opera» (Es 40.33; cfr. Gn 2:2).238

Si deve notare che il racconto della costruzione del tempiodi Salomone è descritto attraverso lo stesso itinerario in settefasi. L’opera durerà sette anni (1 Re 6:38) e sarà segnata dallastessa frase conclusiva precedentemente trovata «Così... compìtutta l’opera richiesta dal re Salomone» (cfr. 1 Re 7:40,51).

È estremamente significativo il fatto che in tutta la Bibbiaebraica, questa associazione di parole si riscontra solo in questitre versi, i quali suggeriscono un rapporto assolutamente parti-colare, tra il santuario e la creazione.

Questo rapporto è presente nella Bibbia anche in sensoinverso. La creazione è descritta con termini che evocano ilsantuario israelita: «... egli distende i cieli come una cortina e lispiega come una tenda per abitarvi» (Is 40:22).239

Questo rapporto riappare in modo implicito nel vangelo diMatteo. La distruzione del tempio di Gerusalemme equivalealla distruzione del cosmo (24:1-39); la lacerazione del velo deltempio corrisponde a quella della terra (27:51).

Per gli antichi israeliti la festa dell’espiazione, il Kippur,significava molto più che una semplice pulizia della tenda odell’edificio. Il rituale del Kippur aveva uno scopo cosmico. Lapurificazione del santuario significava la purificazione delmondo, cioè la sua nuova creazione.

È per questo che la creazione futura di «nuovi cieli e nuovaterra» si riferisce anche alla creazione di una nuova«Gerusalemme» (Is 65:17,18; Ap 21:1). Per lo stesso motivo ilprofeta Daniele descriverà il Kippur cosmico di Daniele 8 in ter-mini presi in prestito dal linguaggio del racconto della creazio-ne: «Sere e mattine» (v. 14). Questa espressione, molto rara, nonsi trova se non nel contesto del racconto della creazione (cfr. Gn1:5,7,13,19,23,31).

In seguito, nel solco del pensiero biblico, la tradizione ebrai-ca ha assimilato il giudizio del Kippur a una creazione. Secondo

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238 Cfr. P.J. Kearney, «Creation and Liturgy: The P Redaction of Ex 25-30»Zeitschrift fur Alttestamentliche Wissenschaft 89 (1977), p. 375; cfr. J. Blenkinsopp,«The Structure of P» Catholic Biblical Quarterly 38 (1976), pp. 276-278.239 Isaia 44:24; Giobbe 9:8; Salmo 104:2; Geremia 10:12.

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uno dei più antichi commentatori ebrei della Genesi, la nascitadel Kippur coincide con quella dell’universo: «C’è stata unasera, c’è stata una mattina, un giorno unico, e questo significache il Santo, il Benedetto, diede a Israele un giorno unico chealtro non è se non il Kippur» (Midrash Rabbah, Gn 4,10).

Le preghiere recitate in questo giorno, le riflessioni teologi-che che esso ispira portano invariabilmente allo stesso riferi-mento del giudizio e della creazione. «Che tu sia benedetto, oEterno Dio nostro, Re dell’universo, che ci apri le porte dellamisericordia e illumini gli occhi di coloro che desiderano il per-dono di colui che ha creato la luce e l’oscurità, che ha creatotutte le cose» (Yotser leyom Kippur). «Come può l’essere umanoessere giusto davanti al suo creatore, quando tutto viene messoa nudo davanti a lui?» (Mosaph leyom Kippur).

Si ritrova anche in queste preghiere tradizionali il medesi-mo appello al timore di Dio sottolineato da Apocalisse 14.L’associazione tra giudizio e creazione sussiste anche in questitesti citati. «Noi dobbiamo santificare questo giorno perché essoè un giorno di timore e di terrore. In questo giorno il tuo regnoe il tuo trono sono stati stabiliti. Poiché tu sei il giudice e il testi-mone, colui che scrive e colui che sigilla. Tu ti ricorderai ditutte le cose dimenticate e aprirai il libro dei ricordi. In quelgiorno suonerà il grande schofar e la voce del silenzio si faràsentire e gli angeli si precipiteranno pieni di timore e di tremo-re ed esclameranno: Ecco il giorno del giudizio!» (Raccolta dipreghiere, Mahzor min Rosh Hashana weyom hakippurim,prima parte, p. 31).

«Diffondi il timore del tuo nome, o Signore, nostro Dio, sututte le tue creature affinché tutti gli uomini ti temano e si pro-sternino davanti a te, tutti coloro che tu hai creati... Poiché noisiamo coscienti, o Signore nostro Dio, che tu sei sovrano e ilpotere è nelle tue mani, la potenza è nella tua destra e che il tuonome sia conosciuto a tutti coloro che tu hai creati» (ChoulkhanAroukh, p. 514).

Tutte queste informazioni, presenti nella Bibbia come nelletradizioni e liturgie ebraiche, mostrano il retroterra del mes-saggio di Apocalisse 14.

Per mezzo di questa associazione del concetto di giudizio edi creazione, si vuole evocare la festa dell’espiazione. Come per

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caso, la proclamazione compiuta sulla terra coincide con l’e-vento del giudizio visto dal profeta Daniele nel cielo (7:9-11),mentre il testo parallelo di Daniele 8 mette l’attenzione sullapurificazione del santuario, cioè il Kippur (v. 14).240

L’Apocalisse si riferisce a Daniele persino nella struttura let-teraria. Come Daniele, l’Apocalisse colloca nel suo centro geo-metrico, proprio il giudizio. Ma mentre Daniele contemplava ilrisvolto celeste dell’evento, l’Apocalisse considera l’aspetto ter-restre. La proclamazione del giudizio e della creazione, qui sullaterra ha come contropartita un Kippur che si svolge nel cielo.

L’applicazione storica della profezia biblica ci obbliga a sot-tolineare nello scenario della storia umana, come una sorta digrande ondata che si solleva durante la metà del XIX secolo. Unmovimento, il cui messaggio è centrato proprio sul giudizio esulla creazione.

Questo immenso appello pronunciato da uomini e donneche testimoniano sia con la parola sia con la loro vita, rappre-senta il segno visibile del gran giorno del Kippur iniziato nelcielo. Oltre a questo, si ode come un grande grido del cielo cheavverte gli abitanti della terra circa la venuta del Figlio dell’uo-mo; mentre nuovi orizzonti si preparano.

Il Figlio dell’uomoIl profeta dell’Apocalisse aveva iniziato la sua serie di settesegni, partendo dalla visione celeste di una donna illuminatadal sole e dalla luna, il cui capo era incoronato da stelle. Ora, losguardo profetico chiude il cerchio e si ferma sulla visione cele-ste di un Figlio dell’uomo avvolto da una nuvola, la cui testa èincoronata da un diadema d’oro. La visione del Figlio dell’uomorisponde a quella della donna.

La venuta di Gesù Cristo, che sorge dal cuore delle nuvoleper impadronirsi, finalmente, del governo della terra, rispondeai sospiri della donna esiliata nel deserto la quale non vive senon per questo sogno e di questo sogno.

Quest’ultima visione riassume tutta l’esperienza cristiana.Non è per caso che questa speranza ha ispirato il saluto dei

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240 Cfr. Le soupir de la terre, p. 182.

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primi cristiani, maran atha, «il Signore viene». Il verbo aramai-co atha è esattamente il verbo che si trova nel testo di Daniele7, capitolo che descrive la venuta del Figlio dell’uomo (v. 13).Siamo alla fine. Quest’ultimo avvenimento segna il compimen-to di tutte le attese.

Per comprendere questo messaggio della fine, il profetaAmos aveva ricevuto a suo tempo, la visione di un canestro difrutta matura (cfr. 8:2). L’idea di maturità e di compimento pas-sava già attraverso un gioco di parole. In ebraico, la parola fineqetz si percepisce anche nel suono della parola frutto qaytz.

Per gli antichi profeti d’Israele la fine non era soltanto untragico arresto, dopo il quale non c’era più nulla. La fine èanche portatrice di orizzonti nuovi. La fine è anche speranza.Per rendere questa ambivalenza del concetto di fine, i profetihanno utilizzato la metafora della mietitura (Gl 4:13). La mieti-tura, infatti, implica nello stesso tempo la violenza del taglio ela raccolta dei covoni. Viene suggerita la nozione di morte e divita, nello stesso tempo.

Il profeta dell’Apocalisse riprende la stessa immagine dellamietitura per evocare l’evento della fine (Ap 14:14-19). Ma perrendere ancora meglio l’idea dell’ambivalenza di questa fine,l’Apocalisse la descrive prendendo ad esempio le due mietitureche scandivano la vita agricola della Palestina dell’epoca: lamietitura del grano a primavera e la vendemmia in autunno.

La mietitura del grano rappresenta l’adunata dei fedeli(14:14-16). L’immagine si situa nel solco dell’esperienza sacrifi-cale già analizzata precedentemente. Essi rappresentano «leprimizie di Dio» (14:4). Questa mietitura è riferita al Figlio del-l’uomo. Si tratta quindi della sua opera e del suo regno.

La visione dell’Apocalisse si ricongiunge a quella del profe-ta Daniele. Anche in quel caso, il giudizio è posto come l’ultimoavvenimento della storia umana, in vista della venuta del Figliodell’uomo. Nel capitolo 7 di Daniele, il Figlio dell’uomo è diret-tamente impegnato nell’atto del giudicare. Lo si scorge mentreinterviene presso «il vegliardo», prima di ricevere il regno e ildominio (cfr. Dn 7:13,14,26,27).

Il testo dell’Apocalisse segue lo stesso sviluppo. Il primosignificato della parusia è quello del giudizio che separa e radu-na tutti coloro che sono giudicati giusti. Il giudizio è di assolu-

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Capitolo 6

zione (7:22).241 La raccolta dei fedeli porta con sé, un messaggiodi vita. La scelta del termine greco utilizzato per tradurre l’ideadi mietitura (therismos, therizo) è assai significativa. Questaparola si riferisce specificatamente alla raccolta e alla riunionedei covoni e non alla loro recisione, come sarebbe stato se sivoleva alludere al castigo dei nemici. I covoni sono carichi digrano e contengono la promessa del pane. L’immagine evoca lasicurezza del ritorno a casa.

D’altro canto, la vendemmia, rappresenta il castigo dei mal-vagi. Questa volta, il mietitore è associato al fuoco (Ap 14:18) ilquale, come in Daniele 7, è lo strumento del giudizio sinonimodi castigo (v. 11). Inoltre, l’angelo che esegue la sentenza vienedescritto nell’atto di uscire dall’altare, dove erano state udite levoci dei martiri di Dio (cfr. Ap 6:9; 8:3-5). Questo giudizio èdescritto come l’atto di giustizia che vendicherà le vittime diogni tempo. È la manifestazione dell’ira di Dio (14:19). Lamesse introduce, ora, un messaggio di morte. I grappoli spre-muti violentemente secernono il loro rosso succo, evocativo delsangue che scorre.242

Il profeta l’interpreta in questo senso (v. 20). L’immagineprosegue fino a evocare il campo di battaglia con i suoi cavalliimmersi nel sangue fino alle redini.

L’estensione della carneficina si indovina dalle cifre che nemisurano lo spazio: 1600 stadi, circa 300 chilometri. Il numeroè, ovviamente, simbolico. Gioca sul numero 4 (4x4x100), indi-cando l’universalità geografica: «tutta la terra» (v. 6), la stessacosa fa il libro di Daniele.243

Il castigo assume proporzioni mondiali. Inoltre, è il solonumero quadrato (4x4) dell’Apocalisse, assieme ai centoqua-rantaquattromila (12x12) e questa corrispondenza suggerisceun certo rapporto tra le due entità, rappresentate da questinumeri quadrati. Il versante della terra (numero 4) è la contro-parte di quello alleato con Dio (numero 12 = 4x3).

L’operazione si svolge «fuori dalla città» (14:20). Anche in

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241 Le soupir de la terre, pp. 162,163.242 Isaia 63:1-6; Lamentazioni 1:15.243 Le soupir de la terre, p. 117.

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questo caso il linguaggio è simbolico, volto a descrivere il luogotradizionale del giudizio delle nazioni, dei goyim.244 Coloro cheappartengono al campo avverso, estraneo, nemico.

Questo è il messaggio più sorprendente e più scioccantedell’Apocalisse. Esso ha sconvolto molti cristiani. L’illustreriformatore, Martin Lutero aveva eliminato dal canone biblicoil libro dell’Apocalisse, perché vi è descritto un Dio adirato, unDio di giustizia che fa scoppiare i grappoli con il loro succocolor sangue, e non unicamente un Dio d’amore che viene araccogliere i suoi.

Quello che Lutero non aveva compreso, e molti cristianicon lui, è che l’amore non può esistere senza giustizia. I teoricidell’amore che dimenticano questa esigenza sono, nella mag-gior parte dei casi, come dei principini che non hanno maiconosciuto l’umiliazione dell’oppressione e l’amarezza dell’in-giustizia. L’amore privo dell’attenzione rigorosa della giustizia,non è autentico. Per questo motivo, nella Bibbia, la parola «giu-stizia» (tsedeq) è spesso messa in relazione con «l’amore e labontà» (hesed).245

È questa la ragione per la quale, l’amore di Dio non è fattosolo di buoni sentimenti, parole dolci, sorrisi demagogici cheintorpidiscono l’intelligenza. L’amore vero, implica un’azionereale di salvezza, un cambiamento radicale nella storia. Delresto, è impossibile essere liberati dalla sofferenza, essere sal-vati dalla morte, senza prima schiacciare il male completamen-te. È il messaggio contenuto nell’immagine del sangue checopre tutta la terra, che indica la portata totale del giudizio.Un’immagine scioccante, certo, ma che indica l’estrema serietàdella condizione umana.

Ma, l’intenzione della rappresentazione va più lontano.Presa in prestito dal vocabolario marziale, essa annuncia l’ulti-ma battaglia di Harmaghedon che vedrà confrontarsi le forzedall’alto, con le forze malefiche dal basso (16:12-16). Le duevisioni fanno eco l’una all’altra (16:13; cfr. 14:19). La mietitura

244 Gioele 4:2,12; Zaccaria 14:2-12.245 Salmo 36:11 e 103:17 sul rapporto tra la giustizia e l’amore, Cfr. H. Baruk,Tsedek, droit hébraïque et science de la paix, Paris, 1070, pp.15, 23.

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Capitolo 6

dei giusti e l’uva pigiata da cui fuoriesce il sangue (16:19;14:20). Il Figlio dell’uomo che riunisce con amore il grano e ilguerriero in collera che fa colare il sangue: sono lo stesso per-sonaggio, Gesù Cristo.

Paradossalmente, lo scopo di questa immagine, non è quel-la di terrorizzare, ma di rassicurare. È la buona notizia della vit-toria finale che è qui proclamata. L’immagine grida forte, pienadi speranza.

La violenza che sconvolgerà gli ultimi momenti della storiaterrestre è inaudita. Per poter salvare, Dio è obbligato a con-frontarsi con il nemico. Egli è costretto a battersi e a colpire perstrappare le pecore dagli artigli del «leone ruggente» e per spin-gere la storia, finalmente, nella giusta direzione, quella dellavita, della giustizia e della pace.

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Terza parte

A oriente tutto è nuovo

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A partire dal capitolo 15, l’Apocalisse intraprende un nuovocorso. Nella prima parte, la profezia percorre la storia partendodall’epoca del profeta, fino ai tempi della fine (da Gesù al giu-dizio finale). Nella seconda parte, la visione si concentra suitempi della fine (giudizio), l’ultimo scorcio della storia umana,quella che precede la venuta di Dio.

In questa terza parte, lo sguardo profetico si sposta sul perio-do che segue la fine dei tempi: dal giudizio alla fondazione dellanuova Gerusalemme. Per la prima volta, il corso della storia èspinto direttamente dalla presenza effettiva e totale di Dio.L’esperienza è completamente nuova e incomparabile, sia dalversante di Babilonia sia da quello della nuova Gerusalemme.

L’ira di Dio non è mai stata espressa così fortemente e ladistruzione, mai così radicale. L’Apocalisse parla di un terre-moto mai visto prima (16:18).

La potenza creatrice di Dio non è mai stata così intensa e latrasformazione tanto profonda. «Io faccio ogni cosa nuova», pro-mette il Dio dell’Apocalisse (21:5).

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Capitolo 7

Le sette coppe del mondo

L’ira di Dio, descritta precedentemente come un grande tinocolmo di vino, viene, ora descritta nel suo compimento. Daltino si passa alla coppa. Di nuovo, siamo di fronte a un lin-guaggio simbolico. L’immagine della coppa è ripresadall’Antico Testamento. Nel Medio Oriente antico, la coppa erausata nei riti di divinazione. Giuseppe si serve di una coppa perpredire l’avvenire (Gn 44:5).

Il profeta Geremia vede in essa il giudizio futuro dellenazioni: «Infatti così mi ha parlato il SIGNORE, Dio d’Israele:Prendi dalla mia mano questa coppa del vino della mia ira edanne da bere a tutte le nazioni a cui ti manderò. Esse berran-no, barcolleranno, saranno come pazze a causa della spada cheio manderò in mezzo a loro» (25:15,16).246

Preludio sulla chiusura del tempioPrima di togliere il velo sull’ultimo capitolo, quello relativo algiudizio di Dio, fedele al suo stile letterario, Giovanni apre ilnuovo ciclo settenario con una pausa sul motivo del tempio. Ilsuo sguardo profetico vede oltre le sette coppe e anticipa losvolgimento di questo ultimo conflitto tra il Dio, che viene dal-l’alto e le forze demoniache dal basso. Il profeta vede una scenadi vittoria. Ciò che colpisce inizialmente, è una distesa d’acqua,liscia come un mare di vetro (Ap 15:2). Quest’immagine, giàincontrata a proposito della visione del tempio, allude alleacque del firmamento e, per associazione di idee, evoca la crea-zione, che la Bibbia descrive come una vittoria sulle acque.247

246 Isaia 51:17; Zaccaria 12:2.247 Salmo 136:6; Isaia 40:12; 27:1.

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Capìtolo 7

La visione seguente mette in scena l’immensa folla dei sal-vati (15:2-4). Il profeta li descrive come gli antichi israeliti del-l’esodo. Come loro, essi si tengono in piedi sul mare, afferman-do la vittoria di Dio sugli elementi. Come quei progenitori dellafede cantano l’inno di Mosè (Es 15) che celebra la vittoria diDio sui nemici d’Israele.

La fine del KippurDopo questa visione di vittoria che garantisce il futuro dei cre-denti, la profezia ritorna a parlare di avvenimenti passati. Sononuovamente protagonisti i sette angeli di luce, in procinto diversare il contenuto delle loro coppe. Il profeta li vede usciredal tempio, vestiti con l’abito che il sommo sacerdote portavanel giorno dell’espiazione: la tunica di lino finissimo (cfr. Ap15:6; Lv 16:4). La scena ricorda il rituale che segna la fine delrito dell’espiazione, nel cerimoniale del Kippur: «Nella tenda diconvegno, quando egli entrerà nel santuario per farvi l’espia-zione, non ci sarà nessuno, finché egli non sia uscito e nonabbia fatto l’espiazione per sé, per la sua casa e per tutta lacomunità d’Israele» (Lv 16:17).

In effetti, il tempio è pieno «di fumo a causa della gloria diDio» (Ap 15:8), segno che nessuno, ormai, può più entrarvi el’opera dell’espiazione è terminata. Lo stesso fenomeno carat-terizza la fine della costruzione del santuario, nel librodell’Esodo. Anche in quell’occasione, la nuvola di Dio invase lospazio del santuario, manifestazione della gloria del Signore(cfr. Es 40:34). Anche in quella circostanza, nessuno poté entra-re nella tenda (v. 35). Questo passo dell’Esodo allude alla finedell’opera della creazione. La stessa espressione stilistica checonclude il racconto di quell’opera, nel libro della Genesi«compì la sua opera», riappare nel racconto del santuario (cfr.v. 33; Gn 2:2).

La fine dell’opera di costruzione del santuario è vissuta,quindi, come la fine della creazione dell’universo. Questi duemomenti sono, del resto, riempiti della gloriosa presenza diDio. L’avvenimento riportato dall’Apocalisse, evoca, dunque, lafine dell’azione ricreatrice di Dio, un altro modo di suggerire lafine di quel processo di purificazione che caratterizza il Kippur.Nella realtà, la fine indica quella del giudizio. La sentenza è fis-

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sata. Questa verità è stata tramandata nella liturgia del Kippur,fin dai tempi più remoti, per arrivare ai giorni nostri. L’ultimapreghiera del Kippur, recitata al tramonto, la neilah, che signi-fica «chiusura», viene associata, nel Talmud, alla chiusura deltempio celeste.248 Secondo la tradizione ebraica, se il Kippur èil coronamento dei dieci giorni di preparazione, è nell’ora dellaneilah che «le nostre concezioni, i nostri destini sono definiti-vamente fissati e il nostro giudizio sigillato».249

È significativo il fatto che, in questa preghiera, la parolahotménu «suggellaci» sia diventata la parola chiave sulla qualevenne forgiato il saluto tradizionale, alla fine del Kippur: hati-mah tovah, «buon suggellamento!»

L’Apocalisse ha ripreso questa tradizione per proclamareche è venuto il momento nel quale, la sorte di ognuno è segna-ta. Dio non perdona più. Persino l’intervento di Cristo e l’evo-cazione del suo sacrificio si fermano in quel punto.

Si fatica molto a comprendere questa «durezza» di Dio chemal si concilia con la concezione di un «SIGNORE misericordio-so e pietoso» (Es 34:6).

Per molti cristiani, il messaggio di un Dio d’amore è dege-nerato in un sentimentalismo etereo, dove una filosofia astrat-ta, che ha perduto contatto con la storia, si è affermata sullapotenza del pensiero biblico. Lo abbiamo già detto. La salvezzaè un fatto reale, essa è un avvenimento, quindi ha dei limiti: secosì non fosse, il cristianesimo sarebbe solo un’idea, un’emo-zione. Il «no» di Dio è l’indice della realtà della sua esistenza edella sua azione nella storia. È la dimostrazione che egli non èun’invenzione dello spirito umano.

Questo blocco si spiega anche sul piano degli esseri umani.A forza di spingere in questa direzione, essi hanno finito perdeterminare il loro destino. Il sigillo di Dio altro non è che laratifica, proveniente dall’alto, che essi non possono più tornareindietro. L’esempio del faraone d’Egitto riportato nel librodell’Esodo, illustra perfettamente questo meccanismo. Nelcorso della prima metà delle piaghe, il racconto biblico sottoli-

248 Talmud de Jérusalem, Berakhot, IV, 5.249 Choulkhan Aroukh Abrégé, p. 570.

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Capitolo 7

nea che il faraone stesso indurì il suo cuore (cfr. Es 7:13-22;8:15; 9:7,35).Solo nel corso della seconda parte delle piaghe,all’improvviso, il racconto biblico cambia la sua visuale: «IlSIGNORE indurì il cuore del faraone» (10:1,20,27; 14:4,8). A forzadi intestardirsi nel peccato, si arriva a un punto di non ritorno,nel quale non si è più capaci di pentirsi. Questa osservazioned’ordine psicologico e morale troverà il suo compimento ulti-mo, nel tempo della fine; quando ognuno sarà, finalmente,determinato dalla deliberata ripetizione dei suoi atti e delle pro-prie scelte.

