La Dipendenza Negata

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1 LA DIPENDENZA NEGATA: IL RUOLO DELLE EMOZIONI NELLA RELAZIONE MADRE-BAMBINO Angelo R. Pennella (*) Vorrei avviare il mio intervento raccontandovi due piccole situazioni che utilizzerò come spunti per sviluppare una riflessione sul tema della dipendenza. Iniziamo con la prima. La vicenda a cui faccio riferimento si è consumata, in un tardo pomeriggio invernale, in uno dei tanti supermercati di Roma ed ha avuto come protagonisti una giovane madre ed il figlio, un bambino di sette/otto anni. Quando li vidi, la signora era accanto al suo carrello pieno di alimenti intenta ad osservare i prodotti esposti su uno scaffale. Il figlio le gironzolava intorno. Dopo qualche istante, il bambino, forse annoiato dal protrarsi della fermata, iniziò a sfiorare con le dita alcune delle confezioni in mostra. La madre, impegnata a valutare etichette e prezzi dei prodotti lo lasciò fare. A questo punto, il bambino iniziò a prendere alcune confezioni e a spostarle di posto, attività che divenne sempre più frenetica e rumorosa fino a quando un’intera fila di scatole cadde a terra. Caso volle che proprio in quel momento passasse accanto a loro una commessa. A quel punto la madre abbandonò i prodotti che stava valutando, si chinò a raccogliere le confezioni fatte cadere dal figlio e, mentre le rimetteva in ordine, disse con tono tranquillo e affettuoso: “smettila di fare disordine altrimenti la signorina si arrabbia e ti caccia via”. Come vi dicevo, si tratta di un piccolo episodio che vorrei tuttavia guardare con il medesimo spirito con cui Edgar Morin, filosofo francese a cui si devono opere come “Scienza con coscienza” (1982), rispose ad un commensale che gli chiese cosa riusciva a vedere in un semplice calice di vino rosso. In quella occasione, Morin rispose: «vedo le particelle dell’atomo, vedo i nuclei dell’elio, vedo la vigna che ha prodotto quest’uva e poi il Mediterraneo, l’origine della vita e molto altro ancora». Ebbene, credo che anche a noi sia possibile vedere o almeno intravedere in quello che vi ho raccontato qualcosa di più che una banale scenetta di vita quotidiana. In questo senso, forse la prima cosa che possiamo notare è il fatto che la madre abbia attribuito all’altro – nella fattispecie alla commessa – le emozioni di irritazione e fastidio: è l’altro, non lei, che potrebbe arrabbiarsi di ciò che fa il figlio ed arrabbiarsi a tal punto da cacciarlo dal super- mercato. È come se quelle emozioni, che ci sembrerebbero peraltro comprensibili visti gli oneri (*) Psicologo, psicoterapeuta, docente di Psicoterapia presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute, Facoltà di Psicologia 1, Università di Roma “La Sapienza”.

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[..] ecco dunque configurarsi una situazione in cui, da una parte, sembra esserci una madre accogliente e comprensiva [...] dall’altra, [...] una donna indifferente ed estranea, pronta ad irritarsi e ad aggredire il bambino...

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LA DIPENDENZA NEGATA:

IL RUOLO DELLE EMOZIONI NELLA RELAZIONE MADRE-BAMBINO

Angelo R. Pennella (*)

Vorrei avviare il mio intervento raccontandovi due piccole situazioni che utilizzerò come spunti per

sviluppare una riflessione sul tema della dipendenza.

Iniziamo con la prima.

La vicenda a cui faccio riferimento si è consumata, in un tardo pomeriggio invernale, in uno dei

tanti supermercati di Roma ed ha avuto come protagonisti una giovane madre ed il figlio, un

bambino di sette/otto anni. Quando li vidi, la signora era accanto al suo carrello pieno di alimenti

intenta ad osservare i prodotti esposti su uno scaffale. Il figlio le gironzolava intorno. Dopo qualche

istante, il bambino, forse annoiato dal protrarsi della fermata, iniziò a sfiorare con le dita alcune

delle confezioni in mostra. La madre, impegnata a valutare etichette e prezzi dei prodotti lo lasciò

fare. A questo punto, il bambino iniziò a prendere alcune confezioni e a spostarle di posto, attività

che divenne sempre più frenetica e rumorosa fino a quando un’intera fila di scatole cadde a terra.