Lo stesso principio apparirà successivamente, sotto laforma di un proverbio: «Chi è ingiusto continui a praticare l’in-giustizia; chi è impuro continui a essere impuro; e chi è giustocontinui a praticare la giustizia, e chi è santo si santifichi anco-ra» (Ap 22:11).

Nello stesso senso, durante le sette piaghe, come in un tri-ste leit motiv, ricorre l’osservazione del profeta: «Essi non siravvidero dalle opere loro...» (16:9,11,21).

Qualsiasi tipo di angoscia o di speculazione, a proposito deltempo del suggellamento, è assolutamente fuori luogo. Noi nonsiamo ancora arrivati a quel punto della storia umana. Il fatto dichiedersi se lo viviamo, significa, di per sé, che non ci siamoancora arrivati. Quando qualcuno si chiede se il perdono èancora possibile, significa che egli vive il tempo della grazia. Ilgiorno in cui non sarà più possibile sperare, sarà quello in cuisi sarà scelto di smettere di sperare.

Un altro indizio per riconoscere il tempo del suggellamen-to è costituito dall’osservazione, obiettiva, dell’ira di Dio: lesette coppe versate sul mondo. Il tempo della chiusura del tem-pio, corrisponde all’inizio del ciclo delle coppe (15:8). L’ira diDio già espressa nel sesto sigillo (6:17) e nel settimo schofar(11:18,19) viene annunciata come una futura minaccia, all’in-terno del messaggio del terzo angelo: «Chiunque adora la bestiae la sua immagine e ne prende il marchio sulla fronte o sullamano, egli pure berrà il vino dell’ira di Dio versato puro nelcalice della sua ira» (14:9,10).

Le sette coppe si collocano cronologicamente, dopo la pro-clamazione dei tre angeli, mentre prendono il via nel momentoin cui, il dominio della bestia (13:16) è un fatto compiuto. A

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cominciare dalla prima coppa, si comprende che il giudizioriguarda «gli uomini che hanno il marchio della bestia e adora-no la sua immagine» (16:2).

Le sette coppe non sono che una ripresa del giudizio chesegue i sette schofar. Esse si sposano parallelamente al movi-mento delle trombe.

Primo schofar Prima coppaterra (uomo) terra (uomo)

Secondo schofar Seconda coppamare insanguinato mare insanguinato

Terzo schofar Terza coppafiumi e sorgenti fiumi e sorgenti

Quarto schofar Quarta coppail sole il sole

Quinto schofar Quinta coppaabisso e tenebre abisso e tenebre

Sesto schofar Sesta coppal’Eufrate l’Eufrate

Settimo schofar Settima coppaira di Dio: grandine, ira di Dio: grandine,possesso del regno possesso del regno

Al pari degli schofar, anche le coppe seguono la sequenzadella creazione (cfr. Gn 1:1 a 2:4). Il giudizio anche qui diventacosmico. Ma, mentre gli schofar colpivano un terzo del territorio,gli effetti delle coppe si fanno sentire dappertutto: «la terra», «ilmare», «il sole»... Il giudizio che si esercita attraverso queste pia-ghe, completa e compie quello parziale, iniziato con gli schofar.Questo dimostra che si tratta dell’ultimo giudizio di Dio. I setteschofar seguivano, passo dopo passo, le infedeltà della chiesa; lesette coppe si concentrano sugli ultimi atti della storia umana.

Questo giudizio è esercitato in due fasi ben distinte:

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Capitolo 7

La prima fase è occupata dalle prime cinque coppe e coprela prima metà del capitolo (16:1-11). La denomineremo, fasedelle ulcerazioni. Fase molto breve perché le vittime della quin-ta coppa soffrono ancora per le ulcerazioni prodotte dalla primacoppa. Questa fase è caratterizzata da un giudizio di Dio ine-rente alla condizione di peccato degli uomini e opera «secondola legge della reciprocità».250

La seconda fase è occupata dalla sesta e settima coppa ecopre la seconda metà del capitolo (16:12-21). Questa fase èchiamata Harmaghedon. Essa è caratterizzata da un giudizio diDio che rende obbligatorio l’intervento diretto dall’alto in rispo-sta alla rivolta delle forze del male, dal basso.

La fase delle ulcereIl versante nemico viene definito fin dalla prima coppa: sonocoloro che si sono lasciati marchiare dal dio straniero (16:2).L’ulcera maligna che colpisce è in stretto rapporto con l’iniqui-tà che l’ha prodotta. Il marchio della bestia diventa ulcera.Sembra una sorta di ascesso che copre i corpi degli uomini ericorda la lebbra dei maledetti dell’Antico Testamento (cfr. Dt28:27; Lv 13); il marchio è visto come un segno esterno dellacorruzione interna che rode gli adoratori della bestia. La puni-zione si intravede all’interno dell’errore stesso. L’adorazionedella bestia con tutto ciò che essa implica in termine di asservi-mento e di alienazione, porta in sé il suo proprio frutto di morte.

Un sorriso ironico si indovina nella descrizione di questaprima piaga. Essa ricorda la sesta piaga d’Egitto di cui fu dettoche avrebbe colpito tanto il popolo egiziano, quanto i sacerdotie i maghi (cfr. Es 9:11). La malattia colpirà coloro che hannoricevuto il marchio della bestia, fino a raggiungere la bestiastessa. Il dio di Babele è così smascherato, come lo furono nel-l’antichità gli dèi d’Egitto. Sono degli impostori. La prova: sigrattano disperatamente come tutti gli altri. Il dio della bestianon esiste perché nessuno viene risparmiato. Persino i sacer-doti sono vittime della loro propria religione e non soltanto isemplici fedeli.

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250 J. Ellul, Architecture en mouvement, p. 193.

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Questa prima coppa come del resto il primo schofar, riguar-da la terra. Ma questa volta, la piaga colpisce direttamente gliuomini. Le stesse bruciature del suolo si ritrovano sulla pelledegli uomini. L’ulcera maligna non esce dal nulla; essa è ilrisultato normale di un processo nel tempo. Il guaio osservatodurante il primo squillo di schofar raggiunge il suo pieno svi-luppo durante la prima coppa. L’arsura annunciata dal primoschofar rappresentava la condizione di desolazione all’indoma-ni delle guerre con i barbari, nell’epoca in cui la chiesa si bat-teva per la supremazia. L’ulcera maligna scatenata dalla primacoppa, dovrebbe rappresentare uno stato di desolazione ancorapiù grave. Il male si amplifica e il suo stadio è assai più avan-zato. Inoltre, ricordiamolo, il suono del corno toccava solo unterzo della terra, mentre la coppa si riversa su tutto il globo.

Il profeta dell’Apocalisse descrive gli ultimi drammi dellastoria umana in termini che ricordano gli sconvolgimenti chehanno accompagnato la presa del potere della chiesa. Ma, ciòche all’inizio della storia cristiana si poteva osservare su unpiano locale, alla fine dei tempi prenderà una proporzionemondiale. Poiché sono ancora visibili le sofferenze dell’ulcerafino alla quinta coppa, si deve ricavare che il grave malesseredurerà molto tempo. Ciò che caratterizza la prima fase, è l’oc-cupazione da parte del potere della chiesa, di tutta la terra.Tutto ciò implicherà abusi e intolleranza. Il profeta Daniele l’a-veva previsto. Nel capitolo 11 del suo libro, egli annuncia che,alla fine dei tempi, il potere religioso rappresentato daBabilonia (il nord) avrebbe dominato su tutta la terra.251

L’ambizione di dominare tutta la terra risulta appena vela-ta. Sia all’interno della chiesa sia all’esterno se ne parla, la sisogna, la si giustifica.252 Alla luce degli ultimi avvenimenti, que-sta lettura delle profezie di Daniele e dell’Apocalisse diventamolto più chiara. L’avvenire dirà in quale misura e in qualemaniera esse si realizzeranno.

Le due coppe seguenti sono versate sulle acque delle terra:sul mare, durante la seconda coppa, sui fiumi durante la terza.

251 Le soupir de la terre, pp. 241,247.252 Le soupir de la terre, p. 154.

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Capitolo 7

Le piaghe che seguono ricordano la prima piaga d’Egitto.L’acqua diventa sangue (cfr. Es 7:17-21). Nel contesto dell’anti-co Egitto, questa piaga assumeva un significato tutto particola-re. Il Nilo era adorato come un dio e la sua acqua assicurava lavita agli abitanti del paese.

L’esperienza degli ultimi nemici di Dio all’alba della libera-zione finale, è estremamente simile a quella dei nemici diIsraele all’alba dell’uscita dall’Egitto. Essi si accorsero improv-visamente che il dio sul quale essi confidavano con tutto il lorocuore, al quale credevano di dovere la vita, era in effetti gene-ratore di morte. Invece dell’acqua produce sangue.

Anche in quel caso, la spiegazione della piaga tiene contodella legge della reciprocità. «Essi... hanno versato il sangue deisanti» per questa ragione dovranno bere del sangue (cfr. Ap16:6). Il castigo è inerente, una volta di più al peccato. Essi sonoavvelenati dalla morte che hanno prodotto.

La loro punizione è proporzionata al loro errore. L’angelodelle acque lo fa notare: «È quello che meritano» (v. 6), e l’angelodell’altare, generalmente associato ai martiri, vittime dell’oppres-sione di Babele, gli fa eco: «Sì, o Signore, Dio onnipotente, veritie-ri e giusti sono i tuoi giudizi» (v. 7).

Gli squilli del secondo e del terzo schofar annuncianoanch’essi dei flagelli che, successivamente, colpiranno prima leacque del mare, poi, quelle dei fiumi, infine le sorgenti (8:8-11).

Al tempo degli schofar, questa immagine si riferiva alla con-dizione spirituale degli uomini e delle donne dell’epoca. Lachiesa, occupata ad assicurarsi il potere politico, perderà ilsenso di ciò che conta davvero. La vita spirituale, simboleggia-ta dall’acqua viva,253 mancava.

Tutta la terra è colpita dagli effetti dello svuotamento dellecoppe, le acque sono mutate in sangue. Non solo il mare (v. 3)ma anche i fiumi e le sorgenti all’interno dei continenti (v. 4).

La condizione spirituale degli abitanti di Babele è tragica.Per l’esiliato di Patmos, l’immagine delle acque divenute san-gue, è una delle più suggestive. Egli si trova sulla piccola isola,attorniata dal mare, i cui orizzonti sono chiusi. In tutte le dire-

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253 Salmo 36:8,9; Geremia 17:8.

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zioni, all’esterno come all’interno, Dio è morto. I suoi testimo-ni, i santi, i profeti, non vengono più ascoltati. L’acqua è diven-tata sangue. La gente di Babele non ha più speranza, non soloperché tutto è diventato sangue, ma anche perché essi nonhanno più nulla per risvegliare i loro gusti e la nostalgia dellecose, un tempo, amate.

La quarta coppa accentua il malessere causato dalla prece-dente. Alla mancanza d’acqua si aggiunge la canicola. Il cielo èvuoto, sgombro di nuvole. Non c’è più speranza. La siccità spi-rituale che affligge questa fase è terribilmente insopportabile.

Anche in questo caso, il castigo è posto in relazione allacolpa, secondo il principio di reciprocità. Questa lezione è dataattraverso un sorriso ironico che s’intravede nel quarto schofar.Come in quest’ultimo, la quarta coppa riguarda il sole (v. 8).Ma, mentre nel capitolo 8, il sole subiva un’eclisse parziale, qui,al contrario, la potenza del sole risulta moltiplicata. Esso bruciae il suo calore porta sofferenza e morte. Gli uomini sono le vit-time della propria idolatria, il sole che hanno divinizzato èdiventato la causa del loro dolore e del loro fallimento.

La quinta coppa colpisce direttamente il cuore del problema:il trono della bestia (16:10). La piaga ricorda quella del quintoschofar. Le tenebre invadono la scena. Sotto l’influsso del quintoschofar, le tenebre erano prodotte dal fondo dell’abisso. È iltehom, il nulla della negazione di Dio, che accompagna le ideo-logie laiche scaturite dalla e dopo la Rivoluzione francese (9:1,2).In quell’epoca, le tenebre coprivano un terzo dello spazio (8:12);questa volta esse avvolgono ogni cosa (16:10). In passato, lanegazione di Dio era propria di una potenza straniera antireli-giosa. Ora, fa parte integrante della religione. Per riprendere loscenario descritto dal profeta Daniele, il sud si presenta in tota-le integrazione con il nord (11:43).254 Babele diventa maestra diquell’arte di negare Dio che caratterizzava il faraone d’Egitto.

Ancora una volta, il giudizio deriva dall’iniquità commessa.Per aver adorato la bestia, il cui trono era buio e vuoto, gli uomi-ni erediteranno tenebre e un nulla devastante. Essi sono, anco-ra una volta, vittime della loro propria religione di morte.

254 Le soupir de la terre, pp. 241,248,249.

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Il flagello ricorda la nona piaga d’Egitto, la penultima, quel-la che precede l’intervento finale e mortale di Dio, contro i pri-mogeniti d’Egitto. Nel libro della Sapienza, un apocrifo del Isecolo, la piaga delle tenebre assume una dimensione cosmica:le tenebre, uscite dal soggiorno dei morti, sono presentatecome il castigo, per eccellenza che riassume e conclude tutti glialtri (Sapienza 17).

Nello stesso modo, la quinta coppa contiene tutti i malidelle precedenti. Si soffre a causa delle ulcere portate dallaprima coppa, come dei dolori che accompagnano le altrecoppe. L’intensità della pena raggiunge il massimo. L’odio con-tro Dio si è sviluppato in proporzione ai mali che causano lasofferenza. Si è passati dall’idolatria presente nella prima piaga(16:2) alla blasfemia contro «il nome di Dio che ha il potere suquesti flagelli» (16:9), infine la blasfemia è contro «il Dio delcielo» (16:11), il Dio assoluto dell’universo.

Sempre più, gli uomini capiscono che si sono sbagliati. Ma,invece di cambiare strada, s’intestardiscono e si rivoltano con-tro colui che dovrebbero riconoscere come vero Dio. Dalla con-fusione religiosa che li portava lontano da Dio, passano all’odiocosciente e deliberato rivolto contro Dio. Il loro comportamen-to diventa simile a quello del faraone d’Egitto. Costretto a rico-noscere l’esistenza di Dio, spinto dalle piaghe, egli confermò lesue posizioni, tanto da diventare sempre più aggressivo versoDio stesso. Il conflitto, faccia a faccia, diventa inevitabile.

La fase di HarmaghedonLa sesta coppa, al pari del sesto schofar, colpisce l’Eufrate (cfrAp 16:12; 13:14). Questa volta, l’evocazione è più specifica. Leacque del fiume di Babilonia si seccano per preparare «la via aire che vengono dall’Oriente!» (16:12).

Nella tradizione biblica, il prosciugarsi dell’Eufrate è asso-ciato alla conquista di Babilonia da parte di Ciro nel 539 a.C.:«Io dico all’abisso: Fatti asciutto. Io prosciugherò i tuoi fiumi! Iodico di Ciro: Egli è il mio pastore; egli adempirà tutta la miavolontà» (Is 44:27,28 cfr. Ger 50:38).

Questa associazione d’idee si spiega con la particolare stra-tegia bellica di cui parla lo storico greco Erodoto (484-425 a.C.):«Ciro dispose il grosso del suo esercito al punto di ingresso del

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fiume, là dove esso penetra in città, e gli altri soldati, invece,alla parte opposta, dove il fiume esce e diede ordine alle sueforze che quando avessero visto il fiume divenuto guadabile,per quella via penetrassero in città... Infatti, per mezzo di uncanale, avendo immesso le acque dell’Eufrate nel bacino sca-vato che era allo stato di palude, fece sì che abbassandosi illivello del fiume, il vecchio letto diventasse guadabile. Ottenutoun tale risultato, i persiani che avevano ricevuto gli ordini pro-prio in vista di questo, quando l’Eufrate si fu abbassato tanto danon giungere nemmeno a metà coscia d’un uomo, ne seguiro-no il corso ed entrarono in Babilonia» (Storie, I, 191, trad. L.Annibaletto).

La frase relativa ai «re che vengono dall’Oriente» (16:12) èun’allusione a Ciro, la cui apparizione è presente nella memo-ria d’Israele come un atto salvifico di Dio proveniente dall’o-riente. «Io ho suscitato Ciro, nella giustizia, e appianerò tutte lesue vie; egli ricostruirà la mia città e rimanderà liberi i mieiesuli senza prezzo di riscatto e senza doni, dice il SIGNORE deglieserciti» (Is 45:13).

«Chi ha suscitato dall’oriente colui che la giustizia chiamasui suoi passi? Egli dà in sua balia le nazioni e lo fa dominaresui re» (41:2; cfr. 41:25).

Occorre notare che l’avvenimento della caduta di Babiloniaricopre una grande importanza nella storia d’Israele. Il libro diDaniele ne fa un perno sul quale ruota tutta la sua struttura(1:21; 6:28; 10:1).255 È significativo, tra l’altro, che il canonedella Bibbia ebraica termina su questa citazione di Ciro (2 Cr36:22,23). Infatti, è proprio grazie a Ciro, il re suscitato dall’o-riente, che le porte dell’esilio furono aperte e che il popoloebraico poté ritornare in patria per ricostruire una nuovaGerusalemme e riscoprire la propria identità perduta.

Il ritorno dall’esilio è dunque vissuto come una nuova crea-zione. Come preludio all’apparizione di Ciro, il profeta Isaiaevoca l’atto della creazione: «Così parla il SIGNORE, il tuo reden-tore, colui che ti ha formato fin dal seno materno: Io sono ilSIGNORE, che ha fatto tutte le cose; io solo ho spiegato i cieli, ho

255 Le soupir de la terre, p. 138.

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disteso la terra... Io dico di Ciro: Egli è il mio pastore; egli adem-pirà tutta la mia volontà, dicendo a Gerusalemme: sarai rico-struita! E al tempio: le tue fondamenta saranno gettate!» (44:24-28; cfr. 45:18; 43:15). L’Apocalisse, per poter annunciare l’eventodella sesta coppa, si appoggia sul ricordo di Ciro e il ritorno dal-l’esilio, nella prospettiva della ricostruzione di Gerusalemme.Anche nel nostro libro, la caduta della Babilonia simbolica e labattaglia che la provoca, preparano la liberazione finale e lacreazione di una nuova Gerusalemme, da parte di Dio.

Due fronti sono qui a confronto, l’uno contro l’altro. Da unaparte, «i re che vengono dall’oriente» rappresentano le forze delDio che salva, il Dio di Gerusalemme. Dall’altra parte, il ver-sante dei «re di tutta la terra» (Ap 16:14) rappresenta le forze delmale, le forze di Babilonia. In questo schieramento, si mobilita-no tutti i poteri nemici di Dio e, in modo particolare, quei pote-ri demoniaci che il profeta vede in forma di rane. Anche la sestacoppa richiama la seconda piaga dell’Esodo (cfr. Es 7:26-8:8-11).La rana, adorata in Egitto come dea della fertilità hiqit, invaserapidamente i luoghi più privati: la camera da letto, lo stessoletto (7:28). Anche in quel caso, il giudizio di Dio fa risaltare conumorismo la vanità deludente dell’idolatria egiziana. Il dio cheera, da sempre, considerato propiziazione della fertilità nediventa un concreto ostacolo.

Il lato comico viene dal fatto che i maghi, nel tentativo didimostrare il loro potere, rendono ancora più grave la piaga.

Nell’ebraismo dell’epoca di Giovanni, si associavano le raneai maghi ingannatori e agli spiriti generalmente abitanti le zoneacquatiche.256 Le rane rappresentano dunque un potere di ori-gine soprannaturale. L’Apocalisse le definisce esplicitamente«spiriti di demoni» (16:14) che escono dalla bocca dei tre nemi-ci di Dio:

1. Il dragone che rappresenta il diavolo (Ap 12).2. La bestia del mare che rappresenta l’istituzione di Babele

(13:1-10).3. La bestia della terra chiamata qui «falso profeta».

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256 C. Thompson, Semitic Magic, its Origins and Development, Jerusalem, 1971,pp. 28-32,90.

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Delle tre bestie, quest’ultima è la sola a ricevere un nuovonome che, a questo punto, si carica di significati religiosi. Finoa ora, la bestia era vista solo per la sua dimensione politica. Nelcontesto di Harmaghedon, prevalgono i connotati religiosi.Viene descritta come «un falso profeta», cioè, un funzionario alservizio dell’istituzione, invece che di Dio (cfr. Ger 5:30,31;23:14). Essa si configura come un profeta di «pace», rassicuran-te, mentre occorrerebbe un’azione di opposizione e di disturbo(6:14; 8:11). Un profeta apparentemente ispirato, dotato dellaruah, lo spirito, ma che non presenta la parola oggettiva di Dio,davar (5:13; 23:16).

Il falso profeta rappresenta gli Stati Uniti, nel ruolo di soste-gno del potere di Babele. È il sistema politico che spinge percreare un governo cristiano conservatore, di destra. D’altraparte, pensiamo a tutte le azioni politiche-religiose, intrapreseper tentare di «riunire» i movimenti religiosi cristiani, con l’o-biettivo di realizzare un medesimo programma. In ogni caso, cheesso agisca in chiave politica, ecclesiastica o cultuale, è semprela stessa meta a essere perseguita: vale a dire, condurre «tutti gliabitanti della terra ad adorare la prima bestia» (Ap 13:12).Curiosamente, i metodi del falso profeta sono d’ordine magico,sovrannaturale, simili a quelli «degli spiriti dei demoni». Percaratterizzarli l’autore utilizza la stessa parola. Esso seduce permezzo di «prodigi» (Ap 13:14 cfr. 16:14).

Il carattere fantasioso di questa descrizione non deve sco-raggiarne l’interpretazione. L’attualità conferma sempre di piùl’esattezza delle profezie apocalittiche. Certo, lo scenariodescritto dalla profezia sembra ancora lontano da noi.

Negli Stati Uniti e altrove, si possono notare molti indizi diuna tendenza sempre più definita. Il miracolismo a sfondoparanormale, le apparizioni sempre più frequenti della Verginee il relativo mercato che prende vita attorno a esse, l’interesseacuto per i fantasmi, i defunti, gli spiriti e i riti magici, tutto que-sto viene, da una parte sfruttato dalla credulità popolare, dal-l’altra diventa oggetto di studi specializzati, promossi in modospeciale, proprio negli Stati Uniti. Anche se gli avvenimenti pro-fetizzati sembrano sfidare la nostra mentalità razionale, le noti-zie che ci giungono ogni giorno dai mezzi di comunicazione,rendono ragionevoli e plausibili le diagnosi dell’Apocalisse.

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Quale sia l’identità di queste «rane», che esse rappresentinodei poteri paranormali o degli artifici posti dal mondo dellapolitica, l’obiettivo perseguito è sempre lo stesso: sedurre eradunare i re di tutta la terra (16:14) per opporsi alla venuta delDio che scende dall’alto.

Il piano non è inedito. Risale ai tempi della torre di Babele:«Poi dissero: Venite costruiamoci una città e una torre la cuicima giunga fino al cielo; acquistiamoci fama, affinché nonsiamo dispersi sulla faccia di tutta la terra» (Gn 11:4).

Da allora, sempre la stessa ambizione ossessionerà i segua-ci di Babele: unirsi per elevarsi fino al cielo, «alla porta di Dio».«Babele» vuole prendere il posto di Dio, restando ben ancorataal governo di sistemi terreni.

Per la prima volta, dai tempi di Babele, questa preoccupa-zione, assumerà una portata mondiale. Tutta la terra sarà impli-cata nel progetto di usurpazione dell’autorità divina. Il libro diDaniele aveva previsto, anch’esso, un simile consenso tra lenazioni. Alla fine di tutti i conflitti, il profeta ebreo aveva vistoalzarsi il fronte di tutti i poteri della terra, il nord e il sud, con-tro «il bel monte santo» (11:45), che altro non è se non la mon-tagna di Sion, la Gerusalemme celeste.257

Questa è una vera e propria guerra mondiale, l’ultima, equesta volta non vede gli uomini affrontarsi tra di loro, ma alcontrario riunisce tutte le creature della terra nello stesso com-battimento cosmico contro la montagna sacra di Dio.

L’Apocalisse dà un nome ebraico a questa ultima battaglia:«Harmaghedon» (Ap 16:16). Questa preoccupazione d’ordinelinguistico e semantico traduce nella linea dell’onomasticabiblica258 l’intenzione di rivelare attraverso il nome il senso pro-fondo di questo ultimo conflitto. «Harmaghedon» significa«monte di Meghiddo». Il parallelo esistente tra Daniele eApocalisse suggerisce un rapporto stretto tra la montagna diMeghiddo e Gerusalemme, «il bel monte santo». Il solo passodella Bibbia dove questi motivi si trovano riuniti (montagna,

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257 Le soupir de la terre, pp. 243-250.258 A. Straus, Nomen-Omen, la stylistique des nom propres dans le Pentateuque,Rome, 1978, pp. 199,200.

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Meghiddo, Gerusalemme) si trova nel libro del profetaZaccaria. Quello è l’unico passo nel quale la parola Meghiddo èimpiegata sotto questa forma (cioè con la terminazione di «on»):«In quel giorno ci sarà un gran lutto in Gerusalemme, pari allutto di Adadrimmon nella valle di Meghiddo» (Zc 12:11).

Due ragioni spiegano questa forma eccezionale della paro-la «Meghiddon», al posto di «Meghiddo».259

1. Una ragione d’ordine poetico: l’intenzione di fare la rimatra Meghiddon e Adadrimmon, cosa abbastanza corrente nell’o-nomastica biblica.260

2. Una ragione d’ordine retorico: l’intenzione di utilizzare laforma antica per meglio evocare un avvenimento memorabiledel passato entrato nella tradizione.261

Il profeta dell’Apocalisse associa nel medesimo destino, lamontagna har santa, Gerusalemme, e la valle di Meghiddon,producendo, in questo modo, la combinazione Har Meghiddon,che significa, monte di Meghiddon. La montagna sacra si quali-fica sulla base del ricordo collegato alla valle di Meghiddon. Laforma di questa espressione è tipica della sintassi ebraica delgenitivo qualificativo (tipo il complemento del nome). La suafunzione corrisponde a quella del nostro aggettivo qualificativo.Così, per esempio, «montagna santa» si direbbe letteralmente, inebraico, «montagna di santità» (Dn 11:45); similmente, «giustabilancia», diventa «bilancia di giustizia» (Lv 19:36, letterale), ecc.

Inoltre, l’espressione dell’Apocalisse «Harmaghedon» è col-legata ai termini usati da Zaccaria, Adadrimmon e Meghiddon,dal gioco di assonanza (paronomasia), tecnica molto frequentenei nomi propri della Bibbia:262

Har MeghiddonAdadrimmon Meghiddon

259 Giosuè 12:21; 17:11; Giudici 1:27; 5:19; 1 Re 4:12; 2 Re 9:27.260 Deuteronomio 32:15(wayishman/yeshurun); 2 Re 8:28,29 (yoram/Aram).261 Cfr. il nome di Schinéar in Daniele 1:2; cfr. Le soupir de la terre, p. 19.262 Per esempio, Jizreel è composto da zara (seme) e da El (Dio) per dire che,attraverso quel nome Dio darà il suo seme (Os 2:24,25); Cfr. M. Garsiel, BiblicalNames, p. 229.

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L’espressione «monte di Meghiddon» (Harmaghedon) indicadi per sé, il luogo della battaglia. Si tratta di una vallata. Il rife-rimento a Meghiddo non significa che bisogna collocare l’avve-nimento, là nella valle di Jizreel, con il passato storico cheevoca: la battaglia di Barac contro Sisera (cfr. Gdc 5:19) o quel-la di Jeu contro Acazia (2 Re 9:27).

Se Meghiddo è chiamata montagna, har, nonostante essa siauna valle, è per alludere al Carmelo, alla sfida tra Elia e i profe-ti di Baal (2 Re 18:20-40). Il monte Carmelo si trova a circa diecichilometri da Meghiddo.

Il profeta parla di «montagna» di Meghiddo (Harmaghedon)perché ha in mente specificatamente Gerusalemme. Il luogo dibattaglia non è, però, la valle di Jizreel, ma, come previsto daDaniele, «il bel monte santo» (11:45).

Tutti i re della terra, tutti i poteri radunati, hanno lo stessoobiettivo: il controllo di Gerusalemme. Non si tratta, qui, dellaGerusalemme dello stato moderno d’Israele. Nel contesto parti-colare dell’Apocalisse, dove il linguaggio è pregno di simboli-smi, la Gerusalemme in questione è d’ordine spirituale. Nellibro di Daniele, la montagna gloriosa di Sion, rappresentaspesso il regno celeste di Dio. Nel capitolo 2, alla fine dei regniumani, votati alla sparizione, il profeta vede il regno di Dio,sotto forma di una montagna (vv. 35,44,45). Tuttavia, alla finedel capitolo 11, l’orizzonte di speranza si configura come «il belmonte santo» (11:45).

Occorre ricordare che il tema di Gerusalemme e della mon-tagna di Sion gioca un ruolo predominante nella formulazionebiblica della speranza. Per questo, la Sion della speranza è benalta nei cieli (cfr. Sal 47:2; Is 14:13); è la casa di Dio (Sal 78:68;132:13), essa possiede tutte le qualità dell’Eden (Ez 47:1,2; Gl3:18; Zc 13:1; Ap 22:1,2). Nell’Antico e nel Nuovo Testamento,Gerusalemme è diventato il nome della città celeste.

Una tale mentalità non si crea da un giorno all’altro. Per arri-vare a questo punto, a questo rigetto deliberato e definitivo delregno che viene dall’alto, è stato necessario, come per il faraone,passare da numerose fasi di ribellione e di indurimento. Il peri-colo minaccia tutti; nella misura in cui gli errori non vengonoriconosciuti, poco per volta, progressivamente, ci ritroveremo anon attendere più, quella speranza che scende dall’alto.

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Il profeta cambia improvvisamente di tono. Dal messaggioprofetico che annuncia avvenimenti futuri, egli passa alla lezio-ne esistenziale che ci riguarda, qui e ora: «Ecco, io vengo comeun ladro; beato chi veglia e custodisce le sue vesti perché noncammini nudo e non si veda la sua vergogna!» (Ap 16:15).

Il messaggio risuona come un appello per tutti i borghesi diBabele, i quali hanno preso l’abitudine di confidare nella forzae nel genio del dio che possono vedere. L’avvertimento non s’in-dirizza solo ai materialisti miscredenti e atei. Esso si rivolge alcuore della comunità dei «santi», a coloro che costituiscono l’ul-timo anello della testimonianza del vero Dio, alla chiesa degliultimi tempi. La beatitudine riprende il consiglio particolaredato ai cristiani di Laodicea (3:18).

Perfino coloro che si caratterizzano per la proclamazionedella speranza e s’identificano con l’annuncio della venuta delregno di Dio sono al riparo dalla sindrome di Babele. I germisono riconoscibili: istituzionalismo, politica dei grandi numerisenza autentiche conversioni, chiesa per la chiesa, strutturefine a se stesse. L’atteggiamento di conquista di un successoimmediato, che non guarda più al regno di Dio futuro, prove-niente dall’alto e da lui costruito, può essere Babele.

Da questo rapido colpo d’occhio, gettato sui messaggeri deltempo della fine, emerge chiaramente che, nelle file di Babele,si possono incontrare dei fedeli di Laodicea. La profezia li inter-pella direttamente, non senza un filo d’ironia. Si può esserenudi, esporre le proprie parti intime, e nello stesso tempo sfila-re, convinti di essere ben vestiti. Il rischio che corrono i cre-denti dell’ultima ora è di essere giunti alla perfezione religiosae alla pienezza della conoscenza teologica; l’illusione orgoglio-sa di non avere «bisogno di niente» (v. 17). L’appello contenutonella profezia li spinge al risveglio e alla presa di coscienza.Perché, non c’è condizione peggiore di chi adora il dio diBabele, pur essendo nelle file di Gerusalemme. L’idolatria sifonda, qui, nel sentimento della propria giustizia e nella dolceconvinzione di essere nella verità.

Attraverso la citazione di Harmaghedon, il profeta non siaccontenta di fissare il luogo della battaglia, egli ne presenta losvolgimento. Con l’allusione a Hadad Rimmon, Harmaghedon,evoca all’orizzonte della storia, una calamità straordinaria: «In

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quel giorno ci sarà un gran lutto in Gerusalemme, pari al luttodi Adadrimmon nella valle di Meghiddo» (Zc 12:11).

Zaccaria annuncia al suo popolo che esso sperimenterà unlutto comparabile a quello di Adadrimmon. Il profeta ebreoparla di un’antica leggenda cananea, molto conosciuta dagliisraeliti della sua epoca e giunta a noi attraverso le tavolette diRas Shamra.263 Si trattava della storia del dio Hadad, dio deltuono che piange e si lamenta per la morte del suo unico figlio,Aleyin, ucciso dalla dea Mut. Quanto a Rimmon, esso ci è notocome un dio arameo (cfr. 2 Re 5:18). La sua associazione al diocananeo Hadad si spiega con le relazioni molto intense, esi-stenti tra le due culture. Rimmon proviene dalla radice rmmche, nella letteratura semitica occidentale (cfr. Is 33:3), si rife-risce al tuono, altro nome del dio Hadad.

Il mito del dio Hadad (Rimmon), nel contesto dell’anticaPalestina, era quanto mai opportuno, dove la morte del dio Baal,dio della vegetazione, veniva celebrata dai fedeli cananei.264

Ma, oltre a questa allusione alla mitologia pagana, nel testodi Zaccaria s’intravede il ricordo della tradizione d’Israele. Nellavalle di Meghiddo, in effetti, Israele conobbe una delle sofferen-ze più grandi della sua storia. In quella valle, il re Giosia fu ucci-so dal faraone Neco, nel 609 a.C. Il verso delle Cronache cheriporta l’accaduto, (cfr. 2 Cr 35: 20-27) ha diversi motivi in comu-ne con il testo di Zaccaria. Entrambi accordano importanza allapartecipazione delle donne a questo lutto (cfr. v. 25; Zc 12:12-14)e collegano il lutto di Meghiddo a quello di Gerusalemme (cfr. 2Cr 35:24; Zc 12:11). Infine, sono gli unici due testi della Bibbiaebraica a impiegare l’espressione «nella valle di Meghiddo» (2Cr 35:22; cfr. Zc 12:11). Questa coincidenza letteraria è un segnoevidente che Zaccaria e l’autore della cronaca si riferiscono allostesso avvenimento, la morte di Giosia.

Occorre ricordare che la personalità di Giosia si prestavabene a questa memoria. È il re che ha governato più a lungo di

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263 H.H. Rowley, The Rediscovery of the Old Testament, 1945, p. 49; D.W. Thomas,The documents from Old Testament Times, 1958, p. 133.264 J. Aistleitner, Die mythologischen und kultischen Texte aus Ras Shamra,Budapest, 1959, pp. 17,18.

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tutti, essendo stato, anche, il riformatore per eccellenza dellastoria d’Israele. Inoltre, egli fu l’unico a essersi impegnato in unopera di riforma estesa al nord e al sud del paese; la sua azioneriguardava sia l’amministrazione sia la vita religiosa, la politicae la spiritualità. Il libro delle Cronache riferisce che egli fu l’ul-timo re d’Israele a fare «ciò che giusto agli occhi del SIGNORE» (2Re 22:2). La sua tragica fine portò al crollo del regno di Giuda.

Il dramma vissuto dal popolo diede vita a una celebrazioneannuale che perdurava all’epoca dell’autore delle Cronache.265

Se «la valle di Meghiddo» è, di fatto, un riferimento allamorte di Giosia, la menzione ad Hadad Rimmon266 accentua ilcarattere particolare di questo lutto.

Il nome di Harmaghedon porta con sé il destino che aspet-ta tutti gli idolatri di Babele: un lutto senza precedenti. Un po’più avanti, il capitolo 18 dell’Apocalisse, conferma questa previ-sione. La caduta di Babilonia è accompagnata da una dispera-zione mai vista. La parola chiave «lutto», è utilizzata molte voltenel testo (18:7,8,11,15,19). Il rituale tradizionale del lutto vienepresentato esattamente: polvere gettata sul capo, pianti, lamen-ti (18:9,10,15,19).

Nel riportare alla memoria Hadad Rimmon che annuncia lamorte del primogenito, Harmaghedon ricorda la decima piagad’Egitto (Es 12:29-36). La coincidenza è flagrante e intenzionale.Il lutto per i primogeniti d’Egitto è inquadrato come un avveni-mento unico: «Vi sarà in tutto il paese d’Egitto un gran lamento,quale non ci fu mai prima, né ci sarà mai più» (11:6).

Siamo di fronte a un’altra lezione contenuta nel nomeHarmaghedon; la caduta di Babele causerà un lutto pari a quel-lo dell’esodo d’Egitto. Per gli antichi egiziani, la morte dei pri-mogeniti, rappresentava molto più che la perdita di ciò che eraloro più caro. Il loro futuro era compromesso, poiché veniva amancare la successione nei ranghi dei notabili, dei maghi e dei

265 Il libro delle Cronache, scritto al tempo di Esdra e d’Artaserse, risale al Vsecolo a.C., il libro di Zaccaria risale al VI secolo a.C.266 Girolamo identifica questo nome con una città, chiamata al suo tempoMaximianopolis (In Zachariam, PL 25, col 1515) e che si trova a circa 3 chilo-metri a sud di Meghiddo. Oggi prende il nome di Rummaneh.

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sacerdoti del regno. Significava la fine della loro cultura e reli-gione, essendo il primogenito considerato l’incarnazione stessadello loro divinità. In modo significativo, il testo dell’Esodo inter-preta quest’ultima piaga come un fare «giustizia di tutti gli dèid’Egitto» (12:12). Nel contesto biblico, dove la nozione di primo-genito si applica al sacerdote,267 a Israele,268 al re Messia,269 e,nel Nuovo Testamento, a Gesù stesso,270 il lutto prende un sensoancora più terribile. Significa la morte della speranza.

D’altra parte, quest’allusione all’ultima piaga d’Egitto è por-tatrice di speranza. È il Pessah del popolo di Dio. Israele, il pri-mogenito di Dio viene risparmiato. Gli Israeliti sono tutti inpiedi, i fianchi cinti, il bastone in mano (v. 11). Questo è il gior-no in cui «il SIGNORE fece uscire i figli d’Israele, ordinati perschiera, dal paese d’Egitto» (v. 51). La decima piaga significa,per il popolo di Dio, la fine della sua miseria e la vittoria sulnemico; nello stesso tempo, fa apparire all’orizzonte la terrapromessa. La battaglia di Harmaghedon scoppia, infatti, duran-te la settima coppa. Per la prima volta, il castigo viene dall’altoe i suoi effetti sono definitivi. La voce che lo annuncia sorge daltempio celeste. È la voce di Dio che dice: «È fatto» (Ap 16:17).Siamo di fronte a un’espressione idiomatica che si ritrova alcapitolo 21:6, associata al Dio del principio e della fine, «l’alfa el’omega». L’irriducibilità dei nemici di Dio è giunta, ora, al suoultimo stadio.

Per la prima volta, Babele si dichiara, apertamente controDio. Le bestemmie a lui rivolte, raggiungono il parossismo.Durante la quarta piaga, gli uomini bestemmiavano «il nome diDio» (16:9), durante la quinta, contro «il Dio del cielo» (16:11),giunti, infine alla settima, si rivolteranno contro Dio, semplice-mente. Notiamo questa progressione che diventa universale eassoluta. Si era partiti dal «nome di Dio», semplice astrazione,per passare al «Dio del cielo», cioè appartenente a un regno lon-tano, vivente in un’altra dimensione, per finire alla persona di

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267 Numeri 3:11-13,40; 8:14-18.268 Esodo 4:22; Geremia31:9.269 Salmo 89:28.270 Matteo 1:25; Luca 2:7; Ebrei 1:6; Colossesi 1:18; Apocalisse 1:5; 1 Corinzi 15:22.

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Dio, contro la quale si vuole combattere coscientemente. Per laprima volta, la piaga colpisce il mondo intero e non solo gliuomini. La natura ne è sconvolta. Isole e catene montuosescompaiono (16:20). Si possono cogliere, ancora, allusioni all’e-sperienza d’Egitto, ma, qui, la portata è universale. La quintapiaga è caratterizzata dalla violenza inaudita della grandine (Ap16:21; cfr. Es 9:22). A due riprese, il racconto dell’Esodo sottoli-nea che essa cadde «sulla gente, sugli animali e sopra ogni erbadei campi» (vv. 22,25).

La coppa della collera di Dio, fino a ora soltanto annunciata,(Ap 14:8,10) troverà, d’ora in poi, un pieno adempimento: «Dio siricordò di Babilonia la grande per darle la coppa del vino dellasua ira ardente» (16:19). Come nel racconto della torre diBabele, l’intervento di Dio produce la dispersione degli edifica-tori della città. L’unità che avevano realizzato con tanti sforzi etanta cura viene totalmente destabilizzata. «La grande città sidivise in tre parti» (16:19). I tre poteri che avevamo trovato riuni-ti sotto la stessa bandiera, il dragone (i poteri occulti), la bestia(il potere politico religioso di un cristianesimo di vertice), il falsoprofeta (Stati Uniti), si trovano, a questo punto, disgregati.

Da questa frammentazione delle tre potenze ne consegue lacaduta delle nazioni (16:19). L’avvenimento corrisponde alloscenario del sesto schofar, nel quale i tre poteri erano dipintinell’atto di influenzare i re della terra (16:13,14). La confusioneè uno dei segni della caduta di Babele.

Interludio: la bella e la bestiaIn questa caotica transizione, Dio si ferma un istante per dare unaspiegazione. «Vieni, ti farò vedere il giudizio che spetta alla granprostituta che siede su molte acque. I re della terra hanno forni-cato con lei e gli abitanti della terra si sono ubriacati con il vinodella sua prostituzione» (17:1,2). Non è un caso che il suo porta-parola è un angelo associato alle sette coppe (17:1). L’intenzionedella sua rivelazione è giustificare il castigo insito in essa.

Il gesto del grande giudice è sorprendente. Dio non si com-porta da despota che «sa quello che fa» e che «ha le sue ragio-ni». Egli ama e rispetta l’essere umano che ha creato, tanto darendergli conto dei suoi atti, assicurandosi l’approvazione e lacomprensione profonda delle sue creature.

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Si tratta dell’ultimo interludio. Fino a questo momento, gliinterludi riguardavano i redenti, la cui salvezza, ancora al difuori della storia, era vissuta nella prospettiva della speranza (7;10:11-14; 15:1-5), al contrario di Babele, che è una realtà pre-sente. In questa terza e ultima parte dell’Apocalisse (capp. 15-22) la visione del salvati è rappresentata nel suo divenire stori-co, mentre l’interludio su Babele, questa volta, porta il lettorefuori dalla realtà. L’Apocalisse parla di speranza e di giudizioanche nel ritmo della sua struttura.

La bellaLa Babele dell’interludio è presentata nelle vesti di una donna,i cui tratti ricordano, nel suo contrario, la donna del capitolo 12che rappresenta il popolo di Dio, ancora alle prese con la storiadi quaggiù. Entrambi hanno una dimensione cosmica, esseoccupano un posto centrale nell’universo, sono associate aldeserto (cfr. 17:3, 12:6,14) e al dragone (cfr. 17:3,7; 12:4,13). Ilcontrasto tra le due figure femminili risalta in modo sconvol-gente. La prima donna era sospesa nel cielo e incoronata distelle (12:1); la seconda è seduta sulle acque e si trova circon-data da re debosciati (17:1,2). La prima era perseguitata eoppressa dal dragone (12:4, 13-17); la seconda è unita al drago-ne (17:3) e opprime il popolo di Dio (17:6). La prima era unaprofuga, sperduta nell’esilio (12:6); la seconda, istituzionalizza-ta, domina, vestita come una regina (17:4). La prima, soffre perl’isolamento nel deserto (12:6,14); la seconda, festeggia nellacittà (17:4). La prima è nutrita da Dio (12:6,14); la seconda èebbra del sangue dei santi (17:6). La prima è la madre delMessia (12:5) e del rimanente d’Israele (12:17); la seconda è lamadre delle prostitute (17:5). È chiaro ormai, che la donna delcapitolo 17 è la perfetta antitesi di quella del capitolo 12.

La lezione insita in questo rapporto si esplicita alla lucedella metafora coniugale. Nell’Antico Testamento, come abbia-mo già considerato, Israele è spesso paragonato a una donna,alla sposa di Dio; e la sua infedeltà è assimilata all’adulterio ealla prostituzione.271 L’Apocalisse parla lo stesso linguaggio.

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271 Osea 5:3; Ezechiele 16:15; 23:1.

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L’identità della prostituta dell’Apocalisse non rappresenta dav-vero un enigma. Non si tratta, né di una potenza pagana né diun potere politico. Nella linea delle immagini della Bibbia, laprostituta dell’Apocalisse simboleggia l’infedeltà del popolo diDio. Nella prospettiva del Nuovo Testamento, si tratta di quellachiesa che ha deviato e si è compromessa con gli «amanti» dellaterra. Questa prostituta è d’altra parte esplicitamente identifi-cata con la potenza di Babele. Il nome che la designa,«Babilonia la grande» (17:5), si riferisce alla sua natura religio-sa, tradendone, nello stesso tempo, l’orgoglio e l’ambizione diprendere il posto di Dio.

Questa rivelazione è davvero sorprendente. Agli inizi dell’e-ra cristiana, il profeta ne è completamente sconvolto. «Quandola vidi, mi meravigliai di grande meraviglia» (17:6).