Caso volle che proprio in quel momento passasse accanto a loro una commessa. A quel punto la

madre abbandonò i prodotti che stava valutando, si chinò a raccogliere le confezioni fatte cadere dal

figlio e, mentre le rimetteva in ordine, disse con tono tranquillo e affettuoso: “smettila di fare

disordine altrimenti la signorina si arrabbia e ti caccia via”.

Come vi dicevo, si tratta di un piccolo episodio che vorrei tuttavia guardare con il medesimo spirito

con cui Edgar Morin, filosofo francese a cui si devono opere come “Scienza con coscienza” (1982),

rispose ad un commensale che gli chiese cosa riusciva a vedere in un semplice calice di vino rosso.

In quella occasione, Morin rispose: «vedo le particelle dell’atomo, vedo i nuclei dell’elio, vedo la

vigna che ha prodotto quest’uva e poi il Mediterraneo, l’origine della vita e molto altro ancora».

Ebbene, credo che anche a noi sia possibile vedere o almeno intravedere in quello che vi ho

raccontato qualcosa di più che una banale scenetta di vita quotidiana.

In questo senso, forse la prima cosa che possiamo notare è il fatto che la madre abbia attribuito

all’altro – nella fattispecie alla commessa – le emozioni di irritazione e fastidio: è l’altro, non lei,

che potrebbe arrabbiarsi di ciò che fa il figlio ed arrabbiarsi a tal punto da cacciarlo dal super-

mercato. È come se quelle emozioni, che ci sembrerebbero peraltro comprensibili visti gli oneri

(*) Psicologo, psicoterapeuta, docente di Psicoterapia presso la Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute, Facoltà di Psicologia 1, Università di Roma “La Sapienza”.

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materiali ed emotivi che implica l’essere madre, non avessero diritto d’essere all’interno della sua

relazione con il figlio.

Ecco dunque configurarsi una situazione in cui, da una parte, c’è una madre accogliente e

comprensiva, pronta ad accollarsi l’ulteriore fatica fisica di riordinare gli oggetti fatti cadere dal

figlio, dall’altra, la commessa del supermercato, una donna indifferente ed estranea, pronta ad

irritarsi e ad aggredire il bambino per quell’atto che immette disordine nell’ordine degli adulti.

La scissione mi sembra piuttosto evidente.

Potremmo però vedere anche dell’altro in questa vicenda. La frase della madre delega di fatto la

funzione normativa alla commessa: in effetti è questa ultima ad essere chiamata ad esplicitare la

regola violata dal bambino – il famoso “questo non si fa” – e ad attivare una possibile punizione.

La delega di cui sto parlando è però piuttosto pericolosa perché rischia di mostrare la disattenzione,

forse anche l’incapacità, della madre a gestire i comportamenti disturbanti del figlio, veicolando

così l’idea che la madre stessa dipenda in qualche modo dall’altro, dai suoi giudizi e dalle sue

decisioni.

Ma per quale motivo questa madre non ha richiamato all’ordine il suo bambino?

Certo, potrebbe averlo fatto perché sapeva che il figlio era stanco ed annoiato, ma se era questa la

ragione, allora perché ventilargli una minaccia così terribile ed esagerata rispetto all’atto quale la

“cacciata” dal supermercato?

Lasciamo in sospeso queste domande e passiamo alla seconda vicenda.

In questo caso abbiamo una madre trentenne che chiese un aiuto psicologico a fronte della sua forte

preoccupazione di nuocere al figlio: temeva di poterlo aggredire con oggetti d’uso quotidiano come

una scopa, un ferro da stiro, un coltello da cucina. Viveva questa angoscia in modo particolarmente

intenso quando si trovava a casa da sola con lui e specie nei momenti in cui si sentiva stanca ed

oppressa dagli impegni familiari e domestici (il marito sembrava non darle alcun aiuto da questo

punto di vista)1. Nello strenuo tentativo di difendere il suo bambino, questa donna iniziò a

nascondere in armadi e cassetti ogni potenziale strumento di offesa. Il suo sforzo risultò ovviamente

inutile: tanto più occultava gli oggetti, tanto più le venivano in mente nuove idee sul modo con cui

gli oggetti si sarebbero potuti trasformare in un’arma.