La bestiaPer risolvere il mistero rappresentato dalla prostituta e rispon-dere alla perplessità del profeta, l’angelo fissa l’attenzione sulmistero della bestia alla quale questa figura viene associata. Laformula del suo essere è data come un enigma in quattro tempi:

A 1. «La bestia che hai visto era2. e non è3. essa deve salire dall’abisso4. e andare in perdizione» (17:8).

Questa definizione della bestia ricalca la definizione stessadi Dio che «era, che è, e che viene» (4:8; cfr. 1:4,8). Questa coin-cidenza conferma l’identità e l’ambizione del potere che si con-sidera come Dio.

Siamo di fronte alla stessa bestia di Apocalisse 13, «la bestiache sale dal mare», la quale, non dimentichiamolo, si facevavenerare come Dio (v. 4); essa è, del resto, blasfema come laprecedente (cfr. 17:3; 13:6). Nello stesso tempo, la «bestia dicolore scarlatto» (17:3) ricorda «un gran dragone rosso», simbo-lo di Satana nel capitolo 12:3 inoltre, al pari della bestia che saledalla terra, essa ha il carattere di un potere terreno e politico, lacui funzione consiste essenzialmente nel sostenere gli altripoteri di natura religiosa o spiritualeggiante, cioè, la donna e il

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dragone (17:2,12; cfr. 13:11,12). È vero che il dragone, «bestiadalle dieci corna» del capitolo 12 si ritrovava anche nella bestiache sale dal mare, anch’essa «dalle dieci corna», del capitolo 13,come nella bestia che sale dalla terra e che parlava come undragone. Per sintetizzare, questa nuova bestia del capitolo 17raggruppa tutti i poteri malvagi e nemici di Dio; si tratta di unavera coalizione.

Il problema contenuto nel versetto 8, viene ripreso e ana-lizzato in due fasi successive e parallele, nei versetti 10 e 11.

Nella prima fase, viene rappresentata la storia dei sette redi cui si fa allusione:

B 1. «Cinque sono caduti2. uno è3. l’altro non è ancora venuto4. e quando sarà venuto, dovrà durare poco» (17:10).

Nella seconda, si narra la stessa storia in quattro tempi,combinando l’esposizione generale, riguardante la bestia (17:8)con quella più specifica, relativa ai re in questione (17:10).

C 1. «E la bestia che era,2. e non è,3. è anch’essa un ottavo re, viene dai sette,4. e se ne va in perdizione» (17:11).

Un quadro sintetico dei tre passi paralleli (ABC) faciliteràl’interpretazione del nostro brano enigmatico:

Primo tempoA. essa eraB. cinque re sono cadutiC. essa era

Secondo tempoA. essa non è piùB. un re esisteC. non è più

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Terzo tempoA. essa deve salire dall’abisso.B. un re non ancora venutoC. ottavo re

Quarto tempoA. va alla perdizione B. resta per breve tempo C. va alla perdizione

Per decodificare i fatti rappresentati da questa bestia, occor-re ritornare alla descrizione che ne viene fatta al capitolo 13. Labestia dalle dieci corna agisce in quel periodo storico che il pro-feta Daniele descrive nel capitolo 7. Non soltanto ricorda laquarta bestia di Daniele (v. 7) e il piccolo corno (con il suo com-portamento arrogante e usurpatore delle prerogative divine, v.8), ma essa possiede anche le caratteristiche delle bestie prece-denti, il leopardo, l’orso e il leone.

La bestia dalle dieci corna di Apocalisse 13, occupa i cinqueperiodi storici annunciati da Daniele 7: Babilonia, Medo-Persia,Grecia, Roma e il piccolo corno.272 Questa è la prima fase: i cin-que re di cui parla Apocalisse 17:10.

La seconda fase prevede un periodo d’assenza che corri-sponde alla ferita della bestia (v. 7). Questo è il tempo del sestore. Il profeta osserva il paradosso di questo re che «esiste» non-ostante la sua morte apparente (v. 10; cfr. 13:3).

La terza fase annuncia la guarigione della ferita: la bestiasale dall’abisso (17:8; cfr.11:7). Siamo all’epoca del settimo re lacui durata arriverà fino alla fine; per questa ragione vienedescritto anche come «l’ottavo re» (17:11), essendo il suo regnoproseguito, oltre il ciclo dei sette. Il settimo re rappresenta,dunque, il potere politico religioso che ha ricevuto la feritamortale, ma che si è ristabilito e che durerà fino alla fine.

La quarta fase proietta la visione nel tempo della fine, conl’ottavo (settimo) re che rappresenta la chiesa del tempo dellafine e che conoscerà, purtroppo, «la perdizione» (v. 11). Il regno

272 Le soupir del la terre, pp. 42-48; 143-160.

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dell’ottavo re coincide con quello dei dieci re; mentre i dueperiodi sono definiti con l’espressione «non ancora» (Ap 17:12;cfr. 17:10). Entrambi sono rappresentati come «brevi»: la brevedurata del settimo (ottavo) re (17:10) corrisponde a «un’ora» deidieci re (v. 12).

Il linguaggio è simbolico e vuole sottolineare l’estrema bre-vità del tempo. Nel capitolo 18, la rapidità del giudizio che ponefine al regno di Babilonia è, d’altra parte, resa nello stesso modo,«in un momento», (greco «in una sola ora») (18:10,16,19).273

Un po’ più avanti, nello stesso capitolo, la stessa idea vienetradotta con un’altra misurazione: «in uno stesso giorno» (18:8).I dieci re rappresentano gli ultimi poteri politici che regneran-no su tutta la terra. Li avevamo già incontrati al capitolo 16 nelcontesto di Harmaghedon (16:12). Li ritroveremo subito dopo alcapitolo 18 nello stesso contesto che riprende il racconto dellabattaglia di Harmaghedon (18:9).

HarmaghedonQuest’ultima fase attira tutta l’attenzione del profeta. Dopo unabreve luna di miele, durante la quale tutti i poteri si accordanoper governare insieme sotto l’autorità della bestia (Ap 17:13), labattaglia di Harmaghedon esplode (v. 14). Dio vince sugli eserci-ti terreni. A questo punto, spinti da profondi sentimenti di fru-strazione, i re della terra, delusi da colei che avevano adulato eincoronato (vv. 17,18), le si rivoltano contro. La profezia prevedeche le dieci corna (i re della terra), «odieranno la prostituta, laspoglieranno e la lasceranno nuda, ne mangeranno le carni e laconsumeranno con il fuoco» (v. 16).

Curiosamente, non ci viene detto niente sul loro destino. Laprofezia si concentra, per il momento, sul giudizio di Dio di cuisi sono fatti strumento e si limita alla semplice constatazione:«È caduta, è caduta Babilonia la grande» (18:2). Questa procla-mazione dell’angelo riecheggia parola per parola l’annunciodel secondo angelo che aveva gridato sulla terra proprio allafine della storia umana (14:8).

La ripetizione del messaggio è il segno che la profezia si

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273 1 Tessalonicesi 2:17.

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compirà alla lettera. Non poteva essere altrimenti, perché è Diostesso che «ha messo nei loro cuori di eseguire il suo disegno...fino a che le parole di Dio siano adempiute» (17:17).

Come nel caso dell’indurimento del cuore di faraone, Dioprende su di sé tutta la responsabilità degli avvenimenti; siamodi fronte a una sfida ironica della volontà di indipendenza diBabele, ma anche per segnare il carattere definitivo di questainiquità che ha raggiunto il punto di non ritorno. La verità èpresente persino nel tono del verso che sembra parlare comeun computer dal programma preciso e irrevocabile.

In contrasto con questa parola dura e seria, il racconto pro-fetico è tessuto con paradossi e ironie. La bella, così civettuola epreoccupata del piacere, vestita d’oro e adorna di pietre prezio-se (v. 4), «aveva in mano» con eleganza e stile «un calice d’oropieno di abominazioni e delle immondezze della sua prostitu-zione» (v. 4). Ella è seduta come una regina maestosa su unabestia orribile sulla quale si possono leggere «nomi di bestem-mia» (v. 3). Ella è intimamente unita con la bestia tanto da con-fondersi con essa (vv. 17,18); ma, comunque, sarà la bestia aricevere il colpo fatale (v. 13).

La bella-bestia è anche il luogo dove sorge Babele. Anche seessa viene chiamata «Babilonia la grande», eccola che crolla inun deserto devastato (18:2).

In realtà, questo linguaggio tanto contraddittorio e depi-stante, traduce tutta una filosofia della storia. Al di là degliimbrogli politici e delle intenzioni malefiche che hanno originedal basso, Dio controlla tutto e conduce gli avvenimenti confor-memente ai suoi piani. La storia ha un senso, anche al di fuoridi Dio e contro Dio, essa non si concluderà in un incidenteassurdo e tragico. Ciò afferma, da un lato la giustizia di Dio, dal-l’altro offre uno spunto per la speranza.

Uscite da essaA questo punto, la parola proveniente dall’alto diventa estrema-mente attuale e in una parentesi che si stacca dall’insieme delracconto, lancia un chiaro appello a tutti gli uomini: «Uscite daessa, o popolo mio» (18:4). La frase è presa dal profeta Geremiae si riferiva agli israeliti esiliati a Babilonia affinché si appre-stassero a fuggire dalla città (cfr. Ger 51:45). Le ragioni della

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predicazione di allora non riguardavano soltanto il futuro, cioèl’esigenza di sfuggire all’ira di Dio e permettere il ritorno inpatria (cfr. Ger 50:9; Is 48:20); essa si applicava anche al presen-te, sottolineando l’esigenza di proteggersi dall’influenza nefastae corruttrice dell’idolatria (Ger 51:47,51). Questo appello si erafatto sentire molte volte nel corso della storia d’Israele: Abramol’aveva udito a Ur dei Caldei (cfr. Gn 12:1), Lot a Sodoma (cfr.19:12), gl’Israeliti in Egitto (cfr. Es 12:31). Nel NuovoTestamento, i cristiani sono tutti interpellati (cfr. 2 Cor 6:14; Ef5:11; 1 Tm 5:21). È sempre lo stesso messaggio di sradicamentoe di avventura in vista di nuovi orizzonti.

Il grido del cielo che risuona qui, sulla piazza di Babilonia,è gravido della stessa inquietudine e della stessa supplica diDio. Qui, non si tratta di lasciare fisicamente dei luoghi peremigrare altrove. Dopo la caduta della Babilonia storica, l’ap-pello a uscire da Babilonia, non è più accompagnato da traslo-chi e biglietti d’aereo.

Babilonia si trova ovunque. Essa è, certo, lo abbiamo stu-diato, l’istituzione religiosa che ha segnato con la sua impronta,generazioni di cristiani. Ma, non è uscendo da un’organizzazio-ne umana anche se religiosa, che si esce da Babilonia.Babilonia si trova al di là delle sue mura, si tratta di una men-talità, di un bagaglio di abitudini e di errori che si sono propa-gati negli ambienti religiosi più disparati.

Uscire da Babilonia significa smettere di fare della chiesa,la porta di Dio (Babele), sostituire Dio con l’organizzazioneecclesiastica e la fede con i negoziati politici.

Uscire da Babilonia significa sbarazzarsi della mentalità orgo-gliosa e imperialista. Significa guarire dall’antisemitismo. E, perun cristiano, equivale a ricordarsi delle proprie radici ebraiche.

Uscire da Babilonia è avere il coraggio di rimettere in dis-cussione le proprie idee e tradizioni. Significa anche correre ilrischio di arrivare a credere in cose diverse da quelle ereditatedalla nascita, per aprirsi alla verità che viene dall’alto, anche seessa urta contro i luoghi comuni umani, dal basso.

Uscire da Babilonia è un programma di conversione. Laquestione è grave, ne va della nostra sopravvivenza. Uscire daBabilonia s’impone come il solo modo per sfuggire al massacro,ma anche per scoprire la propria identità nella terra promessa.

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È un appello alla speranza che viene lanciato per le stradestesse di Babilonia, quando la città vibra, in tutto il suo tessuto,un appello che riguarda tutti.

Il lutto di BabiloniaE, come per convincere ancora di più, la voce del cielo prose-gue la sua predicazione per dissipare ogni illusione a propositodel suo futuro, dopo la caduta di Babilonia. La terra è intera-mente in lutto (18:9-19). Il periodo post-babilonese non è certodei più felici. I re della terra (18:9), i mercanti della terra(18:11), tutti gli speculatori (18:17), tutti coloro che hannoapprofittato della sua ricchezza e della sua influenza, piangonosu tutto ciò che hanno perduto. La cosa peggiore è che essi stes-si sono all’origine della caduta di Babilonia. Sono loro che l’a-vevano gettata nel fuoco (17:16). Come un bambino viziato ecapriccioso che reclama il suo giocattolo, dopo averlo rotto, gliamanti di Babele, pestano i piedi inutilmente.

Questo comportamento irrazionale, non è inverosimile. Gliabitanti della terra non sanno fare altro, ormai, che adorareBabilonia, nonostante la sua scomparsa. I loro lamenti hannoconservato il carattere idolatrico di una volta. L’interrogativa«quale città fu mai simile a questa grande città?» (18:18), ripren-de la vecchia formula di adorazione della bestia, «chi è similealla bestia?» (13:4); e ricalca, capovolgendolo, l’antico «chi ècome Dio!» degli israeliti in adorazione davanti a Dio.274

Si tratta di un lutto straordinario, annunciato dal nome stes-so di Harmaghedon: un lutto riguardante un dio, come quello diHadad Rimmon. Tuttavia, c’è una differenza: il dio pianto inquesto momento, non è della stessa natura di quello cananeoche era la divinità della fertilità. Questo dio non segue il movi-mento delle stagioni, non risusciterà a primavera.

Contrariamente alle consuetudini funerarie tradizionali,275

queste non contengono alcuna rivolta, né consolazione. La sto-ria termina tragicamente e senza speranza. Per spiegare megliola caduta della «grande Babilonia», l’angelo, drammaticamente,

274 Esodo 15:11,12; Michea 7:18.275 2 Samuele 1:18-27; 3:33,34.

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sottolinea con il suo gesto di gettare «una grande macina» inmare, il destino di Babilonia: «Così, con violenza, sarà precipita-ta Babilonia, la gran città, e non sarà più trovata» (18:21).

Il profeta Geremia aveva compiuto lo stesso gesto, per sim-boleggiare la caduta della Babilonia storica. Per ordine di Dio,egli aveva gettato una pietra nell’Eufrate, dicendo: «Così affon-derà Babilonia, e non si rialzerà più, a causa del male che iofaccio venire su di lei; cadrà esausta» (Ger 51:64). Il gesto e l’in-tenzione sono identici. Solo l’oggetto differisce. Questa voltaBabilonia è rappresentata da una macina e non una pietracomune. Il dettaglio è importante, perché la macina è menzio-nata poco dopo, come simbolo di vita (Ap 18:22). Il fatto che sipossa gettare via una macina, significa che non c’è più nessunoin grado di utilizzarla. Non c’è più vita. La macina era cosìnecessaria che la legge di Mosè aveva proibito di darla inpegno: «Nessuno prenderà in pegno le due macine, nemmenola macina superiore, perché sarebbe come prendere in pegno lavita» (Dt 24:6).

A tutto questo si aggiunge il fatto che la grande macinarisulta più pesante della pietra. Occorreva un cavallo o un asinoper girarla. In questo caso deve sollevarla «un potente angelo»(Ap 18:21). La grande macina affonda, dunque, con decisionenelle acque. L’angelo commenta, inoltre, che la macina precipi-terà «con violenza» (18:21). Notiamo, d’altra parte, che è il maree non un semplice fiume ad accoglierla.

Questi particolari contribuiscono a sottolineare il caratteredefinitivo della caduta di Babilonia. Il lutto su Babilonia è asso-luto. In qualche modo, questa è anche la sua consolazione. Nonc’è più nulla da temere, nessuna recidività, in prospettiva. Lanotizia rassicura, soprattutto se si ricorda che «in lei è stato tro-vato il sangue dei profeti e dei santi e di tutti quelli che sonostati uccisi sulla terra» (18:24). L’Apocalisse vive l’avvenimentocon un’intensa emozione. Alla gioia di un giusto giudizio, si uni-sce la certezza della speranza.

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La conquista dello spazio

Preludio sul trono di DioCome ogni volta, prima di un ciclo settenario, la visione siferma sulla scena di un’adorazione. Questa introduzione fa ecoa quella che precede i sette sigilli (19:1-10; cfr. capp. 4,5); vi siritrovano gli stessi temi: il trono celeste attorno al quale gravi-tano i ventiquattro anziani, le quattro creature viventi e l’agnel-lo. Questa volta, colui che siede sul trono è esplicitamente iden-tificato, è «Dio che siede sul trono» (19:4). Siamo di fronte all’ul-tima liturgia dell’Apocalisse.

Pre-SuccotPer la prima volta, il testo non menziona nessuna suppellettilepresente nel tempio. Tutti i riti di espiazione sono terminati e,per questo, il tempio non ha più ragione di esistere. Il giudizioproseguirà, ormai, al di fuori delle sue mura. Nel corso del ritua-le del Kippur, un altro capro era messo da parte (quello perAzazel), non per essere sacrificato, ma per essere scacciato neldeserto, carico dei peccati del popolo (cfr. Lv 16:9,10,20-26).Dopo il Kippur, il popolo si trova completamente liberato dalmale. In una prospettiva profetica, la lezione è ricca di speranza.Dio non si accontenta di perdonare i peccati dell’uomo attraver-so il sacrificio d’espiazione. Egli desidera liberarlo per sempreda ogni male. Il diavolo, rappresentato dal capro di Azazel, saràscacciato dal campo e annientato per l’eternità. Da questomomento in poi, ogni cosa proclama la gloria di Dio. Secondo latradizione ebraica, i giorni che seguono il Kippur sono pieni digioia, quella gioia che caratterizza la festa di Succot (festa dellecapanne), chiamata anche zéman simhaténu, «il tempo dellanostra gioia». Il digiuno è bandito durante i giorni di costruzio-ne e preparazione delle capanne (Succot).

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Capitolo 8

Il nostro passo dell’Apocalisse risuona interamente di que-sta gioia, che festeggia la distruzione del male e anticipa ilmomento in cui i redenti abiteranno con Dio. Sicuri della cadu-ta di Babilonia, ci si prepara, ora, a entrare in Gerusalemme. Laprostituta è morta, viva la sposa! Il cielo esplode cinque volteper le grida della folla: «Alleluia!» (19:1,3,4,5,6).276

L’espressione ebraica, alleluia, risale ai canti dei Salmi ches’intitolano proprio a partire da questa esclamazione di lode:tehilim. Alleluia significa «lodate (hallelu Yah)» (abbreviazionedel nome di Dio, YHWH, SIGNORE). Il senso di questa lode è sug-gerito dalle parole che le sono associate:

«Cantare», «comporre una melodia» (Sal 146:2; 149:3).«Dire, raccontare, proclamare» (Sal 22:23).«Ringraziare», «rendere grazie» (Sal 35:18; 44:9; 109:30).«Glorificare» (Sal 22:24).«Benedire» (Sal 115:17; 145:2).«Gioire» (Ger 3:7).La parola hallel è ricca di tutte queste sfumature. La parola

contiene nello stesso tempo, un grido entusiasta e viscerale,una melodia armoniosa, cantata con sensibilità, un’idea conce-pita nell’intimità e nello sforzo dell’intelligenza.

Le ragioni della lode, hanno a che fare con il passato e conil futuro. Si loda Dio per aver creato il mondo (Sal 104), per averliberato Israele dall’Egitto (105; 106; 135), ma anche per la cer-tezza che «la sua bontà dura in eterno» (106:1; 107:1;118:1,2,34). È interessante notare, con i rabbini dell’antichità,che la parola «alleluia», appare per la prima volta alla fine di104 salmi, più precisamente, alla fine del Salmo 104, immedia-tamente dopo l’annuncio dello sterminio dei malvagi:«Spariscano i peccatori dalla terra e gli empi non siano più!Anima mia benedici il SIGNORE. Alleluia» (104:35).

Non è un caso che il cosiddetto hallel, il gruppo di salmi da113 a 118, denominati così per via dei numerosi «alleluia» che lipunteggiano, costituiscano il testo base della liturgia del Succot.Questi salmi venivano cantati durante gli otto giorni della festa,

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276 In ebraico, l’espressione «lodate il nostro Dio» contiene la parola alleluiah.

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fin dall’antichità.277 La maniera con cui si cantavano, variava aseconda delle tradizioni. In alcune comunità, si cantavano inmodo antifonale; in altre, come presso gli Yemeniti, la congre-gazione rispondeva gridando: «Alleluia!», dopo la metà di ogniversetto. Questo è il tipo di Alleluia che la folla dell’Apocalisseintona, una lode che ricorda i canti responsoriali dei cori deltempio.278 La parola alleluiah era una risposta dei fedeli, alter-nata ai canti dei solisti. La sintassi stessa della parola alleluiahpresuppone questo genere di liturgia. È un imperativo al plura-le che incita la moltitudine a lodare Dio.

Viene cantato da tutti, da una «folla immensa» (19:1,6) iden-tificato più tardi, con il numero dei 144.000 (Ap 7:4,9); dai ven-tiquattro anziani e le quattro creature viventi (19:4), rappresen-tanti la creazione intera. Infine, questo canto di lode uscirà, pervoce di un anonimo, dallo stesso trono di Dio (19:5).

I due primi alleluia sono pronunciati dalla folla e sono rivol-ti al passato. Il primo alleluia si fonda sulla riconoscenza dellagiustizia esercitata contro la grande prostituta (19:2).

Il secondo alleluia intensifica l’emozione, con l’osservazio-ne del fumo che sale nei «secoli dei secoli», segno della sua defi-nitiva distruzione (19:3),279 per volgere, alla fine, lo sguardoverso il futuro. La visione guarda, in definitiva, alla distruzionefinale del male e della morte. L’espressione «nei secoli dei seco-li» che parla di conseguenze eterne, verrà utilizzata un po’ piùavanti (20:10) per descrivere l’ultima fase del giudizio, quellache si riferisce a Satana e che è rappresentata, nella fase finaledel rituale del Kippur, dal capro di Azazel e dalla sua fine (Lv16:10,21,26).

277 Una tradizione talmudica del primo secolo la fa risalire a Mosè (Pes. 117a);cfr. Matteo 26:30.278 Salmo 135:19; cfr. 1 Cronache 16:25,36.279 Sarebbe un errore dedurre, da quest’espressione, l’esistenza dell’infernoeterno, come sarà insegnato dalla chiesa cattolica e immaginato dal poeta DanteAlighieri. Abbiamo già sottolineato che questa espressione è utilizzata nellaBibbia per esprimere il carattere definitivo della sparizione di Babilonia (Ap14:11). Nel libro di Giuda, la stessa iperbole caratterizza il castigo di Sodoma eGomorra, il cui fumo non è certo visibile ancora oggi (Gd 7; cfr. 2 Pt 2:6).