A prima vista, le due situazioni possono sembrare molto diverse: nel primo caso abbiamo una

madre che risponde con comprensione ed affetto alla birichinata del figlio, nel secondo abbiamo

invece una madre angosciata perché teme che gli oggetti possano trasformarsi in potenziali

strumenti di offesa. La questione, tuttavia, è che in entrambe la rabbia, l’aggressività, la violenza è

1 Questo caso è discusso in modo più approfondito in: Grasso. M., Cordella B., Pennella A.R. (2003).

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individuata e riconosciuta solo all’esterno di sé, nell’oggetto, poco importa, a questo punto, che si

tratti di una commessa o di un ferro da stiro.

Mi sembra piuttosto agevole riconoscere in entrambe le situazioni la presenza di meccanismi

difensivi quali la negazione e la proiezione ma anche lo spostamento, operazione mentale con cui si

ha la possibilità di risolvere un conflitto emotivo indirizzando l’emozione vissuta nei confronti di un

oggetto verso un oggetto diverso, cosa che ci consente di evitare l’angoscia che si vivrebbe nel caso

in cui fosse mantenuta la direzione originaria (McWilliams, 1974; Lingiardi, Madeddu, 1994).

Ecco quindi che, al di là delle loro apparenti differenze, entrambe le madri sembrano non essere in

grado di riconoscere in se stesse il fastidio, l’irritazione, ma anche l’aggressività che le richieste dei

figli sollecitano in loro, cosa che le spinge a collocarle sull’altro: la commessa o il ferro da stiro si

trasformano così in oggetti pericolosi in grado di esprimere ed agire l’aggressione.

Con una scissione che in alcuni casi può essere anche piuttosto rigida, si posizionano quindi, da un

lato, le emozioni positive (l’amore, la protezione, ecc.), dall’altro quelle negative (il fastidio, la

rabbia, ecc.) e non le si integrano in una rappresentazione complessa di se stessi e dell’altro. Per

dirla in altri termini, queste madri evidenziano l’insostenibilità dell’ambivalenza: la compresenza –

nelle relazioni con i figli – di sentimenti, tendenze ed atteggiamenti di segno opposto risulta cioè

talmente intollerabile da attivare meccanismi difensivi tesi a salvaguardare un’autoimmagine

positiva di sé e della propria funzione genitoriale attraverso l’espulsione di tutto ciò che può

metterla in discussione.

A questo proposito, anche al fine di evitare qualsiasi ambiguità, desidero sottolineare che

l’ambivalenza in sé non è indice di anormalità, al contrario, può essere considerata come l’esito di

un processo evolutivo che ci dona la capacità di integrare aspetti diversi e contrastanti dell’oggetto

in un’unica rappresentazione.

L’importanza di tale acquisizione è evidente nel bambino quando inizia a riconoscere la madre

come una persona intera e non come una mera appendice della propria persona. In questa fase,

infatti, parallelamente a questa «mutata percezione dell’oggetto, c’è un cambiamento fondamentale

nell’Io, perché, come la madre diventa un oggetto intero, così l’Io del bambino diventa un Io intero,

ed è sempre meno scisso nelle sue componenti buone e cattive. L’integrazione, sia dell’Io che

dell’oggetto, procede [quindi] simultaneamente» (Segal, 1964-1973).

Riprendendo il filo del discorso, possiamo quindi pensare che in entrambe le situazioni le madri non

esprimono stanchezza, irritazione e rabbia nei confronti dei figli perché tali emozioni appaiono loro

inaccettabili: così facendo non aiutano però se stesse e perdono il contatto con la propria

complessità e con quella dei loro stessi figli.

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Se infatti non si è in grado di confrontarsi in modo efficace con la propria ambivalenza emotiva e si

tenta di risolverla con l’uso di rigidi meccanismi difensivi, essa può diventare così intensa da

ingenerare situazioni drammatiche, basti pensare alle molte vicende sentimentali dal tragico epilogo

che vedono come protagonisti adolescenti e giovani adulti. In queste occasioni, essi appaiono

sconvolti dalla forza della propria ambivalenza rispetto all’oggetto: amore ed odio assumono una

tale virulenza da non poter essere elaborati ed integrati. Per molti di questi adolescenti, infatti, «il

vero problema non è riuscire a tollerare la bellezza, la bontà e la generosità, ma le nefandezze che

vengono commesse nella contrattazione amorosa […] la loro difficoltà è governare la rabbia e la

delusione per gli attacchi che inesorabilmente l’oggetto d’amore porta al suo devoto adoratore»

(Pietropolli Charmet, 2001). In qualche modo, non sono stati abituati a confrontarsi con i limiti, le

condizioni, le frustrazioni che chi ci vuole bene inevitabilmente – a volte anche opportunamente –

ci infligge.

Come disse Ovidio (Amores, III, 11, 35), «odierò, se mi sarà possibile; altrimenti amerò mio

malgrado.»

Ma per quale motivo si dovrebbe vivere una tale difficoltà a riconoscere e canalizzare le proprie

emozioni negative rispetto ai figli?

La domanda è indubbiamente ardua e non ho alcuna velleità di proporre una risposta esaustiva, mi

limiterò a citare uno dei fattori che credo possano aiutare a comprendere queste situazioni: la

dipendenza.

Anche in questo caso è necessario però un chiarimento: il fatto che nella nostra cultura la

dipendenza sia divenuta una sorta di cliché spesso connotato, come ha osservato Gabbard (1992), in

termini negativi, non significa che essa lo sia realmente. Se da un lato può essere infatti patologica

la situazione di quelle persone che sviluppano, a causa di una scarsa fiducia in se stesse, un bisogno

spasmodico di appoggiarsi agli altri per essere aiutate, guidate e sostenute anche nelle decisioni

della vita quotidiana, dall’altro è però illusorio pensare di poter giungere ad una assoluta

indipendenza dall’oggetto. Al di là infatti della ovvia dipendenza materiale che ci lega alla nostra

comunità, da tempo è evidente (Kohut, 1986) che ciascuno di noi ha un costante bisogno di

apprezzamento, stima, considerazione, amore da parte dell’altro perché questo è il nutrimento

narcisistico che ci consente di sostenerci e di regolare la nostra autostima.

La dipendenza è dunque una condizione fondamentale della nostra vita e non può essere negata in

modo onnipotentistico.

La questione è che la dipendenza attiva emozioni complesse e potenti, basti pensare al fatto che essa

ci pone nelle mani dell’altro, ci rende vulnerabili e può mettere in discussione ogni nostra certezza.

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Vivere la dipendenza significa infatti confrontarsi con la propria capacità di “reggere” le richieste

dell’altro, di sostenerlo, di offrirgli, per dirla con Winnicott (1965), un holding sufficientemente

adeguato, ma significa anche mettere alla prova la propria capacità di porre dei limiti, di definire e

salvaguardare i confini della nostra e dell’altrui identità. Riconoscere l’altro senza confondersi con

lui, sostenerlo senza viverlo solo come un peso, dare importanza alle sue richieste senza negare le

proprie implica un lavorio cognitivo ed emozionale oneroso che si fonda proprio sulla sostanziale

ambivalenza della relazione.

Ecco quindi spiegata la difficoltà a confrontarsi e vivere la dipendenza.

In questa prospettiva appaiono perfettamente comprensibili gli sforzi agiti per cancellarla, tentativi

che a volte assumono un carattere estremo giungendo all’annullamento, anche fisico, dell’altro o di

se stessi. In fondo, la madre che aveva paura degli oggetti stava cancellando una parte di sé – e non

mi riferisco solo alle proprie emozioni negative – pur di non vivere le implicazioni della

dipendenza.

Una modalità di negare la dipendenza certamente meno estrema e traumatica, ma non per questo

meno discutibile, è quella di imporre all’altro l’autonomia: l’altro deve essere indipendente.

Naturalmente non mi sto riferendo alle strategie che promuovono in modo “fisiologico”

l’indipendenza, ma a quelle che in apparenza si propongono di farlo ma che in realtà sono utilizzate

per negare la dipendenza. Si assiste così a madri – ma anche a padri – che rinviano ai figli scelte

sempre più significative: cosa mangiare, come vestirsi, quando e con chi uscire, se dormire o

rimanere svegli, se andare al cinema o no e così via.