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Capitolo 8

I due alleluia successivi sono pronunciati da esseri celesti (iventiquattro anziani e i quattro esseri viventi) e non hanno altraragione, se non la lode di Dio in sé. Il terzo alleluia si giustificacon l’adorazione di Dio «che siede sul trono» (19:4), cioè del Dioche regna e che giudica. Il quarto alleluia è motivato dal timoredi Dio (19:5) che caratterizza gli uomini, «i suoi servi» (1:1). Ilquinto e ultimo risuona più forte degli altri. Il profeta lo sentesimile a un rumore di acqua e scoppi di tuono (19:6). È una lodedecisamente proiettata nel futuro. Essa anticipa, in qualchemodo la venuta del regno di Dio: «Perché il Signore, Dio nostro,l’onnipotente, ha stabilito il suo regno. Rallegriamoci ed esultia-mo e diamo a lui la gloria, perché sono giunte le nozzedell’Agnello e la sua sposa si è preparata» (19:6-8).

A partire dall’annuncio della morte della prostituta all’an-nuncio del matrimonio con la sposa, l’Apocalisse ricorre, unavolta di più, alla metafora coniugale. Il popolo di Dio prende,finalmente, il suo posto di sposa legittima dell’Agnello.

La relazione che unisce Dio al suo popolo è di natura similea quella che unisce gli sposi. È una relazione d’amore reciprocoche impegna la coppia nella responsabilità. Nel nostro testo, laresponsabilità della sposa è ampiamente sottolineata: «Ella (lasua sposa) si è preparata» (19:7). Il testo greco riprende il prono-me «ella» (eauten) per mettere l’accento sull’impegno assunto dalsoggetto: «Lei, lei stessa, si è preparata» (traduzione alla lettera).La salvezza non è un’esperienza passiva. Dio si aspetta una rispo-sta da parte dell’uomo. Conformemente ai costumi dell’epoca, lasposa doveva prepararsi per il grande giorno delle nozze, scru-polosa nell’essere bella per il suo sposo e integra nel dedicarglila sua verginità. Ella prende un bagno profumato, si adorna conbellissimi gioielli.280 Il compito è così serio ed elaborato, darichiedere la consulenza delle amiche più care. La sposa vienecoperta da un velo che le nasconde anche il volto; esso verràrimosso solo nella camera nuziale.281 Intorno alla vita le venivaposto una cintura che solamente lo sposo poteva toglierle.282

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280 Isaia 44:18; 61:10.281 Genesi 24:5; Cantico dei cantici 4:1,3; 6:7.282 Geremia 2:32.

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D’altro canto, precisa l’oracolo, «le è stato dato di vestirsi dilino fino, risplendente e puro; poiché il lino fino sono le operegiuste dei santi» (19:8). Il modello, la qualità di quel vestito, l’at-to stesso di vestirsi, sono un dono della grazia proveniente dal-l’alto. Il «lino fino» rappresenta qui «le opere giuste dei santi»(19:8), mentre, nel caso della prostituta, il segno di un lussoinsolente. La semplicità del suo vestito «risplendente e puro»contrasta con la veste multicolore «di lino fino», ma anche «diporpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e diperle» (18:16) della prostituta. L’umiltà e la modestia della sposasi oppongono all’orgoglio e all’impudenza della prostituta.

Questa antitesi quasi simmetrica conferma come, nellamente dell’autore, le due figure femminili si riferiscano allostesso ordine d’idee. Come la sposa, anche la prostituta parteci-pa alla stessa metafora coniugale e allo stesso patto. La gioiastessa che esplode nelle strade, i canti di nozze (19:7,9) fannoda contraltare alla tristezza dei lamenti, alle grida e alle lacri-me, al silenzio dei musici (18:10,11,16,19,22). E questa grandefelicità invade la scena terrestre di Giovanni: «Beati quelli chesono invitati alla cena delle nozze dell’Agnello» (19:9).

La felicità è contagiosa. Bisogna condividerla. La beatitudi-ne non si accontenta di organizzare la festa, essa vuole coinvol-gere tutti, nello stesso invito.

Dopo aver sentito quelle parole, Giovanni cadde ai piedi del-l’angelo, «per adorarlo» (19:10). La reazione del profeta è sor-prendente. È il gesto di qualcuno che ha perduto l’autocontrol-lo, tanto è sconvolto dall’intensità delle sue emozioni. L’angelolo rimette immediatamente al suo posto, ricordandogli di esse-re nulla di più che «un servo come te». Solo Dio deve essere ado-rato. Per sostenere il suo argomento, l’angelo si giustifica dandouna motivazione, apparentemente fuori dal contesto: «Perché latestimonianza di Gesù è lo spirito della profezia» (19:10).

La formula arriva con l’impatto di un enigma. La si ritrove-rà nella conclusione del libro, integrata in un analogo contesto.Anche in quel caso, a seguito di una beatitudine pronunciatadall’angelo, il profeta si lascia trasportare dalla sua emozione.Di nuovo viene ripreso dal suo «conservo». Il parallelismo tra idue testi ci permette di decifrare l’intenzione di questa stranaformula.

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Capitolo 8

Apocalisse 19:10 Apocalisse 22:8,9- «Io - «Io, Giovanni, sono quello

che ha udito e visto queste cose. E dopo averle viste e udite,

- mi prostrai ai suoi piedi - mi prostrai ai piedi per adorarlo. dell’angelo… per adorarlo

- Ma egli mi disse: - Ma egli mi disse:Guardati dal farlo Guardati dal farlo- io sono un servo come te - io sono un servo come te- e come i tuoi fratelli - e come i tuoi fratelli, i profeti...- che custodiscono la - che custodiscono le parole di testimonianza di Gesù: questo libro.- adora Dio!». - Adora Dio!».

Coloro «che custodiscono la testimonianza di Gesù» corri-spondono a «quelli che custodiscono le parole di questo libro». Inaltre parole, «la testimonianza di Gesù» significa «questo libro»,cioé l’Apocalisse. Portare la testimonianza di Gesù equivale a por-tare il messaggio dell’Apocalisse e annunciare la profezia cheriguarda la salvezza finale dell’universo. L’espressione «testimo-nianza di Gesù» deve comprendersi nel senso di una testimonian-za che procede da Gesù stesso (in greco, genitivo soggettivo).

La «testimonianza di Gesù» viene identificata con «lo spiritodella profezia» cioé l’ispirazione dall’alto nel fenomeno della pro-fezia.283 Il testo lo indica esplicitamente, «la testimonianza di Gesùè lo spirito della profezia» (19:10).

La testimonianza non può essere quindi ridotta a una sempli-ce etica o a una tradizione culturale priva della potenza e dellapresenza dall’alto. Inversamente, in un altro testo, l’Apocalisseassocia la testimonianza di Gesù al dovere di osservare i coman-damenti di Dio (12:17).

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283 Questa definizione di «Spirito della profezia» è attestato negli scritti rabbini-ci e soprattutto nei Targum aramaici: Cfr. Strack-Billerbeck, Kommentar zumNeuen Testament, Munich, 1965, vol 2, pp. 128,129; cfr. J.F. Etheridge, TheTargums of Onkelos and Jonathan Ben Uzziel on the Pentateuch, Londres, 1862,vol 1, pp. 131,556; vol 2. p. 442.

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Osservare i comandamenti di Dio, vivere secondo i criteridall’alto, equivale a confermare la profezia. La «testimonianzadi Gesù» deve essere intesa come una testimonianza centrata suGesù (in greco, genitivo oggettivo). Una vita morale attenta alcammino tracciato da Dio è il segno visibile dello spirito di pro-fezia, cioè la prova della vera ispirazione che viene dall’alto. Inaltre parole non si può pretendere di essere ispirati senza que-sta prova evidente presente nella propria vita, senza vivere inconformità ai principi del regno che si predica. Il fanatismo e glieccessi religiosi commessi in nome di una pretesa attività pro-fetica che fa a meno dell’etica e delle strutture sociali, sono quiesclusi. L’espressione «testimonianza di Gesù» dovrebbe esserepresa nei due sensi.284

Non è per caso che l’Apocalisse vede in questa «testimo-nianza di Gesù e lo spirito della profezia» un tratto fondamen-tale di «quelli che restano della discendenza di lei» (Ap 12:17).Ciò che caratterizza gli ultimi testimoni dell’attesa di Dio, non èsoltanto la loro fedeltà sopravvissuta a tutte le apostasie e a tuttigli oblii, ma anche il miracolo della parola profetica che li visi-ta e rischiara il loro cammino negli ultimi momenti della storia.

Le vittorie provenienti dall’altoLa visione seguente vede Giovanni prosternato in adorazione(19:10). Il suo sguardo, orientato oltre l’angelo stesso, vede «ilcielo aperto» (19:11). Finora, dal cielo venivano solo delle voci odegli angeli; la visione di questo spazio restava limitata. Solo tal-volta, la visione parlava di una «porta aperta» (4:1) oppure di «untempio aperto» (11:19; 15:5). Per la prima volta essa descrive il«cielo aperto». La rivelazione vuole essere completa e generosa:gli occhi si perdono nell’infinito del regno celeste.

Su questo orizzonte allargato appare un cavallo bianco checi riporta all’ultima campagna militare di Dio. Le vittorie pro-venienti dall’alto si succederanno al ritmo di temi paralleli aisette sigilli dell’inizio del libro.

284 Cfr. 1 Corinzi 1:6; cfr. W. De Boor, Der erste Brief des Paulus an die Korinther,Wuppertal, 1968, p. 28; G. Pfandel, «The Remnant Church and the Spirit ofProphecy», in F. B. Holbrook (ed.) Symposium on Revelation, vol. 2, pp. 310,316.

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Capitolo 8

I sigilli (Ap 6) Le vittorie (Ap 19,20)

1. cavallo bianco, 1. cavallo bianco, diademi,corona, vittoria v. 2) vittorie (19:11-13)2. cavallo color sangue, 2. eserciti, sangue versato, guerra, spada (vv. 3,4) guerra, spada (vv. 14-21)3. carestia spirituale (vv. 5,6) 3. sazietà antropofoga

(vv. 17,18; cfr. 21b)4. morte, soggiorno dei morti (vv. 7,8) 4. abisso (20:1-3)5. anime immolate a causa 5. anime decapitate a causadella parola di Dio, della parola di Dioin attesa della morte (vv. 9-11) risuscitano (vv. 4-6)6. battaglia di Harmaghedon 6. battaglia di «Gog e Magog» (vv. 12-17) (vv. 7-10)7. cielo vuoto, silenzio, 7. grande trono bianco nel cielo,parusia (8:1) terra e cielo vuoti (vv. 11:15)

Il cavallo biancoFin dall’inizio, siamo avvertiti della natura del rapporto cheintercorre tra la storia rivelata dai sigilli e quella inaugurata daquest’ultimo cavallo bianco. Nel ciclo dei sigilli, il cavallo bian-co segnava la partenza vittoriosa della conquista terrena dellachiesa (6:2); quella era la prima tappa della sua storia. Ora, ilcavallo bianco segna il ritorno vittorioso della conquista celesteche dominerà tutto il corso di questa storia. L’ultimo cavallobianco si presenta come quello che correggerà e riprenderà ilcammino di quella storia interrotta.

Nel ciclo dei sigilli il cavallo bianco era cavalcato da unafigura dalle intenzioni pacifiche; le sue armi non erano utiliz-zate. Qui, invece, il cavallo bianco è montato da un guerrieroviolento che usa la sua spada contro le nazioni e ne versa il san-gue (19:13,15). Il primo cavaliere portava una corona d’alloro(6:2), l’ultimo porterà numerosi diademi (19:12).

La progressione suggerita dalle diverse corone è significa-tiva. L’alloro appartiene all’ambito delle vittorie sportive; il dia-dema esprime una regalità permanente. Il primo cavaliere eraappena evocato, non era che un’ombra anonima. Ora, si posso-no scorgere i suoi tratti. La sua testa e i suoi occhi (v. 12), la sua

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bocca (v. 15), la sua coscia e il suo vestito (v. 16) sono ben visi-bili. La sua identità è chiaramente rivelata.

Egli riceve quattro nomi la cui progressione passa dall’af-fermazione della vicinanza di Dio che si incarna, a quella delladistanza e della sua grandezza.

Il primo nome, «Fedele e Veritiero», afferma la presenzasicura e costante di Dio al nostro fianco. La sua venuta è certa.285

Il secondo nome, «che nessuno conosce fuorché lui», sotto-linea la distanza del Dio invisibile e totalmente altro. La suavenuta sorprenderà.

Il terzo nome, «Parola di Dio» afferma la manifestazione delDio che si rivela agli uomini attraverso la sua parola e i suoi atti.Si tratta del Dio personale che viene nell’esistenza e nella storia.

Il quarto nome, «Re dei re e Signore dei signori», afferma lasovranità suprema del Dio re dell’universo. È il nome che desi-gna l’Agnello, Gesù Cristo (17:14).

La trascendenza e l’immanenza di Dio risultano in un rap-porto di tensione. Dio è nello stesso tempo lontano e vicino (cfr.Ger 23:33).

L’incarnazione e la presenza prossima di Dio camminano dipari passo con la sovranità di Dio, la sua giustizia e la sua gran-dezza. Gesù enunciava lo stesso principio quando pregava:«Padre nostro» (Dio è vicino) «che sei nei cieli» (Dio è lontano).Allo stesso modo, il regno di Dio è presente e futuro; sia esi-stenziale sia cosmico. Subito dopo aver affermato davanti aifarisei: «Il regno di Dio è in mezzo a voi» (Lc 17:21), Gesù siaffretta ad aggiungere: «com’è il lampo che balenando risplen-de da una estremità all’altra del cielo, così sarà il Figlio dell’uo-mo nel suo giorno» (v. 24).

Solo la coscienza affinata da questa tensione assicura laqualità dell’adorazione di Dio e del culto. Non è certo un casoche, questa riflessione, intervenga proprio in questo momentopreciso, quando Giovanni si trova in ginocchio nell’atto di ado-rare Dio (19:10) e la rivelazione dell’Apocalisse tocca il suoapice: la parusia.

285 Un poco più avanti, questi due aggettivi qualificano la parola (Ap 22:6), persottolineare la verità del regno di Dio e della nuova Gerusalemme (Ap 22: 1-5).

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Capitolo 8

La folla di HarmaghedonLa visione della venuta del Re dei re è ancora presente, quandolo sguardo profetico si proietta all’indietro, per mettere in evi-denza una questione di capitale importanza. Il sangue, ancorafresco, sugli abiti del cavaliere (19:13) è il segno che egli si èservito della spada. L’avvenimento, rimanda al secondo sigillo.Per una giustizia interna ai fatti, il sangue degli oppressori è larisposta al sangue a loro volta versato (6:3,4). La guerra rispon-de alla guerra, la spada alla spada.

L’«alleanza dei re della terra» contro il divino cavaliere(19:19) evoca l’«assembramento» dei «re della terra» sul montedi Meghiddo, teso a contrastare la venuta di Dio (16:15). Il «granbanchetto di Dio» (19:17) fa eco alla «battaglia del gran giornodel Dio onnipotente» (16:14). Questi temi, paralleli a quelli dellasesta coppa, indicano che siamo di fronte alla battaglia diHarmaghedon.

Come sempre, le peripezie della battaglia non sono descrit-te nei particolari. Il profeta si limita a darne l’esito: la vittoriatotale di Dio sui suoi nemici. Alla bestia e al falso profeta siaggiungono, ora, tutti gli altri. I capitoli 17 e 18 ci avevano pre-sentato già la disfatta degli eserciti di Babele. Giovanni ci pre-senta la caduta di Babilonia e il grande lutto che ne seguirà, i redella terra che l’avevano prima gettata nel fuoco, ora la piango-no con nostalgia.

Il racconto era rimasto là, come sospeso, senza che si sapes-se che ne era stato dei «re della terra» sopravvissuti. L’angeloriprende il filo della storia della battaglia di Harmaghedon. Eglici ricorda che Babele e il suo alleato, il falso profeta, sono statigettati nel fuoco (19:20; cfr. 17:16; Dn 7:11). Nel racconto pre-cedente, il falso profeta non veniva menzionato (17:16), perchéil suo destino si fondeva con quello di Babele. Ora, si compren-de che sono stati trascinati entrambi nello stesso castigo.

Quanto agli altri, «i re della terra», i poteri politici, sono stati«uccisi dalla spada che usciva dalla bocca di colui che era sulcavallo» (19:21). Il castigo è diverso da quello che colpirà lebestie. Contrariamente alle bestie (la bestia che sale dal mare ela bestia che sale dalla terra o falso profeta) che sono gettatinello stagno di fuoco, i «re della terra» sono attaccati dallaspada. Ogni potere è combattuto sul suo proprio terreno. I pote-

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ri di natura religiosa sono annientati dalla potenza cosmica delDio giudice. I poteri di natura politica sono vinti dalla potenza«militare» del Dio degli eserciti.

In questo caso, l’arma che porta il colpo fatale, altro non èche la Parola di Dio. La storia del mondo iniziò per mezzo dellaparola creatrice di Dio (cfr. Gn 1:3; Gv 1:1-3); e ancora, sarà lasua parola a porvi fine. Essa può essere creatrice ma anchedistruttrice. «... per effetto della parola di Dio, esistettero deicieli e una terra tratta dall’acqua... mentre i cieli e la terraattuali sono conservati dalla medesima parola, riservati alfuoco» (2 Pt 3:5,7).

In ebraico, «la parola» significa molto di più che un insiemedi suoni articolati. Il termine davar (parola) significa anche,storia. Essa è l’espressione vivente, storica e concreta della per-sona. Secondo la lettera agli Ebrei, «Dio ha parlato a noi permezzo del Figlio» (1:1).

Il ritorno di Gesù Cristo, la discesa effettiva di Dio, è la suaparola più espressiva. È per questo che l’uomo non può soppor-tarla (cfr. Is 33:20; 1 Tm 6:16). Alla sua venuta, o si muore o siviene trasformati. Certo, la venuta di Dio significa per alcuni, latrasformazione della propria natura (1 Cor 15:51,52), e per glialtri, la morte.

Un banchetto antropofagoPer i «re della terra», la venuta di Dio equivale alla loro morteviolenta. Per la prima volta, Dio è l’agente immediato del lorocastigo. Infatti, non c’è nessun altro, sulla scena, oltre a lui.

Fino a quel giorno, il giudizio era stato amministrato secon-do meccanismi dal basso, per mezzo di fattori inerenti la condi-zione terrestre. L’ultimo colpo del giudizio è inferto diretta-mente da Dio. Essi vengono uccisi. Ciò che resta dei loro corpisparisce ai quattro venti, «tutti gli uccelli si saziarono delle lorocarni» (Ap 19:21).

Babilonia era finita nello stesso modo. Le dieci corna e labestia avevano mangiato la sua carne (17:16). Ora viene il loroturno. Ma, poiché non resta più nessuno, sono gli uccelli delcielo che provvedono a spazzare via tutto. La descrizione s’ispi-ra a una visione di Ezechiele, con alcune significative differen-ze. Il profeta ebreo riunisce insieme gli uccelli e le bestie dei

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Capitolo 8

campi; mentre nella visione di Giovanni, le bestie dei campisono scomparse, per lasciare il posto solo ai volatili. Ezechielelimita il massacro ai principi, agli eroi, ai guerrieri e ai lorocavalli (Ez 39:17:20). L’Apocalisse esce dai limiti d’azione delprofeta Ezechiele, per assumere una dimensione cosmica; allasua lista, aggiunge «le carni... di uomini d’ogni sorta, liberi eschiavi, piccoli e grandi» (19:18).

Ironicamente, questo banchetto «antropofago» dei re dellaterra, fa eco alla carestia spirituale che aveva stremato il popo-lo durante il terzo sigillo (19:17,9). Questo rapporto simmetricotra i due banchetti, suggerisce una volta di più, lo stesso eventodella salvezza di Dio, visto nei suoi due aspetti. Gli invitati albanchetto delle nozze dell’Agnello, sono saziati nella gioia enella sicurezza della vita eterna. Il banchetto di Harmaghedonvede i suoi convitati, divorati, nella tristezza di un lutto assolu-to. Di loro non resta più niente, nemmeno le ossa. Essi, nonhanno nemmeno diritto a una sepoltura. Gli uccelli rapacihanno divorato tutto.

Su quest’immagine sinistra e macabra, si conclude la visio-ne. Non si poteva rendere meglio il carattere disperato dellaloro fine. Tutti scompaiono. La terra resta vuota.

Il diavolo e il nullaIn questo paesaggio desertico e vuoto, il nemico giurato di Dioviene interpellato e immobilizzato. Come in Apocalisse 12:9,egli è chiamato «il dragone, il serpente antico, cioè il diavolo,Satana» (20:2).

Dei tre poteri scesi in campo contro Dio, nella battaglia diHarmaghedon (16:13), il dragone è il solo a essere scampato.Gli altri due, la bestia del mare e la bestia della terra (il falsoprofeta), sono stati già colpiti, e con loro i re della terra che sitrascinavano ancora, in quel tempo della fine.

«La chiave dell’abisso», tempo addietro, consegnata alla«stella caduta dal cielo», cioè al principe della terra (9:1), sitrova, a questo punto, nelle mani di un angelo di Dio (20:1).Viene evocata una sorta di condizione di pre-creazione.

La stessa parola ebraica tehom (abisso) di Genesi 1:2 sitrova nel retroterra del testo greco. È in quelle profondità che,il diavolo, viene gettato.

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La terra è vuota. L’assenza di Dio e della vita costituisce ilsuo ambiente naturale. Il diavolo è condannato al deserto e alnulla, come una volta, il serpente fu condannato alla polvere(Gn 3:14). Non c’è più nessuno da sedurre. Ritorna, allora, allamemoria, il racconto della Genesi. La tentazione, che avevafatto scattare la tragedia umana, non è più possibile per man-canza di soggetti. Il male è quindi neutralizzato.

Questa lezione di speranza era già scritta nella simbologiadel rituale del Kippur. Il capro Azazel, che rappresenta Satanain tutta la sua forza malefica, è lui stesso condannato al deser-to (Lv 16:20-22). Questo cerimoniale camminava di pari passoinsieme al piano della salvezza pensato da Dio. Parallelamenteall’espiazione di «tutti i peccati del popolo» e alla purificazionedel santuario, che assicurava il perdono cosmico di Dio, il ceri-moniale del Kippur annunciava anche la reclusione dell’ispira-tore del male.

La stessa profezia è pronunciata nel vangelo di Giovanni.Durante il «giudizio del mondo», sarà cacciato fuori Satana, «ilprincipe di questo mondo» (12:31). L’idea è presente anchenella tradizione ebraica e, in modo particolare, nel libro diEnoc, uno scritto contemporaneo, nel quale Dio ordina all’ar-cangelo Raffaele di sgozzare il capro Azazel, e di gettarlo nelletenebre del deserto.286

Il profeta Daniele, nella profezia del giudizio di Dio, vide ilgrande giorno del Kippur (cap. 8);287 in esso, quale ultimo attodel giudizio, l’espulsione di Azazel il diavolo, nel tehom deldeserto. L’Apocalisse rende questa cacciata di Satana, come unavvenimento reale nel tempo. Si tratta di un periodo di milleanni. Nel contesto apocalittico, l’impiego di questo numeroriveste un valore simbolico. Il «mille» presente nel numero144.000, indica una moltitudine. Nella tradizione ebraica, ilnumero mille viene sempre utilizzato per indicare quantità ele-vate.288 Questo simbolismo è impiegato, in modo particolare,per esprimere tempi lunghi. «Un giorno nei tuoi cortili val più

286 Enoc 18:12-16; 19:1,2; 21:1-6.287 Le soupir de la terre, p. 179 ss.288Salmo 91:7; 119:72; 1 Cronache 16:15; Ecclesiaste 7:28; Ezechiele 30:17.

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che mille altrove» (Sal 84:10), oppure, «mille anni sono ai tuoiocchi come il giorno di ieri ch’è passato» (90:4).

L’Ecclesiaste conduce una riflessione sulla vita umana, nelcorso della quale riscontriamo un uso analogo del numeromille, riferito alla qualità dell’esistenza (6:3,6).

A partire da questo retroterra biblico, abbiamo delle serieragioni per pensare che l’Apocalisse utilizza il numero «mille» inmodo simbolico, per intendere un periodo di «molti anni».D’altra parte è significativo che, alla fine del versetto, i mille annisiano in contrasto con l’espressione «per un po’ di tempo» (20:3).

Il profeta Isaia è preso dalla stessa visione. In un brano chei commentatori hanno definito «la piccola Apocalisse» - capp.24,25 - egli descrive, come Giovanni, lo stato desertico della«terra».

La parola chiave nel testo, ripetuta ben sedici volte, è iden-tificata con il tohu (informe), stato della terra prima della crea-zione (cfr. Is 24:10; Gn 1:2). Anche in quel caso il profeta annun-cia il castigo di Dio su Satana e i suoi accoliti: «In quel giorno ilSIGNORE punirà nei luoghi eccelsi l’esercito di lassù» (Is 24:21).

Nel testo, si parla di una «carcerazione» che ha una duratache il profeta definisce «molti giorni» (v. 22), che potrebbe esse-re un chiarimento ulteriore dell’espressione apocalittica «milleanni». A questo punto, ci si può sentire scoraggiati a seguire uncammino di questo genere, dubitando di una storia così strana.Oppure, al contrario, lanciarsi in una speculazione senza fine,su cosa succederà durante i mille anni. Il testo non suggeriscenessuno dei due atteggiamenti.

La sola lezione da ricevere è che, l’Apocalisse, nel linguag-gio che le è proprio, ci suggerisce l’idea che, per un periodopiuttosto lungo, le potenze del male non avranno alcun poteresull’umanità. Il senso simbolico della cronologia, non esclude,pertanto, la sua realtà. Forse, i mille anni dell’Apocalisse dure-ranno effettivamente tanto, ma la questione non è questa. Aquesto punto, nella prospettiva dell’eternità, al di là della storiaumana, il computo del tempo non si effettua più secondo lenostre categorie.

Ricordiamo, a questo proposito, che «mille anni» è in media,la durata della vita della prima generazione antidiluviana.Adamo visse fino a 930 anni, Jared 962; Matusalemme 969; Noè

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950, ecc. L’utilizzo dei «mille anni» riporta all’epoca antidiluvia-na, al tempo del giardino dell’Eden. Troviamo lo stesso lin-guaggio nel libro del profeta Isaia, dove la speranza di «nuovicieli» e di una «nuova terra» (65:17) è descritta poeticamente,nella nostalgia dell’età d’oro antidiluviana, quando morire acento anni era morire giovani (v. 20) e quando gli uomini vive-vano a lungo come gli alberi (v. 22).

L’intenzione dell’Apocalisse resta dunque, in conformitàcon Isaia, di farci comprendere che, allora, ritroveremo la feli-cità e la qualità della vita, tipici dell’epoca della creazione.

I mille anni rappresentano i primi passi compiuti dal gene-re umano, nell’eternità.

Morti, tornati in vitaDall’abisso desolato, la visione ci trasporta sulla scena celestetrepidante di vita. L’informazione arriva stupefacente: tuttequelle persone che brulicano, sono degli esseri umani. Si nota-no immediatamente proprio coloro che meno ci aspettavamo;gli umiliati, gli oppressi di Dio, i «decapitati per la testimonian-za di Gesù e per la parola di Dio» (20:4) il cui grido era risuo-nato nella visione del quinto sigillo (6:9). Ma, non si parla solodei martiri e degli eroi, ma anche di tutti quegli anonimi chesono semplicemente rimasti fedeli e hanno rifiutato di compro-mettere la loro identità (20:4). In definitiva, i giusti di tutte leepoche. Con una frase lapidaria, l’angelo spiega il mistero:«Beato e santo è colui che partecipa alla prima risurrezione»(20:6). È la quinta delle sette beatitudini; come tutte le altre èposta in relazione con il ritorno di Cristo. L’idea non è nuova. Illibro di Daniele aveva già osato tanto: «Molti di quelli che dor-mono nella polvere della terra si risveglieranno» (Dn 12:2).

Questo evento è dovuto alla venuta di Michele. In modosignificativo, l’ultimo capitolo di Daniele esordisce e si conclu-de su questo tema. All’angelo guerriero Michele289 che si leva(in ebraico, amad) come un eroe vittorioso (v. 1), risponde illevarsi (amad) «alla fine dei tempi» (v. 13). L’Apocalisse associa,ancora, la risurrezione dei giusti alla vittoria del guerriero sul

289 Le soupir de la terre, pp. 258,259.

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cavallo bianco. L’apostolo Paolo rende testimonianza della stes-sa fede. «... noi viventi, i quali saremo rimasti fino alla venutadel Signore, non precederemo quelli che si sono addormentati;perché il Signore stesso, con un ordine, con voce d’arcangelo econ la tromba di Dio, scenderà dal cielo e prima risusciterannoi morti in Cristo; poi noi viventi, che saremo rimasti, verremorapiti insieme con loro, sulle nuvole, a incontrare il Signore nel-l’aria; e così saremo sempre con il Signore» (1 Ts 4:15-17).

La risurrezione è la sola spiegazione data dalla Bibbia, e inmodo particolare, dall’Apocalisse, per giustificare la presenzainsolita di questi morti, vibranti di vita. Nessuna traccia dell’i-dea dell’immortalità dell’anima che, dalla filosofia greca, hainfestato la religione, tanto ebraica che cristiana.

La parola «anima» qui utilizzata (20:4) deve essere compre-sa nella sua accezione ebraica; essa descrive l’essere viventenella sua totalità. Così, il termine ebraico nefesh, generalmentetradotto dalla Settanta con la parola greca psyche e nelle nostreversioni in italiano, con il termine «anima», chiama in causatutte le facoltà dell’essere umano; spirituali, mentali, emoziona-li, come quelle fisiche e psicologiche. La nefesh (anima) puòavere fame (cfr. Sal 107:9; Dt 12:20), oppure sete (cfr. Sal 143:6),essere soddisfatta (cfr. Ger 31:14), mangiare bene (cfr. Is 55:2).Ma la nefesh può anche amare (cfr. Gn 34:3; Ct 1:7), commuo-versi (cfr. Sal 31:10), gridare (cfr. Sal 119:10), conoscere (cfr. Sal139:14), essere saggia (cfr. Prv 3:22), adorare e lodare Dio (cfr.Sal 103:1; 146:1).

Nella Bibbia, l’essere umano è concepito nella sua totalità.Se la meccanica psicologica cessa di funzionare, la vita dello spi-rito fa la stessa fine (Ec 9:5). La morte è totale come la vita.

Quando l’Apocalisse, radicata nelle Scritture ebraiche, parladi risurrezione intende coinvolgere la dimensione fisica comequella spirituale, «corpo e anima», come si dice comunemente.Solo che, nella Bibbia, il corpo non è distinto dall’anima. Ilcorpo è l’anima e viceversa.

Dopo questa premessa, sarà più facile comprendere la natu-ra delle realtà evocate dai testi precedentemente studiati. Nellospirito della Bibbia, la vita implica i sensi e il corpo, le emozionie il pensiero. I salvati del paradiso ebraico sono dei viventi. Ma,come sono arrivati là? Attraverso quale esperienza sono passati

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da morte a vita? L’angelo non entra nei particolari. Come sem-pre, conta il risultato finale. Questo vale per tutti i miracoli dellaBibbia; dalla creazione al passaggio del mar Rosso, fino allarisurrezione di Gesù. L’autore ispirato si limita a testimoniaredell’avvenimento, senza spiegarne la meccanica scientifica.

Ciò che importa è che sono là; e questa presenza non habisogno di prove o di spiegazioni: si giustifica da sola. Dio, ilmiracolo per eccellenza, la creazione, l’essere umano, sonoposte nella Bibbia come delle realtà indiscutibili. Gli esseriviventi, i fatti che accadono, non hanno necessità di essere pro-vati per essere riconosciuti in quanto tali. Essi si provano da sé,l’evidenza sono la loro dimostrazione.

Lo sguardo profetico si proietta su dei risuscitati in pienaazione. I ruoli, però, sono ora rovesciati, perché la giustizia siacompiuta. Giudici con Dio, essi sono chiamati a condividere conlui, la responsabilità della sentenza che decide della vita o dellamorte di tutti gli uomini. E, pertanto, la sentenza è stata già pro-nunciata. La loro presenza nella prima risurrezione è la dimo-strazione che il giudizio è un fatto già avvenuto. Al ritorno diGesù Cristo, i giusti e i malvagi sono stati già designati. Il librodi Daniele intende le cose in questo modo, quando situa il giu-dizio di Dio nel tempo, alla fine del periodo delle 2300 sere emattine. Cioè nel 1844. Allo stesso modo, il racconto della bat-taglia di Harmaghedon, che aveva raggruppato i nemici di Dio,implica chiaramente, una definizione dei due campi opposti.

In tutti i modi, il giudizio appartiene solo a Dio, il solo checonosce, per intelligenza, per acutezza del suo spirito, «i cuori ei reni » (Sal 7:9; Ap 2:23). Dio è il solo, ancora, a poter equili-brare e armonizzare, la grazia e la giustizia e, grazie al sacrifi-cio di Cristo, l’unico a poter perdonare. Dio, infine, è il solo aessere completamente puro e, di conseguenza, capace di distin-guere il bene e il male. Per queste ragioni, Dio è il solo ad avereil diritto di esercitare il giudizio (Gv 8:7).

Nondimeno, Dio acconsentirà a far conoscere le sue ragio-ni a uomini e donne. Egli metterà a disposizione tutti gli attiistruttori e tutti i suoi archivi, «i libri furono aperti» (20:12). Eglidonerà loro pieni poteri, essi «regnano con Cristo» (vv. 4,6). Diovuole che i suoi siano informati di tutto, ma ancora di più, cheessi lo comprendano. Dio condividerà con loro, oltre al potere e

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al regno, anche la sua santità. Il testo presenta questo insiemedi nozioni con l’espressione «sacerdoti di Dio e di Cristo» (20:6).

Questo rapporto si comprende ancora meglio nel libro delLevitico che costituisce la base legale per la comprensione dellafunzione sacerdotale e nel quale il termine ebraico qodesh (san-tità) ritorna più di centocinquanta volte. Il ritornello «saretesanti come io sono santo», è l’espressione che costituisce lacaratteristica dominante del libro sacerdotale.290 D’altronde, èsignificativo che nella beatitudine che introduce la promessa,l’aggettivo «beato» è strettamente collegato a «santo» (Ap 20:6).

L’Apocalisse definisce i risorti con il termine «sacerdoti»,collocandoli, in rapporto a Dio, nella posizione di maggior pri-vilegio e intimità. La santità (qodesh) costituisce la qualitàessenziale di Dio.291 La santità è l’espressione del carattere diDio. Di conseguenza, i risorti, partecipando della purezza diDio, sono resi capaci di discernere il male in quanto tale, quin-di di giudicare.

Dio non si limiterà a fornire loro gli strumenti di lavoro, leinformazioni, l’intelligenza e la santità. Egli concederà loroanche il tempo necessario per istruire il processo: i mille anni.Segno tangibile del rispetto di Dio per la serietà del lavoro deiredenti. L’amore di Dio si spinge fino a quel punto. Non soltan-to gli uomini saranno giudicati da altri uomini, ma Dio stessopermetterà che i suoi giudizi vengano attentamente valutati daisuoi figli. Essi saranno dotati dei poteri e dei mezzi per farlo.

Gog e MagogDio rispetta a tal punto le sue creature da attendere mille anniper impartire quel castigo che apporterà la morte definitiva.Questo evento poteva, benissimo, aver luogo al momento dellaparusia, quando Dio aveva in mano tutti gli elementi per giudi-care. Del resto, l’istruzione del processo era stata acquisita e lasentenza pronunciata. Ma, Dio vuole adesso il consenso pienodegli uomini. Egli desidera che, prima di chiudere definitiva-mente questa pagina della loro storia, tutti comprendano bene.

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290 Levitico 11:44,45, 19:2; 20:7,26.291 Isaia 6:3; 57:15; Salmo 99:5.

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Persino dopo, Dio tratterrà il suo castigo. Il fuoco scenderà dalcielo in risposta a un movimento di rivolta dal basso. Alla finedei mille anni, i restanti dei morti sono tornati in vita. Il profe-ta li vede come una moltitudine simile alla «sabbia del mare»,proveniente dai «quattro angoli della terra» (20:8).

È solo allora che il diavolo ritorna in scena. Il ritorno in vitadei malvagi gli permette di riprendere la sua attività di sedutto-re. L’Apocalisse commenta così: «Satana sarà sciolto dalla suaprigione» (20:7). Le sue intenzioni sono chiare: «per radunare(le nazioni) alla battaglia» (20:8). Lo scenario ricorda Harma-ghedon; anche in quella occasione si parlò di grande adunata,in vista di un conflitto armato e, anche in quell’occasione, glieserciti nemici di Dio vennero gettati nello stagno di fuoco(19:20; cfr. 20:10,13,14). Come quella volta, il luogo della batta-glia riceverà un nome ebraico, «Gog e Magog», che si riferisceda vicino, alla storia d’Israele (Ez 38:2).

Tuttavia, la battaglia di Harmaghedon opponeva Israele alsuo nemico tradizionale: Babilonia. Quella di Gog e Magog vedesollevarsi degli eserciti non meglio definiti, mossi dal soloobiettivo di distruggere un regno di pace (v. 11).

Nella battaglia di Harmaghedon, le armate di Babele sierano opposte alla venuta del Salvatore, proveniente dall’orien-te (16:14,15). La loro strategia si limitava al prosciugamentodell’Eufrate. Il nemico era ancora lontano da Gerusalemme.Ora, in Gog e Magog, gli eserciti del dragone invadono «ilcampo dei santi e la città diletta» (20:9).

Harmaghedon vedeva protagonisti «i re della terra», sotto latriplice direzione della bestia, del falso profeta e del dragone.Nella battaglia di Gog e Magog, sono implicate «tutte le nazioniche sono ai quattro angoli della terra» (v. 8), sotto la direzioneunica del dragone.

La parola ebraica Harmaghedon era il nome del luogo dellabattaglia (16:16) ed evocava, per associazione, il lutto dei redella terra, sopravvissuti a Babilonia. La parola ebraica Gog eMagog si riferisce, invece alle nazioni «ai quattro angoli dellaterra» il cui «numero è come la sabbia del mare» (20:8).

Con i due nomi, vengono indicate le nazioni, in quanto mol-titudini. Quello è, del resto, il tema dominante che determineràil nome stesso del luogo del conflitto: «Quel luogo sarà chiama-

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to la Valle di Amon-Gog (moltitudine di Gog)» (Ez 39:11).292

A partire da Harmaghedon fino a Gog, si nota un tratto d’i-ronia. I nemici di Dio avevano preso di mira la montagna (har)e si ritrovano… a valle. Quanto alla moltitudine, segno di poten-za, nel nuovo paesaggio di morte, si tramuta in orrore; si trattasì di una moltitudine, ma di cadaveri (vv. 11,14,15).

Nelle parole «valle di moltitudini» (guey hamon) si avverteil suono della parola, «geenna» (guey Hinnom), che designava illuogo dove venivano arse le giovanissime vittime del dioMoloch (2 Cr 33:6).293

Su questo ricordo dei sacrifici attraverso il fuoco, si svilup-perà, in seguito, la nozione dell’inferno e della «geenna» (Mt5:22) che altro non è che la trascrizione dall’ebraico di guey hin-nom (valle di Hinnom).

Il nome di «Gog e Magog» rafforza ulteriormente l’evoca-zione della moltitudine. Il suo valore numerico è 70 e rappre-senta, nella tradizione ebraica, il numero di tutte le nazioni, aldi fuori d’Israele.294 Questo spiega l’associazione, di per sé ecce-zionale, dei due nomi che non figurano mai insieme altrove.

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292 Ezechiele 38:4-9,13,15,16,22,23; 39:2,11,12,15,16.293 La valle di Hinnom a sud di Gerusalemme segnava la frontiera tra le tribù diBeniamino e di Giuda (Ger 15:7; 18:15,16). Essa divenne così famosa cheGeremia poteva fare a meno di menzionare il suo nome per chiamarla sempli-cemente la vallata (Ger 2:23).294 Secondo il numero delle nazioni elencate in Genesi 10 che arriva a 70, paral-lelamente alle 70 persone che costituiscono la famiglia di Giacobbe (Gn 46:27;Es 1:5; Dt 10:22). Questo rapporto è stato interpretato, nella tradizione ebraica,come l’applicazione di un principio contenuto nel Deuteronomio; secondo ilquale Dio ha determinato il numero delle nazioni «tenendo conto del numero deifigli d’Israele» (Dt 32:8; cfr. Pesiqta Zutreta, Noah; cfr. Targ. Zer. Genesi 28:3,secondo il quale i 70 membri del sinedrio corrispondevano alle 70 nazioni delmondo). Il motivo delle 70 nazioni è estremamente diffuso nella letteratura rab-binica. Secondo la tradizione, il decalogo fu scritto in 70 lingue in modo da esse-re capito dalle 70 nazioni (Sot 7:5); per la stessa ragione, la voce divina si feceintendere sul Sinai in 70 lingue (Shab 88b). I 70 sacrifici offerti nel santuarioerano destinati all’espiazione delle 70 nazioni (Suk 55b).

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Questo tipo di interpretazione295 trova agevolmente il suoposto, nel contesto dell’Apocalisse, dove i nomi ricevono unvalore simbolico, come, per esempio il celebre 666 (13:18).

Nel linguaggio simbolico dell’Apocalisse, «Gog e Magog»significa «la moltitudine delle nazioni», dei goyim, cioè, secon-do la terminologia ebraica tradizionale, tutti coloro che sonoestranei all’alleanza con il Dio d’Israele.

La morte della morteLa visione di «un grande trono bianco» (20:11), che conclude ilciclo, fa eco al «cavallo bianco» che lo introduceva. La vittoriadel guerriero conduce fino al trono. Alla vista di lui, «la terra e ilcielo» fuggono via e, questo strano vuoto, ci riporta al «silenzio»del settimo sigillo (8:1). Notiamo l’inversione della formula tra-dizionale «cielo e terra», che si riferisce alla creazione (Gn 1:1).Equivale a dire che, l’universo umano, tutto ciò che ci è fami-liare, sparisce.

Gli scampati di Harmaghedon che avevano studiato i libriper mille anni, comprenderanno più che mai, quanto Dio avevaragione: «Furono giudicati, ciascuno secondo le sue opere»(20:13). La morte che sta per colpire i malvagi è assoluta e daessa non si ritornerà mai più. Al di là di questa morte ultima o«seconda morte» (20:14), non vi sarà più morte. È la morte dellamorte. Il profeta esprime questa realtà con le forti immaginidella sua poetica: «Poi la morte e il soggiorno dei morti (l’Ades)furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la morte seconda,cioè lo stagno di fuoco» (v. 14).

Si riconoscono gli accenti del profeta Osea che farannovibrare l’apostolo Paolo: «... sarei la tua peste, o morte; sarei latua distruzione, o soggiorno dei morti» (13:14; 1 Cor 15:55).

Il carattere totale e definitivo di quest’ultimo giudizio di Dio

295 Fin dai tempi più antichi, le lettere ebraiche avevano valore numerico. I rab-bini prendevano piacere a dedurre un senso particolare delle Scritture a partiredal valore numerico costituito dalla dizione delle lettere di una parola. Si chia-mava questo sistema ghematria. Un esempio classico è fornito dai 318 servitoridi Genesi 14:14 che identifica il servitore di Abramo, Eliezer, il cui nome avevail valore numerico di 318 (cfr. Ned. 32a; Gen R 43:2).

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Capitolo 8

si ritrova anche nella descrizione di «Gog e Magog», così come èpresentata dal profeta Ezechiele. Secondo questa visione, contra-riamente ad Harmaghedon, tra le schiere di «Gog e Magog» nonci saranno superstiti, «la casa d’Israele li sotterrerà» (Ez 39:12).

Alla fine della battaglia non resterà che Israele; secondol’Apocalisse, si tratta di tutti quei giudei, come anche dei cri-stiani, fino a tutti coloro che, insieme, costituiscono il campo diDio, poiché, bisogna ricordarlo, Israele è molto più di un’entitàetnica. Secondo la definizione donata nei capitoli seguenti,Israele è paragonato a «... quelli che non avevano adorato labestia né la sua immagine e non avevano ricevuto il suo mar-chio sulla loro fronte e sulla loro mano» (20:4).

Altrove, l’angelo aveva identificato, con un linguaggio inpositivo, coloro che hanno il sigillo di Dio sulla fronte (cfr. Ap7:2,3), ossia, «i centoquarantaquattromila segnati di tutte letribù dei figli d’Israele» (7:4).

Nell’Apocalisse, Israele è compreso in senso simbolico espirituale e comprende tutti i salvati, i sopravvissuti della storiaumana. Su di loro, il profeta concentra tutta la sua attenzione.Come il profeta Ezechiele, proprio dopo la visione di morte inGog e Magog, il profeta dell’Apocalisse vede scendere dal cielo,bella e luminosa, piena di vita, la nuova Gerusalemme (capp.21,22 cfr. Ez 40-48).

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Compimento di tutte le speranze, risposta a tutti i sospiri dellaterra, spegnimento di ogni sete (21:5), la discesa della città diDio è posta come un punto d’arrivo: «Ogni cosa è compiuta!»(21:6). Non è un caso che questa città venga chiamata Geru-salemme.

Essa è, innanzitutto, la città il cui antico nome «Salem» evocala pace. Essa era la città da cui proveniva Melchisedec (cfr. Gn14:18; Eb 7:1), re di giustizia, il quale aveva benedetto e soste-nuto Abramo nei suoi combattimenti (cfr. Gn 14:19). Essa èanche la montagna sulla quale Abramo era disposto a sacrifica-re suo figlio Isacco e dove egli aveva ascoltato la promessa diDio che gli prometteva un futuro (cfr. Gn 22:1-18).296

Questo è il luogo dove Dio aveva fermato la spada cheavrebbe decimato il popolo d’Israele (cfr. 1 Cr 21:14).Gerusalemme è stata anche la capitale d’Israele; città nellaquale Davide aveva collocato l’arca del patto dopo averla con-quistata (cfr. 2 Sam 6:12-23; 1 Cr 11:1-9). Ma, Gerusalemmenella memoria storica d’Israele, è soprattutto il luogo dove sor-geva il tempio in cui si adorava il vero Dio, luogo di preghiera,di canti e di lode che esplodevano di gioia sacra e di amore rin-novato (cfr. Sal 48:2; 122:1). Essa era la città che rappresentavail contrario di Babilonia simboleggiando il ritorno in patria, dopotanti anni di esilio e di oppressione, la città che nutriva la nostal-gia tanto da diventare indimenticabile (Sal 137).

296 Il Midrash ha riconosciuto questa associazione dei due ricordi attraverso l’e-timologia del nome di Gerusalemme; Jeru che deriva dalla stessa radice diMorijah, fa allusione al sacrifico di Isacco, e Salem fa allusione a Melchisedec(Gen Rabba Par. 56:16; cfr. Midr. Teh. 126:3).

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Capitolo 9

Ma, al di là di tutti i ricordi, Gerusalemme aveva finito perdiventare il luogo per eccellenza della presenza di Dio. LaGerusalemme di lassù, popolata da angeli, piena della gloria diDio, di cui si immaginava solo qualcosa (cfr. Is 14:13; Sal 48:1-3).

Il profeta Daniele ebbe anche lui la visione di questaGerusalemme celeste.297 Dopo tutti quei regni terreni chesarebbero spariti uno a uno senza lasciare traccia (2:35), eglivede «un regno che non sarà mai distrutto» (v. 44) rappresenta-to da una montagna (vv. 35,44), immagine tradizionale di Siono di Gerusalemme.298

Questa Gerusalemme non ha niente a che vedere con leesperienze passate. Nulla di già conosciuto. Già dall’inizio delcapitolo 21, il lettore viene avvertito: le prime parole della visio-ne fanno eco alle prime parole del racconto biblico sulla creazio-ne: «Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primocielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c’era più»(21:1). «Nel principio Dio creò i cieli e la terra. La terra era infor-me e vuota, le tenebre coprivano la faccia dell’abisso e lo Spiritodi Dio aleggiava sulla superficie delle acque» (Gn 1:1,2). La cop-pia di vocaboli «cielo e terra», ma anche «l’acqua» (il mare), sonocomuni ai due testi. Il riferimento alla creazione è del resto espli-citamente indicato nel testo parallelo di Isaia: «Poiché, ecco, iocreo nuovi cieli e una nuova terra; non ci si ricorderà più dellecose di prima... poiché, ecco, io creo Gerusalemme per il gaudio,e il suo popolo per la gioia» (65:17,18).

Ne consegue che questo universo ha origine da un ordinecompletamente diverso dal vecchio. «Il mare non c’era più»

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297 Sui passi della Bibbia ebraica, la tradizione giudaica afferma che la realtàdella Gerusalemme celeste esisteva prima della creazione del mondo (TanhB.Num, p. 34); e che ispira predicazioni e canti d’amore (Taan 5a, Tanh. Peq 1).Nella letteratura apocalittica ebraica, si annuncia che la Gerusalemme celeste eil suo tempio scenderanno per prendere il posto delle città terrene «poiché làdove abita l’Altissimo nessuna opera umana può sussistere» (1 Enoc 90:28,29; 4Esdra 7:26; 10:54). Secondo il rabbino cabalista del XIII secolo, Bahya Acher, ilplurale «duale» della parola ebraica per Gerusalemme (Yerushalaym) si spiegacol fatto che ne esistono due, una terrestre e una celeste).298 Salmo 24:2; Isaia 2:3; Zaccaria 8:3; Isaia 27:13; Daniele 9:20; 11:45.

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(21:1). Questa è la prima caratteristica del nuovo universo.Essa implica tutte le altre. Il riferimento al mare si collocanella linea del pensiero ebraico che rappresentava con esso,tutto ciò che è negativo: il nulla e le tenebre (cfr. Gn 1:2; Sal18:12; 28:3-6; Gb 26:10; Prv 8:27), la morte e il «non mondo»299

(Ez 26:19-21; Gio 2:6; Ab 3:10), le forze malefiche ostili a Dio (Is27:1; 51:9,10). L’acqua è anche associata a Babilonia (cfr. Ap16:12; Ger 50:3), mentre nell’Apocalisse è il luogo da cui pro-viene la bestia (13:1).300

La Gerusalemme di cui parla l’Apocalisse, echeggiandoIsaia, è una Gerusalemme assolutamente nuova. La parolagreca neos che la qualifica, designa ciò che è radicalmentenuovo, indica «la dimensione universale del nuovo mondo».301

Si tratta di una Gerusalemme creata interamente da Dio e chediscende dal cielo (Ap 21:2; 3:12). Non è certo la Gerusalemmeliberata durante la guerra dei sei giorni. Non è quella dellamoschea di Omar, neppure quella del muro del Pianto o delsanto Sepolcro. Non è, ancora, una città restaurata con l’intona-co, dagli edifici ricostruiti o dai quartieri di lusso. Siamo di fron-te a un cambiamento radicale che riguarda tutti i piani e ledimensioni: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (21:5).

Preludio su DioLa Gerusalemme che scende dal cielo della fine del libro, fa dacontraltare simmetrico alle sette chiese dell’inizio della profe-zia. Molti sono i motivi comuni alle due parti. «La nuovaGerusalemme» (3:12; 21:10; ), lo splendore di Dio (21:23; 1:16),il nome di Dio scritto sul suo popolo (22:4; 3:12), l’albero dellavita (22:2; 2:7), il libro della vita (21:27; 3:5). Nelle due parti,

299 L’espressione è di J. Pedersen, Israel, its life and culture, Londres, 1926-1940,p. 464; cfr. P. Reymond: «L’Antico Testamento parla volentieri dell’oceano comedella morte stessa... paese senza ritorno... paese nel quale non si vive più incomunione né con gli uomini né con Dio» («L’eau, sa vie e sa signification dansl’Ancien Testament» in VT Supplement 6, Leiden, p. 213).300 J. Doukhan, The Genesis Creation story, p. 70. 301 L. Coenen, E. Beyreuther, H. Bietenhard, «Kainos», in Dizionario dei concettibiblici del Nuovo Testamento, Ed. Dehoniane, Bologna, 1976, p. 1105.

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viene promessa una benedizione per colui che vincerà (21:7;2:7,11,17,26; 3:5,12,21) mentre Dio è chiamato «il primo e l’ulti-mo», «l’alfa e l’omega» (1:17; 2:8; 21:6;). Sono anche, i due solicontesti dell’Apocalisse dove si ascolta direttamente la voce diDio (21:3; 1:10).

Inoltre, anche in questo caso, prima della rivelazione, daparte dell’angelo del contenuto e del senso della visione (21:9-22:5), lo sguardo profetico sottolinea per due volte l’atto del«vedere» (21:1,2) e una volta quello del «sentire» (21:3). Dopoquesto il discorso profetico si concentra sulla presenza di Dio(21:1-8). Al tempo delle sette chiese, il profeta aveva visto ilFiglio dell’uomo camminare tra i candelabri sulla terra. Ora, altempo della nuova Gerusalemme il profeta vede Dio in personache abita tra gli uomini della terra.

La prima volta, la visione muoveva i suoi primi passi alritmo liturgico dei tempi sacri d’Israele. Le sette chiese veniva-no poste nell’orbita del Pessah, la prima festa del calendarioebraico. Parallelamente, la nuova Gerusalemme evoca il Succot,la festa delle capanne, l’ultima festa del calendario ebraico.

SuccotLa nuova Gerusalemme è rappresentata come l’ultima festa diquel calendario. La visione dell’Apocalisse la evoca in terminiche l’assimilano appunto, alla festa dei tabernacoli. Questacoincidenza si percepisce già nel gioco di parole che ci portaall’immagine dei tabernacoli. «Udii una gran voce dal trono, chediceva: Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiteràcon loro» (21:3).

La parola greca skene, che indica il «tabernacolo» ricorda laparola ebraica shekhinah, la nuvola gloriosa, segno della pre-senza di Dio tra il suo popolo (cfr. Es 40:34-38). La parola she-khinah deriva dalla radice shakhan (abitare) che si ritrova nelverbo greco seguente skenosen (abitare). Una parafrasi lettera-le farà emergere un gioco di allitterazione che lascia trasparirel’intenzione dell’autore: «Ecco il tabernacolo (shekhinah) di Diocon gli uomini! Egli “tabernacolerà” (sarà come la shekhinah)con loro» (21:3)

Questa strana grammatica, traduce una nuova realtà: Diostesso sarà il tempio. Un po’ oltre, il testo afferma esplicita-

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mente: «Nella città non vidi alcun tempio, perché il Signore, Dioonnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (21:22).

Questa è la differenza essenziale tra la nuova Gerusalemmee l’antica. Nella nuova città, la presenza reale di Dio rende inu-tile il tempio, la cui funzione, nella vecchia città, era di rappre-sentarlo in sua assenza.

Ritroviamo lo stesso itinerario nel libro di Ezechiele, chetermina anch’esso sull’affermazione della presenza di Dio nellacittà, fin nel suo stesso nome: «E da quel giorno, il nome dellacittà sarà: il SIGNORE è là» (Ez 48:35).

Dio è finalmente presente. La relazione reale e reciproca èora possibile. L’Apocalisse esprime la nuova realtà nel linguag-gio classico dell’alleanza: «Essi saranno suoi popoli e Dio stessosarà con loro» (21:3). «Io gli sarò Dio ed egli mi sarà figlio»(21:7).302 Attraverso queste parole s’indovina uno dei temi favo-riti del Cantico dei cantici: «Il mio amico è mio, e io sono sua»«Io sono dell’amico mio; e l’amico mio… è mio» (2:16; 6:3; 7:11).

La metafora coniugale, come quella paterna, traduconoquesta vicinanza di Dio, con il quale è finalmente possibileintrattenere una relazione diretta e reciproca, senza l’ostacolodella distanza, del peccato, degli errori di prospettiva, o di malcompresi gesti rituali e mediazioni sacerdotali. Quello che erastato rifiutato a Mosè e ogni altra creatura (Es 33:20-23, divienerealtà quotidiana: «vedranno la sua faccia» (22:4).

Dio sarà là, realmente presente, come gli uomini e le donneche vediamo tutti i giorni, come i miei cari che vedo e con cuiparlo, con i quali mangio, rido e penso. Sarà un’esperienzatotalmente nuova, che si può appena immaginare.

Questa ineffabile verità è nascosta nella festa dei taberna-coli che deve il suo nome (Succot) all’abitudine di soggiornarein capanne fatte di foglie, per tutta la durata delle celebrazioni,fatto che ricorda sia il soggiorno nel deserto sia la costruzionedel santuario, la succah di Dio, la cui funzione era quella diesemplificare la presenza di Dio tra il popolo: «Essi mi farannoun santuario e io abiterò (shakhan) in mezzo a loro» (Es 25:8).

Secondo la tradizione ebraica, la succah come il santuario

302 Osea 2:25; Zaccaria 13:9.

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simboleggiano la shekhinah.303 I salmi, letti nella prospettivadella succah mettono in evidenza questa simbologia, quandosottolineano la presenza protettrice di Dio (cfr. Sal 27; 31; 36, 57;63; 91). Parallelamente, la natura provvisoria della succahricordava il carattere effimero della città terrena e alimentavala speranza nella città che viene dall’alto. La lettura liturgicainserita nella festa dei tabernacoli è, in modo significativo,quella dell’Ecclesiaste. Il libro mette giustamente l’accento sulcarattere transitorio e vano della nostra casa e di tutte le acqui-sizioni terrene (cfr. Ec 2:4) È la stessa lezione di speranza pre-sente in un’altra festa, chiamata appunto «festa della mietitura»(Es 23:16; 34:22), perché essa segnava, nello stesso tempo, lafine della mietitura e della vendemmia.

Nell’Apocalisse, l’evocazione della festa dei tabernacoli è, inquesta fase, estremamente opportuna. Dopo il Kippur (11:19),terminata la mietitura e la vendemmia (14:14-25; 16:17; 18:24),compiuto il rito di Azazel (20:2,3), quando il campo sarà final-mente purificato da tutte le forze del male (20:7-15), verrà ilmomento della riunione del popolo di Dio, dai quattro angolidella terra. L’universalità dell’appello è suggerito già nell’e-spressione neutra e generica di «con gli uomini» (21:3). Il pro-feta Zaccaria aveva previsto questa festa messianica dei taber-nacoli. «Tutti quelli che saranno rimasti di tutte la nazioni venu-te contro Gerusalemme, saliranno d’anno in anno a prostrarsidavanti al Re, al SIGNORE degli eserciti e a celebrare la festa delleCapanne» (Zc 14:16).

Il profeta dell’Apocalisse gli fa esplicitamente eco in questavisione. «Le nazioni cammineranno alla sua luce e il re dellaterra vi porteranno la loro gloria» (Ap 21:24).

Sarà, finalmente, il momento in cui gli assetati di Diopotranno dissetarsi alla sorgente: «A chi ha sete, io darò gratui-tamente della fonte dell’acqua della vita» (21:6; cfr. 22:1).

L’immagine è anche qui, evocativa della festa dei taberna-coli. Un antico costume di questa festa, che era ancora in vogaai tempi di Gesù, prescriveva che, all’ora del sacrificio quoti-diano, mattina e sera, un sacerdote andava ad attingere dell’ac-

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303 Talmud Babli, Suk. 116.

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qua al pozzo di Siloé, con un recipiente d’oro. Al suo ritorno, eraricevuto dal popolo che cantava: «Voi attingerete con gioia l’ac-qua dalle fonti della salvezza» (Is 12:3).304 È a questa abitudineche Gesù si rapporta quando, alla festa dei tabernacoli, invita isuoi uditori a bere alla sua acqua. «Nell’ultimo giorno, il giornopiù solenne della festa, Gesù stando in piedi esclamò: Se qual-cuno ha sete, venga a me e beva» (Gv 7:37).

Sul piano personale della realtà dell’esistenza, la nuovaGerusalemme significa, prima di tutto, la più grande delle con-solazioni. Questa è la prima verità che l’Apocalisse trae da que-sto avvenimento: «Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi»(21:4). Il testo greco è al singolare «ogni lacrima». Non si trattadi lacrime versate in quel momento, su Gog e Magog, nel ricor-do di coloro che sono scomparsi per sempre. Il contesto sugge-risce, che quel pianto riguarda l’ordine passato. Come la morte,le grida e il dolore, anche le lacrime spariranno, al pari di ognialtra sofferenza.

È significativo il fatto che, il primo contatto con Dio porta auna riflessione sul dolore umano. Quello è il più antico e gravecontenzioso del mondo: il silenzio di Dio davanti alla sofferen-za. A quell’epoca, nell’ora delle lacrime, Dio non rispondeva. Lamorte e l’oppressione avevano colpito l’uomo fino in fondo. Ilpianto della bimba innocente, schiacciata sotto gli stivali deisoldati, non era servito a niente. Sono quelle, le lacrime che Dioasciugherà di persona e con le sue mani. Nessuna parola o spie-gazione teologica. Un semplice gesto, per dire che non vi saran-no più lacrime. È quella l’ultima consolazione.

L’atto di Dio che apre una nuova era, risolve d’un tratto ilproblema della sofferenza. La sola risposta adeguata alle lacri-me, sarà che non ce ne saranno più. Tutto, parte da Dio. Perquesto motivo la visione di Gerusalemme, con tutto ciò cheimplica di meraviglioso, sarà data solo in seguito. Per la primavolta in tutto il libro, lo sguardo profetico non si sviluppa suavvenimenti ordinati cronologicamente, ma si riunisce in unasola visione. La ragione è evidente. La Gerusalemme d’orosegna l’arrivo del percorso. La descrizione della città progredi-

304 Talmud Babli, Suk 51.

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sce dal generale al particolare, come se il profeta vedesse lacittà avvicinarsi e divenire sempre più distinguibile.305 La visio-ne viene annunciata, nelle grandi linee, dall’angelo: «Vieni e timostrerò…» (21:9). In seguito, essa si suddivide in due sceneben definite che Giovanni introduce, ogni volta, con la medesi-ma formula: «mi mostrò» (21:10; 22:1).

In effetti, la visione si sposta dalla periferia al centro, sve-lando in successione, le sette meraviglie della città.

1. La città nel suo insieme splende come il cristallo.2. Le mura e le porte sono di pietre preziose.3. La sua piazza è d’oro.4. Il suo giardino è attraversato dal fiume dell’acqua della vita. 5. In essa sorge l’albero della vita.6. Qui è il trono di Dio.7. Qui è Dio stesso (22:1-5).

La cittàLa nuova Gerusalemme significa ambiente perfetto. Solido earmonioso, esso suscita fiducia e ammirazione.

La città è ben protetta, si trova circondata, infatti, da grandie alte mura (21:12). Le sue dimensioni sono perfettamentemisurate. Ogni lato della città (v. 16) copre 12000 cubiti (2000chilometri), le sue mura (v. 17) sono larghe 144 cubiti (65metri) ed è appoggiata su 12 fondamenta (v. 14).

La città intera è costruita sul numero 12 che è quello delletribù d’Israele (o dei 12x12000 = 144.000 salvati), come deidodici apostoli i cui nomi sono segnati sulle dodici fondamentadella città (v. 14). La città è costruita su misura delle personeche l’abiteranno.

Non si poteva descrivere meglio le sue qualità pratiche.L’architetto non è altri che il Creatore in persona. Egli conoscetutti i bisogni e tutte le vibrazioni degli esseri umani.L’architettura stessa della città traduce il suo rispetto per leindividualità. Egli ha tenuto conto di ognuna delle dodici tribù.Le porte aperte in tutte le direzioni (v. 25) rivelano uno spirito

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305 R. Badenas, «New Jerusalem the Holy City», in Symposium on Revelation book2, ed. F.B. Holbrook (Biblical Research Institute), 1992, p. 246.

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di fiducia e di comprensione tra tutti gli abitanti di Gerusa-lemme. Questo rispetto per la diversità dei caratteri che ha ispi-rato la costruzione della città, si riflette anche nelle relazioniumane. Ogni porta e fondamenta sono costituite da pietre didiversa natura (vv. 19-21); tutti contribuiscono alla felicità deglialtri, senza gelosie e tortuosità. In modo significativo, le tre listedi malfattori, esclusi dalla città, si concludono con la categoriadei bugiardi (vv. 8,27; 22:15). Niente di più rassicurante. Saràbello viverci, perché, al benessere e alla ricchezza, si aggiunge-ranno la pace e la fiducia tra gli uomini!

Ma, l’architetto non si accontenta di essere concreto e dirispondere alle necessità vitali degli uomini. La città è anchebella. Essa è «adorna» (v. 2). La parola greca kosmeo (da cuideriva la nostra «cosmetica») è utilizzata per rendere l’intenzio-ne, anche estetica, che ha ispirato la costruzione della città.Notiamo, inoltre, le sue proporzioni armoniose e simmetriche.«La lunghezza, la larghezza e l’altezza erano uguali» (v. 16).Siamo di fronte a un cubo perfetto, come il luogo santissimodell’antico tempio (1 Re 6:20). Come il candelabro, il luogo san-tissimo porta l’evocazione della nuova Gerusalemme, tantoattesa dagli uomini. La coincidenza mostra ancora una volta ilrapporto esistente tra il culto biblico e la città della speranza.Del resto, la religione, sulla terra, ha senso solo se vissuta nellaprospettiva del regno di Dio.

La bellezza della città viene ulteriormente sottolineata daimateriali preziosi che la costituiscono. Pietre preziose, lucentivetrate, e, soprattutto, oro splendente come cristallo (21:18,21).La diversità di tutti questi elementi viene esaltata da ciò che liriunisce, la presenza luminosa di Dio, «perché la gloria di Diola illumina» (v. 23). La città si erge come un tempio d’oro dallevetrate multicolori da cui si riflette la stessa luce, ma con tonidiversi e complessi.

Il giardinoLa nuova Gerusalemme contiene anche l’idea dell’affermazio-ne del valore della vita: piena, intensa e sana. Il paesaggio delgiardino dell’Eden è qui richiamato alla memoria (Gn 2 e 3) conla sua natura florida e generosa, le sue acque limpide e soprat-tutto, facendo eco alle lettere indirizzate alle sette chiese, il suo

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«albero della vita», con foglie e frutti (2:7). «Poi, mi mostrò ilfiume dell’acqua della vita, limpido come il cristallo, che scatu-riva dal trono di Dio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza dellacittà e sulle due rive del fiume, stava l’albero della vita. Esso dàdodici raccolti all’anno, porta il suo frutto ogni mese e le fogliedell’albero sono per la guarigione delle nazioni» (22:1,2).

Nella visione della nuova Gerusalemme, il profetaEzechiele aveva egli stesso evocato questo giardino, con i suoifiumi e i suoi alberi miracolosi. «Presso il torrente, sulle suerive, da un lato e dall’altro, crescerà ogni specie d’alberi frutti-feri le cui foglie non appassiranno e il cui frutto non verrà maimeno; ogni mese faranno frutti nuovi, perché quelle acqueescono dal santuario; quel loro frutto servirà da cibo, e quelleloro foglie di medicamento» (47:12).

Il simbolo dell’albero che attraversa la Bibbia306 e si ritrova adiversi gradi in una moltitudine di antiche civiltà, porta, innegabil-mente, lo stesso messaggio di vita. A partire dal giardino dell’Eden,l’albero è sempre associato alla vita. È grazie ai suoi frutti che l’uo-mo e la donna vivevano; mentre la morte li minaccerà dal momen-to in cui, l’accesso all’albero verrà interdetto (3:22).

Questo «albero della vita», al singolare nel giardinodell’Eden della Genesi, si ritrova al plurale nella nuovaGerusalemme di Ezechiele; un modo, questo, di esprimere l’in-tensità e la ricchezza della sua produzione.

Il beneficio derivante da questo albero è totale, poiché essoè utile per le foglie e per i frutti. Il testo non dice nulla quantoal ruolo del frutto stesso, se non che verrà prodotto per tuttol’anno, procurando un nutrimento permanente, capace di assi-curare la vita «biologica» dell’individuo. Al contrario, le fogliesono specificatamente destinate alla «guarigione delle nazioni».

Non si tratta di una terapia con... piante medicinali. Lascomparsa della morte implica l’assenza di ogni germe malefi-co. Il contesto suggerisce un’interpretazione tesa a un’altradirezione. L’ultima volta che le «nazioni» sono state menziona-te, appena qualche versetto prima, è stato in relazione alla luceirradiata da Dio. «La città non ha bisogno di sole, né di luna che

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306 Salmo 1:3; Isaia 65:22; Levitico 26:4; Giudici 9:8-13.

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la illumini, perché la gloria di Dio la illumina, e l’Agnello è lasua lampada. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i redella terra vi porteranno la loro gloria» (21:23,24).

Il seguito del testo giustifica del resto questo rapporto con ilpasso del capitolo 21, riprendendo lo stesso tema: «Non ci saràpiù notte; non avranno bisogno di luce di lampada, né di luce disole, perché il Signore Dio li illuminerà, e regneranno nei seco-li dei secoli» (22:5). La «guarigione delle nazioni» è l’equivalen-te dell’illuminazione delle nazioni effettuata da Dio stesso. Èuno dei miracoli della nuova Gerusalemme, che ha meraviglia-to tutti i profeti,307 e che s’inscrive nel programma della festamessianica dei tabernacoli: «Tutti quelli che saranno rimasti ditutte la nazioni venute contro Gerusalemme, saliranno di annoin anno a prostrarsi davanti al Re, al SIGNORE degli eserciti, e acelebrare la festa delle Capanne» (Zc 14:16).

Le nazioni (goyim), normalmente estranee all’alleanza egeneralmente associate all’ignoranza della legge e della veritàdi Dio, si ritrovano qui, associate nel servizio di Dio. Il profetaIsaia, in modo particolare verte su questo tema, attraverso alcu-ni motivi comuni al nostro testo: «Sorgi, risplendi, poiché la tualuce è giunta, e la gloria del SIGNORE è spuntata sopra di te!Infatti, ecco, le tenebre coprono la terra e una fitta oscuritàavvolge i popoli; ma su di te sorge il SIGNORE e la sua gloriaappare su di te. Non più il sole sarà la tua luce, nel giorno; e nonpiù la luna t’illuminerà con il suo chiarore; ma il SIGNORE sarà latua luce perenne, il tuo Dio sarà la tua gloria» (Is 60:1,2,19).

Nella nuova Gerusalemme, le nazioni sono «guarite» nelsenso che esse verranno istruite, illuminate, assunte da Dio.308

Questa sfumatura viene confermata dal parallelismo che espo-niamo: ABC (Ap 22:1-3a); A’B’C’ (22:3b-5). Da notare la guarigionedelle nazioni in B, in parallelo con i servitori illuminati da Dio, in B’.

307 Salmo 72:11; 79:1; 102:16; Isaia 1:4; 42:1; 66:18; Geremia 1:17; 16:19;Lamentazioni 1:10; Zaccaria 2.11; Matteo 25:32; Apocalisse 15:14.308 Questo significato è contenuto ugualmente nel termine greco originale the-rapeian da cui viene la parola «terapia», che significa generalmente «aver curadi, servire» (At 17:25, Lc 12:42). Nella Settanta questa parola traduce l’ebraicoabad, «servizio, servitore, servire» (Gn 45:16, Is 5:2).

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A/A’ - Il trono di Dio e dell’Agnello da cui esce l’acqua della vita che alimenta l’albero della vita, posto in mezzo alla città (A, 22:1-2a), corrisponde al - trono di Dio e dell’Agnello che sono nella città (A’, 22:3b).

B/B’ - I frutti che vengono prodotti ogni mese e le foglie che servono alla guarigione delle nazioni (B, 22:2b), corrispondono ai- servitori che vedranno il suo volto; e il Signore li illuminerà (B’ 22:3c-5b).

C/C’ - «Non ci sarà più nulla di maledetto» (C, 22:3a), allu-sione alla maledizione di Gn 3:14 che assicura il carattere definitivo del loro accesso all’albero della vita; corrisponde a - «regneranno nei secoli dei secoli» (C’, 22:5:c).

Il parallelismo tra B e B’ fa corrispondere la luce alla vita.Essi sono, in effetti, due concetti paralleli nel pensiero bibli-co.309 Così scrive Giovanni, nel suo vangelo, quando parla diGesù: «In lei era la vita, e la vita era la luce degli uomini» (Gv1:4). Allo stesso modo, Gesù promette a coloro che lo seguiran-no: «la luce della vita» (8:12).

La sovrapposizione delle due immagini, quella dell’alberodella vita con i suoi frutti e le sue foglie, e quella della luce diDio che rischiara, rivela, ora, tutto il significato presente nelsimbolo del candelabro a sette braccia. La famosa menorah del-l’antico tabernacolo. Questo candelabro a forma di albero, dairami luminosi, era il simbolo della speranza.310

Esso ricordava il giardino dell’Eden con il suo albero cheprocurava la luce e la vita; e di fatto, alimentava nel cuore degliisraeliti, la nostalgia per il paradiso.

La vita, data dai frutti e dalle foglie è, ora, totale. Nello stes-so tempo fisica e spirituale. Essa nutre sia il corpo sia lo spirito.

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309 Giobbe 3:20; 33:30; Salmo 49:19,20; 56:14.310 C.L. Meyers, The Tabernacle Menorah, Missoula, p. 118.

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Il principio è fondamentale, nel pensiero ebraico che non dis-socia la vita fisica da quella spirituale. In ebraico, la parola ruahtraduce la nozione di aria e di respirazione che esprime ladimensione della vita «biologica» (Gn 6:17; 7:15) e la nozione dispirito che esprime la vita religiosa (Nm 27:19; Is 63:10,11). Laruah che fa respirare l’uomo e lo fa vivere, procede da Dio, inpiù, è la ruah di Dio. Questa verità si è a tal punto impossessa-ta del salmista da condurlo alla sovrapposizione delle due ruah:«Tu nascondi la tua faccia, e sono smarriti; tu ritiri il loro fiato emuoiono, ritornano nella loro polvere. Tu mandi il tuo spirito esono creati, e tu rinnovi la faccia della terra» (Sal 104:29,30).

In altre parole, l’uomo esiste solo in relazione con Dio.L’uomo è religioso o non esiste. La dimensione religiosa non èsemplicemente una risposta ai bisogni spirituali, è una necessi-tà biologica. Questa verità è fortemente affermata nella Bibbia,fin dalle prime pagine. L’uomo è stato creato da Dio; animatodal suo soffio, egli dipende biologicamente da lui; separandosida lui è destinato alla morte (cfr. Gn 2:17; 3:17,19). Questa veri-tà è nuovamente proclamata nell’ultima pagina della Bibbia. Lavita spirituale e quella fisica sono collegate.

La nuova Gerusalemme non è un paradiso di esseri disin-carnati, anime eteree, concezione tipica di molti cristiani; non èneppure il paradiso delle gioie sensuali, dei musulmani. La vitaè totale. Si mangia, si beve, si respirano i profumi, si tocca, siprovano piaceri che coinvolgono tutti i sensi, vengono utilizza-ti tutti i muscoli, si vive più fisicamente; poiché il corpo non èpiù usurato dalla fatica, dalla vecchiaia, lo spirito è più vivo chemai. Inoltre, si pensa correttamente, si studia con più attenzio-ne, si comprendono meglio le lezioni, si apprendono megliouna quantità infinita d’informazioni. Si riceve perfettamente laParola di Dio. La vita spirituale e mentale non è mai stata cosìintensa e profonda. La memoria, l’intelligenza e il cuore sono almassimo del rendimento, e il corpo è più forte che mai.

Non ci resta che sognare nella sofferenza e nelle lotte quo-tidiane, dove si mescolano bellezze e brutture, dove i bei palaz-zi si affiancano alle baracche, la verità è inquinata dalle bugie;in un mondo in cui la vita è pervasa dalla morte, un mondosempre più ostile che grida aiuto e, senza saperlo, implora ilritorno di Dio.

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Conclusione

Il Dio che torna

Dal cielo, la visione ci riporta sulla scena terrestre. L’ultimaparola profetica fa eco alla prima. L’epilogo (22:6-21) rinvia alprologo (1:1-8) con le stesse parole, le stesse frasi stilistiche egli stessi temi.311 Questa tecnica retorica (inclusio) è molto anti-ca. La si riscontra nella poesia ebraica,312 in quella greco-clas-sica, per opera di Platone.313 Essa è attestata anche negli scrittidi Giuseppe Flavio,314 presso i rabbini del terzo secolo dopoCristo.315 È un modo d’indicare, all’inizio e alla fine, la veritàche ha ispirato l’intera opera. Improvvisamente, la parola apo-calittica, fino a quel momento, carica d’immagini, simboli, al dilà della realtà fisica e storica, si fa pressante e dinamica.«Venire» è la parola chiave. La si legge sette volte, come unritornello; perché in essa si concentra il messaggio ultimo diquesto grande grido proveniente dall’alto. Gli aspetti che ave-vamo sottolineato all’inizio del libro, ora, dobbiamo ricordarli,quando ritornando alle lotte quotidiane, come alle piccole gioie,faremo fronte agl’imprevisti dell’esistenza, aspettando la mortee i sussulti della storia:

«Ecco, sto per venire» (22:7).«Ecco, sto per venire» (22:12).

311 Apocalisse 22:6 e 1:1; 22:7,18,19 e 1:3; 22:16 e 1:4-6; 22:13 e 1:7,8; 22:8 e 1:9-10 (paragonare). Secondo K.A. Strand, Interpreting the book of Revelation, AnnArbor, 1976, p. 45.312 Genesi 1:1 e 2:4; Isaia 1:2 e 66:22; Giobbe 1-2 e 42:7-17; Ecclesiaste 1:2 e 12:10ss. (paragonare).313 Leg. IV.7.314 Ant. VIII. II. 2.315 Gen R. 31; Jerusalem Jeb. XII. 13a.

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Conclusione

«Vieni!» (22:17a).«Vieni!» (22:17b).«Venga» (22:17c).«Sì, vengo presto» (22:20a).«Amen! Vieni!» (22:20b).Il verbo «venire» esce tre volte dalla bocca di Dio «sto per

venire» (22:7,12,20). Mentre, tre volte è ripetuto da boccheumane: «Vieni!» (22:17a/b,20). Seguendo da vicino il filo trac-ciato da questa parola chiave, nel testo, si scopre un andamen-to di andata e ritorno che denota reciprocità. Al grido del cieloche dà inizio alla serie dei «venire» e si presenta per due voltecome una promessa «ecco, sto per venire» (22:7,12), rispondeper due volte, l’invocazione dal basso «vieni!» (22:17), alla qualerisponde il conforto dall’alto: «Sì, vengo presto» (22:20, a suavolta interviene la preghiera umana: «Amen! Vieni, SignoreGesù» (22:20b).

La lezione che si vede in filigrana in questo alternarsi delverbo «venire», merita di essere meditata:

1. L’appello umano alla venuta di Dio presuppone l’esisten-za di una promessa in tal senso. L’appello non parte dall’uomonella forma di un pio desiderio, qualcosa che si vuole che siavero. Dio parla per primo, ed è per questo che gli si crede. Lafede non è un fenomeno soggettivo, ma essa poggia su unaparola che è al di fuori dell’uomo e lo precede.

2. D’altro canto, Dio rassicura della sua venuta solo coloroche invocano il suo ritorno. Se egli ci dice «sì, vengo presto», èper confermare la fede di coloro che anelano alla venuta di Dio.Bisogna credere in Dio e vivere già in relazione con lui perpoter desiderarne il ritorno.

3. Infine, solo chi ha ricevuto l’assicurazione della suavenuta può pregare per la sua realizzazione. La preghiera pro-cede dalla convinzione e non da una semplice informazioneteologica o storica. Unicamente coloro che credono veramentealla venuta di Gesù Cristo pregheranno per la sua realizzazio-ne. Questa è la sintesi finale del processo di comunicazione traDio e l’uomo.

Sarà proprio questa preghiera che concluderà tutto il libro,una preghiera che conclude tutte le altre, la preghiera pereccellenza: «Venga il tuo regno!» (Mt 6:10; Lc 11:2). Allo stesso

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tempo, essa è la risposta e l’appello ardente del cuore e delcorpo. Tutta la religione cristiana e tutte le sue preghiere con-ducono a quese ultime parole. La preghiera che preconizzal’Apocalisse si colloca all’opposto delle preghiere abituali, pro-nunciate spesso come una formula magica, per guadagnaresuccessi e gioie. La preghiera per la venuta di Dio non mira allabenedizione delle nostre opere né al compimento di sforzi percostruire l’ordine terreno, al contrario, il suo scopo è cambiarequesto ordine. Si grida «vieni!», in risposta alla promessa «iovengo», pronunciato da Dio. Il fine non è quello di proseguiremeglio sulla nostra strada personale, ma di cercare, con pas-sione, un’altra strada, quella di Dio.

Questa preghiera era così importante per i primi cristiani,che essi ne fecero un saluto pronunciato in aramaico: Maranatha!, «Signore nostro, vieni!» (cfr. 1 Cor 16:22). La frase interaMarana tha Amen che conclude l’Apocalisse, segnava la fine delservizio eucaristico, presso la cristianità primitiva. Lo sappia-mo, grazie alla testimonianza della Didaché,316 uno dei docu-menti più antichi della chiesa cristiana, la cui composizionerisale all’epoca dell’Apocalisse stessa. Queste risonanze sugge-riscono l’intenzione dell’autore dell’Apocalisse, di collocare ilsuo libro, in una prospettiva liturgica aderente al rito dellacomunione317 che annuncia «la morte del Signore finché eglivenga» (1 Cor 11:26). Tuttavia, la preghiera e i gesti liturgici nonsono certo le sole risposte alla promesse dall’alto. Al centro deicinque ultimi «vieni!», intersecata con le invocazioni delloSpirito e della chiesa, che invocano l’intervento di Dio (Ap 22:7),risuona una preghiera completamente diversa: «Chi ha setevenga; chi vuole, prenda in dono dell’acqua della vita» (v. 17). Ilritorno di Dio e il desiderio della sua apparizione, non riguardasoltanto il futuro; l’acqua che disseta, non è solo il simbolo dellasalvezza e della vita eterna che si realizzerà nella nuova

316 «Venga la grazia e passi questo mondo. Osanna alla casa di David. Chi è santosi avanzi, chi non lo è si penta. Maranatha. Amen» Didaché 10:6, introduzione,traduzione e note di Umberto Mattioli, edizioni Paoline, Roma, 1984, p. 117.317 P. Prigent, L’Apocalypse de saint Jean, pp. 361,362; cfr. O. Cullmann, La foi etle culte dans l’église primitive, Neuchâtel, Paris, 1963, p. 111.

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Conclusione

Gerusalemme (21:6). Il verbo è coniugato al presente e situa l’e-sperienza già su questa terra.

Nell’Antico Tesamento «l’acqua della vita» è generalementeassociata a YHWH, SIGNORE, e si applica alla vita presente.«Poiché in te è la fonte della vita e per la tua luce noi vediamola luce» (Sal 36:9).

Dio viene identificato con «la sorgente d’acqua viva» (Ger2:13; cfr. 17:13). Nel Nuovo Testamento, quando Gesù offre dabere alla Samaritana, si pone sulla stessa linea (Gv 4:10-15) edesorta la folla a bere della sua acqua (Gv 7:37,38). Giovanni spie-ga che quest’acqua rappresenta: «Lo Spirito che dovevano rice-vere quelli che avrebbero creduto in lui» (v. 39). Nella stessadirezione, per gli antichi rabbini e i maestri di Qumran, l’acquadella vita era la religione ispirata dalla Torah.318 Per tutti, l’ac-qua della vita è accessibile già su questa terra, nella storia e nelcuore dell’esistenza.

In altre parole, la promessa di bere l’acqua viva della nuovaGerusalemme non esclude la stessa esperienza, qui ed ora (hicet nunc). La religione della speranza non è passività. Essa nonsi perde nel sogno utopico di un futuro sempre lontano.«L’acqua della vita» è un dono per il presente; essa ci vieneofferta «gratuitamente» precisa l’Apocalisse (22:17). Questomiracolo non deriva da un’operazione magica né da una tecni-ca soprannaturale. Bere di questa acqua della vita significasemplicemente vivere in relazione con Dio, il Dio della vita,incontrato nella nuova Gerusalemme, ma già ricevuto qui e ora,nell’esistenza. Il cammino sulla terra è già punteggiato damiracoli; il Dio invisibile è sperimentato nella vita di tutti i gior-ni, nelle risposte precise e dirette alle preghiere, nella felicitàche fa battere i cuori, nella sua protezione, nella sua guida, nelsuo conforto, quando siamo soli e soffriamo. Allora, possiamosentire quel sentimento forte e sicuro, quell’intuizione potenteche ci dice che egli è lì, presente e vicino.

Tuttavia, l’acqua gratuita non è data in modo arbitrario eautocratico. Occorre aver sete, bisogna desiderare, andare,

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318 H. Odeberg, The Fourth Gospel, Uppsala, 1919, pp. 149-169; cfr. M. Burrows,The Dead Sea Scrolls, Londres, 1956, pp. 353,356.

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volere, prendere. La vita con Dio non è fatta solo di grazia,miracoli, emozioni e sicurezze. Il desiderio potente di cosemaggiori, la volontà e l’azione, fanno parte della religione. Ènecessario muoversi per poter cogliere la presenza di Dio chesi offre a noi; ed essa non è mai acquisita una volta per tutte.Bisogna sempre avere sete, volere, andare e prendere.

Paradossalmente, questa presenza porterà ad avere ancorapiù sete, a chiamarlo ancora più vicino a noi, ad andare da lui acoglierne le benedizioni. Gli esseri umani sono totalmenteresponsabili della loro relazione con Dio. Molti cristiani nonl’hanno capito ed è per questo che la religione, troppo spesso,viene ridotta a una dottrina o a dei buoni sentimenti, come a deibrividi mistici o a una fredda tradizione culturale.

La religione preconizzata dall’Apocalisse, completamentepervasa dall’«andare» di Dio, corrispondente all’«andare» delcredente. Alla discesa di Dio deve corrispondere questa dina-mica dal basso. La volontà del credente, la sua azione, la suaetica e le sue scelte, a tutti i livelli dell’esistenza, sono permea-ti della venuta di Dio. Perché quell’«acqua», quella venuta diDio è reale e storica; essa è percepibile nel palpitante vissuto dicoloro che la bevono.

Leggere l’Apocalisse, significa, innanzitutto portare le paro-le di questo libro, nella propria vita. Questo orientamento di let-tura è stabilito da Gesù stesso, nelle parole benedicenti cheintroducono l’epilogo: «Beato chi custodisce le parole della pro-fezia di questo libro» (22:7). La lezione è ripetuta dall’angeloche si associa a «quelli che custodiscono le parole di questolibro» (v. 9); per trovare compimento nella conclusione dellibro, pronunciate dall’autore dell’Apocalisse, sottoforma dimaledizione: «Io dichiaro a chiunque ode le parole della profe-zia di questo libro: se qualcuno vi aggiunge qualcosa, Dioaggiungerà ai suoi mali i flagelli descritti in questo libro; sequalcuno toglie qualcosa dalle parole del libro di questa profe-zia, Dio gli toglierà la sua parte dell’albero della vita e della cittàsanta che sono descritti in questo libro» (vv. 18,19).

Non è lo scriba a essere messo in discussione. La parola èindirizzata a «chiunque ode le parole di questa profezia di que-sto libro» (v. 18); ed essa interpella ogni lettore di tutti i tempi. Illibro del Deuteronomio impiega lo stesso linguaggio e ne chiari-

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Conclusione

sce l’intenzione: «Non aggiungerete nulla a ciò che io vi coman-do e non ne toglierete nulla, ma osserverete i comandamenti delSIGNORE vostro Dio, che io vi prescrivo» (Dt 4:2; cfr. 13:1).

Il parallelo tra i due testi invita a leggere l’Apocalisse come,una volta, gli israeliti dovevano leggere il Deuteronomio, cioècome un documento d’alleanza che riguarda il quotidiano.«Osservare le parole di quest libro», equivale a renderle signifi-cative nel vivo dell’esistenza. Questo implica, innanzitutto, unagiusta comprensione della parola profetica. Sono implicati, qui,tutti gli interpreti e tutti i commentatori dell’Apocalisse (com-preso me stesso), in definitiva, tutti i lettori del libro. Il doveredi un’esegesi corretta obbliga a un’umile ricerca ma rigorosa edesigente, soprattutto onesta. La buona volontà o una fede fer-vente, non garantiscono nulla. Non basta leggere per aver capi-to. Bisogna leggere nella direzione giusta. L’Apocalisse ci mettein guardia contro ogni lettura soggettiva, personale e selvaggia,che ci porterebbe fuori strada. L’idea è quella di un rispetto pro-fondo per l’integrità della parola, che conduce a non voleraggiungere né togliere nulla.

La conseguenza sarà quella di vivere concretamente ciòche si è compreso. La cosa è seria e si rischia grosso a mal com-prendere l’Apocalisse. L’esistenza deve allinearsi alla visione.Ogni lettore dell’Apocalisse è minacciato dalla stessa tentazio-ne. Esaltati dagli «Alleluia» e dagli «Amen», colpiti dalle imma-gini, dai simboli e dalle visioni celesti, si può essere portati afermarsi là, dimenticando la propria responsabilità di uominiche devono testimoniare del regno che viene.

L’Apocalisse chiama a una religione coerente ed equilibra-ta. Alla visione che attende cose future, deve accostarsi unosguardo lucido, ben agganciato alla realtà di tutti i giorni.Questi due avventi, s’impongono entrambi e si controllano reci-procamente. La purezza e l’autenticità della religione dipendo-no da questo. Senza la profezia che nutre la speranza, la reli-gione si ridurrà a un’etica relativistica, umanista e soggettiva,nella quale Dio non avrà più posto. Conseguenza estrema diquesta omissione, porterà agli abusi di Babele, alle violenze ealle oppressioni delle società totalitarie, dove il valore si fondasul criterio della maggioranza o del successo. D’altro canto,senza il confronto con la realtà umana, la religione degenera in

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un delirio patologico e fantastico, se non nel fanatismo perico-loso, come si è osservato a proposito dei messia e delle sette,sorte negli anni scorsi, attorno all’Apocalisse.

Ma, nel momento in cui vorremo chiudere questo libro,tanto strano e minaccioso, quel grido del cielo si farà udirepotente, nelle orecchie dei razionalisti, che rimangono chiusealla speranza, ma anche in quelle di folli esaltati, che facilmen-te vi si perdono.

La lettura dell’Apocalisse spingerà fuori dalla lettura stessa,per incontrare l’azione in Dio, affinché egli venga; e nell’uomoaffinché vada incontro al Dio che viene.

Al di fuori del libro, nella storia e nell’esistenza, gli eventi,renderanno tutto il loro senso all’Apocalisse.

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Indice

Prefazione: I folli dell’Apocalisse 9Introduzione: Il Dio che vieneApocalisse 1 15

Prima parte: Tempeste 31Apocalisse 2-121. Lettere aperte alle chiese 332. Il silenzio del cielo 633. Gli «schofar» della morte 93

Seconda parte: Quando il cielo rosseggia 125Apocalisse 13,144. Il diavolo e la donna 1295. Bestie e uomini 1376. Grida di angeli 149

Terza parte: A oriente tutto è nuovo 171Apocalisse 15-22:57. Le sette coppe del mondo 1758. La conquista dello spazio 2059. La Gerusalemme d’oro 227

Conclusione: Il Dio che torna 241Apocalisse 22:6-21Appendice 249

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Finito di stampare nel mese di luglio 2004

da Legoprint S.p.A. - Lavis TN

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