Prima che si scatenino le vostre obiezioni vi inviterei a non lasciarvi ingannare dalla seduttività di

questi atteggiamenti. In effetti, un genitore che coinvolge il figlio sulle decisioni della vita

quotidiana sembrerebbe altamente desiderabile: ma chiedereste ad un bambino di tre anni cosa vuol

mangiare a cena? O ad una bambina di otto anni di scegliere con chi uscire? È ovvio quindi che si

tratta di questioni che si devono contestualizzare, ma è questo il problema a cui mi riferivo. Pur di

non vivere le tensioni emotive connesse all’ambivalenza della relazione, si nega la dipendenza, si

attribuisce così forzosamente all’altro autonomia e libertà, sottraendogli però in questo modo ogni

possibilità di vivere i propri bisogni di dipendenza e di sviluppare gradualmente – anche grazie a

confronti e conflitti con il genitore – la propria indipendenza: lo si lascia cioè solo.

Un inciso: avrete notato che mi sto sforzando di non indicare il soggetto della dipendenza. Sebbene

possa apparire scontato – per alcuni aspetti anche autoevidente – attribuire il ruolo dipendente al

figlio, in realtà è anche il genitore ad essere dipendente: in altre parole, è la relazione ad essere

connotata sulla dipendenza (anche se questo non significa naturalmente che non vi siano diversità di

ruoli e funzioni).

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Ma questo mi consente di concludere con un ampliamento del focus.

Come diceva infatti Winnicott, nel momento in cui riusciamo a confrontarci con l’idea della

dipendenza siamo anche in grado di affrontare il ruolo svolto dalla realtà esterna.

Le situazioni di cui ho parlato non si sviluppano infatti in un vuoto sociale: la madre del

supermercato così come la paziente vivono in un contesto familiare e sociale che incide in modo

consistente sulle dinamiche emozionali a cui ho fatto cenno. Vi ricorderete che la prima era da sola

al supermercato con il figlio e con il suo carico di spesa mentre la seconda era particolarmente

preoccupata quando era da sola con il figlio e con le sue incombenze familiari: in entrambi i casi c’è

quindi un’assenza.

Senza dilungarmi, mi sembra chiaro che così come nella relazione con i figli si può tentare di

risolvere la complessità emozionale della dipendenza negandola, imponendo in qualche modo una

autonomia che condanna però alla solitudine, anche la società conferisce a queste madri una

indipendenza che nega i loro bisogni e le lascia di fatto sole.

Si viene così a creare una catena di negazioni reciproche ammantante dall’apparenza della libertà e

della autonomia.

Illuminanti, in questo senso, le parole di Winnicott (1965, p 57): «si deve notare che le madri

spontaneamente capaci di fornire un’assistenza abbastanza buona possono essere messe nelle

condizioni di far meglio se esse stesse sono assistite in un modo che riconosca la natura essenziale

del loro compito. Le madri che sono capaci di offrire un’assistenza sufficientemente buona non

possono essere rese abbastanza efficienti con delle semplici istruzioni.» (Winnicott, 1965, p. 57) ma

aggiungo io, con una rete di relazioni in cui è possibile vivere e confrontarsi concretamente con la

dipendenza e con le emozioni che essa ci suscita.

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BIBLIOGRAFIA

GABBARD G. (1992), Psichiatria psicodinamica, Cortina, Milano.

GRASSO. M., CORDELLA B., PENNELLA A.R. (2003), Metodologia dell’intervento in psicologia

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KOHUT H. (1986), La cura psicoanalitica, Boringhieri, Torino.

LINGIARDI V., MADEDDU F. (1994), I meccanismi di difesa, Cortina, Milano.

MCWILLIAMS N. (1974), La diagnosi psicoanalitica, trad. it. Astrolabio, Roma, 1999;

MORIN E. (1982), Scienza con coscienza, trad. it. Franco Angeli, Milano, 1984.

PIETROPOLLI CHARMET G. (2001), La violenza contro l’oggetto d’amore, in Adolescenza e psicoanalisi, Anno I, 1.

SEGAL H. (1964-1973), Introduzione all’opera di Melania Klein, trad. it. Martinelli, Firenze, 1975, p. 107.

WINNICOTT D.W. (1962), La dipendenza nell’assistenza all’infante e al bambino e nella situazione

analitica, in D.W. Winnicott (1970), Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma.